equo compenso avvocati

Equo compenso avvocati: norma in vigore dal 2 luglio Entra in vigore domani 2 luglio, la modifica al codice deontologico forense in materia di equo compenso

Equo compenso: modifica codice deontologico forense

Entra in vigore il 2 luglio 2024, la modifica al Codice deontologico forense in materia di equo compenso, ossia 60 giorni dopo la pubblicazione del comunicato del CNF in Gazzetta Ufficiale (n. 102/2024).

Già con nota del 1° marzo 2024, il CNF aveva anticipato al mondo dell’avvocatura la formulazione definitiva del nuovo art. 25 bis del Codice deontologico forense.

Il via libera definitivo della disposizione in materia di equo compenso, ai sensi della L. n. 49/2023, è stato dato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2024.

Il nuovo art. 25-bis Codice deontologico forense

Il testo del nuovo art. 25-bis rubricato “Violazioni delle disposizioni in materia di equo compenso” è il seguente:

“1. L’avvocato non puo’ concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso, non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti.

2. Nei casi in cui la convenzione, il contratto, o qualsiasi diversa forma di accordo con il cliente cui si applica la normativa in materia di equo compenso siano predisposti esclusivamente dall’avvocato, questi ha l’obbligo di avvertire, per iscritto, il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia.

3. La violazione del divieto di cui al primo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dell’obbligo di cui al secondo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.

Diritto di proprietà: prova del danno tramite presunzioni In caso di limitazione delle facoltà insite nel diritto di proprietà, l'esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni

Diritto di proprietà

Il diritto di proprietà ha insite le facoltà di godimento e disponibilità del bene. Per cui una volta limitate le stesse, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni. E’ quanto ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 17758-2024.

La vicenda

Nella vicenda, avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati dall’installazione illegittima di una canna fumaria posta a 38 centimetri di distanza dal balcone dell’attore, la Corte d’appello rigettava la sua domanda risarcitoria ritenendo insussistente il danno alla salute e carente di prova il danno derivante dalla compromissione del godimento del bene.

Il ricorso in Cassazione

La proprietaria adiva quindi il Palazzaccio, dolendosi, con l’unico motivo di ricorso, del fatto che la corte territtoriale, pur avendo accertato l’intrinseca pericolosità della canna fumaria posta a distanza inferiore a quella legale, avesse rigettato la domanda risarcitoria “senza tener conto che l’esistenza di un manufatto in amianto limiterebbe il godimento del bene”. La ricorrente contesta la “fallacia del ragionamento inferenziale, che, in tema di violazione delle distanze, ammette il ricorso ad elementi presuntivi per l’accertamento e la determinazione del danno” e richiama l’orientamento di legittimità che riconosce il danno in re ipsa nell’ipotesi di violazione delle distanze.

Rispetto distanze

Per gli Ermellini, il motivo è fondato.
“Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall’art. 890 c.c. – affermano preliminarmente – è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che è assoluta ove prevista da una norma del regolamento edilizio comunale, ed è invece relativa – e, come tale, superabile con la dimostrazione che, in relazione alla peculiarità della fattispecie ed agli accorgimenti usati, non esiste danno o pericolo per li fondo vicino – ove manchi una simile norma regolamentare (cfr. Cass. 15246/2017). Nel caso di specie, la Corte di merito, proseguono i giudici della S.C., “ha accertato la violazione delle distanze della canna fumaria dal balcone di proprietà dell’attrice e la sua intrinseca pericolosità, attesa la sua composizione in amianto e le pessime condizioni manutentive, pericolosità che era superabile con la dimostrazione da parte dei convenuti di aver adottato idonee cautele tecniche al fine di salvaguardare la dispersione nell’ambiente di sostanze nocive”.
La sentenza impugnata, ha escluso il risarcimento in assenza di un danno diretto alla salute, “omettendo però di valutare, anche in via presuntiva, se il pericolo concreto ed attuale derivante dall’esposizione ad amianto, abbia limitato il godimento del bene, a prescindere dalla verifica delle immissioni nocive”.

Prova del danno

Quanto alla tutela risarcitoria, le Sezioni Unite, con sentenza del 15.11.2022, n. 33645, in tema di prova del danno da violazione del diritto di proprietà e di altri diritti reali, ricordano ancora dalla S.C., “hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della I Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile. La questione se la violazione del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria è risolta dalle Sezioni Unite in senso positivo”. E’ stato dato seguito al principio di diritto, più volte affermato dalla Cassazione, “secondo cui, in caso di violazione della normativa sulle distanze tra costruzioni, al proprietario confinante compete sia la tutela in forma specifica finalizzata al ripristino della situazione antecedente, sia la tutela in forma risarcitoria (ex multis Cass. Sez. 11, 18.7.2013, п.17635)”. La linea evolutiva della giurisprudenza della S.C., ha sostituito la locuzione “danno in re ipsa” con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato. Ed è stato quindi definito “il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà: esso riguarda non la cosa ma li diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione”. Per cui, il nesso di causalità giuridica si stabilisce “fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il
requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire”.

Prova per presunzioni

Quindi, “nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Per cui ha errato la Corte d’appello ad escludere la tutela risarcitoria “senza prima valutare se gli elementi presuntivi allegati fossero astrattamente idonei a
compromettere li godimento del bene, come l’intrinseca pericolosità della canna fumaria per la composizione in amianto, la difformità della canna alle prescrizioni di legge ed il suo cattivo stato di conservazione”. I giudici avrebbero dovuto accertare, invero, se “per le condizioni di tempo e di luogo, vi fosse stata una limitazione concreta nel godimento dell’immobile per il rischio di dispersione nell’aria di sostanze altamente nocive”.
La sentenza impugnata, quindi concludono dalla S.C., non si pone in linea con l’orientamento di legittimità in tema di presunzione di danno correlato alla normale utilità del bene, “basato sull’assunto che il diritto di proprietà ha insite
le facoltà di godimento e disponibilità del bene ne è oggetto, sicché una volta soppresse o limitate tali facoltà, l’esistenza di un danno risarcibile può fondarsi su presunzioni (Cassazione Civile, Sez. II, 23.6.2023, n.18108)”.

Il principio di diritto

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio alla Corte d’Appello di Salerno in diversa composizione, che dovrà uniformarsi al seguente principio di diritto: “In caso di violazione delle distanze, l’esistenza del danno può essere provata attraverso il ragionamento presuntivo, tenendo conto di una serie di elementi – che concorrono anche alla valutazione equitativa del danno – dai quali possa evincersi una riduzione di fruibilità della proprietà, del suo valore e di altri elementi che devono essere allegati e provati dall’attore”.

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giurista risponde

Messaggi via social e reato di molestie L’invio di messaggi tramite le piattaforme Instagram e Facebook integra gli estremi di cui all’art. 660 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Matteo Castiglione e Federica Lavanga

 

L’espressione “col mezzo del telefono” dell’art. 660 c.p. deve essere riferita all’uso delle linee telefoniche e non del telefono quale dispositivo elettronico in quanto tale. Nel rispetto del principio di legalità, dunque, l’equiparazione tra un sistema di messaggistica telematica disponibile tramite smartphone e il sistema di comunicazioni tradizionali effettuate col mezzo del telefono non si giustifica, anche in ragione del fatto che l’invasività della comunicazione improvvisa dipende da una scelta del soggetto che la riceve, il quale può disattivare le notifiche. – Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2023, n. 40033.

Il reato di molestia integrato col mezzo del telefono è, di recente, stato esaminato dalla giurisprudenza, chiamata a verificare la compatibilità con la condotta descritta dalla fattispecie del comportamento dell’agente che, tramite Facebook, ha cercato di mettersi in contatto con i figli naturali, contattando persone a loro vicine, ivi compresi i genitori adottivi.

A seguito della condanna è stata contestata la qualificazione giuridica del fatto, che, pur concretizzatosi avvalendosi delle linee telefoniche, non si sostanzia nella condotta di molestia o di disturbo alle persone descritta dalla contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

Il predetto illecito punisce una condotta molesta dell’agente idonea a turbare la persona offesa, la cui sfera personale viene ad essere invasa e perturbata improvvisamente, senza alcuna possibilità di limitare o bloccare l’ingerenza altrui.

Per quanto concerne la molestia adoperata col mezzo del telefono, tale condotta è stata oggetto di continui mutamenti nel corso del tempo in ragione del progresso tecnologico, succedendosi una serie di orientamenti.

Sebbene in un primo momento con tale espressione si è inteso lo strumento di comunicazione tradizionale agganciato alla rete telefonica, si è poi passati a considerare tale anche il dispositivo mobile e lo smartphone. Ciò che connota la molestia telefonica è l’impossibilità della persona offesa di arginare la condotta lesiva dell’agente, giacché non era possibile limitare il traffico telefonico. Invero con l’avvento di apparecchiature telefoniche sempre più sofisticate e con la diffusione di strumenti alternativi, ma idonei alla comunicazione telefonica, come i tablet, si è rappresentata la possibilità di filtrare le telefonate e i messaggi ricevuti mediante sistemi di blocco de traffico in entrata.

Tale considerazione ha comportato una rilettura del mezzo telefonico da intendersi alla stregua di linea telefonica, di rete mobile di telecomunicazione, anche al fine di evitare che la fattispecie divenisse anacronistica. Da questo ultimo punto di vista si è assistito al graduale confronto della giurisprudenza con varie ipotesi di molestia telematica, che hanno contribuito a ridisegnare l’assetto della fattispecie.

Punto di partenza della speculazione della Cassazione sono state le comunicazioni di posta elettronica. Premesso che la comunicazione epistolare era già stata distinta da quella telefonica, sul punto si è precisato che il principio di stretta legalità e di tipizzazione impedisce che l’interpretazione dell’espressione “col mezzo del telefono” possa essere dilatata sino a comprendere anche le modalità di comunicazione asincrona, quale l’invio di messaggi di posta elettronica, poiché differiscono dagli sms che costringono il destinatario, sia de auditu che de visu, a percepirli con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, arrecandosi disturbo al destinatario (Cass. pen., sez. III, 28680/2004).

Un successivo orientamento ha sostenuto che anche l’invio di un messaggio di posta elettronica può realizzare in concreto una diretta e sgradita intrusione del mittente nella sfera delle attività del destinatario, allorquando il destinatario non possa impedirne la percezione e la comunicazione sia accompagnata da un avvertimento acustico, che ne indichi l’arrivo in forma petulante, con un’intensità tale da condizionare la tranquillità del ricevente (Cass. pen.,, sez. I, 36799/2011).

“Col mezzo del telefono” va, pertanto, inteso come rete telefonica e l’art. pe c.p. sanziona le condotte moleste perpetrate mediante una comunicazione di carattere invasivo cui il destinatario non può sottrarsi (Cass. pen., sez. I, 24510/2010).

Con specifico riguardo alla messaggistica istantanea, ossia di messaggi Whatsapp, si è affermato che l’interazione indesiderata si ha ogniqualvolta assieme al segnale acustico di notifica si accompagni l’anteprima del testo. Sarebbe irrilevante la circostanza che il destinatario di messaggi non desiderati possa evitarne la ricezione, senza compromettere la propria libertà di comunicazione, escludendo o bloccando il contatto indesiderato, poiché un simile comportamento preventivo si traduce comunque in una limitazione del destinatario.

La diffusività della messaggistica istantanea e la sua invasività costituiscono il fulcro delle riflessioni da ultimo maturate dalla giurisprudenza, che ha superato il precedente orientamento con cui si estendeva l’applicazione della fattispecie fino a ricomprendervi anche i casi in cui il destinatario potesse essere avvertito con sistemi di alert e preview e potesse procedere al blocco dell’utenza molesta.

Si è osservato che tanto l’attivazione di sistemi di blocco della ricezione di messaggi quanto della installazione di meccanismi di notifica ed anteprima del messaggio non dipendono, invero, dalla volontà dell’agente, bensì da quella del destinatario dei messaggi. La possibilità per il destinatario della comunicazione di sottrarsi all’interazione immediata con il mittente e di porre un filtro alla comunicazione rende tale forma di comunicazione oggettivamente meno invasiva e più vicina a quella epistolare.

Ne consegue che i comportamenti molesti perpetrati tramite messaggi inviati con Instagram e Facebook, le cui notifiche possono essere attivate per scelta libera dal soggetto che li riceve non è sussumibile nella fattispecie penale dell’art. 660 cod. pen., in quanto non commesso “col mezzo del telefono”, nel significato attribuito a questa locuzione dalla giurisprudenza di legittimità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2004, n. 28680
Difformi:      Cass. pen., sez. I, 22 ottobre 2021, n. 37974; Cass pen., sez. I, 23 luglio 2021, n. 28959
decontribuzione sud proroga

Decontribuzione Sud La Commissione Ue ha prorogato al 31 dicembre 2024 la Decontribuzione sud, la misura che incentiva i rapporti di lavoro in alcune regioni del Mezzogiorno

Proroga Decontribuzione Sud

Via libera della Commissione Ue alla proroga al 31 dicembre 2024 di Decontribuzione Sud, la misura in scadenza a fine mese con cui si incentivano, attraverso un esonero contributivo, i rapporti di lavoro dipendenti per le aziende con sede in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. Lo rende noto il ministero del Lavoro sul proprio sito.

Calderone: proroga consente crescita

“La proroga della Decontribuzione Sud, che ha consentito alle nostre aziende del Mezzogiorno di crescere e partecipare al generale rilancio dell’occupazione è un risultato del governo italiano per il quale ringrazio il Ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto e in modo particolare la Vicepresidente esecutiva della Commissione Europea, Margrethe Vestager” ha affermato il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone.

Questa decisione, ha aggiunto, “è il riconoscimento del fatto che la decontribuzione è oggi necessaria per le nostre aziende del Mezzogiorno, per continuare nel percorso intrapreso di riduzione dei divari territoriali e promozione delle imprese, del lavoro e del sistema produttivo nel suo complesso. Questi ulteriori 6 mesi sono fondamentali per consentirci di mettere a punto una revisione organica della Decontribuzione Sud, sempre più orientata agli investimenti. Ringrazio i tecnici delle strutture del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che hanno avviato e gestito l’iter procedurale del rinnovo della misura, congiuntamente con il Dipartimento per gli Affari Europei”.

amministratore comunione condominio poteri

Amministratore condominio e comunione: hanno poteri diversi A differenza dell'amministratore condominiale, quello della comunione non può agire in giudizio per i comunisti senza autorizzazione assembleare

Amministratore della comunione

L’amministratore della comunione non può agire in giudizio senza autorizzazione assembleare, in quanto (a differenza di quanto previsto per l’amministratore di condominio dall’art. 1131 c.c.) non è previsto, tra i poteri che ordinariamente gli spettano, quello di rappresentare in giudizio i comunisti. E’ quanto stabilito dal tribunale di Siracusa nella sentenza n. 764-2024 decidendo l’opposizione proposta da un comunista avverso il decreto ingiuntivo con cui l’amministratore, designato dall’autorità giudiziaria, gli intimava di pagare una somma per spese di manutenzione. L’opponente si doleva soprattutto del fatto che l’amministratore giudiziario, senza munirsi di autorizzazione assembleare, si era attivato per recuperare coattivamente le somme indicate nel piano di riparto, per cui chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo e l’accertamento dell’inesistenza del diritto dell’opposto a procedere in via esecutiva.

Carenza di legittimazione attiva

Per il tribunale l’opposizione è fondata per carenza di legittimazione attiva dell’opposto/intimante. “Correttamente – afferma il giudice – l’odierno opponente si duole del fatto che l’amministratore ad acta nominato ai sensi dell’art. 1115, comma 4, c.c., si sia attivato per l’emissione dell’opposto titolo senza preventivamente richiedere l’autorizzazione dell’assemblea dei condomini”.

Invero, “costituisce orientamento consolidato – cui il giudice dichiara di prestare continuità – quello secondo cui ‘L’amministratore della comunione non può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti contro uno dei comunisti in rappresentanza degli altri, mancando, in materia di comunione, una disposizione analoga a quella posta, per l’amministratore del condominio, dall’art. 1131 c.c., che, in via eccezionale, attribuisce a questi il potere di agire in giudizio sia contro i terzi che nei confronti dei condomini'” (cfr. Cass. n. 4209/2014).

La decisione

Nel caso di specie, non risulta che l’amministratore nominato ex art. 1105 comma 4 c.c. fosse stato investito del suddetto potere da parte dei comunisti, per cui il giudice dichiara l’insussistenza del diritto di procedere in via esecutiva nei confronti dell’opponente.

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avvocati penalisti sciopero

Avvocati penalisti in sciopero: dal 10 al 12 luglio Necessario interrompere la lunga scia di morte in carcere. Per questi motivi l'UCPI delibera l'astensione per tre giorni

Penalisti in sciopero contro morti in carcere

Gli avvocati penalisti dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) hanno annunciato uno sciopero di tre giorni, dal 10 al 12 luglio 2024. La delibera, datata 18 giugno, giunge “a conclusione della maratona oratoria iniziata lo scorso 29 maggio, con cui si è inteso denunciare pubblicamente tanto la mancanza di un programma di serie riforme strutturali e di ripensamento dell’intera esecuzione penale, quanto l’irresponsabile indifferenza della politica di fronte al dramma del sovraffollamento ed alla tragedia dei fenomeni suicidari”.

Manifestazione a Roma l’11 luglio

Da qui la delibera dell’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 10, 11e 12 luglio 2024, con convocazione di tutti i Presidenti delle Camere Penali territoriali e di tutti gli iscritti, in Roma per partecipare alla manifestazione, che si terrà con tutte le associazioni sensibili a tale emergenza e con i rappresentanti della politica favorevoli all’adozione di strumenti immediati, volti alla soluzione della crisi in atto, in Piazza dei Santi Apostoli, in data 11 luglio 2024 dalle ore 14.30 per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’emergenza carceri.

giurista risponde

Condotte vessatorie poste in essere dopo la cessazione della convivenza Le condotte vessatorie poste in essere al termine di un rapporto in quali casi configurano il reato di atti persecutori ex art. 612bis c.p.?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

La configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento. Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. – Cass., sez. VI, 13 marzo 2024, n. 10636.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte si è occupata del rapporto tra il reato di atti persecutori (ex art. 612bis c.p.) e quello di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572 c.p.).

In particolare, nel caso in esame, in seguito a ricorso ex art. 309 c.p.p., il Tribunale annullava l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari aveva applicato all’indagato la misura cautelare personale del divieto di avvicinamento alla persona offesa ex art. 282ter c.p.p., ritenendo per un verso sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine alla provvisoria contestazione di maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli minori, cessata con lo spontaneo allontanamento dell’indagato dal nucleo familiare, per altro verso insussistenti i gravi indizi in ordine al contestato reato di cui all’art. 612bis c.p. che si sarebbe integrato dalla data di cessazione della convivenza in poi.

Avverso tale ordinanza il Procuratore della Repubblica presentava ricorso dinnanzi alla Corte di Cassazione.

In particolare, il ricorrente censurava la decisione nella misura in cui riteneva che le condotte dell’indagato fossero cessate al momento dell’allontanamento dall’abitazione con la separazione di fatto tra i coniugi, senza invece apprezzare le dichiarazioni sul punto rese dalla persona offesa, la quale aveva affermato come l’indagato, da quando aveva abbandonato l’abitazione coniugale, avesse continuato ad esercitare violenza psicologica ed economica, continuando a porre in essere comportamenti aggressivi anche nei confronti e alla presenza dei figli minori.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato e ha annullato l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale competente ai sensi dell’art. 309, comma 7, c.p.p.

Secondo la Suprema Corte, infatti, la configurabilità del reato di atti persecutori sussiste in ipotesi di condotte illecite poste in essere da uno dei componenti di una unione di fatto ai danni dell’altro, quando sia cessata la convivenza e siano conseguentemente venute meno la comunanza di vita e di affetti nonché il rapporto di reciproco affidamento (Cass., sez. VI, 5 settembre 2021, n. 39532).

Integrano, invece, il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza (Cass., sez. VI, 30 settembre 2022, n. 45400). La separazione, si è infatti precisato, è condizione che non elide lo “status” acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, c.c. Detto principio deve essere tenuto fermo anche quando le condotte in esame siano rivolte nei confronti dei figli (ma il discorso vale anche allorché la condotta sia realizzata dai figli nei confronti dei genitori o altre persone di famiglia), essendo comunque configurabile il delitto di maltrattamenti nelle relazioni tra consanguinei, in quanto “persone della famiglia”, reputandosi irrilevante la cessazione o la mancanza di convivenza (tra le tante, cfr. Cass., sez. VI, 7 aprile 2022, n. 19839).

Tanto premesso, nel caso di specie, osserva la Suprema Corte, la condotta posta in essere dall’imputato, a seguito all’allontanamento dall’abitazione coniugale, è stata erroneamente qualificata nella contestazione provvisoria, ex art. 612bis c.p. a fronte di consolidata giurisprudenza che, in ipotesi come quella presa in esame in cui si contesta la protrazione della condotta ritenuta a vario titolo vessatoria, minacciosa ed intimidatrice, reputa sussistente, in caso di rapporto di coniugio e di presenza dei figli parte offesa dell’illecita condotta, il delitto di maltrattamenti in famiglia.

*Contributo in tema di “Condotte vessatorie e reato di atti persecutori”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

pensione reversibilità matrimonio tardivo

Reversibilità per matrimonio contratto dopo i 50 anni La Cassazione si pronuncia sul diritto alla pensione di reversibilità nel caso di matrimonio contratto dopo i 50 anni di età

Pensione di reversibilità

Il diritto alla reversibilità non sussiste quando il matrimonio sia stato contratto dall’iscritto dopo aver compiuto l’età di 50 anni. Così la sezione lavoro della Cassazione con ordinanza n. Cass-17193-2024.

La questione sottesa e il ricorso in Cassazione

Nella vicenda, la Corte d’appello di Bologna ha accolto il ricorso dell’INPS rigettando la domanda di riconoscimento della reversibilità della pensione contributiva nella Gestione Giocatori Calcio, già erogata al coniuge in base alla convenzione dell’istituto con le due Leghe dei giocatori professionisti e semiprofessionisti.

In particolare, il giudice d’appello ha ritenuto che “vertendosi nel campo dell’assistenza privata, che a norma dell’art. 38 Cost. è libera di stipulare le condizioni di assicurazione e di regolare il sinallagma tra finanziamento e prestazioni, non sussistevano profili di incostituzionalità che potevano riflettersi sulla disposizione convenzionale dell’art. 12 che esclude dalla reversibilità il coniuge il cui matrimonio sia stato contratto, come nella specie, dopo che l’assicurato aveva compiuto cinquanta anni non ravvisando limiti all’autonomia privata nella definizione delle condizioni del regime convenzionale di assicurazione al quale le parti scelgono liberamente di iscriversi”.
La coniuge ricorre innanzi al Palazzaccio dolendosi di un’interpretazione sbagliata della convenzione in violazione delle deroghe previste, ossia che il matrimonio fosse stato celebrato almeno due anni prima del giorno della morte e che dallo stesso fosse nata prole, anche se postuma. Pertanto, ricorrendo entrambe le circostanze, la donna deduceva che la pensione per superstiti non poteva essere esclusa nella specie.

Interpretazione errata: spetta la reversibilità

Per gli Ermellini, il primo motivo di ricorso è fondato e deve essere accolto restandone assorbito l’esame delle altre censure.
Nell’interpretazione del contratto, ricordano preliminarmente, “il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate. Soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall’art. 1362 all’art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall’art. 1366 c.c. all’art. 1371 c.c.”.

Per cui, nel caso in esame, “la Corte territoriale è incorsa nella denunciata violazione delle norme di interpretazione dettate dall’art 1362 primo comma c.p.c. avendo del tutto trascurato di esaminare la disposizione dettata dall’art. 12 della Convenzione stipulata fra l’INPS e le due Leghe dei giocatori professionisti e semiprofessionisti nella sua interezza”.

Tale disposizione, infatti, “nell’indicare i casi in cui la vedova non ha diritto alla pensione di reversibilità alla lettera c) dispone che il diritto non sussiste quando il matrimonio sia stato contratto dall’iscritto dopo compiuta l’età di 50 anni o dopo conseguita la pensione di invalidità, salvo che esso sia di due
anni almeno anteriore al giorno della morte, ovvero sia nata prole, anche se postuma”.
Ne consegue che “nel valutare l’esistenza del diritto della vedova alla prestazione di reversibilità occorre tenere presente oltre all’età del coniuge al momento del matrimonio anche del tempo trascorso in costanza di matrimonio prima della morte e dell’esistenza di prole, anche postuma”.
Per tale ragione la sentenza è cassata e la parola passa al giudice del rinvio.

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carta blu ue stranieri

Carta Blu Ue: online il nuovo modulo per i lavoratori stranieri Disponibile per i datori di lavoro sul sito del ministero, il nuovo modulo per l'ingresso di lavoratori stranieri altamente qualificati (carta Blu Ue)

Carta Blu Ue: nuovo modulo

E’ disponibile sul Portale Servizi del ministero dell’Interno, sezione Sportello Unico Immigrazione, il nuovo modulo (modulo BCE) per i datori di lavoro che intendono assumere lavoratori stranieri altamente qualificati (carta Blu Ue). Lo rende noto il dicastero sul proprio sito.

Platea più ampia, procedura semplificate

Si tratta, spiega il ministero, di una tipologia di ingressi al di fuori delle quote del decreto flussi, recentemente riformata. Il D.Lgs. 152/2023 ha recepito in Italia la direttiva (UE) 2021/1883, ampliando la platea dei destinatari, semplificando le procedure e offrendo condizioni più favorevoli. Una circolare congiunta dei ministeri dell’Interno e del Lavoro ha definito nel dettaglio le nuove procedure.

Lavoratori stranieri altamente qualificati: requisiti

I lavoratori stranieri “altamente qualificati” devono essere in possesso, in via alternativa:

a) del titolo di istruzione superiore di livello terziario o di una qualificazione professionale di livello post secondario, rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale;

b) dei requisiti previsti dal d.lgs. n. 206/2007 limitatamente all’ esercizio di professioni regolamentate;

c) di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o all’offerta vincolante;

d) di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente, acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu UE, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di cui alla classificazione ISCO-08, n. 133 e n. 25.

giurista risponde

Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere Che rilevanza hanno i «disturbi della personalità» ai fini dell’accertamento della capacità di intendere e di volere?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli

 

Nel percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto, hanno rilievo precisi indici rivelatori non di un qualsiasi disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità, idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni testé indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma. – Cass., sez. I, 19 marzo 2024, n. 11539.

 La Corte di legittimità è chiamata a pronunciarsi sul riconoscimento del vizio di mente in caso di disturbo della personalità con discontrollo degli impulsi.

Con la sentenza impugnata, infatti, la Corte di Assise di Appello confermava la condanna emessa dal Giudice per le indagini preliminari relativamente al reato di omicidio pluriaggravato consumato all’interno di una drammatica situazione familiare, segnata dalla malattia mentale dell’imputato, affetto da anni da disturbi psichiatrici che lo rendevano violento nei confronti dei familiari.

Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per Cassazione dal difensore dell’imputato con il quale si denunciava, tra gli altri motivi, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere in capo all’imputato.

Secondo il ricorrente, il mancato riconoscimento dell’infermità mentale si poneva in contraddizione anche con quanto evidenziato dallo stesso perito nominato dal primo Giudice, il quale aveva ravvisato in capo al medesimo disturbi della personalità ed, in particolare, un disturbo psichico che comporta discontrollo degli impulsi e improvvise e transeunti perdite della capacità di comprendere il significato e il valore o disvalore delle proprie condotte, emergente soprattutto in fase di forte stress.

Il ricorrente osservava come, secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite della Cassazione con sent. 230317/2005, il termine infermità non allude solo ad una condizione patologica, ma a qualunque disturbo che, incidendo sulla psiche, comprometta irrimediabilmente la capacità di intendere di volere, con la conseguenza che anche il disturbo della personalità può escludere l’imputabilità del soggetto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, rigettando il ricorso, ha evidenziato che il concetto di “infermità” di cui agli artt. 88 e 89 c.p. è stato al centro di evoluzione giurisprudenziale estensiva: se, infatti, giurisprudenza piuttosto risalente tendeva a considerare rilevanti, ai fini del concetto, le sole patologie aventi substrato organico, da quasi due decenni la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto come, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità” – che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali – possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163).

La decisione delle Sezioni Unite pone alla base del percorso di accertamento della capacità di intendere e di volere al momento del fatto la avvenuta emersione di precisi indici rivelatori non di un «qualsiasi» disturbo di personalità ma esclusivamente di condizioni definibili in termini di particolare serietà del disturbo, caratterizzato da intensità e gravità: deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile che, incolpevolmente, rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi. Ne consegue che, per converso, non possono avere rilievo a fini di imputabilità altre ‘anomalie caratteriali’, ‘disarmonie della personalità’, ‘alterazioni di tipo caratteriale’, ‘deviazioni del carattere e del sentimento’, quelle legate alla indole del soggetto che, pur attenendo alla sfera del processo psichico di determinazione, non si rivestano, tuttavia, delle connotazioni indicate e non attingano, quindi, a quel rilievo di incisività sulla capacità di auto determinazione del soggetto agente, nei termini e nella misura voluta dalla norma.

Ebbene, ciò premesso, la Corte ha osservato che l’analisi svolta in sede di merito ha rettamente escluso la ricorrenza di reali indicatori di perdita del senso di realtà nel caso in esame, specie nella condotta posteriore alla consumazione del fatto, atteso che la prospettata incapacità di intendere e di volere del imputato si pone apertamente in contrasto con l’atteggiamento da costui tenuto nell’immediatezza del fatto, avendo da subito egli con cinismo fornito una versione dei fatti finalizzata a crearsi immediatamente una strategia difensiva.

Infine, occorre osservare come l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisca questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo (Cass., sez. I, 17 gennaio 2014, n. 32373), salvi casi di cd. travisamento della prova.

*Contributo in tema di “Disturbi della personalità e capacità di intendere e di volere”, a cura di Andrea Bonanno e Giulia Fanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica