equo compenso avvocati

Avvocati: equo compenso non retroattivo La Cassazione ha precisato che le norme sull’equo compenso professionale, in quanto successive alla convenzione oggetto di giudizio, non possono essere applicate retroattivamente

Crediti professionali avvocati

La vicenda che ci occupa prende avvio dal giudizio instaurato da uno studio legale per ottenere il pagamento, tramite 29 decreti ingiuntivi, dei crediti professionali allo stesso spettanti sulla base di una convenzione sottoscritta con un cliente. Il cliente si era opposto ed il Giudice di Pace adito aveva parzialmente accolto tale opposizione, ritenendo applicabile l’ultima convenzione sottoscritta dalle parti e “in ragione del pagamento stragiudiziale intervenuto, revocava i ventinove decreti ingiuntivi, considerando che l’importo versato per ciascuno di essi fosse superiore al dovuto”.

Avverso tale decisione lo studio legale aveva proposto appello dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, il quale confermava gli esiti cui era giunto il Giudice di Pace.

Anche tale ultimo provvedimento giudiziario veniva impugnato dai legali dinanzi alla Corte di Cassazione.

Applicazione non retroattiva dell’equo compenso

La Corte di Cassazione, con ordinanza n.15407-2024, ha rigettato il ricorso proposto e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Nel presente esame, assume particolare rilievo il motivo d’impugnazione formulato dallo studio legale in ordine alla ritenuta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. per violazione dell’art. 345 c.p.c. con riferimento agli artt. 1341 c.c. e 13 bis legge n. 247 del 2012 “per non avere il Giudice di merito preliminarmente verificato la validità anche ai sensi dell’art. 13 bis, c.d. legge sull’equo compenso, della convenzione”.

La Corte ha ritenuto non fondata tale doglianza poiché “L’invocato art. 13-bis della legge n. 247 del 2012 è stato introdotto dal d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla l. 4 dicembre 2017, n. 172, quindi dopo la stipulazione della convenzione di cui trattasi – che entrambe le parti hanno indicato esser avvenuta nel 2013”.

Convenzioni compensi avvocati

Nella specie e per quanto qui rileva, la suddetta disposizione stabilisce che il compenso degli avvocati nei rapporti professionali regolati da convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento, anche in forma associata o societaria, delle attività esclusive di avvocato, in favore di imprese bancarie e assicurative, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, si presumono unilateralmente predisposte dalle imprese suddette. La norma prevede altresì che si considerano vessatorie le clausole contenute nelle ripetute convenzioni che determinano, anche in ragione della non equità del compenso pattuito, un significativo squilibrio contrattuale a carico dell’avvocato.

Posto quanto sopra, il Giudice di legittimità ha concluso il proprio esame sul punto, affermando che la norma citata dal ricorrente “in quanto successiva alla convenzione di cui è causa, non poteva applicarsi retroattivamente. Né la norma introdotta dal d.l. n. 148 del 2017 ha valenza interpretativa, per farne discendere l’effetto dell’applicabilità retroattiva in mancanza dell’espressa previsione nel senso dell’interpretazione autentica e dei presupposti di incertezza applicativa di norme anteriori, che ne avrebbero giustificato l’adozione”.

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omesso mantenimento figli reato

Punibile il padre che non mantiene i figli per anni La Cassazione chiarisce che la causa di esclusione di cui all’art. 131-bis c.p., è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, solo se l’omesso versamento abbia carattere di mera occasionalità

Reato art. 570-bis c.p.

Nel caso in esame la Corte di appello di Torino aveva ritenuto che il padre fosse penalmente responsabile, ai sensi dell’art. 570 bis c.p., per non aver versato quanto stabilito in sede giudiziale alla figlia minore a titolo di mantenimento, attenuando poi il trattamento sanzionatorio in ragione delle riconosciute attenuanti generiche.

Avverso tale decisione il genitore condannato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione contestando, in particolare, l’omesso riconoscimento in suo favore, da parte del Giudice di merito, della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Occasionalità dell’omesso versamento ai fini della non punibilità

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22806-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Rispetto alla suddetta contestazione, la Corte ha in particolare affermato che “la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare a condizione che l’omissione corresponsione del contributo al mantenimento abbia carattere di mera occasionalità”.

Ne consegue pertanto che, nell’ipotesi in cui la condotta illecita contestata si protragga nel tempo e si sostanzi in reiterate omissioni nel versamento del mantenimento “essendo l’abitualità nel comportamento ostativa al riconoscimento del beneficio e irrilevante la particolare tenuità di ogni singola azione od omissione, la causa di non punibilità in questione non potrà trovare applicazione”.

No alla tenuità del fatto

Nel caso in esame, l’imputato aveva protratto la condotta illecita per tre anni consecutivi con la conseguenza, ha affermato la Corte, che tale comportamento risulta inconciliabile con l’applicabilità dell’art. 131- bis c.p.

 

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concorso giudici tributari

Giudici tributari: pubblicato il bando di concorso Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il concorso pubblico per esami per la copertura di 146 posti di magistrati tributari a tempo indeterminato. Domande entro il 7 luglio

Concorso 146 giudici tributari

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 46 del 7.6.2024 è stato pubblicato il provvedimento del Ministero dell’Economia e delle Finanze con cui è stato indetto l’atteso bando di concorso “per la copertura di complessivi centoquarantasei posti di giudici tributari, a tempo indeterminato”.

Chi può partecipare al concorso

L’art. 2 del bando individua i requisiti richiesti per poter accedere al concorso, tra i quali viene in rilievo il possesso, alla data di presentazione della domanda, “del diploma di laurea in giurisprudenza conseguito al termine di un corso universitario di durata non inferiore a quattro anni, ovvero del diploma di laurea magistrale in Scienze dell’economia (classe LM-56) o in Scienze economico-aziendali (classe LM-77) o di titoli degli ordinamenti previgenti a questi equiparati”.

Come presentare domanda

La domanda di partecipazione al concorso deve essere inviata esclusivamente per via telematica; a tal proposito il candidato dovrà autenticarsi con SPID/CIE/CNS/eIDAS, mediante la compilazione del form di candidatura sul Portale unico del reclutamento «inPA», previa registrazione sullo stesso portale.

La domanda potrà essere presentata entro il 7 luglio 2024.

L’art. 3 del bando disciplina poi in maniera dettagliata il contenuto e le modalità di compilazione della domanda di partecipazione.

Le prove

L’art. 6 del bando disciplina le modalità di svolgimento della prova preselettiva, della quale verrà data comunicazione in GU 4ª Serie speciale «Concorsi ed esami» – n. 78 del 27 settembre 2024, nonché sul sito istituzionale del Mef.

La prova preselettiva

La prova preselettiva consiste nella soluzione di 75 quesiti a risposta multipla da risolvere nel tempo massimo di 60 minuti, nelle seguenti materie:

  • diritto civile (quindici quesiti);
  • diritto processuale civile (quindici quesiti);
  • diritto tributario (quindici quesiti);
  • diritto processuale tributario (quindici quesiti);
  • diritto commerciale (quindici quesiti).

Alla prova preselettiva verranno attribuiti i seguenti punteggi:

  • +1 punto per ogni risposta esatta;
  • -0,33 punti per ogni risposta errata o multipla;
  • 0 punti per ogni mancata risposta.

La prova scritta

Alla prova scritta è ammesso un numero di candidati pari a tre volte i posti messi a concorso. Accedono, altresì, alla prova scritta coloro che hanno riportato lo stesso punteggio dell’ultimo candidato che risulta ammesso.

La prova scritta consiste nello svolgimento di due elaborati, tra i seguenti:

  • elaborato teorico vertente sul diritto tributario;
  • elaborato teorico vertente sul diritto civile o commerciale;
  • prova teorico-pratica consistente nella redazione di una sentenza in materia tributaria.

Saranno ammessi alla prova orale i candidati che otterranno un punteggio non inferiore a diciotto trentesimi in ciascun elaborato della prova scritta.

La prova orale

L’ultima prova concorsuale, ovvero quella orale, verte sulle seguenti materie:

  • diritto tributario e diritto processuale tributario;
  • diritto civile e diritto processuale civile;
  • diritto penale tributario;
  • diritto costituzionale e diritto amministrativo;
  • diritto commerciale;
  • diritto dell’Unione europea;
  • contabilità aziendale e bilancio;
  • elementi di informatica giuridica;
  • colloquio in una lingua straniera, indicata dal candidato all’atto della domanda di partecipazione al concorso, scelta fra le seguenti: inglese, spagnolo, francese e tedesco.

Conseguono l’idoneità i candidati che otterranno un punteggio non inferiore a “sei decimi in ciascuna delle materie della prova orale, e un giudizio di sufficienza nel colloquio nella lingua straniera prescelta, e comunque una votazione complessiva – tra prova scritta e prova orale – non inferiore a novanta punti. Non sono ammesse frazioni di punto”.

I titoli di preferenza del concorso giudici tributari

L’art. 12 individua, a parità di merito, quali sono i titoli di preferenza nel concorso per giudici tributari, tra cui rilevano i seguenti:

  • avere svolto, con esito positivo, l’ulteriore periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo ai sensi dell’art. 50, comma 1-quater, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114;
  • avere completato, con esito positivo, il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari ai sensi dell’art. 37, comma 11, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, pur non facendo parte dell’ufficio per il processo, ai sensi dell’art. 50, comma 1-quinquies, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114;
  • aver svolto, con esito positivo, lo stage presso gli uffici giudiziari ai sensi dell’art. 73, comma 14, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98;
  • essere titolare o avere svolto incarichi di collaborazione conferiti da ANPAL Servizi S.p.a., in attuazione di quanto disposto dall’art. 12, comma 3, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26.

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correttivo codice crisi impresa

Crisi d’impresa: approvato il terzo correttivo Il provvedimento approvato dal Governo rappresenta il terzo intervento correttivo al Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, inserendosi nell'ambito dell'attuazione degli obblighi previsti dal PNRR

Correttivo Codice della crisi

Nella seduta del 10 giugno u.s., il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia, ha approvato, in esame preliminare, uno schema di decreto legislativo contenente le disposizioni integrative e correttivo al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019 n. 14.

Il Ministro della Giustizia ha reso noto che “Con l’intervento di oggi in materia di crisi d’impresa e di insolvenza, il Governo tende la mano ad aziende e professionisti in difficoltà. L’obiettivo di questo correttivo è fare in modo che – proprio come avviene per una malattia – l’eventuale crisi possa essere individuata e affrontata il prima possibile. Facendo chiarezza su molti istituti, da un lato infatti aiutiamo le imprese a non muoversi troppo tardi, dall’altro rafforziamo gli strumenti preventivi e stragiudiziali di esame della difficoltà dell’impresa e di ricerca delle possibili soluzioni. È un altro impegno del Pnrr rispettato e un concreto aiuto al nostro sistema produttivo”.

Di cosa si occupa il terzo correttivo al Codice della crisi

Il decreto legislativo in esame introduce il terzo correttivo al Codice e si prefigge di correggere alcuni difetti di coordinamento normativo venuti in rilievo a seguito dei precedenti correttivi, di porre rimedio ad alcuni errori materiali e ad aggiornare la normativa di riferimento, nonché di fornire chiarimenti di natura interpretativa.

Transazioni fiscali e composizione negoziale

Nell’ambito del cosiddetto correttivo-ter sono state introdotte delle misure in tema fiscale, legate alla transazione, anche al fine di realizzare un migliore coordinamento delle misure volte a fronteggiare la crisi d’impresa.

Tra le novità più rilevanti dello schema decreto legislativo in esame, emerge la possibilità di liquidare in prededuzione i crediti sorti durante la liquidazione giudiziale o controllata, o successivamente alla domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

La composizione negoziata è accessibile, non solo ad imprese in stato di crisi o insolvenza, ma anche a quelle in condizioni di mero squilibrio finanziario; nell’ambito della composizione negoziata è inoltre prevista la possibilità di proporre la transazione fiscale tra il debitore e le agenzie fiscali dei tributi, quali imposte dirette come IRES e IRAP, e per le ritenute d’acconto, ad eccezione dei tributi che costituiscono risorse proprie dell’Unione Europea, quali ad esempio l’IVA e i debiti previdenziali. La transazione consente di procedere al pagamento del debito fiscale sia parzialmente che in maniera dilazionata.

L’accordo in questione viene automaticamente annullato qualora, successivamente al suo raggiungimento, è stata avviata una procedura di liquidazione, viene effettuato un accertamento di insolvenza, o se l’imprenditore non completa i pagamenti previsti entro 60 giorni dalla scadenza stabilita nell’accordo.

Accordi di ristrutturazione

Il decreto in esame si occupa anche di disciplinare le condizioni al ricorrere delle quali il Tribunale può autorizzare l’omologazione degli accordi di ristrutturazione, anche in assenza dell’adesione delle Agenzie fiscali e/o dell’INPS.

In particolare, il Tribunale ha la facoltà di autorizzare l’omologazione degli accordi di ristrutturazione, a condizione che:

  • l’accordo non abbia carattere liquidatorio;
  • i crediti vantati dai creditori che aderiscono alla ristrutturazione rappresentano almeno un quarto del totale dei debiti, e il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi non deve essere inferiore al 60%;
  • il trattamento riservato all’Amministrazione finanziaria o agli enti previdenziali deve essere equivalente o superiore a quello che otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale;
  • l’adesione dei creditori pubblici deve essere decisiva per il raggiungimento delle soglie di efficacia degli accordi.

Il ruolo dei professionisti

Nel decreto legislativo in esame, i professionisti assumono un ruolo centrale nel processo di gestione e risanamento delle imprese in crisi.

I professionisti, iscritti in albi professionali, sono infatti chiamati a intervenire in varie fasi del processo di crisi, dall’identificazione precoce delle criticità, fino alla loro risoluzione attraverso misure di risanamento.

Inoltre, la formazione e l’esperienza acquisite in ruoli, quali l’attestatore, il curatore, il commissario giudiziale o il liquidatore giudiziale, negli ultimi cinque anni, sono validi per consentire l’iscrizione dei professionisti all’elenco dei gestori della crisi, consolidando ulteriormente il ruolo dei professionisti nel quadro legislativo di riferimento.

La segnalazione anticipata delle crisi di impresa

Altra modifica rilevante riguarda la segnalazione anticipata delle crisi di impresa, poiché lo schema di decreto introduce l’attenuazione o l’esclusione della responsabilità dei sindaci che abbiano segnalato tempestivamente le condizioni di crisi di cui siano venuti a conoscenza all’organo amministrativo.

riposo compensativo

Riposo compensativo: la Cassazione fa chiarezza Il riposo compensativo non può essere goduto in giorni di festività infrasettimanali, se ciò non è previsto da accordo individuale, o da un accordo sindacale stipulato dalle organizzazioni sindacali

Mancata fruizione del riposo compensativo

Il caso in esame prende avvio dalla decisione adottata dalla Corte d’appello di Milano con cui era stata respinta la domanda formulata da alcuni lavoratori in ordine al riconoscimento in loro favore del diritto a godere di un giorno di riposo compensativo in ragione della prestazione lavorativa svolta durante una domenica.

Avverso la suddetta sentenza, i lavoratori avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Contrattazione collettiva e accordi aziendali

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14904-2024, ha accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto dai lavoratori.

In particolare, la Corte ha esaminato il CCNL applicato al caso di specie, la normativa di riferimento e l’accordo aziendale riferito alle parti in causa.

Per quanto attiene al CCNL, la Suprema Corte ha riferito che esso, in tema di lavoro domenicale, stabilisce che la contrattazione di secondo livello, territoriale e aziendale, ai fine di migliorare il livello di competitività ed efficienza organizzativa, possono prevedere modalità di attuazione del riposo settimanale, individuando, in ogni caso, modalità idonee a garantire al lavoratore un’equa distribuzione dei carichi di lavoro, anche conformemente a quanto previsto dal d. lgs n. 66/2003.

Sempre nell’ambito della contrattazione nazionale applicabile al rapporto in esame viene inoltre specificato che le prestazioni rese nei giorni di riposo settimanale dovranno essere retribuite con una maggiorazione pari al 30% sulla quota oraria della normale retribuzione, fermo comunque restando il diritto del lavoratore di godere del riposo compensativo nel giorno successivo.

Ciò posto, il Giudice di legittimità è passato all’esame della contrattazione integrativa di secondo livello. Rispetto a tale regolamentazione la Corte ha precisato che, con l’accordo aziendale operativo nel caso di specie, le parti hanno espressamente previsto la possibilità di organizzare i turni anche durante la domenica, nella misura massima di 22 domeniche all’anno.

Tuttavia, ha rilevato la Corte, il suddetto accordo “non contiene una esplicita disciplina del riposo compensativo”. Da tale carenza discende l’applicazione di quanto previsto dal d.lgs n. 66/2003 e dal CCNL applicabile, poiché la contrattazione aziendale, nel caso in esame, non ha derogato a tali regolamentazioni.

Diritto soggettivo del lavoratore

La Corte precisa infine che il riposo compensativo spettante al lavoratore non può essere goduto nei giorni festivi, rappresentando quest’ultimi un diritto soggettivo cui il lavoratore può rinunciare solo attraverso un accordo individuale, o un accordo sindacale stipulato dalle OO.SS. nella specie mancante.

Ne consegue pertanto che, anche l’affermazione secondo cui i dipendenti avrebbero fruito del riposo compensativo durante i giorni festivi successivamente goduti, non può trovare accoglimento nel caso in esame.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha pertanto accolto, per quanto qui rileva, il ricorso proposto dai lavoratori.

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petardi strada reato

È reato esplodere petardi per strada La Cassazione ha ricordato che il reato di cui all’art. 703 c.p. integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni sulla pubblica via possano compromettere l’incolumità delle persone

Fuochi d’artificio sulla pubblica via

Il caso prende avvio dalla decisone adottata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli con cui l’imputato veniva assolto in relazione all’accusa di aver acceso fuochi d’artificio in pubblica via, perché il fatto non sussiste.

Nella specie, il giudicante aveva rilevato che, al momento dell’esplosione degli artifici pirotecnici da parte dell’imputato in pubblica via “non era in corso alcuna processione religiosa né altra adunanza si sorta e non vi erano per strada persone la cui incolumità fosse stata messa in pericolo dagli spari”.

Avverso tale decisone il p.m. aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, deducendo, in particolare, l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 703 c.p.

A detta del ricorrente, il GIP non avrebbe tenuto conto che, nella fattispecie in esame, considerata la descrizione della condotta illecita, si è in presenza in un pericolo presunto “con la conseguenza che il giudice non è tenuto a verificare se il fatto costituisca o meno pericolo per la pubblica incolumità”.

La fattispecie di cui all’art. 703 c.p. è reato di pericolo

La Corte di cassazione, con sentenza n. 22505-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto in quanto basato su censure non consentite in sede di legittimità.

Ad ogni modo, la Corte, prima di pronunciarsi in relazione all’inammissibilità del ricorso, ha esaminato la fattispecie in contestazione.

In particolare, la Corte ha ricordato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’argomento, la quale ha ritenuto che “l’ipotesi sanzionata dall’art. 703 cod. pen. (…) integra un reato di pericolo, in relazione alla possibilità concreta che esplosioni di ordigni in centro abitato, o sulla pubblica via (…) compromettano l’incolumità delle persone”.

Anche un comune petardo può essere lesivo

Sulla base di quanto sopra riferito, la Corte ha affermato che “poiché anche l’esplosione di un comune petardo a distanza ravvicinata da persone può essere lesivo delle persone stesse, il semplice riferimento a siffatto tipo di ordigno non esclude la sussistenza del reato”.

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vendita aliud pro alio

Vendita aliud pro alio: i chiarimenti della Cassazione Si ha vendita aliud pro alio se il bene consegnato, appartenendo ad un genere diverso da quello pattuito, si riveli funzionalmente inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa

Inadempimento per vendita aliud pro alio

La vicenda in esame prende avvio dall’inadempimento di un fornitore di calcestruzzo, rispetto al quale la società cliente aveva agito in giudizio per far valere la responsabilità contrattuale dello stesso. Il Tribunale adito concludeva il proprio esame affermando, per quanto qui rileva, la sussistenza di un’ipotesi di vendita aliud pro alio.

Avvero tale decisione il fornitore aveva proposto ricorso presso la Corte d’Appello di Perugia per accertare l’erronea qualificazione dell’inadempimento quale consegna di aliud pro alio.

Il Giudice di secondo grado aveva ridotto l’entità del risarcimento del danno e aveva confermato gli esiti del Tribunale in ordine alla qualificazione dell’inadempimento del fornitore in termini di vendita di aliud pro alio.

Tale decisione veniva impugnata dal fornitore che aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione con un unico motivo svolto denunciando, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’articolo 111, sesto comma, cost, per avere la Corte di merito adottato una motivazione apparente nel confermare la sentenza di primo grado quanto alla integrazione di una ipotesi di vendita di aliud pro alio per la fornitura di calcestruzzo di minor resistenza, inidoneo all’uso previsto, sulla scorta del rinvio agli accertamenti peritali eseguiti.

Vendita aliud pro alio e mancanza di qualità promesse

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13214-2024, ha accolto il motivo di ricorso e ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

In particolare, la Corte ha riferito che, nel caso in esame, dalle risultanze della sentenza impugnata “il bene alienato (…) non era comunque sfruttabile (recte “idoneo”) per la sua destinazione (…), senza che sia stato precisato il quomodo della genericamente richiamata inidoneità e senza che sia emerso che, in conseguenza della sua natura, sia stata comunque compromessa la ratio giustificativa per la quale il negozio era stato stipulato”.

La Corte ha chiarito che, in tema di compravendita “il vizio redibitorio (art. 1490 c.c.) e la mancanza di qualità promesse o essenziali (1497 c.c.), presupponendo l’appartenenza della cosa al genere pattuito, differiscono dalla consegna di aliud pro alio, che si determina quando la cosa venduta appartenga ad un genere del tutto diverso o presenti difetti che le impediscano di assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti”.

Al contrario, viene in rilievo l’ipotesi di vendita aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., se “il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita”.

Il principio di diritto

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio della causa alla Corte d’appello, la quale dovrà decidere uniformandosi al seguente principio di diritto “Sussiste consegna di aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’articolo 1453 del codice civile, qualora il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita. Questo è il principio affermato dalla Corte di cassazione con ordinanza del 14 maggio 2024, n. 13214”.

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Niente tenuità per il “nonno” spacciatore La Cassazione ha confermato la decisione del giudice di merito con cui veniva stabilito che, ai fini del riconoscimento della particolare tenuità del fatto, l’età dell’imputato non rileva

Illecita detenzione di sostanze stupefacenti

Nel caso in esame, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la decisione del Giudice di primo grado con cui gli imputati venivano condannati per i reati di cui all’art. 73, comma 5, DPR n. 309/1990, per avere, in concorso tra loro, illecitamente detenuto per la cessione a terzi di sostanza stupefacente di tipo cocaina.

Avverso tale decisione gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, evidenziando, in particolare, gli indici per l’accertamento della tenuità del fatto quali, per quanto qui rileva, l’età avanzata degli imputati. Secondo i ricorrenti tali elementi non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello.

Nessuna tenuità del fatto per lo spacciatore ultraottantenne

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 22017-2024, ha rigettato i ricorsi proposti e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, i ricorrenti hanno evidenziato molteplici elementi che costituiscono indici positivi per l’accertamento della tenuità del fatto e che, secondo gli stessi, non erano stati oggetto di valutazione da parte della Corte d’appello, quali “l’età, l’assenza di precedenti penali recenti, l’assenza di carichi pendenti, le precarie condizioni di salute, lo svolgimento, in modo regolare e continuativo (…) dell’attività lavorativa, il mancato reperimento, durante la perquisizione, di materiale da taglio o da confezionamento della sostanza stupefacente”.

Rispetto al ricorso proposto, la Corte ha anzitutto ripercorso i fatti di causa, dai quali era emerso che “la condotta contestata ai ricorrenti concerneva la detenzione ai fini di cessione di 15,6 grammi di cocaina, suddivisi in 13 involucri di un grammo ciascuno circa, da cui era possibile trarre un numero considerevole di dosi, pari a 66, non potendosi ritenere l’offesa come di particolare tenuità sotto il profilo della esiguità del danno o del pericolo”.

Rispetto a tali circostanze, ha riferito la Corte, il Giudice di merito aveva tenuto in considerazione ai fini della decisione il significativo quantitativo di sostanza detenuta, nonché la personalità negativa degli imputati, entrambi gravati da precedenti penali.

In relazione alla doglianza formulata dai ricorrenti circa il mancato riconoscimento, da parte del Giudice di merito, delle attenuanti generiche, la Corte ha riferito altresì che gli elementi difensivi proposti dai ricorrenti non assumono rilievo determinante ai fini del riconoscimento delle invocate attenuanti e ciò considerato il fatto che il giudice di merito “non è tenuto ad esaminare e valutare tutte le circostanze prospettate o prospettabili dalla difesa, ma è sufficiente che indichi i motivi per i quali non ritiene di esercitare il potere discrezionale attribuitogli dall’art. 62 bis cod. pen.”.

Niente tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

La Cassazione ha pertanto evidenziato come, la Corte territoriale, avendo negato l’attribuzione delle attenuanti generiche, ha evidenziato la gravità del fatto in relazione alla quantità di sostanza detenuta e alla personalità degli imputati.

Sulla scorta di quanto sopra, la Corte ha pertanto confermato gli esiti del giudizio di merito e ha ritenuto che, nel caso di specie, non venga in rilievo la tenuità del fatto a norma dell’art. 131-bis c.p., secondo quanto richiesto dai ricorrenti.

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avvocato offende collega

L’avvocato non può dare dell’incapace al collega Il CNF ha affermato che qualora la discussione tra avvocati sconfini sul piano personale e soggettivo l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti

Apprezzamenti denigratori sull’attività del collega

Nel caso in esame un avvocato era stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio Distrettuale di Disciplina di Ancona per rispondere della violazione dell’art. 42 comma 1 del cdf, per avere espresso apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega tramite l’invio di un’e-mail, e per aver reiterato tali valutazioni anche nei propri scritti difensivi.

L’avvocato aveva, in particolare, utilizzato frasi del seguente tenore “P.S. Un consiglio: domani dia un’occhiata alle mie memorie 183 e se le riesce si vergogni”, ovvero aveva espresso la seguente affermazione, contenuta nella memoria difensiva dell’avvocato, secondo cui il collega “nei suoi scritti aveva riportato “tesi assurde” che dimostravano “palmari carenze sul piano tecnico giuridico”. Ascrivendo alla stessa “una condotta pregiudizievole ai propri clienti”.

All’esito del dibattimento, il Consiglio Distrettuale Disciplinare (CDD) di Ancona, aveva ritenuto integrata la responsabilità disciplinare dell’avvocato nei confronti del quale era stato avviato il procedimento, per gli addebiti allo stesso contestato, con irrogazione della sanzione dell’avvertimento nei suoi confronti.

Avverso tale decisione l’avvocato incolpato aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), chiedendo di dichiarare il suo proscioglimento e, per l’effetto, disporsi il non luogo a provvedimento disciplinare.

Il CNF conferma la decisione del CDD di Ancona

Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 73-2024, ha rigettato il ricorso proposto.

In particolare, per quanto rileva nella presente sede, il CNF ha affermato che “gli apprezzamenti formulati dall’Avv. [RICORRENTE] sulla attività professionale della collega assumono, senz’altro, rilievo di natura denigratoria eccedendo il limite di compatibilità con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale né può essere invocato dal ricorrente il principio della riservatezza della corrispondenza atteso che il thema decidendum non riguarda in alcun modo ipotesi di trattative in corso fra le parti”.

Il CNF ha proseguito il proprio esame rilevando che “nel momento in cui la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte può, al limite, ammettersi l’asperità dei toni ma allorché la discussione sconfini sul piano personale e soggettivo l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti”.

Violazione art. 42, comma 1, Codice deontologico forense

Sulla scorta di quanto sopra riferito, Consiglio ha ritenuto pertanto integrata, nel caso di specie, la violazione dell’art. 42, comma 1, cdf, che vieta all’avvocato di esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega e, per l’effetto, ha confermato la sanzione dell’avvertimento a carico del ricorrente, condividendo le motivazioni espresse dal CDD di Ancona.

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incidente cane randagio

Incidente con cane randagio: Asl sempre responsabile La Cassazione rammenta che l’obbligo di prevenzione del randagismo grava per legge sull’ASL e non è assolto delegando, in base ad una convenzione, i propri compiti ad altro soggetto

Responsabilità sinistro con cane randagio

Il caso in esame prendeva avvio dalla causa avviata da un automobilista nei confronti dell’ASL, nell’ambito della quale lo stesso aveva rappresentato che, per evitare l’investimento di un cane randagio che improvvisamente aveva attraversato la strada, era andato finire contro un muro di sostegno provocando danni alla vettura e riportando ferite gravi che gli avevano causato un’invalidità del 15%.

Il giudizio di merito si era concluso con la decisione della Corte d’appello di Napoli con cui la ASL ed il Comune di Vitulano, chiamato in causa dalla ASL, venivano condannati in solido al risarcimento dei danni subiti dai danneggiati.

Avverso tale provvedimento, il Comune di Vitulano aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

L’obbligo grava per legge sulla ASL

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15244-2024, ha rigettato il ricorso proposto dal Comune di Vitulano.

Nella specie, il Comune aveva sostenuto che “l’unica responsabile della prevenzione del randagismo e dunque della cattura degli animali randagi, deve ritenersi l’azienda sanitaria locale, con esclusione dunque di ogni responsabilità in capo ai comuni”.

Con ricorso incidentale, invece, l’ASL aveva rilevato che, poiché aveva delegato (con la sottoscrizione di una convenzione) l’attività di prevenzione del randagismo al Comune, difettasse una responsabilità a proprio carico.

In relazione alle suddette posizioni, la Corte ha affermato che “L’obbligo grava per legge regionale sulla ASL, e non si può dire che venga assolto semplicemente delegando, in base ad una convenzione, i propri compiti ad altri: la convenzione vale tra le parti che la stipulano, e non verso i terzi, nei confronti dei quali la legge istituisce come obbligata la ASL. E dunque la ASL resta il soggetto obbligato, salvi i suoi diritti contrattuali verso il soggetto che si era impegnato nei suoi confronti”.

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