guida senza patente

Guida senza patente: multa al genitore che non vigila sul figlio Cassazione: genitore multato (con sanzione da oltre 5mila euro) per omessa vigilanza sul figlio minorenne che guida una moto senza patente

Guida senza patente

Guida senza patente: con l’ordinanza n. 14000/2025, la Seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio chiave in materia di responsabilità genitoriale per illecito amministrativo: quando un minore guida un motociclo senza patente, il genitore può essere sanzionato per culpa in vigilando, a meno che non dimostri di aver fatto tutto quanto possibile per impedire la condotta.

Minorenne alla guida di una moto senza patente

Il caso trae origine da un ricorso proposto da un genitore, destinatario di una sanzione amministrativa da 5.110 euro per la violazione dell’art. 116, commi 15 e 17, del Codice della Strada. Il verbale era stato elevato dalla Polizia Stradale di Lecce, dopo aver accertato che il figlio minorenne aveva condotto una Honda 150 cc pur essendo privo di patente, mai conseguita.

Secondo gli agenti, il genitore, pur non autorizzando esplicitamente il comportamento del figlio, non avrebbe esercitato una vigilanza adeguata, incorrendo così nella responsabilità diretta prevista dall’articolo 2 della legge n. 689/1981.

Il percorso giudiziario

La contestazione è stata inizialmente respinta dal Giudice di Pace di Lecce (sentenza n. 2772/2020) e successivamente confermata dal Tribunale, che ha ribadito come il genitore fosse tenuto a impedire materialmente al minore di mettere in atto la condotta illecita. Non è sufficiente, infatti, una vigilanza astratta o generica: è richiesta una condotta attiva e preventiva, volta ad evitare ogni rischio di infrazione.

Cassazione: responsabilità salvo prova contraria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14000 del 2025, ha confermato integralmente le decisioni di merito, specificando che la responsabilità genitoriale per le sanzioni pecuniarie comminate ai figli minorenni è presunta, personale e diretta, e può essere esclusa solo se si fornisce una prova rigorosa dell’impossibilità di impedire l’evento.

In altre parole, il genitore può evitare la multa solo se dimostra, con elementi concreti, di avere:

  • esercitato un controllo continuo e adeguato sul figlio;

  • adottato tutte le misure ragionevoli per impedirgli l’uso del veicolo;

  • non avuto in alcun modo la possibilità concreta di impedire l’infrazione.

Nel caso di specie, tali requisiti non risultavano soddisfatti, e la multa è stata ritenuta legittima.

Culpa in vigilando

La decisione si fonda su un principio consolidato: in caso di illeciti stradali commessi da minorenni, i genitori rispondono non come meri garanti astratti, ma in quanto obbligati a una vigilanza attiva e continua, soprattutto in situazioni ad alto rischio come l’utilizzo di veicoli a motore. La culpa in vigilando, in ambito amministrativo, comporta dunque una responsabilità autonoma, che può derivare anche da comportamenti omissivi.

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addebito della separazione

Addebito della separazione al marito che disprezza  la moglie Addebito della separazione al marito che quotidianamente e in presenza di terze persone dimostra disprezzo nei confronti della moglie

Marito sprezzante: addebito della separazione

Sull’addebito della separazione al marito della coppia separata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12799/2025 dichiara di condividere le conclusioni dei giudici di merito. Dalle prove emerse nel giudizio di primo e di secondo grado è emerso infatti che la fine del matrimonio è attribuibile solo al marito. Costui, anche in presenza di terzi, ha infatti sempre palesato il proprio disprezzo nei confronti della moglie.

Addebito della separazione: marito autoritario

Il Tribunale di Milano  pronuncia la separazione personale di due coniugi, addebitandola al marito. Il marito appella la decisione, contestando l’addebito a suo carico.

Marito responsabile della fine del matrimonio

La Corte d’Appello di Milano però conferma la decisione di primo grado su questo punto. Per l’autorità giudiziaria la condotta dell’uomo verso la moglie è stata sempre autoritaria e quotidianamente sprezzante. È proprio questo comportamento ad aver compromesso irrimediabilmente l’unione matrimoniale. La testimonianza della cognata ha confermato questa tesi, confermando il continuo disprezzo del marito nei confronti della coniuge. La Corte ha anche evidenziato che il marito ha costretto la figlia e il suo compagno a lasciare un appartamento di sua proprietà dopo un litigio con la moglie. Ragione per la quale la donna ha abbandonato la casa coniugale per trasferirsi altrove. Per la Corte è quindi indubbio che la responsabilità della fine del matrimonio sia da attribuire interamente all’uomo. Il marito però non accetta queste conclusioni e per questo ricorre in Cassazione.

Contestazioni all’addebito della separazione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 151 c.c., la nullità della sentenza per mancata pronuncia su una specifica domanda, l’assenza dei presupposti per l’addebito a suo carico, l’errata lettura e valutazione delle dichiarazioni testimoniali e dei documenti e la mancata pronuncia sulla domanda di addebito formulata nei confronti della moglie.

Omessa pronuncia su addebito separazione alla moglie

Il ricorrente lamenta in particolare che la sentenza avrebbe omesso di pronunciarsi sulla sua domanda di addebito contro la moglie. Detta richiesta tra l’altro, ampiamente argomentata e supportata da documentazione (anche medica), avrebbe offerto una valutazione delle dichiarazioni testimoniali non coerente, ritenendo attendibile, nonostante le contraddizioni, la testimonianza della figlia, rancorosa nei confronti del padre per la questione dell’appartamento. Sottolinea anche l’omessa valutazione di altre testimonianze. Si duole infine della mancata risposta alla sua domanda di addebito, fondata sul rifiuto della moglie di accompagnarlo a un intervento chirurgico, sugli insulti e le invettive a lui rivolte, e sulla violenza fisica perpetrata dalla moglie dopo il suo intervento al cuore.

Abbandono del tetto coniugale della moglie

L’uomo evidenzia inoltre che la moglie aveva appoggiato la figlia nella disputa sull’appartamento, assumendo un contegno offensivo, allontanandolo dal letto coniugale e abbandonandolo a sé stesso. Afferma infine di essere stato vittima di aggressione fisica e verbale da parte della moglie nonostante fosse convalescente da un intervento di bypass coronarico, circostanza che lo aveva costretto a recarsi al Pronto Soccorso.

Provate le continue condotte sprezzanti

La Corte di Cassazione nel pronunciarsi sul motivo incentrato sulla contestazione dell’addebito della separazione, lo dichiara inammissibile. Per gli Ermellini, in relazione all’addebito della separazione a carico della moglie, il ricorrente si è limitato a fornire una diversa valutazione degli esiti istruttori, il che non è sindacabile in sede di legittimità, essendo il giudizio sui fatti riservato al giudice di merito. La denuncia dell’omessa pronuncia sulla domanda di addebito da parte della Corte d’Appello non supera la soglia di ammissibilità. Il ricorrente non ha precisato il contenuto esatto della domanda formulata in primo grado e in appello.

Addebito della separazione: marito unico responsabile

In ogni caso, la Corte d’Appello ha ritenuto la responsabilità esclusiva del marito per la fine dell’unione, rigettando implicitamente la domanda di addebito formulata dal marito. Per questo non si configura vizio di omessa pronuncia. Per il resto, il motivo si risolve in censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. Del resto, la valutazione delle prove e l’esame dei documenti sono attività riservate al giudice di merito, le cui conclusioni non sono sindacabili in Cassazione se adeguatamente motivate. La Corte ha ritenuto provate le condotte quotidianamente disprezzanti del marito nei confronti della moglie, sufficienti ad addebitare la separazione, il ricorrente invece ha semplicemente contrapposto una sua diversa valutazione.

 

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Formweb

Formweb, il portale per gli avvocati Processo amministrativo telematico: arriva Formweb, il portale per gli avvocati e i collaboratori per il deposito degli atti

Processo amministrativo telematico: Formweb

Il processo amministrativo telematico compie un altro passo in avanti. È stato introdotto infatti il “Formweb”, un nuovo portale, il cui funzionamento è stato dettagliato nel decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 109, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 15 maggio 2025.

Il decreto è in vigore dal 20 maggio 2025 e dal 1° giugno 2025 sarà possibile accedere al fascicolo informatico con identità digitale.

In alcuni uffici inizierà una fase sperimentale del Formweb. Il suo impiego a regime diventerà obbligatorio dal 1° febbraio 2026 per il deposito degli atti.

Fino al 31 gennaio 2026, presso tutti i Tribunali amministrativi regionali e il Consiglio di Stato, continueranno pertanto a valere le vecchie regole di deposito, ossia a mezzo PEC e con upload.

Formweb: come funziona

Formweb consiste, nello specifico, in un’interfaccia web per il deposito guidato di atti e documenti. Esso genera un “Riepilogo Deposito Formweb” da sottoscrivere digitalmente.

I depositi sono tempestivi e vengono documentati con la ricevuta automatica del portale che deve essere generata entro le 24 del giorno di scadenza.

PAT: accesso a Formweb e responsabilità

Avvocati, parti e collaboratori dei difensori potranno accedere al portale Formweb. L’accesso dovrà avvenire tramite identità digitale (SPID, CIE, CNS). Da segnalare l’importante novità rappresentata dall’estensione ai collaboratori. La responsabilità esclusiva per i depositi resta però del difensore.

Depositi cartacei: come funziona

Il deposito cartaceo sarà ancora consentito, ma solo per eccezionali ragioni tecniche come il malfunzionamento del sistema informatico, l’incompatibilità dei documento con il SIGA e casi particolari previsti dalla normativa. Non costituiscono eccezione però le dimensioni dei documenti per l’upload, a meno che il file non possa essere diviso o compresso.

Evoluzione del processo amministrativo telematico

Il processo amministrativo è telematico dal 2017. Con Formweb si fa un ulteriore passo in avanti nel superare il sistema PEC e upload. Il nuovo portale presenterà l’indubbio vantaggio di semplificare gli adempimenti, in base all’obiettivo espresso dal nostro legislatore.

procedimento disciplinare

Avvocati: ok cancellazione durante il procedimento disciplinare La Consulta dichiara incostituzionale il divieto di cancellazione dall'albo degli avvocati durante il procedimento disciplinare

Cancellazione avvocati procedimento disciplinare

Con la sentenza n. 70 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nella legge professionale forense che vieta all’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare di richiedere la cancellazione dall’albo professionale.

Libertà professionale e autodeterminazione

La questione è sorta nell’ambito di un giudizio dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, relativo al rigetto da parte del Consiglio dell’Ordine dell’istanza di cancellazione presentata da un avvocato affetto da gravi patologie, per via della pendenza di più procedimenti disciplinari a suo carico.

La Corte ha chiarito che il divieto di cancellazione, pur finalizzato a impedire che la rinuncia all’iscrizione possa neutralizzare l’efficacia dell’azione disciplinare, comprime in modo eccessivo diritti costituzionali fondamentali:

  • la libertà di autodeterminazione (art. 2 Cost.),

  • il diritto al lavoro e alla sua cessazione o trasformazione (art. 4 Cost.),

  • e il principio di proporzionalità (art. 3 Cost.).

In particolare, la norma ostacola la possibilità di accedere a prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedono la cancellazione, e limita la libertà di avviare una diversa attività lavorativa non compatibile con la permanenza nell’albo.

Nessuna giustificazione per la compressione dei diritti

La Consulta ha ritenuto che, pur essendo legittimo l’obiettivo di garantire l’azione disciplinare, questo può essere perseguito attraverso strumenti meno invasivi. L’attuale disposizione non è la misura meno restrittiva dei diritti fondamentali e, pertanto, viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità.

Effetti della pronuncia e ruolo del legislatore

La sentenza chiarisce che, in assenza di una disciplina sostitutiva, la cancellazione volontaria in pendenza di procedimento determina l’estinzione dello stesso. Tuttavia, l’azione disciplinare potrà essere riattivata in caso di richiesta di reiscrizione, purché non prescritta.

La Corte invita infine il legislatore a intervenire con una nuova norma che, pur salvaguardando l’efficacia dell’azione disciplinare, rispetti i diritti fondamentali dell’avvocato in linea con i parametri costituzionali.

obesità

Obesità: cosa prevede la proposta di legge Obesità: il 7 maggio la Camera ha approvato la proposta di legge per la cura e la prevenzione riconoscendola come malattia cronica

Obesità malattia cronica: ok della Camera

Il 7 maggio 2025 la Camera ha approvato la proposta di legge d’iniziativa del deputato Pella. Il testo contiene le “Disposizioni per la prevenzione e la cura dell’obesità.” Il documento normativo è ora all’esame del Senato. Esso detta i principi e le finalità per la prevenzione e la cura dell’obesità, riconoscendola come una malattia cronica, spesso correlata ad altre patologie. L’obiettivo principale della proposta consiste nel garantire la tutela della salute e migliorare le condizioni di vita dei pazienti. Il testo, composto da sei articoli, si occupa di regolamentare gli aspetti che si vanno a illustrare.

LEA e finanziamenti

Per assicurare equità e accesso alle cure, i soggetti affetti da obesità potranno accedere alle prestazioni previste dai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) erogati dal Servizio Sanitario Nazionale.

La legge prevede un programma nazionale per la prevenzione e la cura dell’obesità con un finanziamento di 700.000 euro per il 2025, 800.000 euro per il 2026 e 1,2 milioni di euro annui a partire dal 2027.

Queste risorse saranno ripartite tra le regioni tramite un decreto del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni.

Iniziative di prevenzione e di cura dell’obesità

Le iniziative finanziate mirano a perseguire diversi obiettivi.

  • Prevenire il sovrappeso e l’obesità, in particolare infantile, e le relative complicanze, migliorando nello stesso tempo la cura delle persone obese.
  • Sostenere e promuovere l’allattamento al seno, evidenziandone il ruolo nella prevenzione dell’obesità infantile e promuovendone la continuità almeno fino al sesto mese di età, anche nei luoghi di lavoro e negli asili nido.
  • Responsabilizzare i genitori nella scelta di un’alimentazione equilibrata per i figli, limitando il consumo di alimenti e bevande con un alto apporto energetico e con uno scarso valore nutrizionale.
  • Agevolare l’inserimento delle persone affette da obesità nelle attività scolastiche, lavorative e sportivo-ricreative.
  • Promuovere le attività sportive e la conoscenza delle regole alimentari nelle scuole primarie e secondarie per migliorare lo stile di vita degli studenti.
  • Avviare iniziative didattiche extracurriculari per l’attività sportiva e per la consapevolezza di un corretto stile di vita, nel rispetto dell’autonomia scolastica.
  • Trasmettere campagne di informazione tramite i mass media e le reti di prossimità (enti locali, farmacie, medici di medicina generale, pediatri) per diffondere regole semplici ed efficaci per un corretto stile di vita.
  • Educare sulla corretta profilassi dell’obesità e del sovrappeso.
  • Promuovere la conoscenza dei centri per i disturbi alimentari e per l’assistenza alle persone con obesità, per favorirne l’accesso anche in via preventiva.

Obesità: formazione e aggiornamento 

La proposta prevede una spesa di 400.000 euro annui a partire dal 2025 per promuovere la formazione e l’aggiornamento in materia di obesità e sovrappeso. I fondi sono destinati a studenti universitari, medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e personale del Servizio Sanitario Nazionale coinvolto nei processi di prevenzione, diagnosi e cura.

Un decreto del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Università e della Ricerca, stabilirà in seguito le misure per l’attuazione di tale formazione entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge.

Osservatorio per lo studio dell’obesità (OSO)

La proposta di legge vuole istituire, presso il Ministero della Salute, l’Osservatorio per lo studio dell’obesità (OSO).

Entro tre mesi, il Ministro della Salute definirà la composizione dell’OSO, che includerà rappresentanti del Ministero della Salute, del Ministero dell’Istruzione e del Merito, e delle società scientifiche più rappresentative nelle discipline della nutrizione e dell’alimentazione, il tutto a titolo gratuito. L’OSO avrà i seguenti compiti:

  • contribuire alla redazione del programma nazionale di prevenzione e di cura previsto dall’articolo 3;
  • verificare l’attuazione degli obiettivi e delle azioni previsti dal programma da parte delle regioni e delle province autonome.
  • svolgere attività di monitoraggio, di studio e di diffusione di stili di vita corretti.

L’Osservatorio opererà con le strutture e il personale già in dotazione al Ministero della Salute. Questo non comporterà nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Il Ministro della Salute presenterà annualmente alle Camere una relazione aggiornata sui dati epidemiologici e diagnostico-terapeutici acquisiti dall’OSO e sulle nuove conoscenze scientifiche sull’obesità.

Informazione e disposizioni finanziarie

Il Ministero della Salute dovrà individuare, promuovere e coordinare azioni di informazione, sensibilizzazione ed educazione. La finalità è di sviluppare la conoscenza di un corretto stile di alimentazione e nutrizione, favorire l’attività fisica e contrastare la sedentarietà. Queste azioni saranno realizzate anche attraverso le amministrazioni locali, gli istituti scolastici, le farmacie, i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e le reti socio-sanitarie di prossimità. Per queste attività è autorizzata una spesa di 100.000 euro annui a decorrere dal 2025.

Leggi anche l’articolo dedicato alla Sugar tax, la tassa sulle bevande zuccherate che mira a contrastare l’obesità

contributo unificato

Contributo unificato errato? Scatta la compensazione delle spese La Cassazione chiarisce che un errore nella determinazione del contributo unificato da parte dell'avvocato può giustificare la compensazione delle spese processuali

Contributo unificato errato e spese processuali

Un errore nella determinazione del contributo unificato può giustificare la compensazione integrale delle spese processuali. A stabilirlo è la Cassazione, terza sezione civile, con l’ordinanza n. 13145/2025, depositata il 20 maggio 2025.

La vicenda processuale

Nel giudizio d’appello, la parte ricorrente aveva erroneamente indicato come valore della controversia la somma di € 1.200,71, ai fini del pagamento del contributo unificato. Secondo la ricorrente, tale importo non avrebbe dovuto influenzare il valore effettivo della domanda. Riteneva che la liquidazione delle spese fosse stata operata su un errato scaglione tariffario.

Tuttavia, la Corte aveva condannato la parte a rimborsare € 1.378, oltre accessori. La ricorrente chiedeva invece che fosse applicato lo scaglione inferiore (fino a € 1.100), con liquidazione delle spese pari a € 332 oltre CPA, IVA e accessori.

Il principio di diritto espresso dalla Cassazione

Secondo la S.C., la dichiarazione del difensore relativa al contributo unificato non incide sul valore della causa, trattandosi di un’informazione rivolta al funzionario di cancelleria. Però, qualora l’indicazione erronea del valore sia tale da indurre in errore il giudice nella liquidazione delle spese, può costituire una “grave ed eccezionale ragione” per disporre la compensazione delle spese processuali, ex art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis.

La Corte ha inoltre ribadito che, ai fini della determinazione del valore della causa:

  • in primo grado, rileva la somma domandata o accordata;

  • in appello, conta solo la parte della pretesa ancora oggetto di contestazione o l’eventuale differenza accordata rispetto alla sentenza impugnata.

Nel caso concreto, la Cassazione ha accolto il ricorso in relazione al capo relativo alle spese del giudizio di appello, rideterminando i compensi per le quattro fasi indicate nel D.M. parametri forensi, oltre accessori.

Tuttavia, nonostante l’accoglimento parziale del ricorso, le spese del giudizio di legittimità sono state integralmente compensate. Secondo la Corte, non è equo che i costi dell’impugnazione, resa necessaria da un errore della parte, gravino sulla controparte che non ha nemmeno resistito all’impugnazione stessa.

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violenza domestica

Violenza domestica: la Cassazione valorizza gli indizi La Cassazione chiarisce che anche un solo episodio di violenza domestica può giustificare la separazione con addebito. Fondamentali anche gli indizi e le testimonianze indirette

Violenza domestica e separazione

In ambito familiare, ai fini della ricostruzione dei fatti nei procedimenti giudiziari – in particolare nelle cause di separazione personale tra coniugi – il giudice non può limitarsi a considerare solo le prove dirette e palesi. È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 10021/2025, affermando che la valutazione degli indizi è essenziale per accertare episodi di violenza domestica.

Un solo episodio può bastare per l’addebito

La vicenda trae origine da una causa di separazione in cui il Tribunale aveva addebitato la crisi coniugale al marito, ritenuto responsabile di atti di violenza contro la moglie. La Corte d’appello, tuttavia, aveva annullato tale addebito, non ravvisando prove sufficienti delle condotte contestate. Contro questa decisione la moglie ha proposto ricorso in Cassazione, che ha accolto la doglianza, cassando la sentenza impugnata e rinviando la questione a una diversa composizione della Corte territoriale.

La Suprema Corte ha ribadito un principio fermo nella sua giurisprudenza: anche un solo episodio accertato di percosse può giustificare la separazione con addebito, in quanto comportamento lesivo della dignità personale e tale da compromettere in modo irreversibile l’equilibrio della relazione coniugale.

Indizi strumenti fondamentali per accertare la verità

Nel confermare la centralità dell’approccio indiziario, la Cassazione evidenzia come, soprattutto nei procedimenti familiari, spesso legati a dinamiche intime e riservate, il giudice debba fondare il proprio convincimento anche su elementi indiretti. Tra questi:

  • le testimonianze de relato, provenienti dalla parte che denuncia i fatti;

  • le relazioni dei Servizi sociali, spesso fondamentali per rilevare situazioni di maltrattamento o disagio familiare.

La Corte sottolinea che queste fonti possono rappresentare indizi rilevanti, da valutare congiuntamente per ricostruire episodi di violenza fisica o psicologica difficilmente documentabili con prove dirette, come spesso accade nei contesti di abuso domestico.

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reti tra avvocati

Reti tra avvocati: cosa prevede la riforma forense Reti tra avvocati e reti multidisciplinari: cosa sono, come funzionano, autonomia degli avvocati e disciplina applicabile

Riforma Ordinamento Forense: la novità delle reti

La riforma dell’ordinamento forense 2025 prevede diversi punti di novità per gli avvocati. Una delle norme più interessanti da analizzare e comprendere è contenuta nell’articolo 15 della bozza del 15 aprile 2025 intitolato  Reti tra avvocati e reti multidisciplinari”. La disciplina delle reti però, nella sua completezza, è individuabile anche in altri articoli della Riforma. Ne è un esempio l’articolo 7 che impone il segreto professionale a tutti i componenti della rete professionale.

Reti tra avvocati e reti multidisciplinari: definizione

In base all’art 15 sopra menzionato la professione forense può essere esercitata in forma di rete, che può essere composta solo da avvocati o includere altre figure professionali. Nelle reti multidisciplinari devono esserci però almeno due avvocati iscritti all’albo. Gli altri professionisti possono partecipare alla rete, a condizione che siano anch’essi regolarmente iscritti ai propri albi.

I professionisti ammessi alla rete devono appartenere nello specifico alle categorie definite dal Ministro della Giustizia con il decreto n. 23 del 4 febbraio 2016.

Reti tra avvocati e multidisciplinari: albo

I contratti di rete tra avvocati devono essere iscritti in una sezione apposita dell’albo dell’ordine forense in cui ha sede la rete. Il contratto deve indicare la sede principale. In ogni caso la rete può avere anche sedi secondarie. L’avvocato che decide di partecipare alla rete deve informare il suo Ordine di appartenenza, se questo è diverso da quello in cui si trova il centro principale degli affari.

Costituzione e funzionamento della rete

Quando si costituisce una rete tra avvocati o una rete multidisciplinare è necessaria la presenza di un organo comune e di un fondo patrimoniale. Queste reti possono avere inoltre soggettività giuridica, se il contratto è stipulato formalmente con atto pubblico o con una scrittura privata autenticata. Il contratto inoltre deve essere iscritto in una sezione speciale dell’albo tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e degli altri ordini professionali coinvolti. La registrazione deve avvenire nel circondario in cui ha sede la rete.

Autonomia, libertà e obblighi avvocati aderenti

Anche se l’avvocato aderisce alla rete l’incarico professionale è sempre dato personalmente. Partecipare a una rete non priva il libero professionista della propria autonomia. L’avvocato deve restare sempre libero e indipendente nel suo giudizio e nello svolgimento dell’incarico. Ogni accordo contrario è nullo.

Un avvocato inoltre può partecipare anche a più di una rete e queste possono essere tra soli avvocati o di natura multidisciplinare.

L’attività professionale svolta tramite le reti crea infine precisi obblighi, ma anche diritti di natura previdenziale, come stabiliti dalle leggi in materia.

Accesso delle reti ad appalti privati

Le reti di avvocati o di natura multidisciplinare possono partecipare a incarichi e appalti privati, così come previsto dall’articolo 12, comma 3, della legge 12 maggio 2017, n. 81.

La disposizione prevede infatti che Al fine di consentire la partecipazione ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati, è riconosciuta ai soggetti che svolgono attività professionale, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, la possibilità:

  1. di costituire reti di esercenti la professione e consentire agli stessi di partecipare alle reti di imprese, in forma di reti miste, di cui all’articolo 3, commi 4-ter e seguenti, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, con accesso alle relative provvidenze in materia;
  2. di costituire consorzi stabili professionali;
  3. di costituire associazioni temporanee professionali, secondo la disciplina prevista dall’articolo 48 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, in quanto compatibile.”

Reti tra avvocati e multidisciplinari: normativa

Alle reti di avvocati o multidisciplinari si applica l’articolo 3, commi 4-ter e 4-quater, del decreto legge 10 febbraio 2009 n. 5, se è compatibile. Trattasi della disciplina dei contratti di rete tra imprese.

Le reti con soggettività giuridica possono accedere infine a procedure specifiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza su specifica richiesta.

 

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avvocato imputato

L’avvocato imputato non può difendersi da solo La Cassazione stabilisce che l’avvocato imputato non può difendersi da solo in un processo penale: serve sempre un difensore terzo

Autodifesa avvocato imputato

Avvocato imputato: con l’ordinanza n. 18353/2025, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione penale ha riaffermato un principio consolidato: l’autodifesa tecnica non è ammessa nel processo penale, nemmeno quando l’imputato è un avvocato iscritto all’albo speciale per il patrocinio in Cassazione. In caso di accusa penale, anche il legale indagato deve nominare un difensore terzo, non potendo rappresentarsi autonomamente in giudizio.

Il caso: autodifesa cassazionista accusata di stalking

La pronuncia trae origine dal ricorso presentato da un’avvocata cassazionista imputata per atti persecutori nei confronti dell’ex coniuge e della figlia. La donna aveva proposto ricorso personalmente, senza la nomina di un difensore, invocando il proprio diritto all’autodifesa come previsto, in via generale, dall’art. 13, comma 1, della legge n. 247/2012 (ordinamento forense).

Tuttavia, la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, rilevando la mancanza di un difensore formalmente nominato, condizione necessaria nei procedimenti penali.

Nessuna autodifesa tecnica nel processo penale

La Corte ha precisato che nel processo penale l’autodifesa non è ammessa in forma esclusiva. Sebbene l’art. 13, comma 1, della legge forense consenta all’avvocato di agire in proprio, tale disposizione non trova applicazione automatica nel giudizio penale, dove vigono regole speciali a tutela dell’effettività del diritto di difesa. L’articolo citato, infatti, deve essere coordinato con le specifiche norme procedurali di ciascun rito.

In particolare, nel procedimento penale, è essenziale garantire terzietà, oggettività e distacco nella strategia difensiva, obiettivi che sarebbero compromessi dalla coincidenza tra imputato e difensore. L’assenza di un filtro critico rispetto alla propria posizione può compromettere l’efficace contrapposizione tra difesa e accusa, principio cardine del giusto processo ex art. 111 Cost.

Incompatibilità con la logica del processo penale

La Cassazione esclude espressamente ogni interpretazione estensiva dell’art. 13 legge 247/2012 e dell’art. 86 c.p.c., quest’ultimo relativo esclusivamente al processo civile, dove è consentito alla parte munita dei requisiti di stare in giudizio senza il ministero di altro difensore. In ambito penale, al contrario, la natura degli interessi coinvolti, potenzialmente afflittivi per la libertà personale, impone la presenza di una difesa tecnica autonoma, distinta dalla persona dell’imputato.

La previsione non è soltanto formale: è funzionale a evitare conflitti interni e a preservare l’obiettività del contraddittorio, garantendo così i diritti dell’imputato in una prospettiva pienamente difensiva.

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convivenza more uxorio

Convivenza more uxorio: nessun rimborso per il mutuo dopo la separazione Convivenza more uxorio: i pagamenti per il mutuo sono un'obbligazione naturale, rimborso impossibile dopo la fine della relazione

Convivenza more uxorio e restituzione mutuo

L’ordinanza n. 11337/2025 della Cassazione ribadisce un principio chiave sui mutui per l’acquisto della casa quando finisce la convivenza more uxorio. I pagamenti effettuati da un partner all’altro durante la convivenza stabile sono adempimento di un’obbligazione naturale. Di conseguenza, una volta terminata la relazione, non è possibile chiedere la restituzione di queste somme. La Cassazione equipara infatti questi trasferimenti di denaro a un dovere morale e sociale insito nel rapporto di convivenza. La possibilità di un’azione di rimborso basata sull’ingiustificato arricchimento o su altre pretese restitutorie è quindi impossibile.

Obbligazione naturale nella convivenza more uxorio

Il Tribunale di Brescia condanna una donna a pagare 12.000 euro al suo ex convivente per lo “squilibrio economico” creatosi durante la loro convivenza more uxorio (dal 2012 al febbraio 2015). L’uomo sosteneva infatti di aver pagato le spese, le bollette e il mutuo della casa di proprietà della donna per tre anni (circa 28.800 euro), oltre ad aver comprato mobili e versato 10.000 euro per un’auto usata dalla compagna, la quale all’epoca era studentessa e non percepiva stipendio. L’uomo, rimasto senza abitazione dopo la fine della relazione, chiedeva la restituzione di 20.000 euro, invocando i principi di proporzionalità e adeguatezza e l’ingiustificato arricchimento.

Obbligazioni naturali? Nessun rimborso

La Corte d’appello di Brescia però riforma la sentenza, rigettando la domanda dell’uomo e condannandolo alle spese. I versamenti di denaro effettuati dall’uomo durante la convivenza costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale e come tale non ripetibile.

Esborsi sproporzionati e indebito arricchimento

L’uomo ricorre quindi in Cassazione, sollevando due motivi di doglianza.

Obbligazioni naturali solo per le spese ordinarie

Con il primo lamenta la nullità della sentenza e la violazione di varie norme civilistiche (artt. 2 Cost., 2034, 2041, 2043 c.c. e artt. 116, 232 c.p.c.). La Corte d’appello ha dato per provate le sue elargizioni, ma non ha considerato la sproporzione tra i suoi esborsi (25.400 euro), le sue condizioni economiche di operaio e l’indebito arricchimento della compagna. La Corte erra quando afferma che i suoi versamenti rientravano nell’assistenza morale e materiale dovuta in un rapporto affettivo consolidato. Questa ricostruzione è valida solo per le spese ordinarie, ma non per i bonifici periodici destinati al pagamento del mutuo e per l’acquisto di beni che hanno arricchito la donna. E’ necessaria una disamina sulla proporzionalità delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi.

Omesso esame della consistenza patrimoniale

Con il secondo motivo l’uomo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia la sua consistenza patrimoniale. Afferma infatti di aver provato, tramite estratti conto, di percepire uno stipendio di circa 1.700 euro mensili, unica sua entrata, e che i bonifici non erano mensili, ma periodici, indicando una natura straordinaria e non di canone o spese di vita. Sottolinea inoltre che al termine della convivenza era rimasto senza risorse, mentre la compagna si era arricchita grazie al pagamento del mutuo e dei beni acquistati da lui.

Nessun rimborso per le obbligazioni naturali

La Corte di Cassazione però rigetta il ricorso. Quanto al primo motivo, ribadisce che l’azione di arricchimento senza causa non è invocabile quando l’arricchimento deriva dall’adempimento di un’obbligazione naturale. Dalla convivenza nascon0 infatti  doveri morali e sociali. I versamenti di denaro tra conviventi sono generalmente considerati adempimenti doverosi nell’ambito di un rapporto affettivo consolidato. Esso infatti implica collaborazione e assistenza materiale e morale. L’ingiustizia dell’arricchimento può configurarsi quando le prestazioni di un convivente a favore dell’altro esulano dal mero adempimento di tali obbligazioni, superando i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni sociali e patrimoniali dei conviventi.

Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto che l’importo versato dall’uomo per il mutuo (circa 666 euro al mese) fosse proporzionato, equiparabile a un canone di locazione e quindi rientrante nella collaborazione e assistenza dovuta in un rapporto affettivo. La valutazione della Corte d’Appello è plausibile in relazione alla proporzionalità e all’adeguatezza del contributo, rimessa al suo esclusivo apprezzamento. Gli Ermellini confermano quindi il principio secondo cui l’attribuzione patrimoniale al convivente configura adempimento di obbligazione naturale se il giudice di merito, con un giudizio di fatto insindacabile in Cassazione, la ritiene adeguata e proporzionata alle circostanze e alle condizioni del solvens.

Estratti conto insufficienti come prova

Quanto al secondo motivo, la Cassazione lo dichiara inammissibile. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione degli estratti conto attestanti il suo stipendio. La Cassazione però ha evidenziato che la Corte d’appello ha basato il suo giudizio di proporzionalità sull’ammontare non contestato dei versamenti per il mutuo. Nel caso di specie mancano “più compiute allegazioni” sulla situazione reddituale complessiva dell’uomo. La mera produzione di estratti conto, da cui si potrebbero desumere alcune entrate, non è sufficiente a provare l’esclusività di tali entrate ai fini della composizione del reddito. Pertanto, la doglianza sulla mancata considerazione dei soli estratti conto non superava la ratio decidendi della sentenza impugnata.

 

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