rottamazione quater ufficiale rinvio

Rottamazione quater: ufficiale il rinvio al 15 settembre Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto 108/2024 correttivo della riforma fiscale che rinvia ufficialmente la scadenza del 31 luglio al 15 settembre 2024

Rottamazione quater ufficiale il rinvio

E’ ufficiale l’atteso rinvio della quinta rata della rottamazione quater in scadenza al 31 luglio 2024.
Ieri erano scaduti anche i cinque giorni di tolleranza e ancora stamattina ci si domandava se e quando sarebbe arrivata l’ufficialità della proroga. La proroga è arrivata oggi con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto n. 108/2024, correttivo della riforma fiscale.

Non si tratta quindi di una riapertura dei termini ma di un differimento.

Art. 6 decreto 108/2024

Nell’art. 6 del decreto, recante “Disposizioni integrative e correttive in materia di regime di adempimento collaborativo, razionalizzazione e semplificazione degli adempimenti tributari e concordato preventivo biennale” e in vigore da oggi 6 agosto viene stabilito infatti il “differimento al 15 settembre 2024 del termine di pagamento della rata della Rottamazione-quater scadente il 31 luglio 2024”.

“Il mancato, insufficiente o tardivo versamento della rata di cui all’articolo 1, comma 232, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, in scadenza il 31 luglio 2024, non determina l’inefficacia della definizione prevista dall’articolo 1, comma 231, della citata legge n. 197 del 2022 se il debitore effettua l’integrale pagamento di tale rata entro il 15 settembre 2024. Si applicano le disposizioni dell’articolo 1, comma 244, della predetta legge n.  197 del 2022”.

 

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reato somministrare farmaci

Reato somministrare farmaci non necessari agli animali Per la Cassazione, somministrare farmaci non necessari configura il reato di maltrattamenti perchè il diritto alla salute dell'animale include anche il benessere psichico

Reato di maltrattamento somministrare farmaci performanti

Reato somministrare farmaci non necessari agli animali. La Cassazione amplia (con la sentenza n. 24257-2024) gli importanti concetti della salute e del benessere dell’animale che non si limita solo alla salute fisica, ma include anche il benessere psichico. L’animale, in quanto essere senziente, deve godere di una qualità di vita che gli consenta di esprimere i suoi comportamenti naturali, compatibilmente con le sue caratteristiche. Ne consegue che somministrare farmaci agli animali in assenza di una necessità medica non rientra nel concetto di benessere e di salute dell’animale.  

Dannosi per la salute dell’animale i farmaci dopanti

Queste pratiche mirano infatti a perseguire obiettivi ben lontani dall’esigenza di tutelare la salute dell’animale. L’animale viene esposto a situazioni di stress e a rischi, che ne compromettono lo stato psicofisico. Somministrare sostanze dopanti ai cavalli in buona salute li sottopone a stress continui e pericoli. Questa condotta realizza infatti il reato di maltrattamento degli animali di cui all’articolo 544 del codice penale come aveva già precisato in una precedente pronuncia la Cassazione.

Nel caso specifico, l’imputato è stato accusato di aver somministrato farmaci antinfiammatori ai propri cavalli  solo per migliorarne le prestazioni sportive. Gli animali infatti non presentavano alcuna patologia che richiedesse la cura farmacologica che è stata somministrata a loro.

Salute dell’animale: dannoso anche lo stress

La giurisprudenza più recente dimostra di riconoscere sempre di più la sensibilità psico-fisica degli animali. Non si devono punire solo gli atti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali. Le condotte che assumono rilievo penale sono anche quelle che provocano dolore, stress e afflizione. Questo cambiamento ideologico nasce da una crescente consapevolezza e visione degli animali come esseri viventi meritevoli di tutela diretta, non solo di compassione umana.

Doping equino: maltrattamento dannoso

Gli Ermellini hanno stabilito che il doping equino, ossia l’uso di agenti esogeni o manipolazioni cliniche senza le necessarie indicazioni terapeutiche per migliorare le prestazioni, rappresenta un danno per la salute dell’animale e, quindi, una forma di maltrattamento penalmente rilevante. La legislazione penale, soprattutto dopo la disciplina del 2004 che ha posto divieto di usare violenza sugli animali, prevede sanzioni specifiche per queste pratiche.

Salute dell’animale: più garanzie

Per la Cassazione la Corte d’Appello ha correttamente rilevato come la somministrazione ingiustificata di antinfiammatori ai cavalli, incidendo sulle loro prestazioni, pregiudichi la loro salute psicofisica. Sottoporre i cavalli a faticosi allenamenti dopo queste somministrazioni di farmaci aggrava ancora di più la loro condizione. Queste pratiche rappresentano in conclusione un grave maltrattamento, soprattutto quando gli animali dipendono dall’uomo e vengono sottoposti a stress insopportabili per la loro specie.

La sentenza della Corte di Cassazione compie insomma un ulteriore passo avanti nella tutela del benessere animale. Essa riconosce l’importanza di garantire agli animali la salute fisica, ma anche quella mentale, condannando fermamente le pratiche di doping equino.

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danno biologico nuovi importi

Danno biologico: nuovi importi per le lesioni di lieve entità Danno biologico: nuovi importi per le lesioni di lieve entità successive a sinistri derivanti dalla circolazione di veicoli a motore e natanti

Danno biologico di lieve entità: in Gu il decreto del Mimit

Danno biologico, nuovi importi per le lesioni di lieve entità. Sulla GU Serie Generale n. 173 del 25 luglio 2024 è stato pubblicato il decreto del 16 luglio 2024 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

Il decreto attua l’articolo 139 comma 5 del Codice delle Assicurazioni Private, che prevede l’aggiornamento annuale con decreto del Mimit, degli importi del risarcimento del danno biologico riportato in conseguenza della circolazione dei veicoli a motore e dei natanti.

L’aggiornamento dell’importo avviene nella misura corrispondente alla variazione dell’indice nazionale dei prezzi al consumo delle famiglie di operai e impiegati, così come accertata dall’ISTAT.

Danno biologico: cos’è

Il danno biologico consiste nella lesione del fisico o della mente suscettibile di accertamento medico legale. Esso deve essere risarcito in quanto l’integrità fisica e psichica della persona sono beni garantiti dall’articolo 32 della Costituzione, che tutela il diritto alla salute.

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Lesioni lieve entità: nuovi importi 2024

Il decreto del Mimit, composto di un solo articolo, premette che dover adeguare gli importi del precedente decreto del Mimit del 16 ottobre 2023, applicando l’aumento dello 0,8%, pari alla variazione annuale dell’indice ISTAT sopra indicato.

Alla luce di questa variazione il decreto modifica gli importi indicati dall’articolo 139, comma 1 del Codice delle assicurazioni, a decorrere da aprile 2024.

  • Il valore del primo punto di invalidità è di Euro 947,30; 
  • L’importo previsto per ogni giorno di inabilità assoluta è invece di Euro 55,24.

Importi danno biologico lieve entità 2023

Per mera completezza si ricorda che il decreto dello scorso anno del 16 ottobre 2023, aveva fissato gli importi per il risarcimento del danno biologico (lesioni di lieve entità riportate in conseguenza della circolazione di veicoli e natanti) nelle seguenti misure:

  • Euro 939,78, per quanto riguarda l’importo relativo al valore del primo punto di invalidità.
  • Euro 54,80, per quanto riguarda l’importo relativo a ogni giorno di inabilità assoluta.
anatocismo vietato

Anatocismo vietato senza se e senza ma La Cassazione ha ricordato che l'anatocismo è vietato a prescindere dalla delibera CICR ponendo fine al dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza

Anatocismo vietato dal 1° dicembre 2014

Anatocismo vietato senza se e senza ma dal 1° dicembre 2014. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 21344-2024, affermando il seguente principio di diritto: “In tema di contratti bancari, l’art. 120, comma 2, t.u.b., come sostituito dall’art. 1, comma 629, L. n. 147 del 2013, fa divieto di applicazione dell’anatocismo a far data dal 1 dicembre 2014 e tale prescrizione è da ritenersi operante indipendentemente dall’adozione, da parte del CICR, della delibera, prevista da tale norma, circa le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”.  

Capitalizzazione trimestrale degli interessi illegittima

La vicenda risolta dalla Suprema Corte di Cassazione ha inizio quando l’Associazione movimento consumatori contesta la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi applicata da alcune banche locali dopo il 1° gennaio 2014.

Per l’Associazione tale pratica è del tutto illegittima perché contraria agli interessi dei consumatori e ai principi di trasparenza, equità e correttezza da rispettare nella stipula di qualsiasi contratto. Per tutte le ragioni suddette l’Associazione attrice chiede la restituzione degli interessi maturati o il ricalcolo dei saldi senza l’applicazione dell’anatocismo.

Le banche convenute contestano le richieste. A loro dire la norma modificata nel 2014 non può essere applicata per la mancata emanazione dei provvedimenti attuativi del CICR.

Anatocismo vietato immediatamente o previa delibera CICR?

La Cassazione risolve la controversia fornendo la corretta interpretazione della normativa del 2013. La stessa infatti, secondo gli Ermellini, ha generato un acceso dibattito su due fronti perché non è chiaro se:

  • abbia definitivamente vietato l’anatocismo bancario;
  • tale divieto fosse immediato o subordinato a una delibera del CICR.

Anatocismo vietato: chiara la legge del 2013

La Cassazione chiarisce che la norma del 2013, diversamente da quella del 1999, non contiene più un riferimento esplicito agli “interessi sugli interessi”. La stessa si limita infatti a menzionare la produzione di interessi. Il testo, anche se formulato in modo non preciso, vieta chiaramente l’anatocismo. Del resto questa conclusione è del tutto conforme con l’intenzione del legislatore di mettere la parola “fine”al fenomeno della produzione di interessi nei periodi successivi da parte degli interessi capitalizzati.

La Cassazione precisa quindi che l’articolo 120, comma 2 del Testo Unico Bancario, modificato nel 2013, preclude ogni forma di anatocismo, non solo quella successiva alla prima capitalizzazione.

Le banche contro le quali ha agito l’Associazione movimento consumatori non potevano pertanto continuare a capitalizzare gli interessi dopo l’entrata in vigore della nuova normativa nel 2013. Il divieto di applicare gli interessi anatocistici, previsto dall’art. 1283 del codice civile è stato ripristinato per i contratti bancari.

La nuova norma inoltre non richiede ulteriori interventi da parte del CICR, rendendo superfluo qualsiasi completamento normativo in merito.

Divieto di anatocismo dal 1° dicembre 2014: non serve la delibera CIRC

In conclusione per la Suprema Corte l’articolo 120, comma 2 del Testo Unico Bancario, come modificato dalla legge n. 147/2013, vieta lanatocismo a partire dal 1° dicembre 2014. Tale divieto è efficace indipendentemente dall’adozione di una delibera CICR. Questo principio chiarisce in modo definitivo la normativa. Illegittima la pratica della capitalizzazione degli interessi passivi successivamente alla data indicata.

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licenziato stampa troppo ufficio

Va licenziato chi stampa troppo in ufficio? Per la Cassazione, scatta la sanzione conservativa per la dipendente che usa la stampante dell'ufficio per uso personale

Stampa troppo in ufficio: esagerato il licenziamento

Va licenziato chi stampa troppo in ufficio per motivi personali? Ebbene no, la Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, ma attenzione la condotta non resta impunita.

Nel caso posto all’attenzione degli Ermellini il contratto collettivo nazionale contempla la misura conservativa della multa per mancato adempimento dell’obbligo di osservare scrupolosamente i doveri d’ufficio e conservare con la dovuta diligenza il materiale dell’azienda. Illegittimo quindi il licenziamento perché non rispettoso del principio di proporzionalità. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza n. 20698/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la dipendente di una fondazione viene licenziata perché, senza alcuna autorizzazione, ha usato la stampante aziendale per scopi personali.

Il Tribunale accoglie il ricorso, dichiara illegittimo il licenziamento, conferma la risoluzione del rapporto di lavoro e dispone in favore della donna l’indennità risarcitoria da 12 a 18 mensilità dell’ultima retribuzione.

Licenziamento illegittimo per la Corte d’Appello

La Corte d’Appello, pur rilevando la violazione dell’art. 220 CCNL, conferma l’illegittimità del licenziamento e quantifica in 18 mesi l’indennità dovuta alla lavoratrice perché la condotta tenuta non è così grave da giustificare l’espulsione.

Parola alla Cassazione

La decisione viene impugnata dalla dipendente in sede di legittimità per contestare la mancata applicazione della sanzione conservativa della multa.

La datrice di lavoro resiste con controricorso, contestando l’affermata illegittimità del licenziamento irrogato.

Principio di proporzionalità e sanzione conservativa

Per gli Ermellini, è fondato il terzo motivo del ricorso principale sollevato dalla lavoratrice. La sentenza impugnata non è infatti conforme al principio di diritto in base al quale “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dallarticolo 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge numero 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca lillecito con sanzione conservativa anche laddove si espressa attraverso clausole generali o elastiche”.  

Riprendendo la pronuncia della Cassazione n. 13744/2022 la condotta del lavoratore che esegue con negligenza il lavoro affidato non rientra tra quelle caratterizzate da una gravità tale da comportare il licenziamento disciplinare contemplato dall’art. 225 del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi del 18 luglio 2008.

Tale condotta deve quindi essere sanzionata in via conservativa con una multa, nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità eseguito dalle parti sociali con la previsione indicata.

Dello stesso avviso gli Ermellini, la condanna non è talmente grave da giustificare il licenziamento, con la conseguente operatività della tutela prevista dal comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

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cane chiuso casa reato

Cane chiuso in casa senz’acqua: è reato Lasciare soli per ore tre cani in una casa sporca e senza dar loro dell’acqua sono indizi del reato di abbandono che legittimano il sequestro degli animali

Lasciare il cane chiuso in casa senz’acqua è abbandono di animali

Lasciare tre cani soli e chiusi in casa per ore, nella sporcizia e senz’acqua è una condotta che giustifica il sequestro degli animali perché rappresentano indizi coerenti e logici del reato di abbandono di animali. Il reato contemplato dall’art. 727 comma 2 del codice penale precisa infatti che non serve lo stato di malattia dell’animale affinché si configuri lo stato di abbandono, è sufficiente che l’animale patisca una sofferenza ingiusta. Queste le ragioni per le quali la Cassazione con la sentenza n. 30369-2024 ha rigettato il ricorso della padrona dei cani contro l’ordinanza di sequestro degli animali.

Il sequestro preventivo

Un’ordinanza conferma il sequestro preventivo di tre cani disposto con decreto dal giudice per indagini preliminari. La padrona è indagata per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 comma 2 c.p. Gli animali sono stati rinvenuti in condizioni incompatibili con le esigenze minime, in stato di abbandono, scarsa igiene e incuria nella somministrazione dell’acqua e nella cura delle malattie.

Il ricorso

La padrona, nel ricorrere avverso l’ordinanza, fa presente che dalla relazione del medico veterinario intervenuto al momento del sequestro emerge che lo stato di salute degli animali non faceva desumere l’incuria e l’abbandono di cui la stessa è stata accusata.

Gli animali non avevano zecche, presentavano una buona massa muscolare e le unghie erano in buone condizioni. La contestazione è del tutto generica e non emergono elementi oggettivi di sofferenza patita dagli animali. Insussistente quindi il fumus commissi delicti perché i fatti a lei contestati non sono stati provati adeguatamente e sono il frutto di annotazioni relative più allo stato dei luoghi che al benessere degli animali. La ricorrente lamenta inoltre la mancata valutazione della relazione del veterinario, che ha rilevato solo la presenza di malattie pregresse, normali in cani anziani. La trasmissione tempestiva di questa relazione avrebbe permesso di smentire i reati ipotizzati e contrastare gli elementi indiziari del fumus.

Il reato di abbandono di animali

Per la Cassazione le argomentazioni che hanno condotto alla decisione invece risultano puntuali, coerenti e logiche. Il giudice ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p. perché i  militari intervenuti sul posto hanno rilevato uno stato di abbandono dei tre cani di proprietà dell’indagata perché detenuti in condizioni igieniche incompatibili con i bisogni minimi che devono essere assicurati agli animali domestici. Dalle testimonianze è emerso che l’ambiente in cui i cani venivano detenuti era in pessime condizioni igieniche, le deiezioni erano diffuse, non era stato rimosso il cibo sparso per terra e non c’era acqua per gli animali, che venivano lasciati soli in casa per molte ore o in uno spazio esterno stretto e pieno di rifiuti.

Reato di abbandono: è sufficiente l’ingiusto patimento

La Cassazione ricorda che affinché si configuri il reato di abbandono di animali la detenzione degli stessi in condizioni capaci di recare loro gravi sofferenze non è solo quella che provoca una malattia, ma anche quella che produce un patire ingiusto. Non è necessaria la malnutrizione e il pessimo stato di salute, sono sufficienti quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale provocando sofferenza e afflizione. In queste condotte rientrano i comportamenti colposi di abbandono ed incuria. Il Gip ha disposto il sequestro nel timore di una reiterazione del reato poiché, nonostante ripetute segnalazioni e diversi accessi all’abitazione, l’indagata non ha messo in atto nessun comportamento finalizzato a migliorare le condizioni di detenzione degli animali. La stessa ha infatti mantenuto inalterate nel tempo le condizioni di incuria e di degrado della propria abitazione in cui deteneva i cani chiusi per diverse ore.

La decisione relativa al sequestro si è fondata sull’annotazione della polizia giudiziaria e sulla relazione dell’ENPA, successiva al sopralluogo. La relazione del medico veterinario incaricato dall’indagata non è stata acquisita perché non presente nel fascicolo al momento della pronuncia oggetto di impugnazione. La stessa è stata infatti acquisita in data successiva.

 

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autovelox non omologati sequestro

Autovelox non omologati sotto sequestro in tutta Italia Autovelox non omologati: disposto il sequestro, 10 le Regioni interessate. Le multe potrebbero essere tutte annullate

GIP di Cosenza: sotto sequestro gli autovelox illegittimi

Autovelox sequestrati in tutta Italia. Illegittimo il sistema di rilevazione della velocità effettuato con lo strumento T-Exspeed 2.0. Il provvedimento con cui è stato disposto il sequestro dei misuratori di velocità è stato emesso dal GIP di Cosenza nel corso dell’indagine disposta dalla Procura locale. Dagli accertamenti effettuati la strumentazione T-Exspeed 2.0 installata nelle postazioni fisse per rilevare sia la velocità media che quella specifica è illegittima così come lo sono le sanzioni che sono state elevate in seguito ai rilevamenti effettuati per mezzo della stessa.

Autovelox senza omologazione: 10 le regioni interessate

Il problema riguarda 10 regioni italiane (Veneto, Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Basilicata, Molise, Puglia, Calabria e Sicilia). Le apparecchiature infatti sono state installate su diverse strade statali e provinciali della penisola. Immediata la denuncia per frode in pubblica fornitura per il legale rappresentante della società che si era aggiudicata l’appalto per la fornitura.

Dagli accertamenti è emerso che le apparecchiature non sono state omologate e che era assente anche il prototipo del sistema per il rilevamento della velocità. Il prototipo che è stato depositato presso il Ministero è risultato essere diverso dalla versione modificata che la società ha fornito poi ai Comuni.

Autovelox illegittimi: multe nulle

Apparecchiature illegittime, multe illegittime. Le multe irrogate con le apparecchiature incriminate potrebbero essere annullate. Si ricorda che la questione è stata affrontata di recente anche dagli Ermellini. L’ordinanza n. 10505-2024 della Cassazione ha infatti sancito che devono considerarsi nulle le multe elevate con apparecchi autovelox non omologati e che la mera approvazione non può considerarsi equipollente all’’omologazione ministeriale. L’omologazione infatti è un procedimento molto più importante perché autorizza la riproduzione in serie del prototipo dell’autovelox, mentre l’approvazione non prevede la comparazione del prototipo con le caratteristiche necessarie dello strumento o previste dal regolamento.

Omologazione: controllo tecnico garanzia di perfetta funzionalità

Come precisa del resto la Cassazione nella citata ordinanza l’omologazione consiste in una procedura che non ha solo carattere  amministrativo, ma anche tecnico e “tale specifica connotazione risulta finalizzata a garantire la perfetta funzionalità e la precisione dello strumento elettronico da utilizzare per l’attività di accertamento da parte del pubblico ufficiale legittimato, requisito, questo, che costituisce l’indispensabile condizione per la legittimità dell’accertamento stesso, a cui pone riguardo la norma generale di cui al comma 6 dell’art. 142 c.d.s.” 

Mancato deposito del prototipo

Il mancato deposito del prototipo è l’altra questione di rilievo emersa nel corso delle indagini e sulla quale il dibattito è ancora aperto. L’articolo 192 de del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada, al comma 2  dispone che “L’ispettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale del Ministero dei Lavori  Pubblici accerta, anche mediante prove, e avvalendosi, quando ritenuto necessario, del parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, la rispondenza e lefficacia delloggetto di cui si chiede lomologazione alle prescrizioni stabilite dal presente regolamento, e ne omologa il prototipo quando gli accertamenti abbiano dato esito favorevole. Linteressato è tenuto a fornire le ulteriori notizie e certificazioni che possono essere richieste nel corso dellistruttoria amministrativa di omologazione e acconsente a che uno dei prototipi resti depositato presso lIspettorato generale per la circolazione e la sicurezza stradale.” 

Negli anni il mancato deposito del prototipo per l’omologazione non ha mai condotto a pronunce di condanna gravi. In genere le motivazioni del mancato deposito sono riconducibili a problemi di gestione e di custodia dei luoghi di deposito del ministero. C’è poi chi ritiene che le varianti di un modello che configurano meri aggiornamenti del software non rilevanti non andrebbero depositate. A complicare il quadro della questione ci sono poi due voti del Consiglio superiore dei lavori pubblici in cui si afferma che il prototipo comprende la strumentazione i documenti relativi alla parte che non può essere depositata fisicamente.

avvocato trascurato abbandono difesa

Avvocato “trascurato”: è abbandono della difesa Cassazione a Sezioni Unite: abbandono della difesa, illecito disciplinare che comporta la violazione di diversi principi sanciti dalle norme deontologiche

Abbandono della difesa: plurimi i principi violati

L’ingiustificato abbandono della difesa è una condotta a cui consegue la violazione di plurimi e fondamentali principi deontologici: il diligente adempimento del mandato (articolo 26), il dovere di probità e dignità (articolo 9), il dovere di fedeltà (articolo 10) e il dovere di coscienziosa diligenza (articolo 12). Lo hanno chiarito le sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 20877-2024.

Abbandono della difesa per l’avvocato che salta due udienze

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina competente per territorio dispone la sanzione disciplinare della censura nei confronti di un avvocato. Il legale ricorre al CNF che però respinge il ricorso.

L’avvocato è incolpato di aver violato gli articoli 1, 10, 12 e 26 comma 3 del Codice Deontologico Forense perché dapprima ha assunto l’incarico di difensore di un privato, poi però non ha adempiuto fedelmente al proprio incarico. Il professionista non avrebbe preso parte ad alcuna udienza, trascurando in questo modo gli interessi del suo assistito.

Le accuse mosse all’avvocato

L’avvocato è accusato di aver abbandonato la difesa del suo assistito, imputato in un processo penale, non prendendo parte a due udienze. Il CNF ha concluso infatti che:

  • l’avvocato ha avuto conoscenza, a mezzo notifica, della data delle due udienze penali disertate;
  • lo stesso non può invocare l’errore inevitabile per il fatto di aver assunto la difese del cliente in due processi con imputazioni diverse, ma con un tratto comune a entrambi;
  • per integrare l’illecito disciplinare è sufficiente la suitas della condotta, non essendo necessario dimostrare la consapevolezza della illegittimità delle proprie azioni;
  • la censura è una sanzione corretta perché prevista per la violazione dell’art. 26 comma 3 del Codice Deontologico;
  • non rileva la nomina successiva dell’avvocato da parte dello stesso cliente per scontare la pena in forma alternativa.

Il ricorso in Cassazione

L’avvocato nel ricorrere in Cassazione contro la decisione del CNF nel primo motivo evidenzia la possibilità di richiedere la sospensione della esecutorietà della decisione nel ricorso, non essendo necessario proporla in forma autonoma.

Con il secondo motivo invece lamenta la violazione dell’art. 26 comma 3 del Codice deontologico evidenziando che il mero errore non integrerebbe la colpa, di cui non sussiste prova alcuna. Il legale sottolinea inoltre come la trascuratezza di cui è stato accusato non avrebbe cambiato l’esito del giudizio penale del suo assistito. La responsabilità per colpa lieve che gli è stata addebitata avrebbe potuto assumere rilievo solo sotto il profilo civilistico, non deontologico.

Per il difensore la trascuratezza non integra quindi l’illecito disciplinare previsto dall’art. 26 comma 3 del Codice deontologico.

Abbandono della difesa e violazioni deontologiche

La Cassazione rigetta il ricorso precisando che il Codice Deontologico non ha carattere normativo. Esso è composto da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono dati per dare attuazione ai valori che caratterizzano la professione e per garantire la libertà, la sicurezza e l’inviolabilità della difesa. La violazione del Codice  Deontologico rileva in sede giurisdizionale solo quando è ricollegabile all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge come previsto dall’articolo 56 comma 3 del r.d.l n. 1578/1933.

Nessuno di questi vizi però è stato riscontrato in relazione ai motivi di impugnazione del secondo motivo. La coscienza e la volontà sono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o dell’omissione. Vi è quindi una presunzione di colpa per l’atto sconveniente vietato a carico di chi lo commette. Spetta all’accusato dimostrare l’errore inevitabile, non superabile con l’uso della normale diligenza oppure il sopravvenire di una causa esterna. Non è invece configurabile l’imperizia incolpevole perché il professionista legale è tenuto a conoscere il sistema delle fonti. Anche per quanto riguarda l’entità della trascuratezza riscontrata dal giudice disciplinare la Cassazione esclude la sussistenza del vizio censurabile.

La responsabilità deontologica dell’avvocato

L’articolo 26 del Codice Deontologico forense al comma 3 dispone “Costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita.” L’avvocato si è reso responsabile di mancata assistenza e difesa nel procedimento. Il giudizio sulla trascuratezza spetta all’organo disciplinare e non è sindacabile in sede di Cassazione. Non rileva, come sostenuto dall’avvocato ricorrente, che l’azione non porti a conseguenze pregiudizievoli per il cliente. Tale affermazione è del tutto estranea alla formulazione della norma e ai principi di decoro e dignità della professione forense. Privo di fondamento è anche il motivo con cui il ricorrente ha contestato la sanzione applicata. La sentenza impugnata ha spiegato che lingiustificato abbandono della difesa lede diversi e fondamentali principi deontologici:

  • il diligente adempimento del mandato (articolo 26);
  • il dovere di probità e di dignità (articolo 9);
  • il dovere di fedeltà (articolo 10);
  • il dovere di coscienziosa diligenza (articolo 12).

Insindacabile il giudizio sulla gravità della condotta espresso dal giudice disciplinare.

 

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matrimonio breve niente mantenimento

Matrimonio breve? Niente mantenimento Per la Cassazione, la breve durata del matrimonio deve essere valutata per stabilire la spettanza del diritto e quantificare l’assegno di mantenimento

Durata matrimonio e assegno di mantenimento

Se il matrimonio è di breve durata l’assegno di mantenimento può non spettare al coniuge richiedente. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 20507-2024. 

La vicenda

La vicenda nasce nell’ambito di un giudizio di separazione giudiziale relativa a un rapporto coniugale da cui non sono nati i figli. La Corte d’Appello respinge l’impugnazione del marito gravato dal dover contribuire al mantenimento della moglie corrispondendo un assegno mensile di 3000 euro. Respinta la richiesta del marito di addebito della separazione alla moglie la Corte conferma il mantenimento in favore della donna alla luce dello squilibrio economico delle parti.

L’uomo nel ricorrere in Cassazione solleva quattro motivi di doglianza, tra i quali assume particolare rilievo e interesse il terzo, con il quale invoca la nullità della sentenza per l’omesso esame di due fatti storici decisivi come la breve durata del matrimonio e la giovane età della richiedente, al fine di stabilire la spettanza e il quantum dell’assegno di mantenimento.

Esclusione diritto al mantenimento

La Cassazione dichiara inammissibile il primo, il secondo e il quarto motivo sollevati dal ricorrente, accoglie invece il terzo perché fondato.

Sull’assegno di mantenimento conseguente alla separazione la Cassazione a Sezioni Unite, nella pronuncia n. 32914/2022 ha osservato che “La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significativi mutamenti:

  1. a) il coniuge cui non è stata addebitata separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacita concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 del codice di procedura civile;
  1. b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde, invece, il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno”. 

Ai fini della corresponsione dell’assegno di mantenimento rileva anche la durata del matrimonio, anche se la Cassazione fino al 2017 ha circoscritto questo profilo alla quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Con pronunce successive a questa data però la Corte ha stabilito che la breve durata del rapporto coniugale, se da una parte non esclude automaticamente il diritto all’assegno, dall’altra può non instaurare una comunione spirituale e materiale tra i coniugi. In queste ipotesi può quindi rappresentare una causa di esclusione del diritto al mantenimento.

La decisione

La decisione impugnata dal marito in effetti non ha preso in considerazione la durata estremamente breve del rapporto coniugale sotto il profilo della spettanza e della quantificazione, anche se in sede di merito era stato accertato che la donna si era allontanata dalla casa coniugale a pochi mesi dal matrimonio. La sentenza va quindi cassata affinché la Corte d’appello riesamini la decisione alla luce dei principi suddetti relativi al mantenimento conseguente alla separazione, tra i quali assume rilievo la breve durata del matrimonio.

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Avvocati: come valutare la condotta irreprensibile Le Sezioni Unite della Cassazione si esprimono sulla valutazione del requisito della condotta irreprensibile dell'avvocato

Condotta irreprensibile avvocato

La valutazione del requisito della condotta irreprensibile del dottore, che fa istanza per iscriversi all’albo dei praticanti, deve essere compiuta senza tenere conto dell’esito dell’eventuale procedimento penale e della qualità di imputato del richiedente. Lo hanno chiarito le sezioni unite civili della Cassazione nella sentenza n. 19726-2024.

Iscrizione registro praticanti

Nella vicenda, un Consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio respinge la richiesta di iscrizione all’albo dei praticanti avvocati di un dottore perché il  richiedente non soddisfa il requisito della condotta irreprensibile prevista dai canoni del codice deontologico forense, articolo 17, comma uno, lettera H della legge n. 247/2012.

Il dottore ha infatti riportato una condanna per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, è sottoposto a procedimento per il reato di ricettazione e nei suoi confronti sono in corso procedimenti penali per guida in stato di ebrezza e calunnia.

Non basta valutare le condotte penalmente rilevanti

Il dottore ricorre al Consiglio Nazionale Forense (C.N.F) che però rigetta il ricorso. Il COA avrebbe infatti valutato correttamente la presenza di elementi ostativi all’accoglimento della richiesta di iscrizione. Le condotte del dottore non risultano conformi alle regole deontologiche e al diritto in generale. Questo incide negativamente sulla affidabilità soggettiva del richiedente e pone dei dubbi sulla sua capacità di svolgere correttamente la professione.

Nel caso di specie le condotte penalmente rilevanti del dottore non possono condurre a un giudizio positivo in ordine alla sussistenza del requisito della condotta irreprensibile. I comportamenti del dottore tenuti al di fuori dell’attività professionale  e nei confronti dei soggetti terzi risultano lesivi della probità e del decoro della professione perché ne ledono l’immagine  e la dignità, con ripercussioni negative dell’intera classe forense.

Condotte di rilevo penale lontane non rilevano

Detto questo, per il CNF non possono essere considerate ostative all’iscrizione nel registro dei praticanti condotte occasionali o lontane, se non sono in grado di incidere sulla affidabilità attuale del soggetto a svolgere correttamente l’attività professionale.

Le condotte devono incidere negativamente sulla reputazione

Il dottore si rivolge agli Ermellini per la cassazione della pronuncia del CNF ricordando a sua difesa che:

  • il reato per il quale era stato condannato era estinto;
  • la qualità di imputato non consentiva di ritenerlo colpevole;
  • precludergli la formazione necessaria s superare l’esame esami di Stato vanifica i sacrifici fatti e ostacola il suo diritto a un lavoro futuro.

La Cassazione accoglie il motivo sollevato dal dottore perché fondato. Gli Ermellini precisano che “L’essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense costituisce un requisito di chiusura e di completamento: un requisito che, affidato a una formula meno enfatica e solenne, e più circostanziata, rispetto a quella previgente, prende li posto della condotta “specchiatissima ed illibata”, alla quale si riferiva, all’art. 17, la legge professionale forense del 1933.”

La condotta irreprensibile racchiude al suo interno un insieme di requisiti morali a tutela dell’interesse pubblico e dell’affidamento della clientela e della collettività. Essa è determinata dall’assenza di condotte costituenti reato in grado di menomare la reputazione del soggetto e della professione, ma non solo. La condotta irreprensibile non è compromessa solo dalle condotte che costituiscono reato e che sono collegate allo svolgimento della professione, tale requisito riguarda la condotta generale dell’iscritto. Occorre però fare una distinzione tra le condotte che rilevano ai fini della valutazione perché incidono sulla affidabilità del soggetto da quelle che riguardano la sfera privata e la libertà individuale e che quindi non rilevano.

I requisiti necessari ai fini dell’iscrizione devono essere valutati con rigore, tenendo conto del loro grado di incidenza sulla attività professionale. “A tal fine, la valutazione deve ricomprendere la natura e l’occasionalità delle condotte ostative, la distanza nel tempo e, comunque, tutti quegli elementi che consentono di poter valutare l’affidabilità del soggetto all’espletamento della professione o allo svolgimento della pratica professionale.”

L’ordine professionale, nel valutare la condotta irreprensibile, deve accertare se i fatti commessi dal candidato possano dare luogo, all’esito di un procedimento disciplinare, alla sanzione della interdizione. A tale fine rileva la gravità delle condotte e la loro capacità di rendere il soggetto inadeguato sotto il profilo della onorabilità nell’esercizio della professione.

Il principio

La rilevanza penale di una condotta quindi è in grado di incidere sulla valutazione della condotta irreprensibile?

Per la Cassazione la condizione di imputato del richiedente non rileva in via esclusiva, il CNF infatti “avrebbe dovuto considerare se le condotte, non prossime nel tempo e per le quali l’imputato si era dichiarato innocente, fossero state accertate anche dal giudice penale, ancorché con sentenza non ancora divenuta irrevocabile, e, in caso positivo, valutare se esse, per il loro concreto disvalore secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense, fossero tali da incidere, anche considerando l’epoca della loro commissione, sulla reputazione e sull’immagine dell’aspirante a svolgere il ruolo attribuito dall’ordinamento al professionista forense”. 

 

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