omicidio lorena quaranta

Omicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata per stress da Covid La Cassazione penale annulla la sentenza di condanna all'ergastolo del fidanzato della vittima. Per i giudici è da valutare "lo stress da lockdown e pandemia" - Il testo della sentenza in pdf

Femminicidio Lorena Quaranta: sentenza annullata

Fa scalpore, ma fa anche discutere e indignare la sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione n. 27115-2024 che riguarda l’omicidio della giovane Lorena Quaranta.

La sentenza della Corte di Assise che ha disposto la condanna all’ergastolo del fidanzato per omicidio volontario aggravato dalla commissione contro una persona legata a lui da una stabile convivenza affettiva, deve essere annullata nella parte in cui nega il riconoscimento delle circostanze attenuanti.

Per la Cassazione i giudici di merito non hanno verificato compiutamente se, dato il contesto “possa ed in quale misura  ascriversi all’imputato di non avere «efficacemente tentato di contrastare» lo stato di angoscia del quale era preda e, parallelamente, se la fonte del disagio, evidentemente rappresentata dal sopraggiungere dell’emergenza pandemica; con tutto ciò che essa ha determinato sulla vita di ciascuno e, quindi, anche dei protagonisti della vicenda, e, ancor più, la contingente difficoltà di porvi rimedio costituiscano fattori incidenti sulla misura della responsabilità penale.” Lo stress che ha colpito l’omicida, come tutti durante il lockdown, potrebbe comportare una riduzione della pena.

Lockdown: marcata concitazione emotiva

Nella sentenza si legge che nei giorni che hanno preceduto l’omicidio, caratterizzati dalle restrizioni imposte dalla pandemia, il fidanzato della Quaranta ha manifestato una forte preoccupazione per l’affezione delle vie respiratorie che aveva colpito la compagna. Dalla fine del mese di marzo il disagio si sarebbe così aggravato che l’uomo, senza preoccuparsi della fidanzata bisognosa di cure, si sarebbe allontanato per recarsi dai suoi familiari, che però lo convincevano a tenere un comportamento più responsabile e a tornare a casa dalla ragazza.

L’arrivo a casa non ha portato nessun beneficio al suo stato emotivo, una vicina ha riferito di averlo visto salire e scendere le scale in modo frenetico. Dopo qualche ora di calma l’omicida tornava ad agitarsi, tanto che alle 4 di notte contattava telefonicamente il padre. Alle 6 del mattino arriva la lite con la compagna, i colpi alla fronte con un oggetto contundente, la mano sulla bocca e sul naso, la stretta al collo e infine l’arresto cardio circolatorio per asfissia della giovane donna. All’episodio segue il tentativo di suicidio dell’uomo, dapprima tramite il taglio dei polsi e poi tramite il getto del phon della vasca in cui si era immerso e che ha comportato l’attivazione del salvavita e infine il contatto delle forze dell’ordine.

Esclusione delle attenuanti

La Cassazione rileva in fatto come la Corte di Assise di Appello non abbia riconosciuto le attenuanti generiche perchè la perizia del CTU ha escluso la presenza di una patologia psichiatrica in grado di inficiare la capacità di intendere e di volere dell’imputato. Per il giudice dell’appello l’imputato, nel compiere l’omicidio, ha agito con determinazione e crudeltà, modalità espressive che non sono ricollegabili allo stato d’ansia in cui versava quando ha commesso l’omicidio e che lo stesso non ha tentato di contrastare.

Motivazione contraddittoria

Preso atto del quadro probatorio emerso nei precedenti gradi di giudizio gli Ermellini ritengono però fondato il motivo di doglianza relativo al diniego delle attenuanti generiche. Le ragioni del rigetto sono il frutto di un percorso argomentativo che per la Corte di Cassazione si caratterizza per aporie e contraddizioni non marginali. Non convincono le conclusioni della Corte dell’impugnazione, per la quale lo “stato d’ansia e di irrequietezza, comunque manifestato dall’imputato nelle ore immediatamente precedenti al delitto, non solo, come ampiamente argomentato, non ha compromesso la sua capacità di intendere e di volere, ma non ha certamente determinato, né giustificato, la furia, l’odio e l’efferatezza rivolti dal contro la povera (che non può escludersi abbiano tratto origine da un movente rimasto inesplorato).”

In un punto della sentenza infatti la Corte di merito, in contraddizione con le suddette conclusioni, afferma di rendersi conto implicitamente del fatto che “lo stato emotivo manifestato dall’imputato nei momenti antecedenti all’omicidio abbia influito concretamente sulla misura della responsabilità penale e sia, pertanto, valutabile positivamente ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche”.

L’angoscia incide sulla responsabilità penale?

L’omicida, a causa del lockdown e della pandemia ha vissuto un disagio sempre crescente, che è sfociato in angoscia, che lo ha portato a un certo punto a rifuggire alle sue responsabilità e a lasciare sola la compagna. Una scelta che probabilmente, secondo la sua visione, era l’unica possibile considerata l’impossibilità di accedere alle strutture sanitarie. Quando poi ha desistito dal suo progetto di fuga per recarsi dai familiari ha vissuto un dissidio interiore, che ha provocato le condotte altalenati successive del pomeriggio, della notte e della mattina dell’omicidio.

I giudici avrebbero omesso pertanto di verificare se, alla luce del contesto, sia possibile escludere che l’imputato non abbia tentato efficacemente di contrastare lo stato di angoscia di cui era preda e che traeva origine dall’emergenza pandemica e se la difficoltà contingente di rimediare a questa angoscia sono in grado di incidere sulla responsabilità penale.

Parola al giudice del rinvio

Da qui l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto concernente l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di assise di appello di Reggio Calabria.

 

Leggi anche Violenza donne: la legge n. 168/2023

Allegati

stop mantenimento figlio

Stop mantenimento al figlio iscritto da 14 anni all’università Linea dura della Cassazione contro i figli "bamboccioni": non spetta il mantenimento al figlio ultratrentenne che in 14 anni di università ha dato solo un esame

Mantenimento figlio maggiorenne

Il figlio ultratrentenne, che ha trascorso 14 anni all’università sostenendo un solo esame, non ha più diritto all’assegno di mantenimento a carico del padre. Lo stesso non è stato in grado di dimostrare di essersi impegnato nel conseguire una qualificazione professionale o nella ricerca di un impiego per collocarsi nel mondo del lavoro e acquisire la propria indipendenza economica. Lo ha stabilito la corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19955-2024.

Revoca mantenimento figlio

Nell’ambito di una procedura di separazione coniugale il Tribunale stabilisce a carico del padre l’obbligo di versare al figlio maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, il mantenimento di 500 euro mensili, oltre al pagamento del 70% delle spese straordinarie.

Alla separazione segue il divorzio e la sentenza riduce a 350 euro mensili il mantenimento dovuto dal padre al figlio maggiorenne, ma conserva il contributo nella misura del 70% delle spese straordinarie e l’assegnazione della casa familiare alla moglie, che convive con il figlio.

Il padre appella la decisione, chiedendo anche la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio.

Mancata ricerca di un lavoro

La Corte d’appello però respinge la richiesta, limitandosi a ridurre il mantenimento per il figlio a 200 euro mensili.

Per la Corte il mantenimento al figlio non deve essere ancorato al raggiungimento della maggiore età, ma a quello della autosufficienza economica. Per far cessare l’obbligo del mantenimento è sufficiente che il figlio percepisca delle entrate, anche derivanti da un lavoro non stabile o che lo stesso possegga un patrimonio tale da garantirgli un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e che abbia un’appropriata collocazione nel contesto economico in cui lo stesso è inserito adeguata alle attitudini e alle aspirazioni.

Incontestato che il ragazzo ormai ultratrentenne risulti privo di un’occupazione lavorativa in grado di garantirgli la propria indipendenza economica. Lo stesso ha più volte cambiato percorso di studi e ha cercato lavoro, prestando attività presso la Croce Rossa senza però conseguire una stabilità lavorativa. In seguito ha lasciato l’università, è  tornato a vivere con la madre, ma ha avuto difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro anche a causa della sopravvenuta pandemia. Lo stesso è stato anche vittima di un infortunio, che ha comportato un intervento chirurgico e una prognosi di 60 giorni. Queste le ragioni per le quali la Corte, in considerazione dell’età del figlio, si è limitata a ridurre il mantenimento a 200 euro, lasciando invariata la misura del contributo per le spese straordinarie.

Il padre, insoddisfatto della decisione della Corte di Appello, la impugna di fronte alla Cassazione.

Onere della prova

Gli Ermellini ritengono fondato il motivo del ricorso con il quale il padre lamenta la mancata revoca del mantenimento dovuto al figlio. Per il ricorrente il fatto che il figlio abbia sostenuto un solo esame in 14 anni di università sufficiente a giustificare la revoca del mantenimento. Di fatto il figlio non ha mai dimostrato di aver messo in atto dei tentativi seri per trovare un’occupazione e collocarsi in modo stabile nel mondo del lavoro.

La Cassazione ricorda di aver affermato di recente che l’onere della prova relativa alle ragioni che fondano il mantenimento sono a carico del richiedente. Spetta infatti al figlio dimostrare di aver curato con impegno la propria preparazione professionale e tecnica o di essersi attivato nella ricerca di un lavoro. È sempre onere del richiedente inoltre provare la mancanza di indipendenza economica perché pre-condizione necessaria ai fini della richiesta del mantenimento.

L’onere della prova dei presupposti necessari per il mantenimento però è più facile quando il figlio ha da poco superato la maggiore età e negli anni successivi, soprattutto se ha iniziato un percorso di studi, perché in questo modo dimostra l’impegno di entrare a far parte del mondo degli adulti. Con l’avanzare dell’età l’onere della prova diventa più gravoso. La decisione sul mantenimento rende necessaria la valutazione del caso concreto e un’indagine sulle scelte di vita compiute e sull’impegno del figlio nell’acquisire una qualificazione professionale.

La decisione

Nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto conclusa la formazione universitaria del figlio anche senza il conseguimento di un risultato e ha ritenuto incontestato il fatto che lo stesso,  ultratrentenne, fosse senza lavoro e senza autonomia economica. La Corte non ha indagato se nel corso di tutti questi anni abbia comunque cercato una sua collocazione nel mondo del lavoro. La stessa si è accontentata nel considerare come esistenti e giustificate le difficoltà riscontrate negli ultimi anni e imputate al COVID, all’infortunio e alla crisi del mercato.

 

Leggi anche: Mantenimento figli e trattenute stipendio

Allegati

notifica ritardo ufficiale giudiziario

Notifica in ritardo: risponde l’ufficiale giudiziario Per il ritardo nella spedizione o nel recapito della notifica a mezzo posta, risponde solo l'ufficiale giudiziario e non anche l'agente postale

Notifiche a mezzo posta

Per il ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ex art. 1228 c.c. risponde solo l’ufficiale giudiziario e non anche l’agente postale che è mero ausiliario. Questo quanto si ricava dall’ordinanza della terza sezione civile della Cassazione n. 17892-2024.

La vicenda

Nella vicenda, un uomo si recava all’ufficio postale per ritirare 7 avvisi di ricevimento di atti giudiziari, per i quali si vedere chiedere il costo delle raccomandate CAD che l’ufficiale giudiziario aveva emesso essendovi tenuto ex lege. L’uomo rifiutava il pagamento e non ritirava gli avvisi e chiedeva e otteneva dal Giudice di Pace di Acri decreto ingiuntivo di consegna. La questione approdava in appello, a seguito di opposizione della società, e infine in Cassazione.

Innanzi agli Ermellini, il ricorrente lamentava che “erroneamente il giudice di appello non ha considerato che in caso di notifica di atto giudiziario l’ufficiale postale è un mero ausiliario dell’ufficiale giudiziario, sicché il rapporto si instaura unicamente tra l’avvocato richiedente la notifica e l’Ufficio UNEP, che effettua il servizio di notifica e, ove non effettui la notifica a mani, può ricorrere alla notifica a mezzo posta”.

Agente postale ausiliario dell’ufficiale giudiziario

Per il Palazzaccio, il motivo è fondato e va accolto.

Come ha avuto già modo di affermare la giurisprudenza, infatti, scrivono i giudici, “l’agente postale è un ausiliario dell’ufficiale giudiziario (v. Cass., 18/2/2015, n. 3263), e pertanto, “in tema di notificazioni a mezzo posta, li relativo servizio si basa su di un mandato ex lege tra colui che richiede la notificazione e l’ufficiale giudiziario che la esegue, eventualmente avvalendosi, quale ausiliario, dell’agente postale, nell’ambito di un distinto rapporto obbligatorio, al quale il notificante rimane estraneo. Ne consegue che, in caso di ritardo nella consegna dell’avviso di ricevimento relativo alla notifica di atti giudiziari effettuati a mezzo posta, nei confronti del richiedente la notifica risponde, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., esclusivamente l’ufficiale giudiziario, non anche l’agente postale del quale costui si avvalga” (così Cass., 12/02/2018, n. 3292; Cass., 24/11/2021, ท. 36505).

Tale principio è stato esplicitamente confermato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 477/2002; Corte Cost., n. 28/2004), proseguono dalla S.C. che, “nel dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4, comma 3, legge n. 890 del 1982 (notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona – per il notificante – alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario, anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, ha appunto affermato che gli effetti della notificazione a mezzo posta devono essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari – quale appunto l’agente postale – sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo”.

In altri termini, il rapporto obbligatorio si instaura tra “il richiedente la notifica e l’ufficiale giudiziario, mentre l’agente postale è un semplice ausiliario cui può far ricorso l’ufficiale giudiziario incaricato della notificazione”.

Risulta pertanto evidente che “tra l’ufficiale giudiziario e l’agente postale intercorre un rapporto obbligatorio, sulla cui base l’agente postale, in qualità di ausiliario, adempie al suo incarico, ed è all’ufficiale giudiziario che l’agente postale deve rispondere.  L’art. 6 L. n. 890 del 1982 conferma l’indicata ricostruzione, in quanto prevede che il pagamento della indennità per lo smarrimento dei pieghi ‘è effettuato all’ufficiale giudiziario’, il quale ne corrisponde l’importo ‘alla parte che ha richiesto la notificazione dell’atto, facendosene rilasciare ricevuta’.

La decisione

Per cui, “nei confronti dei terzi (tra i quali è compreso ovviamente il richiedente la notificazione), in caso di ritardo nella spedizione o nel recapito dell’atto notificato a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 1228 del codice civile risponde pertanto solo l’ufficiale giudiziario che dell’agente postale si è avvalso quale ausiliario”.

In sostanza, la chiara dizione contenuta nelle norme di cui alla legge n. 890/1982 consente di dare questa spiegazione: “il servizio di notificazione si basa su di un mandato ex lege tra l’avvocato che richiede la notificazione e l’ufficio notifiche che presta il servizio”.

In definitiva, il ricorso è accolto.

Allegati

sospeso avvocato non paga affitto

Sospeso l’avvocato che non paga l’affitto

Illecito disciplinare avvocato

Va sospeso l’avvocato che non paga l’affitto. Commette, infatti, un illecito disciplinare l’avvocato che non adempie le obbligazioni verso terzi derivanti da un contratto di locazione, causando un debito di oltre 50.000 euro per bollette di utenze e canoni insoluti. Il Consiglio Nazionale Forense (CNF) nella sentenza n. 118/2024 ha ritenuto che tale comportamento violi l’art. 64 del Codice Deontologico Forense. Gli avvocati invero hanno il dovere di adempiere a tutte le loro obbligazioni, anche verso i terzi. La violazione di tale dovere può comportare l’applicazione di sanzioni disciplinari, come la sospensione dall’attività professionale.

Canoni e bollette non pagate: procedimento disciplinare per l’avvocato

Un avvocato viene sottoposto a un procedimento disciplinare a cui consegue la sanzione disciplinare della sospensione dall’attività professionale per 4 mesi. Il legale è stato ritenuto responsabile del mancato pagamento dei canoni di locazione dell’unità immobiliare adibita a studio, delle utenze di acqua e gas e degli oneri condominiali.

Il legale si è reso responsabile anche della violazione degli obblighi di custodia e di manutenzione degli impianti, occupando i locali in violazione della normativa sulla sicurezza, per poi abbandonarli lasciandoli in un grave stato di degrado, inagibilità e inutilizzabilità con conseguenti danni e oneri a carico del locatore.

L’avvocato impugna la decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina davanti al CNF invocando  la propria assenza di responsabilità, eccependo il travisamento dei fatti e il difetto di prova e contestando l’eccessività della sanzione.

L’avvocato che non paga i canoni lede l’immagine della categoria

Per il CNF però il ricorso dell’avvocato è infondato e va rigettato.

L’avvocato ha il dovere di adempiere puntualmente alle proprie obbligazioni, anche nei confronti dei terzi. Tale dovere deriva sia da norme giuridiche che deontologiche. L’articolo 64 del Codice di deontologia forense obbliga l’avvocato ad adempiere le obbligazioni che lo stesso assume in confronti dei terzi. Il mancato adempimento di detti obblighi crea un danno all’affidamento dei terzi nella capacità dell’avvocato di rispettare i propri doveri professionali. Tale condotta inoltre, danneggia l’immagine della professione forense nel suo complesso.

L’illecito risulta ancora più grave perché l’avvocato non ha adempiuto ai propri obblighi contrattuali neanche dopo aver ricevuto protesti, sentenze, atti di precetto e richieste di pignoramento.

Corretta la sanzione applicata, la violazione del solo articolo 64 del codice deontologico prevede infatti la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione da un minimo di 2 a un massimo di 6 mesi. Sulla misura della sanzione hanno inciso la durata a delle condotte, i danni economici arrecati al locatore, i precedenti disciplinari del legale e il discredito che tali condotte hanno arrecato all’immagine della categoria forense nel suo complesso.

Allegati

Autovelox: basta la segnalazione Per la Cassazione, non è necessario che il cartello segnali che l'apparecchio rilevi la velocità media del veicolo

Autovelox: è sufficiente che il cartello lo segnali

Per l’autovelox basta la segnalazione. L’obbligo è assolto, infatti, se il cartello avverte che la strada è sottoposta al controllo elettronico della velocità, senza necessità di dover specificare che l’apparecchiatura effettua il calcolo della velocità media. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19377-2024.

Autovelox non segnalato

Una società si oppone al verbale con cui le è stata contestata, a un automezzo di sua proprietà, la violazione del superamento del limite di velocità su un tratto di strada. Il ricorso viene rigettato dal Giudice di Pace. La società appella la decisione e il tribunale annulla la sanzione. Per il giudice dell’impugnazione la violazione è stata accertata con un’apparecchiatura elettronica che misura la velocità dei veicoli in relazione alla velocità media tenuta in un determinato tratto stradale. Questa caratteristica di rilevamento però non è stata adeguatamente segnalata agli automobilisti. Il cartello riporta infatti solo la dicitura “controllo elettronico della velocità”, senza fare alcun riferimento al calcolo della velocità media. La rilevazione della velocità effettuata in questo modo quindi è illegittima perché:

  • non preceduta da idonea segnalazione, come previsto dall’articolo 142, comma 6 del codice della strada;
  • l’apparecchio ha preso in considerazione due punti del tratto stradale, uno iniziale e uno finale, di cui però solo il primo può essere visibile.

A dire della ricorrente, il controllo basato sulla velocità media non è idoneo a invitare i conducenti alla prudenza e neppure a far affidamento sul controllo elettronico, che normalmente viene eseguito su un punto fisso.

Cartello autovelox deve segnalare solo controllo velocità

Il Comune opposto contesta la decisione del Tribunale e la Cassazione accoglie il ricorso.

Per gli Ermellini il Tribunale ha errato nel considerare inadeguato il cartello di segnalazione dell’apparecchio elettronico per il rilevamento della velocità per la mancata indicazione del controllo mediante il calcolo della velocità media.

Tale ragionamento non può essere condiviso perché non è conforme alla normativa in materia.

Il codice della strada consente infatti l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche per il controllo della velocità anche per calcolare la velocità media su determinati tratti di strada, stabilendo che le stesse debbano essere segnalate con impiego di cartelli o dispositivi luminosi.

Per la legge quindi l’uso di questi apparecchi richiede solo un’adeguata segnalazione. La normativa non prevede regole distinte per gli apparecchi che rilevano la velocità media su determinati tratti stradali e quelli che compiono il controllo su un punto fisso.

L’obbligo di segnalazione pertanto deve ritenersi soddisfatto quando è presente un cartello che avverte che quel tratto di strada è sottoposto al controllo elettronico della velocità, senza ulteriori specificazioni.

Leggi anche Autovelox, tutor e telelaser cosa cambia

Allegati

avvocato problemi salute mandato

L’avvocato con problemi di salute deve rinunciare al mandato Per il CNF, l'avvocato che ha problemi di salute deve dismettere il mandato se non può assolvere la professione nel rispetto delle regole

Problemi di salute non scriminano gli illeciti disciplinari

Il CNF nella sentenza n. 127-2024, pubblicata il 15 luglio 2024 sul sito del Codice deontologico, precisa che l’avvocato con problemi di salute deve rinunciare al mandato; non è giustificato e quindi è comunque punibile se ha commesso plurimi illeciti disciplinari connotati da una certa gravità. I problemi personali e familiari possono rilevare al limite solo ai fini del trattamento sanzionatorio. Confermata quindi la sospensione dalla professione per 4 anni.  

Avvocato: sospensione dalla professione per 4 anni

Nella vicenda, un avvocato viene sottoposto a diversi procedimenti disciplinari per vari capi di incolpazione. I procedimenti vengono riuniti e conclusa l’istruttoria dibattimentale l’avvocato viene sanzionato con la sospensione dall’attività professionale per 4 anni  a causa del numero e della gravità delle contestazioni a sua carico, di preesistenti procedimenti disciplinari e di altri ancora aperti.

L’avvocato ricorre al CNF per eccepire la prescrizione di alcuni procedimenti, per chiedere la sospensione in relazione ad alcuni capi di incolpazione, ma soprattutto per chiedere l’assoluzione dagli addebiti che gli sono stati contestati e in subordine la riduzione della sanzione disciplinare applicata.

Problemi di salute e familiari non considerati

Il CNF fissa l’udienza pubblica per la trattazione del ricorso, ma la difesa dell’incolpato presenta istanza di rinvio per legittimo impedimento dell’interessato a causa di un ricovero ospedaliero per un intervento chirurgico.

Avviato e istruito il procedimento il CNF respinge il ricorso dell’avvocato perché infondato. Il ricorrente nel difendere la propria posizione si duole del fatto che non siano state prese in considerazione le sue condizioni di salute (problemi cardiaci) e i suoi problemi familiari (separazione dalla moglie) a giustificazione delle manchevolezze del suo operato professionale.

Problemi di salute e personali non scriminano illeciti gravi

Il CNF però dichiara di condividere il pensiero e le conclusioni del Consiglio territoriale. I problemi di salute e familiari possono infatti incidere, al limite, sul trattamento sanzionatorio da applicare, ma non sulla punibilità dell’illecito disciplinare.

Nel caso specie, inoltre, non si possono trascurare gli innumerevoli capi di incolpazione conseguenti alla contestazione di gravi inadempienze, tra le quali assumono particolare rilievo quelle che si sono tradotte in veri e propri raggiri commessi in danno dei clienti. Le condotte contestate al legale sono risultate sistematiche, ripetute e seriali, frutto di una condotta connotata dalla volontà di raggirare, che reca un danno enorme al prestigio e alla immagine della classe forense nel suo complesso.

Avvocato deve dismettere il mandato

Il CNF ribadisce quindi che i problemi di salute o personali non possono giustificare le condotte dell’avvocato. Quando l’avvocato vive situazioni così gravi da ostacolare lo svolgimento della professione e a compromettere l’adempimento di tutti i doveri che la stessa comporta, il professionista deve dismettere il mandato e rifiutare eventuali nuovi incarichi se riconosce di non poterli adempiere adeguatamente.

Atteggiamento psicologico teso al raggiro e alla menzogna

Nessun problema di salute può giustificare così tanti illeciti come quelli commessi dal ricorrente, che ha dimostrato spregiudicatezza nel mentire e ingannare i clienti con raggiri e informazioni non veritiere sui contenziosi avviati.

Nel rigettare il ricorso il CNF sottolinea infatti l’atteggiamento psicologico del legale caratterizzato dal disprezzo per la sfera giuridica altrui, per il rapporto di colleganza e per la fiducia che i clienti avevano riposto in lui.

Il CNF sottolinea infatti che “Nella presente vicenda, al di là delle contestate fattispecie tipizzate di illecito deontologico, riveste particolare importanza la gravità della violazione ai principi ed alle norme generali di correttezza, lealtà, dignità, probità, decoro oltre che al rapporto fiduciario”. 

Va quindi confermata la sospensione dall’esercizio della professione per la durata di 4 anni a causa della gravità e del numero degli illeciti commessi dall’avvocato ricorrente.

Allegati

taglio compensi avvocato

Taglio compensi avvocato del 70% per le cause ripetitive Per la Cassazione, nella vigenza del DM 55/2014, il compenso dell'avvocato può anche essere tagliato del 70%, ossia sotto i valori minimi

Taglio compensi avvocato del 70%

Il compenso dell’avvocato  può essere ridotto anche del 70%, ossia sotto i valori minimi, se le cause non sono particolarmente complicate, se sono ripetitive e se hanno esito negativo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19025-2024, puntando l’accento sulla discrezionalità del giudice nella determinazione del compenso del legale.

Richiesta pagamento compensi

Un avvocato con ricorso 702 bis c.p.c. chiede la condanna della società che ha assistito in giudizio e che è stata posta in amministrazione e custodia giudiziaria al pagamento dei propri compensi pari a  86.668,00 euro, detratti gli acconti, poiché lo stesso dichiara di aver patrocinato per la S.r.l ben 10 procedimenti giudiziari.

La S.r.l costituitasi in giudizio contesta il compenso richiesto, ma Tribunale accoglie in parte la domanda dell’avvocato, liquidando un importo di 8.558,95 euro a titolo di onorario, oltre accessori.

Il ricorso in Cassazione

L’avvocato insoddisfatto dell’esito del giudizio ricorre in Cassazione sollevando 5 motivi di doglianza:

  • con il primo lamenta la riduzione del compenso nella misura del 70% in relazione ai ricorsi in opposizione agli atti esecutivi, perché calcolati sulla base dee tariffe minime ridotte poi del 70%. Nel calcolare le competenze, a suo dire, sono state violate le norme del DM n. 27/2018 perché le stesse consentivano la riduzione delle tariffe medie ma in misura non superiore al 50%;
  • con il secondo contesta al Tribunale di non aver calcolato il compenso per ogni procedimento, come richiesto, ma di aver effettuato un calcolo complessivo, con conseguente obbligo a carico dell’avvocato di dover restituire gli acconti versati e mai contestati dalla controparte;
  • con il terzo disapprova la mancata valutazione delle prove prodotte in relazione al valore di determinate controversie;
  • con il quarto discute la violazione di alcune disposizioni del DM n. 55/2014 perché in relazione alle opposizioni l’autorità giudicante ha ridotto i compensi del 70% rispetto ai valori minimi, mentre il giudice avrebbe dovuto applicare i valori medi e diminuirli eventualmente del 50%;
  • con il quinto e ultimo motivo infine contesta al giudice di aver omesso di prendere in considerazione alcune circostanze, tra l’altro pacifiche e non contestate, come la corresponsione di acconti e quindi l’indicazione in parcella delle somme dovute a saldo. I Giudici avrebbero dovuto considerare l’attività svolta e già pagata con gli acconti senza indicare importi inferiori a quelli già incassati.

Corretto il taglio compensi avvocato del 70% per cause simili e con esito negativo

La S.C. accoglie il ricorso dell’avvocato in virtù della fondatezza del secondo motivo sollevato, con conseguente cassazione dell’ordinanza e rinvio al Tribunale in diversa composizione per statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Tuttavia, per gli Ermellini il primo motivo di ricorso è infondato perché il giudice, nel determinare il compenso dell’avvocato, ha un potere discrezionale, se motivato ed esercitato conformemente alle tariffe professionali. Tale potere gli permette di aumentare o ridurre il compenso purché non al di sotto dei minimi tariffari senza che rilevi l’istanza del professionista. Il professionista non può lamentare la violazione del principio della domanda solo perchè i giudici hanno ridotto gli importi al di sotto di quanto richiesto dalla società convenuta.

Fondato invece il secondo motivo perché i giudici hanno violato il principio secondo cui la liquidazione dei compensi, nel rispetto del DM 55/2014, deve avvenire per ogni fase del giudizio. Essi hanno inoltre travalicato i limiti della domanda, visto che l’avvocato aveva richiesto solo la liquidazione delle spettanze relative alla fase decisionale.

In parte inammissibile e in parte infondato è il terzo motivo del ricorso perché se è possibile adeguare gli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, il giudice deve anche verificare l’attività svolta nel caso specifico, per stabilire se in effetti il valore della domanda è un parametro di riferimento idoneo o se, al contrario, lo stesso  risulta del tutto inadeguato. Nel caso di specie l’avvocato ricorrente non ha precisato i termini esatti della controversia ossia i fatti posti a fondamento della domanda e il diritto reale a cui si riferiva l’esercizio del possesso, per verificare la correttezza o meno della scaglione di riferimento per cui nulla può lamentare.

Valori minimi compensi

Infondato invece il quarto motivo perché nel caso di specie non si può applicare la sbarramento previsto dal DM n. 55/2014 modificato dal DM n. 37/2018, che vieta al giudice di scendere sotto i valori minimi e inderogabili.

Nel caso di specie trova applicazione il DM n. 55/2014 nella versione precedente alla riforma del 2018, che consentiva al giudice di diminuire i valori medi fino al 70% per la fase istruttoria, evitando tuttavia di ridurre  fino al punto di riconoscere all’avvocato compensi puramente simbolici e comunque motivando la propria decisione. I giudici di merito hanno infatti calcolato il compenso in base al valore dello scaglione minimo e lo hanno ridotto del 70% perché

  • tutte le opposizioni si riferivano a contestazioni del credito molto simili tra loro;
  • le stesse hanno avuto un esito negativo;
  • la società era soggetta a custodia giudiziaria;
  • le cause non presentavano questioni di fatto o di diritto particolarmente complesse.

La riduzione del 70% del compenso quindi non viola la legge anche perchè la decisione è stata adeguatamente  motivata.

Infondato infine anche il quinto motivo perché l’omesso esame di elementi istruttori non integra l’omesso esame di un fatto storico e perché le questioni indicate dal ricorrente nella censura non sono “fatti storici”. Il Tribunale ha considerato tutti gli elementi utili, comprese le prestazioni eseguite e gli acconti versati, al fine di determinare la somma corretta da erogare, per cui il motivo sollevato è del tutto infondato.

Allegati

revisione assegno divorzio convivenza

Assegno di divorzio all’ex moglie “indigente” anche se convive Per la Cassazione, qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge indigente, se quest’ultimo è privo dei mezzi adeguati, conserva il diritto all'assegno divorzile

Revisione delle condizioni di divorzio

Il caso in esame attiene al tema della revisione delle condizioni di divorzio in relazione al quale la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso di specie, con ordinanza n. 13739/2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex moglie e ha cassato il decreto impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Nella specie, la Corte ha anzitutto ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione alle condizioni necessarie affinché si possa procedere alla revisione dell’assegno divorzile.

Ciò posto, il Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che la Corte d’appello, nella precedente fase di giudizio, aveva sminuito, nell’ambito della propria decisione, l’elemento costitutivo della convivenza della beneficiaria dell’assegno.

La giurisprudenza in materia di convivenza

In particolare, ha precisato la Corte, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di revisione dell’assegno divorzile, afferma costantemente che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto (…) non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza”.

Componente compensativa dell’assegno di divorzio

Proseguendo l’esame in ordine alla possibile revoca dell’assegno divorzile nel caso di specie, la Corte ha ricordato che “qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa”.

Sulla scorta del percorso argomentativo offerto dalla Corte, la stessa ha dunque concluso il proprio esame affermando che “la revisione dell’assegno richiede la presenza di ‘giustificati motivi’ e impone la verifica sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali”.

La decisione

Per le ragioni sopra brevemente rappresentate, la Corte ha dunque accolto il ricorso proposto dall’ex moglie avverso il provvedimento adottato dal Giudice di prime cure con cui veniva rigettato il reclamo, proposto dalla beneficiaria, in relazione alla riduzione dell’assegno divorzile in suo favore.

Allegati

tappi attaccati bottiglie

Tappi attaccati alle bottiglie: al via l’obbligo Dal 3 luglio 2024 in base alla Direttiva UE SUP i tappi "solidali" dovranno restare attaccati ai contenitori di plastica per ridurre la dispersione e favorire il riciclo

Tappi “solidali: dal 3 luglio in vigore l’obbligo della Direttiva UE

Dal 3 luglio 2024 tutte le aziende che producono bevande contenute nelle bottiglie di plastica devono rispettare l’obbligo del “tappo solidale”. Lo ha stabilito la Direttiva UE 2019/904 sulla plastica monouso finalizzata a ridurre l’incidenza dei prodotti di plastica sull’ambiente.

L’articolo 17 della Direttiva, dedicato al recepimento, prevede che gli Stati debbano applicare le disposizioni necessarie per conformarsi all’obbligo previsto dall’articolo 6, relativo ai tappi “solidali” a partire dal 3 luglio 2024.

Quest’obbligo è solo una delle tante misure adottate dalla Direttiva SUP (Single Use Plastics Direttive) per contrastare l’inquinamento delle acque da parte delle bottiglie di plastica, troppo spesso gettate ovunque, soprattutto in mare e sulla spiaggia, con conseguenze estremamente dannose sulla vegetazione e sugli animali.

Divieto plastica monouso

La Direttiva, lo ricordiamo, ha già posto il divieto di vendita dei prodotti di plastica monouso come i piatti, le posate, le cannucce e i cotton-fioc, a partire dal 2021.

Il 2024 invece è l’anno di entrata in vigore dei tappi “solidali, vediamo cosa dice la normativa europea al riguardo.

Lotta alla dispersione dei tappi di plastica

Nel considerando n. 17 la Direttiva fa presente come i tappi e i coperchi di plastica dei contenitori delle bevande siano tra gli oggetti di plastica maggiormente rinvenuti sulle spiagge dell’Unione Europea.

I contenitori delle bevande di plastica monouso dovrebbero quindi essere immessi sul mercato solo se sono in grado di soddisfare certi requisiti di progettazione in grado di ridurre significativamente la dispersione nell’ambiente dei tappi di plastica.

Nell’articolo 6 invece, dedicato ai requisiti dei prodotti in plastica, la Direttiva stabilisce specificamente che gli Stati membri devono provvedere a che i prodotti in plastica monouso indicati nella parte C dell’allegato, con i relativi tappi plastica “possano essere immessi sul mercato solo se i tappi e i coperchi restano attaccati ai contenitori per la durata delluso previsto del prodotto”. 

L’allegato C specifica infatti quali sono i prodotti di plastica monouso indicati nell’articolo 6, che devono presentare i requisiti sopra descritti, ossia i contenitori per bevande con una capacità massima di 3 litri, ossia i recipienti che contengono liquidi, come bottiglie per bevande con i relativi tappi, nonché gli imballaggi compositi di bevande con i relativi tappi e coperchi.

Tappi attaccati alle bottiglie: quali vantaggi?

L’obbligo di produrre contenitori di plastica con i tappi di chiusura progettati in modo tale da restare attaccati alle bottiglie mirano a realizzare due obiettivi fondamentali della Direttiva:

  • ridurre la dispersione dei piccoli pezzi di plastica. I tappi di plastica dei contenitori, infatti sono molto piccoli e leggeri, per cui possono essere trasportati facilmente dal vento e, aspetto ancora più pericoloso, possono essere ingeriti dagli animali;
  • facilitare la fase del riciclo: se il tappo resta ben attaccato al suo contenitore questi due componenti possono essere riciclati insieme. In questo modo la quantità di plastica riciclata aumenta e il procedimento di riciclo risulta senza dubbio più efficiente.

Le altre misure della Direttiva SUP per ridurre la plastica

Come anticipato, la misura che riguarda i tappi di plastica è solo una delle iniziative intraprese a livello europeo per ridurre la quantità di plastica immessa nell’ambiente.

La Direttiva SUP prevede infatti interventi finalizzati a ridurre il consumo dei prodotti di plastica monouso, dispone restrizioni all’immissione sul mercato di certi prodotti in plastica, stabilisce, come appena visto per i tappi, determinanti requisiti di costruzione dei prodotti in plastica, introduce precisi requisiti di marcatura dei prodotti, estende la responsabilità del produttore, impone agli Stati di adottare le misure necessarie per attuare in modo efficace la raccolta differenziata e stabilisce che gli Stati debbano adottare anche misure di sensibilizzazione per informare i consumatori e incentivare condotte più responsabili per la tutela dell’ambiante e la salute.

Allegati

stop obbligo vaccinale minori

Stop all’obbligo vaccinale Un emendamento al decreto liste d'attesa elimina l'obbligo vaccinale per i minori d'età fino a 16 anni per determinate malattie

Decreto liste d’attesa: l’emendamento sull’obbligo vaccinale

Durante la fase di conversione del decreto legge del 7 giugno 2024 n. 73, finalizzato a ridurre la durata delle liste di attesa, dall’ordine del giorno del 3 luglio 2024 della decima Commissione permanente che si occupa anche della materia sanitaria, a pag. 58, emerge un emendamento sulla abolizione dell’obbligo vaccinale presentato dal senatore legista Claudio Borghi.

Leggi anche Liste d’attesa: il piano del governo

L’obbligo vaccinale viola l’art. 32 della Costituzione

Con l’emendamento 3.0.7 il senatore modifica l’articolo 1 e sopprime il comma 3 dell’articolo 3 e il comma 5 dell’articolo 3 bis del decreto legge n. 73 del 7 giugno 2017, convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017.

La proposta di modifica tiene conto della situazione attuale degli obblighi vaccinali come regolamentata nel nostro paese rispetto al panorama normativo nazionale e internazionale.

L’obbligo vaccinale contemplato dal nostro ordinamento si porrebbe in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione per quanto riguarda il tema dei trattamenti sanitari obbligatori.

L’emendamento proposto vuole bilanciare i vari interessi in gioco e meritevoli di tutela che emergono dalla legge sui vaccini come il diritto allo studio, all’inclusione sociale, alla salute e all’uguaglianza.

Come cambia il decreto n. 73/2017 sulla prevenzione vaccinale

In base alla proposta di emendamento il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1del decreto legge n. 73/2017, che al primo comma elenca gli obblighi vaccinali obbligatori e gratuiti previsti in base agli obblighi assunti in sede europea e internazionale potrebbe assumere il seguente tenore letterale:

“Agli stessi fini di cui al comma 1, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati sono altresì  gratuite e raccomandate (e non più obbligatorie), in base alle specifiche indicazioni del Calendario vaccinale nazionale relativo a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni di seguito indicate:

  1. anti-morbillo;
  2. anti-rosolia;
  3. anti-parotite;
  4. anti-varicella.”

Il secondo periodo del comma 2 invece potrebbe prevedere che:“Conseguentemente il soggetto immunizzato adempie all’obbligo vaccinale di cui al presente articolo, (soppressa la frase: “di norma e comunque nei limiti delle disponibilità del Servizio sanitario nazionale”), con vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene per la malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.” 

Al comma 3 al termine “pediatra di libera scelta” verrebbe aggiunto il termine “o dal medico specialista”: “Salvo quanto disposto dal comma 2, le vaccinazioni di cui al comma 1 (e al comma 1-bis) possono essere omesse o differite solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta o dal medico specialista.

Gli obblighi soppressi

Sarebbero infine soppressi:

  • il comma 3 dall’articolo 3 che così recita: “Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la presentazione della documentazione di cui al comma 1 costituisce requisito di accesso. Per gli altri gradi di istruzione (e per i centri di formazione professionale regionale), la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola o ( al centro ovvero agli esami);
  • Il comma 5 dall’articolo 3 bis che dispone: Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la mancata presentazione della documentazione di cui al comma 3 nei termini previsti comporta la decadenza dall’iscrizione. Per gli altri gradi di istruzione e per i centri di formazione professionale regionale, la mancata presentazione della documentazione dì cui al comma 3 nei termini previsti non determina la decadenza dall’iscrizione né impedisce la partecipazione agli esami.”

In pratica la mancata presentazione della documentazione comprovante l’adempimento degli obblighi vaccinali:

  • non sarebbe più requisito di accesso alle scuole ai servizi e alle scuole dell’infanzia;
  • non comporterebbe più la decadenza dall’iscrizione per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, incluse quelle private non paritarie.