shock tributario

Shock tributario: nessun risarcimento Shock tributario: non spetta il risarcimento alla professionista se non prova il nesso tra condotta del consulente e la patologia psichica

Shock tributario: niente risarcimento senza prova

Sul risarcimento del danno da shock tributario” si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 1036/2025. Gli Ermellini hanno affrontato nello specifico il caso di una professionista che ha chiesto i danni patrimoniali e non patrimoniali causati dalla negligenza del proprio consulente contabile, responsabile di inadempimenti che hanno costretto la donna a versare all’Erario più di 9000,00 euro.

Consulente inadempiente: sanzioni per più di 9000 euro

Una professionista subisce un accertamento fiscale in relazione all’anno 2009, conclusosi con il pagamento di oltre 9.000 euro in sanzioni. La donna attribuisce il problema alle omissioni del consulente contabile. A causa dello stress provocato dalla vicenda, la ricorrente ritiene di aver sviluppato una grave patologia psichiatrica, diagnosticata come disturbo delladattamento” con perdita significativa della capacità lavorativa. Nel 2015, la ricorrente chiude infatti la propria attività professionale, lamentando una riduzione del reddito di circa il 40%. Chiede quindi il risarcimento di oltre 500.000 euro per i danni patrimoniali e morali subiti.

Danno da “shock tributario”: manca la prova

Il Tribunale di Parma accoglie parzialmente accolto la domanda, riconoscendo però solo un risarcimento di 743,64 euro per il danno patrimoniale legato alle omissioni fiscali. Non ha invece ritenuto provati il danno alla salute e il lucro cessante.Il giudice esclude il nesso di causalità tra la condotta del consulente e la grave patologia psichica, considerando il danno non prevedibile secondo il criterio dell’art. 1225 c.c. L’autorità giudiziaria inoltre respinge la richiesta di una consulenza tecnica medico-legale. In appello, la Corte di Bologna conferma la decisione, dichiarando inammissibile il ricorso per mancanza di elementi nuovi e condividendo la valutazione del Tribunale.

Shock tributario: danno prevedibile?

La ricorrente a questo punto impugnato la sentenza della Corte d’Appello davanti alla Corte di Cassazione. Tra i motivi del ricorso la ricorrente:

  • lamenta l’errata applicazione dell’ 1225 c.c in quanto il danno psichico era prevedibile, data la gravità delle omissioni del consulente;
  • contesta la non ammissione della CTU medico-legale perché ha impedito una corretta valutazione della patologia e del suo nesso causale con l’inadempimento;
  • considera del tutto errata valutazione delle prove perché la documentazione prodotta dimostra un chiaro legame tra l’accertamento fiscale e il danno subito.

Danno psichico non giustificato

La Cassazione respinge il ricorso, sottolineando che la prevedibilità del danno, secondo l’art. 1225 c.c., deve essere valutata in modo astratto. Il danno deve rientrare cioè nella normale alea del contratto, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Il giudice di merito, secondo la Cassazione, ha motivato adeguatamente la decisione. L’assenza di risvolti penali nella vicenda fiscale e l’entità modesta delle sanzioni non giustificano un danno psichico così grave.

La Corte conferma anche la discrezionalità del giudice nell’ammettere o rigettare le richieste di consulenze tecniche. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che la documentazione medica prodotta fosse insufficiente a dimostrare il nesso causale. Lo stesso inoltre ha valutato che la patologia denunciata fosse sproporzionata rispetto alla condotta del consulente.

 

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Codice contratti pubblici: non si applica agli ordini degli avvocati Codice dei contratti pubblici: il COA di Milano delibera l'inapplicabilità agli ordini degli avvocati e invita il legislatore a chiarire

Codice contratti pubblici e Ordini Forensi

Il tema dell’applicazione del Codice dei contratti pubblici agli Ordini professionali è oggetto di un dibattito acceso e ancora irrisolto. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e il TAR del Lazio, con la sentenza n. 7455 del 16 aprile 2024, hanno espresso la posizione secondo cui tale Codice dovrebbe essere applicabile anche agli Ordini professionali. Tuttavia, l’Ordine degli Avvocati di Milano, in linea con il Consiglio Nazionale Forense (CNF), ha assunto una posizione opposta.

Con una delibera adottata il 16 gennaio 2025, l’Ordine milanese ha affermato che gli Ordini non rientrano nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici.

Codice dei contratti pubblici: ragioni dell’inapplicabilità

Le ragioni di questa posizione sono molteplici e radicate nella natura degli Ordini professionali. Questi, ai sensi dell’articolo 24 dell’Ordinamento Forense sono enti pubblici non economici di carattere associativo dotati di autonomia patrimoniale e finanziaria e non dipendono quindi dalla finanza pubblica. La loro struttura e funzione li distinguono dagli enti pubblici economici e dalle amministrazioni pubbliche in senso stretto. Il Codice dei contratti pubblici, pensato per garantire trasparenza e concorrenza negli appalti pubblici, non risulta coerente con il ruolo e le attività svolte dagli Ordini professionali, come gli Ordini degli Avvocati.

 

Un altro punto critico è rappresentato dagli oneri burocratici che deriverebbero dall’applicazione del Codice. Gli Ordini sarebbero costretti a gestire processi complessi e onerosi, senza che ciò comporti un reale beneficio. L’obbligo di rispettare procedure rigide rischierebbe di compromettere l’efficienza operativa degli Ordini, che già agiscono in un ambito fortemente regolamentato.

Inoltre, recenti interventi normativi hanno già escluso espressamente l’applicazione di molte disposizioni del diritto amministrativo agli Ordini professionali, riconoscendo la loro natura associativa e la specificità delle loro funzioni. Questo rafforza la convinzione che l’applicazione del Codice dei contratti pubblici agli Ordini sia non solo ingiustificata, ma anche incoerente con il quadro normativo vigente.

Consiglio dell’Ordine di Milano: richieste

Alla luce di ciò, la delibera dell’Ordine degli Avvocati di Milano chiede il riconoscimento ufficiale dell’inapplicabilità del Codice dei contratti pubblici agli Ordini professionali. Propone inoltre una modifica legislativa che chiarisca definitivamente la questione. Secondo l’Ordine, è necessario evitare che interpretazioni divergenti possano creare incertezze o difficoltà operative.

La delibera invita anche tutti gli Ordini professionali a collaborare per adottare una posizione condivisa. Si sollecita un intervento normativo che confermi in modo inequivocabile l’esclusione degli Ordini dall’ambito di applicazione del Codice. Solo attraverso un’azione comune e mirata è possibile ottenere un chiarimento normativo che tuteli l’autonomia degli Ordini e ne garantisca l’efficacia operativa.

 

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Avvocato in ritardo: il giudice non è tenuto ad aspettare Si tratta infatti, afferma la Cassazione, di una mera prassi che risponde al buon senso e al rispetto del ceto forense ma che non è imposta da alcuna norma

Ritardo avvocato in udienza

Avvocato in ritardo? Non c’è alcun obbligo per il giudice di attendere il legale che si presenti anche se soltanto dopo pochi minuti in udienza. Questo quanto affermato dalla quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 2779/2025, respingendo il ricorso di un uomo condannato in appello per furto aggravato.

Breve ritardo

L’avvocato sosteneva di avere tardato soltanto qualche minuto in quanto impegnato in altra aula, ma il giudice, previa nomina di difensore d’ufficio, aveva chiuso il verbale.

Mera prassi attendere l’avvocato

La Cassazione, nel ritenere la risposta della Corte territoriale “logica ed adeguata”, ha spiegato che “la prassi di attendere il difensore di fiducia, anche per qualche tempo dopo che è decorso l’orario fissato per l’udienza, risponde alle regole di buon senso e rispetto del ceto forense ma non è imposto da alcuna norma e dunque la sua violazione non determina alcuna nullità processuale”.

Da qui il rigetto del ricorso.

 

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assegno divorzile

Assegno divorzile: quando si può chiedere la riduzione Assegno divorzile: la riduzione della misura non può essere accolta se il coniuge obbligato non prova il peggioramento delle sue condizioni

Assegno divorzile: riduzione respinta

Il Tribunale di Matera, con la sentenza n. 875 del 6 dicembre 2024, ha respinto la richiesta di riduzione dell’assegno divorzile avanzata da un ex coniuge. La domanda riduzione dell’assegno divorzile infatti può essere accolta solo in presenza di un effettivo peggioramento delle condizioni economiche del coniuge obbligato. Tale peggioramento però deve essere dimostrato in modo chiaro e documentato.

Domanda di riduzione dell’assegno di divorzio

Un pensionato ricorre in giudizio per chiedere la riduzione dell’assegno divorzile corrisposto all’ex moglie. L’uomo sostiene il peggioramento della sua situazione economica, a causa di una pensione insufficiente, finanziamenti da rimborsare e il pagamento dell’affitto. Per sopravvivere, ha iniziato a lavorare saltuariamente presso un fruttivendolo. Il ricorrente tuttavia dichiara di avere a disposizione solo poche centinaia di euro al mese.

L’ex moglie però contesta tali affermazioni. Ella sostiene che le difficoltà economiche del ricorrente sono in realtà conseguenza delle sue scelte personali. In ogni caso anche lei è gravata da un finanziamento mensile.

Riduzione assegno: serve prova peggioramento condizioni

Il Tribunale di Matera analizza dapprima la situazione patrimoniale di entrambe le parti e in decisione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza. La riduzione dell’assegno divorzile può avvenire solo se il richiedente dimostra un effettivo peggioramento delle proprie condizioni economiche, tale da richiedere una nuova valutazione del rapporto economico tra gli ex coniugi.

Nel caso specifico, però, il Tribunale ha rilevato che il ricorrente non ha subito un reale impoverimento. Dai documenti presentati, infatti, emerge che i suoi redditi mensili sono in realtà  superiori a quanto dichiarato. Il ricorrente, oltre alla pensione, percepisce ulteriori somme derivanti dal lavoro presso il fruttivendolo, pari a circa 1.200 euro mensili. L’uomo inoltre riceve un contributo dal Comune per coprire parte delle spese di affitto.

L’ex moglie, invece, dispone di una pensione netta di 614 euro al mese, ma deve rimborsare un finanziamento mensile di circa 168 euro. Alla luce di queste considerazioni, il tribunale ritiene ingiustificata la riduzione dell’assegno divorzile.

L’impegno lavorativo del pensionato migliora situazione

La sentenza sottolinea che l’impegno lavorativo del ricorrente, sebbene apprezzabile, non costituisce un obbligo giuridico. Vero però che i redditi derivanti dal lavoro contribuiscono a migliorare la sua situazione economica. Di conseguenza, l’assegno divorzile, stabilito in precedenza, resta adeguato a garantire l’equilibrio tra gli ex coniugi.

 

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carta dei principi

Avvocati tenuti ad un uso consapevole dell’AI Carta dei principi Avvocati AI: il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano realizza il progetto HOROS, per l’uso consapevole dell’AI

Carta dei principi degli avvocati nell’uso dell’AI

La “Carta dei principi per un uso consapevole di strumenti di intelligenza artificiale in ambito forense” ha visto la luce grazie all’Ordine degli Avvocati di Milano.

Nel documento il Presidente dell’Ordine che ha realizzato il progetto mette in evidenza le potenzialità dell’Intelligenza artificiale, ma anche i rischi collegati a un uso scorretto di questo strumento. L’obiettivo da perseguire consiste infatti nell’adattamento della professione forense alle nuove tecnologie senza intaccare i principi fondanti dell’attività forense.

Il titolo dato alla Carta dei principi è particolarmente significativo. “Horos”infatti vuole dire “confine” a significare i limiti che gli avvocati devono stabilire in relazione all’uso dell’intelligenza artificiale in ambito Forense.

Principi sull’uso della AI

La Carta si apre con l’esposizione dei principi generali che gli avvocati devono rispettare nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale: legalità, correttezza, trasparenza e responsabilità nel rispetto della normativa interna e comunitaria.

L’Ai inoltre non deve ledere i diritti, ma soprattutto la fiducia dei clienti nei riguardi dell’avvocatura. Vengono poi dettagliati i principi della Carta a cui gli avvocati devono attenersi, ovvero:

  • dovere di correttezza;
  • trasparenza nell’uso dell’intelligenza artificiale;
  • centralità della decisione umana;
  • protezione dei dati e riservatezza;
  • Sicurezza informatica;
  • valutazione del rischio dell’utilizzo di sistemi AI in ambito forense;
  • diversità e sostenibilità ambientale;
  • formazione continua e Re-Skilling;
  • tutela del diritto d’autore.

Questa Carta vuole essere di ispirazione affinché altri Consigli dell’Ordine realizzino un proprio documento. La tecnologia ha un impatto notevole sulla giustizia da diversi anni. L’avvento dell’intelligenza artificiale rappresenta una vera e propria rivoluzione a cui i giuristi non possono restare indifferenti. Occorre però un uso consapevole e misurato di questo strumento potentissimo, che può rappresentare un valido aiuto nella tutela dei diritti.  L’intelligenza artificiale infatti non deve essere utilizzata solo per migliorare l’efficienza del lavoro dei giuristi, ma come uno strumento al servizio della giustizia.

 

 

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nuovi limiti contante

Nuovi limiti contante anche per le prepagate Nuovi limiti contante per chi entra ed esce dai paesi UE, per chi li supera e non lo dichiara sequestro e sanzioni

Denaro contante: limiti per chi entra ed esce dall’UE

Nuovi limiti al contante. Il limite per l’utilizzo del denaro contante nelle transazioni in Italia è di 5.000 euro. Nessun limite di importo invece è previsto per chi desidera tenere in casa dei contanti per affrontare delle spese che ha in programma. Il discorso cambia quando ci si reca all’estero. Per chi entra o esce dall’Europa è infatti previsto il divieto di detenere importi superiori a 10.000 euro.

Adeguamento alla normativa UE

Il decreto legislativo n. 211 del 10 dicembre 2024, pubblicato sulla GU del 2 gennaio 2025, al fine di adeguare la normativa interna al Regolamento UE 2018/1672, che riguarda i controlli sul denaro contante in entrata o in uscita dell’UE, è in vigore dal 17 gennaio 2025.

Il testo però prevede dei limiti che, ad essere ben precisi, non si riferiscono solo al denaro contante, ma anche:

  • alle carte prepagate (“carte non nominative … che contengono valore in moneta o liquidità o vi danno accesso ovvero che possono essere usate per operazioni di pagamento, per l’acquisto di beni o servizi o per la restituzione di valuta, qualora non collegata a un conto corrente e ad altri mezzi di pagamento”)
  • e ad altri mezzi di pagamento.

Chi decide quindi di recarsi in un paese UE deve tenere conto di questo limite. Chi detiene ad esempio dei contanti e una carta prepagata e superi il valore di 10.000 euro ha l’obbligo di farne denuncia alla dogana.

Denaro contante e altri valori da dichiarare

I imiti di valore imposti per il passaggio in entrata e in uscita dai paesi UE è previsto al fine di scongiurare la commissione del reato di riciclaggio e di reati strumentali al finanziamento di attività criminali.

Detto questo, il limite dei 10.000 euro previsto dal decreto legislativo di adattamento al Regolamento UE a cosa si riferisce?

Senza dubbio al denaro contante, a seguire agli assegni turistici come i traveller’s chèque, agli assegni, ai vaglia cambiari, agli ordini di pagamento al portatore emessi senza indicazione specifica del nome del beneficiario, a quelli emessi in favore di un beneficiario fittizio, o a quelli che richiedono la sola consegna per il passaggio del titolo.

Il soggetto che porti con sé uno o più dei suddetti strumenti di pagamento per un valore superiore ai 10.000 euro metterlo a disposizione della Agenzia delle dogane e dei monopoli ai fini del controllo.

Il limite di importo deve essere rispettato anche se il denaro o uno degli altri strumenti di pagamento interessati vengono inviati in un plico a mezzo posta. Non occorre cioè che la persona li porti con sé.

Mancata dichiarazione denaro contante

Il decreto legislativo prevede il sequestro e l’applicazione di sanzioni piuttosto elevate nei confronti di coloro che non dichiarano il superamento del limite di importo dei 10.000 euro. Vediamo in che termini e in che misura.

Sequestro percentuale

Per la parte di importo non dichiarato oltre il limite dei 10.000 euro il decreto prevede:

  • il sequestro nella misura del 50% se il valore supera la soglia dei 10.000 euro e l’eccedenza non supera i 10.000;
  • la percentuale del sequestro sale al 70% dell’importo eccedente i 10.000 se l’eccedenza supera i 10.000 ma non i 100.000 euro;
  • il sequestro infine è totale se, al netto della soglia, l’importo supera i 100.000 euro.

Nei casi in cui il soggetto fornisca informazioni inesatte sull’importo è previsto il sequestro:

  • nella misura 25% della differenza tra quanto trasferito e quanto dichiarato, se la differenza non supera i 10.000 euro;
  • la percentuale sale al 35% se la differenza tra trasferito e dichiarato supera i 10.000,00 ma non i 30.000,00 euro;
  • passa al 70% se la differenza tra trasferito supera i 30.000 ma non i 100.000,00 euro;
  • è totale infine se la differenza tra quanto dichiarato e quanto si tenta di trasferire supera l’importo di 100.000,00 euro.

Il decreto nel modificare l’articolo 7 del decreto legislativo n. 195/2008 prevede che il soggetto a cui è stata contestata l’omessa dichiarazione o la dichiarazione inesatta o completa possa chiedere l’estinzione della violazione effettuando il pagamento in misura ridotta, in percentuale variabile, sulla parte di denaro eccedente la soglia prevista.

Sanzioni amministrative

Qualora si commettano violazioni consistenti nell’omesso adempimento dichiarativo si dispone l’applicazione della sanzione pecuniaria amministrativa minima di 900,00 euro.

Se la violazione consiste invece nell’aver fornito informazioni inesatte o incomplete in relazione all’obbligo dichiarativo, allora è prevista la sanzione amministrativa minima di 500,00 euro.

 

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liti in condominio

Liti in condominio dal giudice di pace Liti in Condominio: dal 31 ottobre 2025, in base al decreto legislativo n. 116/2017 spetterà al Giudice di Pace risolverle

Liti in condominio: da ottobre 2025 competente il GdP

Dal 31 ottobre 2025 le liti in condominio verranno decise dal Giudice di Pace. Lo stabilisce l’articolo 32 del decreto legislativo n. 116/2017 che ha riformato organicamente la magistratura onoraria, le disposizioni relative al Giudice di Pace e la disciplina transitoria dei magistrati onorari in servizio.

Le norme di riferimento

L’articolo 32, al comma 3, dispone che le disposizioni contenute nell’articolo 27 dello stesso decreto legislativo entreranno in vigore il 31 ottobre 2025.

L’articolo 27, nel modificare l’art. 7 del codice di procedura civile, che si occupa di definire la competenza del Giudice di Pace, stabilisce che  questo soggetto sarà competente dal 31 ottobre 2025 anche “2) per le cause in materia di condominio negli edifici, come definite ai sensi dell’articolo 71-quater delle disposizioni per l’attuazione del codice civile.”

Liti in condominio di competenza del GdP

Al momento il Giudice di Pace è competente “per le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case”. A queste si andranno ad aggiungere le liti che riguarderanno l’uso delle cose comuni, le violazioni del regolamento condominiale e la ripartizione delle spese comuni. Il Tribunale continuerà a decidere le controversie più complicate e di valore economico più elevato.

Vantaggi della riforma

La riforma Cartabia e quella settoriale della magistratura onoraria vogliono garantire ai cittadini presenza e accessibilità alla giustizia. La materia delle liti condominiali, soprattutto se relativa a conflitti di valore economico modesto, si prestano a essere risolte dal Giudice di Pace. Il processo è più snello e più rapido ed è quindi in grado di raggiungere un risultato positivo in tempi brevi.

Svantaggi della modifica

L’attribuzione di competenze ulteriori al Giudice di Pace non è stata però accolta con favore da tutti.

Caricare eccessivamente i magistrati onorari di cause potrebbe creare problemi a un sistema che è già in affanno. La riforma dovrebbe essere accompagnata anche da un rafforzamento del personale e di strumenti in grado di agevolare e alleggerire il lavoro. In caso contrario, i Giudici di Pace potrebbero pagare uno scotto elevato dall’alleggerimento del lavoro dei Tribunali, liberati dalle liti condominiali più modeste.

Durante l’incontro del 17 gennaio 2025, promosso dall’OCF a Roma, dedicato alla giustizia civile, è emersa infatti l’urgenza di affrontare la crisi dei Giudici di Pace, con solo il 35% delle posizioni coperte. Il viceministro alla giustizia Sisto ha garantito un approccio pragmatico per evitare il caos, ribadendo che “non ci saranno truppe mandate allo sbaraglio”. L’OCF ha accolto positivamente l’apertura, sottolineando l’importanza di evitare decisioni affrettate che aggraverebbero le attuali inefficienze strutturali del sistema.

 

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smart working

Il disabile ha diritto allo smart working Smart working: ne ha diritto l’ipo-vedente che lo ha già svolto durante la pandemia, se il datore non è impossibilitato 

Lavoratore disabile e smart working

Nella sentenza n. 605/2025 la Cassazione si è espressa su un caso di discriminazione nei confronti di un lavoratore disabile in relazione al suo diritto di svolgere il lavoro in modalità smart working. Con questa sentenza, la Corte ha affermato, nello specifico, l’obbligo per i datori di lavoro di adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire la parità di trattamento ai dipendenti con disabilità.

Richiesta del disabile di lavorare in smart working

Un dipendente, assunto dal 1997 e inquadrato al quinto livello del contratto collettivo nazionale (CCNL) nel settore Customer Care, chiede di lavorare in smart working. A causa di gravi deficit visivi, raggiungere la sede lavorativa di Napoli è diventato estremamente difficile. L’azienda  però esclude i dipendenti della sua categoria (caring agents) dalle possibilità di lavoro agile, pur avendo adottato un accordo sullo smart working nel 2017.

La Corte di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglie la domanda del lavoratore, ordinando all’azienda di consentirgli di svolgere le sue mansioni da remoto o dalla sede più vicina alla sua abitazione. La decisione si basa sull’obbligo legale di adottare misure ragionevoli per evitare discriminazioni, come previsto dall’articolo 3, comma 3-bis, del Decreto Legislativo n. 216/2003.

La società datrice però non accetta la decisione e la impugna davanti alla Cassazione, sostenendo:

  • l’assenza di una condotta discriminatoria;
  • la necessità, per lo svolgimento del lavoro agile, di un accordo specifico tra le parti, che nel caso di specie non è stato raggiunto.

Discriminatorio negare il lavoro agile al disabile

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso motiva la sua decisione sulla base di diverse fonti normative nazionali e internazionali.

  • La Direttiva 2000/78/CE stabilisce l’obbligo per i datori di lavoro di adottare soluzioni per garantire la parità di trattamento.
  • La Carta dei Diritti Fondamentali dellUnione Europea sancisce il diritto dei disabili a misure che ne favoriscano l’autonomia
  • La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità riconosce il diritto a condizioni di lavoro eque per le persone con disabilità.

Per gli Ermellini quindi è pienamente condivisibile il ragionamento della Corte di merito. La mancata adozione di accomodamenti ragionevoli rappresenta una forma di discriminazione diretta, vietata dalla legge.

Smart working: obbligo del datore all’accomodamento

I datori di lavoro devono bilanciare gli interessi aziendali con quelli dei dipendenti disabili. È necessario infatti adottare misure che rendano compatibile l’ambiente lavorativo con le esigenze dei dipendenti, a meno che queste non comportino costi eccessivi. Nel caso specifico il lavoratore aveva già svolto le sue mansioni in smart working durante la pandemia. La richiesta del dipendente non richiedeva quindi investimenti finanziari sproporzionati. Il datore avrebbe dovuto accoglierla perché rappresentava un “accomodamento ragionevole”. In corso di causa inoltre l’azienda non aveva dimostrato l’impossibilità di adottare tali misure. La legge, come visto sopra, impone alle aziende di valutare le richieste dei lavoratori disabili e di trovare soluzioni condivise, nel rispetto delle norme antidiscriminatorie. In presenza di lavoratori disabili la mancata adozione di accomodamenti ragionevoli costituisce una discriminazione diretta. Il lavoro agile non è infatti solo uno strumento di flessibilità organizzativa, ma anche una misura fondamentale per garantire l’inclusione e l’equità nel mondo del lavoro.

 

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separazione carriere giudici

Separazione delle carriere: primo sì alla Camera Approvato alla Camera il disegno di legge sulla riforma della Giustizia sulla divisione delle carriere della magistratura requirente e giudicante

Ok della Commissione Affari Costituzionali

Il disegno di legge sulla separazione delle carriere il 16 gennaio 2025 è stato approvato dalla Camera con 174 voti a favore, 92 contrari e 5 astenuti. Il testo è quello su cui aveva dato l’ok la Commissione affari costituzionali di Montecitorio che aveva concluso l’esame degli emendamenti presentati, respingendoli tutti.

Il disegno di legge costituzionale di riforma che contiene le “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” è quindi quello approvato dal Cdm il 29 maggio 2024.

Il testo del ddl, composto da otto articoli, interviene sugli articoli 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della Costituzione disponendo la separazione delle carriere dei magistrati, introducendo un sistema di sorteggio per la componente laica del CSM e istituendo l’Alta Corte per giudicare gli errori dei magistrati.

La riforma supera quindi il primo dei passaggi parlamentari necessari per l’ok definitivo alla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti. Trattandosi di riforma costituzionale infatti occorreranno 4 letture conformi da parte dei due rami parlamentari e molto probabilmente, essendo richiesti nelle ultime due letture voti favorevoli pari alla maggioranza di due terzi dei componenti, si richiederà anche il referendum confermativo.

Nell’attesa che il ddl prosegue il suo iter, vediamo intanto i punti salienti della riforma.

Separazione delle carriere

Il primo punto della riforma, che la magistratura non ha accolto con favore, dispone la separazione delle carriere. La modifica prevede che i magistrati requirenti non possano passare al ruolo della magistratura giudicante e viceversa.

Indipendenza della magistratura requirente

La separazione delle carriere mira anche a garantire la piena indipendenza della magistratura requirente da qualsiasi tipo di influenza e di interferenza da parte del Governo e da parte di altri poteri, al pari della magistratura giudicante.

Due CSM

La riforma interviene anche sulla composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. Il CSM  verrà diviso in due sezioni, una dedicata ai magistrati requirenti e una ai magistrati giudicanti, presiedute entrambe dal Presidente della Repubblica.

Nomina della componente laica del CSM

La componente laica del CMS, costituita attualmente dai membri eletti dal Parlamento, verrà nominata per sorteggio, sempre con la finalità di garantire la piena indipendenza e imparzialità del Consiglio Superiore della Magistratura.

Istituita l’Alta Corte

Per giudicare gli illeciti disciplinari dei magistrati viene istituita l’Alta Corte, che si va a sostituire in questo modo al Consiglio Superiore della Magistratura.

negoziazione assistita

Negoziazione assistita: senza domanda per danni improcedibile Negoziazione assistita: obbligatoria nelle cause per il pagamento di somme fino a 50.000 euro, in assenza la domanda è improcedibile

Negoziazione assistita risarcimento danni

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 186-2025 ribadisce l’importanza della negoziazione assistita come passaggio obbligatorio in alcune controversie. Il caso analizzato riguarda una richiesta di risarcimento danni presentata da un conducente contro la Regione Marche per un incidente stradale causato da un cinghiale su una strada provinciale. Dal punto di vista procedurale la richiesta risarcitoria di somme inferiori ai 50.000 richiede il preventivo esperimento della negoziazione assistita. Nel caso si specie però la procedura stragiudiziale non è stata esperita, per questa ragione la domanda giudiziale è stata dichiarata improcedibile.

Richiesta risarcitoria danni materiali

L’iter giudiziario che ha portato la Cassazione alla predetta decisione è stato complesso. In primo grado, il Tribunale di Macerata ha accolto la domanda del danneggiato e condannato la Regione a pagare 7.014 euro. La Regione però ha fatto appello, sostenendo che la domanda fosse improcedibile a causa del mancato esperimento del procedimento di negoziazione assistita. La Corte d’Appello ha accolto questa eccezione, dichiarando quindi improcedibile la domanda originaria.

Negoziazione assistita: condizione di procedibilità

L’articolo 3 del Decreto Legge n. 132/2014 stabilisce in effetti che, per alcune controversie, è obbligatorio tentare la negoziazione assistita prima di ricorrere al giudice. Questo obbligo vale in due casi distinti:

  • per richieste di risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, senza limiti di valore;
  • per domande di pagamento di somme non superiori a 50.000 euro.

La ratio della norma è di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, favorendo soluzioni amichevoli. Il giudice o la parte convenuta, se la negoziazione non viene esperita, possono eccepire l’improcedibilità della domanda entro la prima udienza.

Nel caso specifico, la Regione Marche aveva inizialmente eccepito l’improcedibilità della domanda sostenendo che si trattasse di una richiesta di risarcimento per danni derivanti dalla circolazione di veicoli, ma il Tribunale aveva rigettato l’eccezione. In appello, invece la Regione aveva sollevato un nuovo motivo di improcedibilità, affermando che la richiesta riguardasse la richiesta di pagamento di una somma inferiore a 50.000 euro, altra fattispecie soggetta a negoziazione assistita. La Corte d’Appello aveva accolto la nuova eccezione.

Negazione assistita: rispetto termini per sollevare l’eccezione

La Corte di Cassazione invece ha stabilito che, fermo restando l’improcedibilità della domanda per il mancato esperimento della negazione assistita nei casi previsti dalla legge, sollevare tale eccezione in appello deve ritenersi inammissibile. Questa eccezione rituale infatti deve essere sollevata in primo grado, ossia entro i limiti temporali previsti dalla legge. La Cassazione ha  evidenziato nella decisione che il giudice d’appello non poteva accogliere una nuova eccezione di improcedibilità sollevata in secondo grado. La sentenza impugnata è stata quindi cassata e la causa è stata rinviata alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, per un nuovo esame.

Dalla decisione emerge l’importanza della negoziazione assistita, condizione di procedibilità della domanda in giudizio nelle richieste risarcitorie e di pagamento sopra evidenziate. Chi intende agire in giudizio deve quindi verificare se il caso rientra tra quelli soggetti alla negoziazione assistita perché il mancato rispetto di questa condizione può rendere la domanda improcedibile. Importante però anche il rispetto rigoroso delle regole procedurali e in particolare dei termini entro cui sollevare l’eccezione di improcedibilità della domanda, condizione che nel caso di specie non è stata rispettata.

 

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