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Occupazione sine titulo: danno in re ipsa? È configurabile un danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile, al proprietario spetta, in conseguenza della perdita della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento – diretto o indiretto – sulla cosa, il risarcimento sia del danno da perdita subita (liquidato dal giudice, ove non dimostrabile nel suo preciso ammontare, con valutazione equitativa, anche mediante il parametro del canone locativo di mercato) che del danno da mancato guadagno (corrispondente a quanto lo stesso avrebbe ottenuto se avesse concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato ovvero lo avesse venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato). – Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2022, n. 114.

Con la pronuncia in rassegna le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel comporre un contrasto interno tra sezioni semplici, hanno fatto luce sulla questione della configurabilità di un danno c.d. in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile chiarendo che il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento è rappresentato dalla concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo) che è andata perduta e, al contempo, specificando quali siano i criteri da seguire per la liquidazione del relativo danno, nella duplice componente della perdita subita e del mancato guadagno.

La Corte, nel formulare i principi di cui in massima, dopo aver riassunto gli opposti orientamenti formatisi in seno alla II e alla III Sezione civile, ha osservato quanto segue: a) la questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto di proprietà su un bene immobile in conseguenza dell’occupazione dello stesso sine titulo da parte di un terzo, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria; b) a tale quesito deve darsi una risposta positiva nei termini emersi nella linea evolutiva seguita dalla giurisprudenza della II Sezione civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato; c) detto esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. In particolare la linea da perseguire è quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione civile, e, al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela; d) la distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è, infatti, il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules) sicché la tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo (a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 c.c.), nel mentre l’azione risarcitoria è orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto costituendo la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi; in altri termini, mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata; e) la distinzione fra le due forme di tutela (reale e risarcitoria) comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile; ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica; in proposito va rilevato che: e1) la distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576; Id., 11 novembre 2008, n. 26972, pronunce che, muovendo entrambe dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento – dommage o damnum – ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056 c.c., la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza – préjudice o praeiudicium –, costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria); ed invero, già prima delle appena richiamate pronunce delle sezioni unite, vi erano stati, nella medesima direzione, altri arresti delle sezioni semplici (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619; Id., 24 ottobre 2003, n. 16004; Id., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, tutte rese in materia di danno non patrimoniale) e della giurisprudenza costituzionale (secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372 e da cui è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza, da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205); e2) la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione ha, altresì, chiarito che “se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria” (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit.), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse (ad avviso della quale la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata; visione che resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico – non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto – mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. è quello dell’allocazione del danno contra ius – “ingiusto” – secondo la qualifica dell’art. 2043 c.c.); al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 c.c. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire; ciò in quanto la fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza sicché la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056 c.c. con la conseguenza che, da un lato, il “danno” di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 c.c. non è altra cosa dal “danno ingiusto” di cui si parla nella prima parte e, dall’altro, se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto; e3) causalità materiale e causalità giuridica non sono, così, le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di “profili diversi” dell’unico danno già discorreva Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit., punto n. 5.1), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta; cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è, infatti, integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale sicché la distinzione in parola è logica, non cronologica; f) così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, occorre definire più specificatamente il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà; in proposito deve rilevarsi che: f1) la circostanza che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita; f2) la violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano; g) ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto; in particolare: g1) quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso (come accade, ad esempio, nel caso del danno da c.d. “fermo tecnico di veicolo incidentato”, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo su cui si vedano Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. civ., sez. III, 19 settembre 2022, n. 27389); g2) quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico e l’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso; questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 c.c., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, c.c.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione; sia la cosa (art. 810 c.c.), che i frutti (art. 820 c.c.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori; h) la domanda risarcitoria presuppone che l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno; in quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà sicché l’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa ed il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”; il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire; i) saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale; più segnatamente: i1) il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria; diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della terza sezione civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria; i2) affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa; i3) viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria (rectius reale n.d.r.), il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria; j) non è, invece, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva (sui connotati specifici dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione si vedano: Cons. Stato, Ad. Plen., 9 aprile 2021, n. 6; Id., 20 gennaio 2020, nn. 2 e n. 4; Id., 18 febbraio 2020, n. 5); in particolare: j1) l’art. 42bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene; l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37 del medesimo D.P.R. 327/2001, per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato; j2) anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42bis del D.P.R. 327/2001, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. civ., sez. I, ord. 20 novembre 2018, n. 29990); j3) la determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione; si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge; ciò in quanto, come spiega Cass. civ. S.U., 20 luglio 2021, n. 20691, “nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge”; k) nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è, al contrario, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa; ciò significa che: k1) il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento; ciò in quanto, se è pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato; k2) alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria; l) la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, e non alla vendita (per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno); con riguardo alla perdita subita attinente al godimento va precisato che: l) l’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito; 2) al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento; 3) la contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c.; 4) in presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici; 5) nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa; 6) sia nel caso di godimento diretto che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa; m) se, invece, la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite); nel dettaglio: m1) ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici; m2) per ogni altro aspetto può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. (fra le tante Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2552; Id., 26 novembre 2007, n. 24614; Id., 13 luglio 2005, n. 14753; Id., 23 maggio 2002, n. 7546); n) sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. civ, sez. VI, ord. 31 agosto 2020, n. 18074; Cass. civ., sez. lav. 4 gennaio 2019, n. 87; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2016, n. 14652; Id., 13 febbraio 2013, n. 3576); in particolare: n1) poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, c.p.c., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno; n2) sul piano pratico ne consegue la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c., in relazione alle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno; n3) ciò vale a chiarire la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della seconda sezione civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. II, ord. 22 aprile 2022, n. 12865; Id., 20 gennaio 2022, n. 4936;
Cass. civ., sez. VI, ord. 7 gennaio 2021, n. 39
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Proroghe concessioni sale bingo È legittima secondo l’ordinamento comunitario la disciplina nazionale in materia di proroghe delle concessioni per la gestione delle sale bingo?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Rimessione alla Corte di Giustizia U.E. – Cons. Stato, sez. VII, ord. 21 novembre 2022, nn. 10261, 10263, 10264.

Con le ordinanze gemelle nn. 10261, 10263 dello scorso 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali.

  1. Se la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, nonché i principi generali desumibili dal Trattato, e segnatamente gli artt. 15, 16, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea e gli artt. 8, 49, 56, 12, 145 e 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, debbano essere interpretati nel senso che essi trovano applicazione a fronte di concessioni di gestione del gioco del Bingo le quali siano state affidate con procedura selettiva nell’anno 2000, siano scadute e poi siano state reiteratamente prorogate nell’efficacia con disposizioni legislative entrate in vigore successivamente all’entrata in vigore della direttiva ed alla scadenza del suo termine di recepimento;
  2. nel caso in cui al primo quesito sia fornita risposta affermativa, se la direttiva 2014/23/UE osta ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  3. se la direttiva 89/665/CE, quale modificata dalla direttiva 2014/23/UE, osta ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  4. se, in ogni caso, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  5. se gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  6. se, più in generale, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino a una normativa nazionale (quale quella che rileva nella controversia principale), la quale prevede a carico dei gestori delle sale Bingo il pagamento di un oneroso canone di proroga tecnica su base mensile non previsto negli originari atti di concessione, di ammontare identico per tutte le tipologie di operatori e modificato di tempo in tempo dal legislatore senza alcuna dimostrata relazione con le caratteristiche e l’andamento del singolo rapporto concessorio.

 

Con successiva ordinanza n. 10264, depositata sempre in data 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha, poi, rimesso alla Corte di Giustizia ulteriore questione “se la direttiva 2014/23/UE, ove ritenuta applicabile e, in ogni caso, i principi generali desumibili dagli artt. 26, 49, 56 e 63 del TFUE come interpretati e applicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, con particolare riguardo al divieto di discriminazioni, al canone di proporzionalità ed alla tutela della concorrenza e della libera circolazione dei servizi e dei capitali, ostino all’applicazione di norme nazionali per cui il legislatore nazionale o l’amministrazione pubblica possano, durante la cd “proroga tecnica” più volte rinnovata nell’ultimo decennio nel settore delle concessioni di gioco, incidere unilateralmente sui rapporti in corso, introducendo l’obbligo di pagamento di canoni concessori, originariamente non dovuti, ed aumentando, successivamente a più riprese i medesimi canoni, sempre determinati in misura fissa per tutti i concessionari a prescindere dal fatturato, apponendo anche ulteriori vincoli all’attività dei concessionari come il divieto di trasferimento dei locali e subordinando la partecipazione alla futura procedura per la riattribuzione delle concessioni all’adesione degli operatori alla proroga medesima”.

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Impugnazione acquisizione bene patrimonio del comune Il creditore ipotecario è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione del bene del debitore al patrimonio del comune?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Il creditore ipotecario (al pari di qualsiasi creditore – anche chirografario – che trascriva pignoramento immobiliare) deve ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo all’intera serie di provvedimenti contemplati dall’art. 31 TU edilizia. – TAR Napoli, Sez. II, 29 novembre 2022, n. 7453.

Con la sentenza dello scorso 29 novembre, n. 7453, la II Sezione del TAR Napoli ha posto l’attenzione sulla legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare l’ordinanza di acquisizione del bene del debitore al patrimonio del Comune.

Al riguardo la Corte ha statuito che il creditore ipotecario non è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione avente ad oggetto beni insistenti sul fondo di proprietà del debitore, atteso che l’azione produrrebbe effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto, e che – nel giudizio amministrativo – l’esercizio dell’azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi.

È noto, infatti, che la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e prostula l’esistenza di un interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto; altrimenti l’impugnativa verrebbe degradata al rango di azine popolare a tutela dell’oggettiva legittimità dell’azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa.

Inoltre, perché un interesse possa essere tutelabile con un’azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall’interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell’azione amministrativa, ed anche la lesione da cui discende l’interesse all’impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incida in maniera immediata sull’interesse legittimo della parte ricorrente, di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un’azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strutturalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l’esercizio nell’ambito del giudizio amministrativo dell’azione non può essere delegato fuori da un’espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi.

I Giudici condividono la posizione già sostenuta dal TAR Valle D’Aosta, Sez. Unica, 12 ottobre 2018, n. 48, secondo cui: “È certamente ammissibile per il creditore ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario, laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo da parte del creditore pignorante non può ritenersi ammissibile perché chiaramente avente natura surrogatoria e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere con la demolizione”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    TAR Valle D’Aosta, Sez. Unica, 12 ottobre 2018, n. 48
Difformi:      TAR Piemonte, sez. II, 27 giugno 2018, n. 791
giurista risponde

Sindacato giudiziale e legittimazione processuale associazioni Qual è l’ubi consistam della legittimazione processuale delle associazioni collettive? E in che termini si estende il sindacato giudiziale sui provvedimenti amministrativi espressione di potere discrezionale tecnico?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

La legittimazione processuale delle organizzazioni collettive si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo. Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Il sindacato giudiziario sui provvedimenti amministrativi espressione di discrezionalità tecnica non può spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti. – TAR Firenze, sez. II, 14 novembre 2022, n. 1303.

Con la pronuncia n. 1303 dello scorso 14 novembre, il TAR Firenze ha affermato che non sussiste il difetto di giurisdizione allorché si faccia valere non un diritto soggettivo alla tutela della salute, bensì il loro interesse legittimo al corretto esercizio del potere da parte delle Amministrazioni intimate nella fattispecie in esame.

La contestazione non cade su un agire amministrativo direttamente impattante su un diritto soggettivo asseritamente leso, ma afferisce all’esercizio di attribuzioni pubblicistiche, a fronte delle quali la posizione dedotta in giudizio è quella dell’interesse legittimo.

Nel caso di specie, l’azione amministrativa si è svolta attraverso un procedimento, con spendita di discrezionalità, culminante in provvedimenti, conformativi e non meramente accertativi di una situazione fattuale, essendo essi creatori del fatto e non dichiarativi della sua esistenza, ai fini della produzione delle conseguenze legislativamente previste. Nel dettaglio, nella fattispecie in contestazione si controverte della legittimità o meno del decreto regionale di autorizzazione ambientale nonché del permesso di costruire rilasciati in favore della società controinteressata ed impugnati da un’associazione ambientalista).

In punto di legittimazione processuale delle organizzazioni collettive, poi, la Corte rileva che essa si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo.

Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Occorre, altresì, che l’attività del comitato si sia protratta nel tempo e che, quindi, il comitato non nasca in funzione dell’impugnativa di singoli atti e provvedimenti.

Infine, con riguardo al sindacato giudiziale in merito ai provvedimenti amministrativi espressivi di un potere discrezionale tecnico, i Giudici fiorentini, richiamando la pacifica giurisprudenza sul punto, sostengono che: “In presenza di provvedimenti espressivi di discrezionalità tecnica, che, per definizione, non implicano, una comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi secondari, bensì l’applicazione di scienze tecniche al caso concreto, il controllo giudiziario si estende anche all’attendibilità delle operazioni effettuate”. La valutazione riguarda sia il profilo della correttezza del criterio tecnico individuato dall’amministrazione sia quello della correttezza del procedimento seguito per la sua applicazione e si giustifica sulla base della distinzione tra la “opinabilità”, che caratterizza le valutazioni tecniche, e la “opportunità” che connota invece le scelte di merito.

La valutazione effettuata dall’Amministrazione, quindi, non può essere sostituita da quella del giudice.

Il sindacato giudiziario non può infatti spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2022, n. 7799;
Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4522;
Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2022, n. 2269;
Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2022, n. 1445;
Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2022, n. 530;
TAR Firenze, sez. II, 23 marzo 2022, n. 372;
TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 5 luglio 2021, n. 208;
TAR Liguria, sez. II, 10 febbraio 2017, n. 95;
TAR Bari, sez. I, 29 settembre 2011, n. 1665
giurista risponde

Sindacato giudiziale nell’anomalia dell’offerta Come si esprime il sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile. Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico. – TAR Napoli, sez. I, 1° dicembre 2022, n. 7510.

Con la decisione dello scorso 1° dicembre, la I Sezione del TAR Napoli si è – ancora una volta – interrogata in merito al sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta, statuendo che nel giudizio di anomalia dell’offerta, il momento comparativo non può fondarsi sulla sola circostanza che i preventivi richiesti ad altri fornitori per i medesimi prodotti prevedano prezzi più elevati di quelli ottenuti dalla controinteressata.

La determinazione del prezzo dei materiali è anche il risultato di peculiari rapporti commerciali tra il fornitore e il cliente, il quale è in grado di spuntare condizioni particolarmente favorevoli non replicabili con altri imprenditori.

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile; aspetto che alla luce delle verifiche della Commissione, non può essere messa in discussione.

Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico, sicché la sua impugnazione non può essere improntata alla “caccia all’errore” su singole voci di costo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    TAR Milano, sez. I, 6 giugno 2022, n. 558;
TAR Napoli, sez. IV, 26 aprile 2022, n. 2835
giurista risponde

Sindacato giudice amministrativo e potere discrezionale della PA Qual è l’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di potere discrezionale tecnico dell’Amministrazione?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. – Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2022, n. 10624.

Con la presente pronuncia il Consiglio di Stato torna ad occuparsi dell’ambito del sindacato del G.A. nelle ipotesi di esercizio del potere discrezionale tecnico da parte dell’Amministrazione.

Primariamente i Giudici affermano che, a differenza delle scelte politico-amministrative (cd. discrezionalità amministrativa) – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ragionevole ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (cd. discrezionalità tecnica) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della attendibilità tecnico-scientifica.

In alcune ipotesi normative, il fatto complesso viene preso in considerazione nella sua dimensione oggettiva di fatto “storico”: qui gli elementi descrittivi della fattispecie, anche quelli valutativi e complessi, vanno accertati in via diretta dal giudice amministrativo, in quanto la sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati costituisce un’attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa (come avviene, ad esempio, nel caso di sanzioni amministrative punitive dove, in virtù del principio di stretta legalità, spetta al giudice estrapolare la norma “incriminatrice” dalla disposizione). In altre parole, invece, la fattispecie normativa considera gli elementi che rinviano a nozioni scientifiche e tecniche controvertibili o non scientificamente verificabili, non come fatto “storico” (nel senso sopra precisato), bensì come fatto “mediato” dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione. In quest’ultimo caso, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a definire la fattispecie sostanziale, senza tuttavia che si possa riconoscere un ambito di valutazioni riservate alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale.

Infine, la Corte afferma che allorquando difettano i parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non deduce ma valuta se la decisione pubblica rientri o meni nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere – contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di mettere seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 9 maggio 2022, n. 3570;
Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990
Difformi:      Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2022, n. 2697; Id., 27 gennaio 2022, n. 563;
Id., 11 gennaio 2022, n. 81
giurista risponde

Sfruttamento dei lavoratori e confisca del profitto In base a quali parametri si valuta l’applicazione della confisca del profitto derivante dal delitto di cui all’art. 603bis del Codice Penale in tema di illecito sfruttamento dei lavoratori?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto”), trattandosi di un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito. – Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2022, n. 43470.

Il delitto di cui all’art. 603bis cod. pen. punisce le condotte, distorsive del mercato del lavoro, di reclutamento e intermediazione, le quali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sono caratterizzate dallo sfruttamento di questi ultimi anche mediante violenza o minaccia.

Avendo come obiettivo politico-criminale la repressione del fenomeno del “caporalato”, la norma colpisce il “reclutamento”, ossia il complesso delle operazioni con le quali si provvede alla selezione di manodopera lavorativa. Il reclutatore sanzionato, id est il caporale, svolge un’attività di vera e propria intermediazione fra i prestatori d’opera e il datore di lavoro. A connotare la condotta criminosa è l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, scegliendo per la raccolta dei prodotti agricoli nelle campagne sia immigrati talvolta irregolari sia cittadini con difficoltà economiche.

Sono molteplici gli indici presuntivi dello sfruttamento fissati dalla disposizione: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o sproporzionato rispetto a quantità e qualità del lavoro svolto; reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposo settimanale e ferie; inosservanza della normativa in materia di sicurezza e igiene; sottoposizione del lavoratore a condizioni particolarmente degradanti e metodi di sorveglianza.

Costituiscono, inoltre, aggravanti: il reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre; l’età non lavorativa dei soggetti; l’esposizione dei lavoratori a grave pericolo.

Si evince dai tratti qualificanti della fattispecie delittuosa che si tratta di un “reato contratto” in cui il “pactum sceleris” è penalmente stigmatizzato: il disvalore è concentrato sulla conclusione del contratto. Non può, dunque, rientrare nella categoria dei “reati in contratto” in cui la legge sanziona non il fatto dell’accordo, bensì il comportamento violento o fraudolento, tenuto dal reo durante la stipulazione del contratto.

Con riferimento al profitto del reato, occorre innanzitutto chiarire che esso va inteso quale “vantaggio di natura economica”, “beneficio aggiunto di natura patrimoniale, “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato”.

Per consolidata giurisprudenza, la confisca del profitto, la quale risponde a esigenze di giustizia e di prevenzione generale e speciale, può essere applicata in base al criterio discretivo della pertinenzialità al reato del profitto stesso e non, invece, secondo parametri valutativi di tipo aziendalistico.

I giudici di legittimità hanno tracciato una distinzione marcata fra profitto conseguente a un “reato contratto” e quello derivante da un “reato in contratto”.

Nel caso del profitto afferente a un “reato contratto”, qual è l’art. 603bis cod. pen., “si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca”.

Nella diversa ipotesi del profitto del “reato in contratto”, si è stabilito invece che “è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, adita con ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, ha annullato tale provvedimento con cui il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 603bis cod. pen. è stato calcolato tenendo conto della nozione aziendalistica di profitto netto. Il giudice del riesame, dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali derivanti dal delitto commesso da un imprenditore agricolo ha, infatti, detratto l’importo totale dei presunti costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori assunti illecitamente.

Sicché, il Tribunale del riesame dovrà attenersi ai principi di diritto indicati dai giudici di legittimità nella determinazione del profitto confiscabile: “il profitto derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936
giurista risponde

Concorso anomalo nel furto e rapina impropria Come si atteggia il concorso anomalo rispetto al furto che si sviluppa nella rapina impropria?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

L’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di furto per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità costituisce il diverso reato di rapina quale logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione del furto, avendo il reo, unitamente al proprio complice, usato un’energia fisica che ha limitato la persona offesa nei propri movimenti, consentendo – quale effetto – l’impossessamento definitivo del bene alla medesima sottratto. – Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2022, n. 43424.

Nel concorso anomalo, disciplinato dall’art. 116 del Codice penale, taluno dei concorrenti, nell’eseguire un programma criminoso o un accordo, pone in essere un reato differente da quello concordato o voluto dagli altri correi.

Dalla norma si evincono due profili. Da un lato, emergono la consapevolezza e la volontà di concorrere con altri nella realizzazione del reato che era oggetto dell’accordo; non si configura, quindi, responsabilità qualora il concorrente versi in errore sul fatto rispetto al reato stabilito inizialmente. Dall’altro lato, sussiste il nesso di causalità tra la condotta attiva od omissiva e il differente reato realizzato.

È stata, peraltro, superata quella parte di dottrina che inquadrava il concorso anomalo nell’alveo della responsabilità oggettiva, secondo cui si estendeva al concorrente la responsabilità a titolo di dolo per il reato non voluto sulla base del solo nesso materiale tra l’azione od omissione del soggetto che volle il reato meno grave e l’evento diverso posto in essere da un altro concorrente.

La tesi prevalente, al contrario, afferma che la norma in esame risponde al principio di colpevolezza in ragione della causalità psichica, la quale giustifica l’imputazione del reato diverso a coloro che non lo vollero. Si tratta di un requisito che non si ricava dalla formulazione letterale della disposizione, poiché è stato introdotto in via interpretativa.

In particolare, l’adesione psichica va intesa quale nesso psicologico in termini di prevedibilità del più grave reato commesso da parte del compartecipe: nella psiche dell’agente, cioè, il reato diverso e più grave può astrattamente rappresentarsi come sviluppo logicamente e concretamente prevedibile di quello voluto.

Occorre, pertanto, valutare la prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto attraverso un giudizio ex post che analizzi sia le modalità concrete ed effettive di esecuzione del reato sia altre circostanze del fatto ritenute rilevanti. In tale prospettiva, la responsabilità è qualificata come “anomala”, in quanto il ricorrente è chiamato a rispondere a titolo di dolo sulla base di un atteggiamento che viene ricostruito come colposo.

Con riferimento alla rapina impropria di cui al comma 2 dell’art. 628 cod. pen., l’agente, immediatamente dopo la sottrazione della res, adopera la violenza o la minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso del bene sottratto o per procurare l’impunità a sé o ad altri.

Si osserva che la violenza o la minaccia possono essere esercitate sia contro la vittima sia contro un terzo che comunque potrebbe determinare la perdita del possesso della cosa sottratta, come ad esempio gli agenti della forza pubblica. Il requisito della immediatezza della violenza e della minaccia, inoltre, non va interpretato in senso rigorosamente letterale, senza l’intercorrere di alcun lasso di tempo, bensì come uno stretto legame psicologico e temporale. Infine, al concetto di impunità va attribuito un significato ampio, tale da comprendere l’attività volta a sottrarsi a tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso.

Nel caso di specie, l’agente, in concorso con persona rimasta ignota, immediatamente dopo aver sottratto un autocarro, speronava sia il veicolo della persona offesa sia l’auto di servizio della Polizia di Stato per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e l’impunità. In particolare, per le circostanze di tempo e di luogo e in relazione al principio dell’id quod plerumque accidit, per i due correi risultava prevedibile l’inseguimento scaturito dal furto dell’autocarro, poiché era altamente probabile che sarebbero accorsi vigilanti o forze dell’ordine.

Sicché, la Corte di Cassazione ha statuito che il soggetto “quand’anche non avesse in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto tranquillamente rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2016, n. 45446, Di Pasquale, rv. 268564;
Cass. pen., sez. II, 18 giugno 2013, n. 32644, Alic, rv. 256841;
Cass. pen., sez. II, 3 gennaio 2018, n. 49443, Jamarishvili, rv. 274467;
Cass. pen., sez. V, 18 novembre 2020, n. 306, rv. 280489;
Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2011, n. 4330, n. 2012, Camko, rv. 251849
giurista risponde

Turbata libertà incanti e bando di gara Il delitto di turbata libertà degli incanti presuppone il condizionamento del contenuto del bando di gara?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il delitto di cui all’art. 353 c.p. non richiede che “il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo, attraverso l’alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione”. – Cass., sez. VI, 28 ottobre 2022, n. 41094.

Nel caso in esame, gli imputati sono stati accusati di aver influito indebitamente sul procedimento amministrativo finalizzato all’aggiudicazione del servizio di gestione degli impianti sportivi comunali. Il giudice di primo ha ritenuto sussistente la responsabilità penale degli imputati, mentre la Corte di appello è pervenuta all’assoluzione.

In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’art. 353 c.p. delinei un reato di evento che, come tale, non punisce le mere irregolarità formali che non incidano sul contenuto del bando di gara. Il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione.

La Corte premette alcune considerazioni in tema di turbata libertà degli incanti. In primo luogo, la Cassazione precisa che “l’art. 353 cod. pen. configura un reato di evento di pericolo”.

In particolare, si tratta di un reato di evento in senso naturalistico, in quanto “è necessario accertare il verificarsi dell’impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara”.

Allo stesso tempo, si può definire un reato di pericolo “nel senso che il reato sussiste anche senza l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l’andamento della gara”.

In altri termini, ciò che rileva è il verificarsi di un “turbamento”, cioè un disturbo del normale iter procedimentale, finalizzato ad inquinare il futuro contenuto del bando.

La Corte dunque ribadisce che il delitto in esame non richiede “un danno effettivo alla regolarità della gara”. Al contrario, è sufficiente che la condotta produca un “danno mediato e potenziale”, cioè l’idoneità degli atti ad influenzare l’andamento della gara, senza che sia necessario alternarne i risultati.

Tuttavia, l’impostazione descritta corre il rischio di attribuire rilievo penale a qualsiasi condotta in grado di perturbare lo svolgimento del procedimento. Per evitare tale rischio, la Corte precisa che “la condotta tipica deve essere idonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano non solo con l’interesse pubblico alla libera concorrenza, ma anche con l’interesse pubblico al libero gioco della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione”.

In conclusione, la fattispecie delineata dall’art. 353 c.p. consiste “nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo”.

In base alle considerazioni sopra sintetizzate, la Corte ha accolto il motivo di ricorso presentato dalla Procura generale e dunque ha annullato la sentenza di assoluzione, rimettendo la causa alla Corte di appello per un nuovo giudizio che tenga conto dei principi enunciati.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 8 marzo 2019, n. 10272; Cass., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 7013; Cass., sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 2989
giurista risponde

Ubriachezza abituale e cronica intossicazione da alcool Quale differenza sussiste tra l’ubriachezza abituale di cui all’art. 94 c.p. e la cronica intossicazione da alcool di cui all’art. 95 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Nei reati commessi dall’ubriaco abituale, “l’ubriachezza, in quanto transitoria e consapevole, non è mai causa della condotta delittuosa o di asseriti impulsi incontrollabili, ma al più è amplificatrice delle modalità e degli esiti delle violenze”. – Cass., sez. VI, 19 ottobre 2022, n. 39578.

Nel caso in esame l’imputato è stato condannato per il delitto di maltrattamenti aggravati (art. 572, comma 2, c.p.), commesso a danni della moglie e del figlio minorenne. I giudici di merito hanno ritenuto altresì sussistenti gli elementi costitutivi dell’aggravante dell’ubriachezza abituale.

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso avverso la condanna ritenendo, tra gli altri motivi, che l’utilizzo di sostanze alcoliche da parte dell’imputato fosse indice di una cronica intossicazione da alcool, ai sensi dell’art. 95 c.p.

Nel caso in esame, dunque, la Corte è stata chiamata ad affrontare la questione della distinzione tra l’ubriachezza abituale e lo stato di cronica intossicazione da alcool. Il tema è particolarmente rilevante in quanto il legislatore associa alle due condizioni discipline opposte.

In caso di ubriachezza abituale, l’art. 94 c.p. prevede una circostanza aggravante, giustificata dalla maggiore pericolosità sociale dell’autore del reato. Al contrario, in caso di cronica intossicazione da alcool, l’art. 95 c.p. rinvia alla disciplina dettata in materia di vizio di mente, di cui agli artt. 88 e 89 c.p., che prevede l’esclusione dell’imputabilità o la diminuzione della pena.

Il legislatore definisce “ubriaco abituale” colui che “è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza”. Tuttavia, tali caratteri possono ben ricorrere anche per il soggetto in stato di intossicazione, il quale, con ogni probabilità, si trova nelle medesime condizioni dettate dall’art. 94 c.p.

La ricostruzione dei rapporti tra le due norme è stata quindi affidata alla giurisprudenza. Sul punto è consolidato l’orientamento secondo cui ricorre l’intossicazione cronica quando vi è uno stato patologico nel contesto del quale l’assunzione di alcool ha determinato irreversibili e permanenti alterazioni del sistema nervoso. Pertanto, le condizioni psichiche del soggetto sono alterate a prescindere dall’utilizzo di sostanze alcoliche.

In altri termini, si tratta di un mutamento non transitorio dell’equilibrio biochimico del soggetto, privo di prospettive di miglioramento, tale da determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico. Ciò determina una corrispondente alterazione dei processi intellettivi e volitivi, con la conseguenza che viene meno, in tutto o in parte, l’imputabilità del soggetto. In tal senso si giustifica l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p.

L’ubriachezza abituale, invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità dell’agente, in quanto non collegata ad uno stato patologico ma ad una libera scelta. In questo prospettiva si giustifica l’aggravamento di pena collegato alla maggiore pericolosità sociale del soggetto, tale peraltro da comportate anche l’applicazione della misura di sicurezza (cfr. artt. 206 e 221 c.p.).

Sul punto, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la colpevolezza della persona in stato di ubriachezza deve essere indagata secondo gli ordinari criteri di valutazione dell’elemento psicologico. Di conseguenza, il giudice può accertare la sussistenza del dolo o della colpa al momento del fatto, nonostante lo stato di alterazione alcolica (Cass., sez. IV, 7 luglio 2021, n. 25758). Tale assetto normativo è stato positivamente vagliato dalla Corte costituzionale in un’ottica di prevenzione generale.

Peraltro, nell’impostazione originaria del codice, la maggiore pericolosità sociale dell’ubriaco abituale era frutto di una presunzione, oggi sostituita ad un accertamento da effettuarsi in concreto in conformità all’art. 27 Cost.

In applicazione dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondato il motivo di ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza di condanna.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 luglio 2016, n. 45997; Cass., sez. IV, 22 maggio 2008, n. 38513
Difformi:      non constano precedenti rilevanti