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Immobile indivisibile e istanza del condividente Nell’applicazione dell’art. 720 c.c., l’inclusione dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente presuppone l’espressa e specifica istanza del condividente interessato?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

L’espressa e specifica istanza del condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non abbia fatto esplicita richiesta al riguardo (benché titolare della maggior quota).

Accertata la non comoda divisibilità di uno più immobili ereditari (da intendersi in relazione alla struttura del bene e al numero dei condividenti, e rilevante anche per uno solo di essi), l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può aver luogo ove questi non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo di base vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni – cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisce comunione fra gruppi di condividenti – allorché non vi sia il consenso di costoro. – Cass. VI, 15 dicembre 2022 n. 36736.

La vicenda scaturisce dalla decisione assunta dal giudice di prime cure – e confermata in appello –, di sciogliere la comunione ereditaria sub iudice assegnando all’attore (il coniuge superstite) determinati beni, e altri beni congiuntamente ai convenuti (i fratelli del de cuius), gravandoli altresì del pagamento di un conguaglio. Il Tribunale assumeva tale decisione tenuto conto della non comoda divisibilità dei beni – ostativa ad una omogenea distribuzione di essi tra i coeredi –, che avrebbe imposto l’applicazione dell’art. 720 c.c., con l’attribuzione congiunta a più condividenti. Nello specifico il Tribunale, tenuto conto della richiesta di attribuzione di determinati beni da parte dell’attore, le dava seguito, assegnando i restanti beni congiuntamente ai convenuti.

I ricorrenti in Cassazione lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 720 c.c., per l’essersi disposta l’assegnazione congiuntamente ad essi, in assenza di una richiesta in tal senso e data la non comoda divisibilità dei beni.

Segnatamente, l’art. 720 c.c. descrive un meccanismo per cui, a fronte della presenza nell’eredità di beni immobili non comodamente divisibili (o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o igiene) e della impossibilità di procedere alla divisione dell’intera sostanza senza il loro frazionamento, detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto la quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se manca la disponibilità in tal senso, in estremo subordine si dà luogo a vendita all’incanto. Nel caso in esame, i ricorrenti (convenuti in primo grado), non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione a fronte della valutazione di non comoda divisibilità, ma solo la disponibilità ad aderire alle proposte conciliative dell’attore, e purché non fossero gravati del pagamento di conguagli. Non avendo avuto seguito le menzionate proposte, il giudice – ritengono i ricorrenti – avrebbe dovuto attivare il meccanismo residuale della vendita dei beni non oggetto di richiesta, piuttosto che procedere come avvenuto. La Suprema Corte condivide tali doglianze, osservando preliminarmente come, nell’ambito della comunione ereditaria, il diritto di ciascun erede alla quota in natura (art. 718 c.c.) non sia quello a una porzione di ciascun bene, bensì a una porzione formata in modo da riprodurre quanto più è possibile la composizione qualitativa della massa (art. 727, comma 1, c.c.): ciò significa che la divisione deve avvenire non dividendo, ma distribuendo in porzioni i singoli beni, secondo un criterio di proporzione quantitativa e qualitativa. Ciò posto in via di principio, è comune che tale regola non possa applicarsi a pieno in relazione agli immobili, essendo gli stessi o numericamente insufficienti o qualitativamente troppo eterogenei: in questi casi, la divisione va effettuata in primis frazionandoli o, se non comodamente divisibili, tramite il meccanismo ex art. 720 c.c. In tale terreno, come evidenziato, può darsi una preferenza – a discrezione del giudice – per il titolare della maggior quota o di altro coerede, ma ciò solo se vi sono richieste di attribuzione: in caso contrario, deve darsi luogo alla vendita, giacché i poteri discrezionali del giudice non si estendono all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente (anche titolare della maggior quota). Similmente, deve escludersi che possa includersi l’immobile ereditario non comodamente divisibile nella porzione di più coeredi in assenza della loro richiesta congiunta di attribuzione, essendo in linea di principio vietato il menzionato raggruppamento parziale delle porzioni, se manca il consenso dei soggetti interessati.

Rispetto al caso in esame, quindi, la Suprema Corte procede a cassare con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte della richiesta del solo attore originario di attribuzione di alcuni beni indivisibili, infatti, il giudice di merito non avrebbe potuto attribuire i restanti beni d’ufficio agli altri condividenti né individualmente né congiuntamente, ma avrebbe dovuto disporre la loro vendita.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20250
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Illecito civile violazioni doveri verso i figli La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole integra un illecito civile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

La violazione dei diritti di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, là dove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti: viene in rilievo un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, liquidabile anche in via equitativa. – Cass. I, 28 novembre 2022, n. 34950.

Nel caso di specie, il ricorrente, nato a seguito di un rapporto sessuale non protetto e riconosciuto dal padre svariati solo decenni dopo, aveva promosso azione risarcitoria per il danno sofferto dall’assenza di una relazione parentale con il genitore. La Corte d’appello aveva respinto la domanda risarcitoria, non essendosi provato che questi avrebbe beneficiato di migliori condizioni di vita in virtù di un più celere riconoscimento.

Nela decisione in esame la Suprema Corte ha riformato la sentenza della Corte d’appello, in quanto la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, e ben può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti. L’illecito intrafamiliare, infatti, può produrre anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa. Questo illecito può quindi dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità qualora l’inadempimento del genitore abbia causato un complessivo disagio materiale e morale per il figlio e da tale disagio siano derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli (di carattere patrimoniale, oltre che non patrimoniale), tra cui l’impossibilità di affermarsi in maniera socialmente più soddisfacente e di svolgere degli studi, che possono aver precluso le possibilità di realizzazione professionale, con rilievo anche economico. In tale situazione, ove sussista la prova del danno morale e mancando la ragionevole possibilità di dimostrare la sua precisa entità, è certamente consentita la liquidazione di esso in via equitativa.

Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. (e nelle norme di matrice internazionale recepite dal nostro ordinamento) un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Si osserva altresì, ai fini del decorso del termine di prescrizione, che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo (ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente, che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno) che permanente (se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione, poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli).

La Corte di appello, limitandosi a raffrontare le possibili condizioni di vita e deducendo la mancanza di prova in ordine al preteso pregiudizio subito, ha del tutto omesso di considerare che il figlio, dalla nascita a tutta l’età matura, è stato privato della figura genitoriale paterna sia nella vita strettamente familiare che nel contesto sociale di appartenenza (costituito – circostanza non irrilevante – da un piccolo centro urbano). Invece, essa avrebbe dovuto accertare se e quali siano stati gli effetti causati da detta assenza sullo sviluppo fisiopsichico del ricorrente, mentre si è soffermata solo su profili di tipo sostanzialmente economico. Di conseguenza, la Suprema Corte ha cassato la decisione con rinvio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079;
Cass. 27 maggio 2019, n. 14382; Cass. 10 giugno 2020, n. 11097;
Cass. 6 ottobre 2021, n. 27139; Cass. 16 dicembre 2021, n. 40335;
Cass. 12 maggio 2022, n. 15148
giurista risponde

Danno parentale e tabelle milanesi Ai fini della liquidazione del danno parentale, il giudice può applicare le nuove tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Sono legittime e vanno, dunque, applicate dal Giudice di merito le ultime tabelle milanesi sul danno parentale, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, in quanto l’assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all’età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta. – Cass. III, 16 dicembre 2022, n. 37009.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’adozione di parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale pronunciandosi su un ricorso proposto dagli eredi di una donna defunta a seguito di trasfusioni con sangue infetto.

Al riguardo, occorre riferire che in un recente passato la giurisprudenza si è interrogata sulla esaustività delle tabelle milanesi a risarcire il danno da lesione del rapporto parentale.

Secondo un primo indirizzo, prevalente, nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21 aprile 2021, n. 10579, 29 settembre 2021, n. 26300, Cass. 23 giugno 2022, n. 20292), infatti, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi), con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.

Secondo questa impostazione, infatti, rispetto a questa particolare tipologia di danno non patrimoniale il sistema tabellare a punti è l’unico capace di raggiungere lo scopo per la quale è stato concepito: l’uniformità e la prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza. Ne deriva – per la Cassazione – la sostanziale inapplicabilità della tabella di Milano che non valuta il danno parentale con la tecnica del punto variabile (utilizzata per il danno biologico) ma si limita a individuare alcune forbici di valore per categorie di congiunti, che non consente di pervenire a quella uniformità delle decisioni predicata da Cass. 12408/2011.

Alle sollecitazioni provenienti dalla Suprema Corte, ha risposto l’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che il 29 giugno 2022 ha adeguato le tabelle milanesi alle modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale secondo i criteri del sistema a punti.

La Suprema Corte nella pronuncia in esame, infine, ha riconosciuto queste nuove tabelle coerenti con i principi di equità, uniformità e prevedibilità enunciati nel proprio precedente del 2021, n. 10579.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. III, 21 aprile 2021, n. 10579
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Incidente stradale e danno morale In tema di danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale, il danno morale va riconosciuto come autonoma voce di pregiudizio o come componente nel risarcimento da danno biologico? Come va formulata la liquidazione del danno patrimoniale per persona che al momento del fatto non era in età da lavoro?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

La voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale si distingue sia dal danno biologico stricto sensu, in quanto non suscettibile di accertamento medico-legale, sia dalla personalizzazione per incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali; sicché è meritevole di un compenso aggiuntivo.

Se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. – Cass. III, ord. 9 novembre 2022, n. 32935.

Nel caso in esame, la Cassazione ha definito il “danno morale” uno stato d’animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato, che pure può influenzare, ed è insuscettibile di accertamento medico-legale, sicché, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico.

Si evidenzia, inoltre, che il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo giustificabile l’incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi, con riguardo al danno morale, di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale.

La decisione si è anche occupata del danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa; in particolare si è precisato che tale danno, sofferto da un soggetto adulto che al momento dell’infortunio non svolgeva alcun lavoro remunerativo, va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell’art. 2056 c.c. Diversamente se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. Nel caso analizzato la vittima, al momento del fatto era quindicenne e privo di reddito, e frequentava un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di vetture da turismo e che, a seguito dei postumi invalidanti derivanti dal sinistro è stato costretto a interrompere il percorso di studi intrapreso. La Corte ha altresì affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. III, 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. S.U. 14 gennaio 2009, n. 557;
Cass. III, 13 maggio 2009, n. 11059; Cass. III, 10 marzo 2010, n. 5770;
Cass. 12 settembre 2011, n. 18641; Cass. III, 17 gennaio 2018, n. 901
Difformi:      Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972
giurista risponde

Interposizione fittizia e proprietà In tema di interposizione fittizia personale, l’accoglimento della domanda proposta dal terzo creditore dell’interponente acquirente in ordine alla dichiarazione della simulazione relativa soggettiva di una compravendita immobiliare comporta il conseguente ed automatico accertamento della proprietà del bene in favore dell’interponente?

Quesito a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, è diretta anche alla verifica dell’effettiva produzione dell’effetto traslativo del bene in favore del medesimo interponente, per effetto del concluso accordo simulatorio; conseguenza, quest’ultima, che scaturisce in via automatica e immediata dalla dichiarazione di simulazione relativa soggettiva ex art. 1414, comma 2, c.c. Il terzo creditore dell’interponente, effettivo acquirente, ha lo specifico interesse, infatti, a far valere la reale appartenenza del bene al suo debitore, ai fini di poterne aggredire il patrimonio e soddisfare così il suo credito. – Cass. II, 11 novembre 2022 n. 33367.

In tema di interposizione fittizia personale, la simulazione incide sul piano dei soggetti, ossia degli autori del regolamento negoziale. In tal caso, l’accordo negoziale ha il precipuo effetto di attribuire la qualità di destinatario degli effetti dell’atto ad un soggetto diverso da colui il quale figura come tale (interposto), determinando, pertanto, uno sdoppiamento tra parte apparente e parte effettiva del rapporto. Generalmente, l’interposizione fittizia di persona si verifica nei casi in cui un soggetto intenda acquistare un bene e, tuttavia, non voglia rendere noto a terzi il suo diritto di proprietà. L’interponente, infatti, si accorda con altro soggetto (interposto), affinché questi figuri formalmente quale acquirente, ma rimanga, in realtà, del tutto estraneo rispetto agli effetti del contratto, i quali si produrranno in via esclusiva in capo al primo (interponente). Ciò posto, sia l’effetto traslativo (acquisto della titolarità del diritto), sia le conseguenze obbligatorie della compravendita (obbligo del pagamento del corrispettivo), non ricadranno sul simulato acquirente, bensì sull’interponente. È indispensabile, tuttavia, perché la fattispecie si realizzi, che l’accordo simulatorio intercorra tra tre soggetti, coinvolgendo, oltre al soggetto interposto ed all’interponente, anche il terzo contraente (alienante). L’attività negoziale posta in essere dall’interposto dispiega direttamente i suoi effetti nei confronti dell’interponente, il quale risulta l’unico e reale destinatario degli effetti dell’atto. Sono sufficienti, pertanto, due negozi per la realizzazione della suddetta fattispecie: da un lato, l’accordo simulatorio, intercorrente tra interposto, interponente e terzo; dall’altro, il contratto simulato, fittiziamente stipulato tra interposto e terzo, ma in realtà destinato a produrre i suoi effetti nei confronti dell’interponente.

Tanto premesso, nel caso in esame, il Giudice del gravame, confermando il percorso motivazionale della sentenza di prime cure, ha ritenuto dimostrata dal terzo creditore dell’acquirente reale l’esistenza di un accordo simulatorio trilatero, raggiunto tra l’interponente acquirente, l’alienante dell’immobile e l’interposto acquirente; ben disponendo, dunque, la titolarità della proprietà del bene in favore dell’interponente, come naturale e diretta conseguenza della dichiarazione della simulazione dell’atto di alienazione. La Cassazione evidenzia, nel caso di specie, la funzione dichiarativa dell’azione del terzo, creditore del dissimulato compratore. Tale azione non mira a far riconoscere l’esistenza degli elementi costitutivi di un negozio diverso da quello voluto, bensì ad accertare nei confronti delle parti di una compravendita con interposizione fittizia di persona, che, per effetto della simulazione relativa del contratto, l’immobile compravenduto è “passato in proprietà” al debitore.

Nel caso in esame, trattandosi di una simulazione relativa soggettiva, azionata dal terzo creditore dell’acquirente reale, non viene richiesta ai fini probatori la tipica controdichiarazione scritta, come da combinato disposto degli artt. 1417 e 2725 c.c. poiché i creditori o i terzi sono soggetti estranei al negozio e, dunque, non in grado di fornire le suddette prove ut supra; ciò posto, viene loro riconosciuta la prova per testi o per presunzioni. Diversamente, laddove la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi viene ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c. quando il contraente perda senza colpa il documento, ovvero quando la prova sia diretta a far valere l’illiceità del negozio, ai sensi dell’art. 1417 c.c.

La circostanza, inoltre, che l’acquirente effettivo interponente, costituitosi in giudizio, abbia aderito alla domanda del terzo creditore e abbia ammesso la realizzazione della simulazione relativa soggettiva, chiedendo, in via riconvenzionale, l’accertamento della proprietà in suo favore, non implica alcuna conseguenza, ne’ in termini di necessaria chiamata del terzo nei confronti dell’interposto, ne’ in termini probatori sulla necessaria allegazione di controdichiarazione scritta, posto che la domanda che ha trovato accoglimento è stata quella spiegata dal terzo creditore, domanda attorea principale, rispetto alla quale la pretesa di accertamento della proprietà avanzata dal convenuto interponente ha avuto una mera valenza adesivo-rafforzativa; sicché per il terzo creditore la dimostrazione della simulazione per interposizione fittizia di persona è ammissibile solamente per testimoni e presunzioni.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Cassazione ha accolto il ricorso di parte attrice.

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, ha comportato anche la dichiarazione dell’effetto traslativo del bene in favore dell’interponente, reale acquirente e proprietario. Infine, l’interposizione fittizia di persona, seppur rientri fra i casi di simulazione relativa, non richiede, tuttavia, che la prova dell’accordo simulatorio risulti da atto scritto, bensì da testimoni o presunzioni, in quanto nel caso in esame l’istituto de quo non è stato fatto valere nei rapporti tra le parti, ma da terzi creditori.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 gennaio 1988, n. 587; Cass. II, 4 maggio 2007, n. 10240;
Cass. VI, 2 luglio 2015, n. 13634
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Divisione ereditaria e usucapione Il coerede che sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi senza bisogno di interversione del possesso?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

Il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso. A tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune. – Cass. civ., sez. VI, 3 novembre 2022, n. 32413.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in esame torna a occuparsi del compossesso ereditario e della possibilità per il coerede, rimasto nel possesso del bene ereditario, di usucapire la quota degli altri coeredi.

Nel caso di specie il ricorso è stato proposto avverso la decisione, con cui la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Gaeta, che aveva riconosciuto l’usucapione di uno dei coeredi su un bene ereditario.

I giudici di primo e secondo grado hanno infatti ritenuto che il coerede, che aveva richiesto l’accertamento dell’usucapione, avesse esercitato il possesso esclusivo sui beni in questione.

Avverso tale decisione viene proposto ricorso per Cassazione da parte di uno dei coeredi, che ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141 e 1144 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c, dell’art. 2697 c.c. oltre al travisamento dei fatti e all’omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio.

Nello specifico, infatti, viene contestato che la Corte di merito non abbia dato giusto rilievo al fatto che la disponibilità del bene comune era dovuta a ragioni di carattere familiare e, soprattutto, alla circostanza che colui che ha usucapito il bene era stato per quattro anni protutore del ricorrente.

Secondo quest’ultimo, in altri termini, non è stato adeguatamente dimostrata nel corso del giudizio l’esclusione dei familiari dal godimento del bene e dunque il conseguente esercizio del possesso uti dominus.

I giudici della Corte di Cassazione ritengono fondato il ricorso e cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Roma.

Nell’accogliere le doglianze del ricorrente, la Corte di Cassazione, ribadendo un consolidato orientamento, afferma che il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune.

A tal proposito viene chiarito che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi non sono indici di un possesso esclusivo dell’immobile.

La Suprema Corte rileva come nel caso di specie non siano state indicate da parte dei giudici di merito le modalità con cui il coerede avrebbe esteso il proprio possesso sul bene ereditario al punto tale da esercitarlo in termini di esclusività.

Tale carenza motivazionale è peraltro resa più evidente se si considera la particolarità dei rapporti intercorrenti tra gli interessati, essendo stato uno dei coeredi protutore del ricorrente.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 marzo 2009, n. 7221; Cass. II, 13 novembre 2014, n. 24214;
Cass. II, 22 gennaio 2019, n. 1642; Cass. II, 9 settembre 2019, n. 22444
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Nullità compravendita per mancanza di titolo abilitativo Ai fini della validità della compravendita immobiliare e della conseguente commerciabilità del bene immobile, la nullità comminata dall’art. 40, comma 2, L. 47/1985 opera solo in caso di mancanza degli estremi del titolo abilitativo o anche nel caso di difformità della costruzione?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

Ai fini della validità della compravendita immobiliare, la nullità comminata dal D.P.R. 380/2001, art. 46, e dalla L. 47/1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell’ambito dell’art. 1418, comma 3, c.c. di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ed atti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile proprio a quell’immobile; in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato. – Cass. II, 17 ottobre 2022, n. 30425.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha richiamato i principi espressi dalle S.U. 8230/2019 in cui, nell’affrontare il tema della rilevanza, ai fini della validità della compravendita immobiliare, dei profili attinenti alla regolarità urbanistica del bene oggetto del contratto, sono pervenute a una nozione testuale, e non virtuale, di nullità negoziale, dichiarando applicabile l’art. 1418, comma 3, c.c. Per l’effetto, si è dunque esclusa l’esistenza di una norma imperativa, rilevante quale nullità virtuale, e di un generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili. Tali principi risultano altresì applicabili nel caso di costruzione iniziata anteriormente al 1° settembre 1967, per i quali la L. 47/1985, art. 40, comma 2, prevede, in luogo della menzione in atto degli estremi della concessione, la dichiarazione da parte del proprietario o altro avente titolo, nella forma sostitutiva dell’atto notorio, attestante che l’opera risulta iniziata in data anteriore. In presenza di tale dichiarazione, la nullità comminata dalla legge urbanistica può ritenersi esistente solo nel caso in cui tale dichiarazione non risulti riferibile all’immobile oggetto dell’atto traslativo ovvero che quanto dichiarato non corrisponda alla realtà. Sussistendo tale dichiarazione nell’atto di compravendita (come nel caso di specie), restano irrilevanti, sotto il profilo della validità dell’atto, eventuali difformità del bene, rispetto allo stato di fatto originario, che non incidano sulla riferibilità ad esso della dichiarazione sostitutiva, difformità che potranno produrre le loro conseguenze unicamente sul terreno della responsabilità contrattuale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 marzo 2019, n. 8230
Difformi:      Cass. II, 17 ottobre 2013, n. 23591
giurista risponde

Usufrutto e contributi condominiali Ove un’unità immobiliare sia oggetto di diritto di usufrutto, qual è il soggetto passivamente legittimato in caso di azione giudiziale dell’amministratore per il recupero dei contributi condominiali? E come vengono ripartite le spese tra nudo proprietario ed usufruttuario?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In caso di azione giudiziale dell’amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare, è passivamente legittimato l’effettivo condomino, e cioè il proprietario o il titolare di altro diritto reale su detta unità (e non anche chi possa apparire tale), poggiando la responsabilità “pro quota” dei condomini sul collegamento tra il debito e l’appartenenza del diritto reale condominiale, emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari. – Cass. 19 ottobre 2022, n. 30877.

Invero, le obbligazioni condominiali si considerano obbligazioni propter rem, in quanto originano dalla contitolarità del diritto sulle cose, sugli impianti e sui servizi comuni. Per tale ragione, l’amministratore di condominio, al fine di ottenere il pagamento della quota per spese comuni, ha l’onere di controllare preventivamente i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà, non potendo trovare applicazione, in questo caso, l’apparentia iuris.

Il principio dell’apparenza, infatti, si applica solo quando sussistono uno stato di fatto difforme rispetto a quello di diritto, e un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo al secondo; inoltre, l’apparenza rileva giuridicamente al solo fine di individuare il titolare di un diritto e non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di chi non sia debitore. Ne deriva che in caso di unità immobiliare oggetto di diritto di usufrutto, sarà legittimato passivo, in caso di azione giudiziale da parte dell’amministratore, il nudo proprietario; l’ente di gestione condominiale non può, infatti, addurre di essere incolpevolmente ignaro della reale titolarità del diritto dominicale sull’appartamento, avendo l’usufruttuario in precedenza provveduto al pagamento degli oneri condominiali, senza mai aver informato l’amministratore della sua posizione di diritto.

Quanto al riparto delle spese, essendo i fatti di specie antecedenti all’entrata in vigore dell’art. 67, ultimo comma, disp. att. c.c. (introdotto dalla legge di riforma del condominio 220/2012) che, com’è noto, prevede la solidarietà passiva nei confronti del condominio tra proprietario ed usufruttuario, trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 1004 e 1005 c.c. per cui il titolare dell’usufrutto risponde delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria, mentre sono a carico del nudo proprietario le spese per le riparazioni straordinarie. Ne consegue che l’assemblea deve ripartire le spese tra nudo proprietario e usufruttuario in base alla loro funzione e al loro fondamento, ed altrimenti spettando all’amministratore, in sede di esecuzione, ascrivere i contributi, secondo la loro natura, ai diversi soggetti obbligati. Qualora i fatti, invece, siano successivi all’entrata in vigore della riforma, gli artt. 1004 e 1005 c.c. trovano applicazione solo nei rapporti interni tra proprietario ed usufruttuario, mentre nei confronti del condominio l’operatività dell’art. 67, ultimo comma, disp. att. c.c. fa si che ciascuno di essi possa, indifferentemente essere chiamato a rispondere per l’intero degli oneri condominiali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. S.U. 8 aprile 2002, n. 5035; Cass. II, 3 agosto 2007, n. 17039;
Cass. II, 25 gennaio 2007, n. 1627; Cass. VI, 9 ottobre 2017, n. 23621
parcheggio fuori dalle strisce

Parcheggio fuori dalle strisce: scatta la multa La Cassazione ricorda che l'art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all'uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica

Parcheggio fuori dalle strisce

Multato chi parcheggia fuori dalle strisce. Lo ha confermato la seconda sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 4040-2024, rigettando il ricorso di un automobilista sanzionato per aver parcheggiato il proprio veicolo fuori dagli appositi stalli, in violazione dell’art. 157 CdS, comma 5.

L’uomo si rivolgeva al Palazzaccio ritenendo che nello spazio in cui aveva parcheggiato il proprio veicolo non vi erano segnaletiche orizzontali, tracciate soltanto sul lato della piazzetta, “sì da non costituire ostacolo per alcun genere di transito”. Per cui, la decisione del tribunale, a suo dire, era “contraria al principio secondo cui la sosta degli autoveicoli è libera al di fuori degli stalli”.

Ma gli Ermellini ritengono la tesi infondata.

Art. 157, comma V, Codice della Strada

Richiamando i principi di recente affermati, infatti, ribadiscono che “l’art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all’uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica. La norma presuppone che la violazione sia stata consumata in zona ove la sosta è consentita ma solo con le modalità regolate dalla segnaletica. In tal senso, l’art.351 comma 2 del regolamento di esecuzione prescrive che, nelle zone di sosta nelle quali siano delimitati, mediante segnaletica orizzontale, gli spazi destinati a ciascun veicolo, i conducenti sono tenuti a sistemare il proprio mezzo nello spazio ad esso destinato, senza invadere gli spazi contigui” (cfr. Cass. n. 6930/2023).

Nel caso di specie, il tribunale ha accertato che il furgone del ricorrente era stato parcheggiato al di fuori della segnaletica orizzontale ma nella stessa piazza ove erano presenti, in diversi punti, segnali orizzontali, sicchè il parcheggio era avvenuto in prossimità degli stalli contrassegnati.

“La presenza degli stalli – concludono dalla S.C. rigettando il ricorso – non consentiva, quindi, il posizionamento del veicolo all’interno della piazza se non negli spazi delimitati dalla segnaletica orizzontale e non irregolarmente all’interno dell’area di sosta e a pochi metri dagli stalli e, dunque, in violazione dell’art. 157 C.d.S, comma 5″.

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