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Abuso d’ufficio e violazione precetti urbanistici La violazione di fonti sub-primarie attuative di specifici precetti di legge, quali gli strumenti urbanistici, può rilevare ai fini della integrazione del reato di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 cod. pen., anche a seguito della riforma attuata con il D.L. 76/2020?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Il problema della fonte normativa che deve avere il rango di legge a seguito della riformulazione del reato di abuso di ufficio è stato affrontato nel senso di confermare la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria, richiamati dalla legge, perché operano quali presupposti di fatto della norma di legge violata. Secondo questa elaborazione giurisprudenziale, i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità all’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica. – Cass. IV, 8 novembre 2022, n. 46669.

La Suprema Corte è chiamata a delineare l’ambito applicativo oggettivo della fattispecie di cui all’art. 323 cod. pen., che funge da norma di chiusura dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e che ha subito una modifica in senso restrittivo per effetto del recente D.L. 76/2020, convertito dalla L. 120/2020.

In particolare, prima della riforma l’elemento oggettivo del reato di abuso d’ufficio era costituito dalla violazione di norme di legge o di regolamento, mediante la quale l’agente intenzionalmente procurava a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrecava ad altri un danno ingiusto.

Per effetto della riforma del 2020, la fattispecie non contempla più la violazione delle norme regolamentari ai fini dell’integrazione del reato, bensì esclusivamente “l’inosservanza di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Pertanto, risultano espunte dal perimetro di rilevanza penale le violazioni di atti aventi natura regolamentare e le violazioni di norme di rango legislativo che non dettino specifiche regole di condotta ovvero che dettino regole in relazione alle quali residuino spazi di discrezionalità per la pubblica amministrazione, con conseguente abolitio criminis parziale con riguardo alle suddette condotte (art. 2, comma 2, cod. pen.). Nell’ipotesi in cui sia intervenuta sentenza di condanna irrevocabile, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., è prevista la revoca della sentenza da parte del Giudice dell’esecuzione, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, e l’adozione dei provvedimenti conseguenti volti a disporre la cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna.

Nonostante il rigore lessicale del testo risultante dalla riforma, volta a restringere l’ambito oggettivo della fattispecie di reato, la giurisprudenza in alcune pronunce ha inteso in senso ampliativo la nozione di violazione di legge, comprendendovi l’ipotesi di inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), che sarebbe dotato di precettività nella parte in cui, esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o favoritismi, impone al pubblico ufficiale e all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.

Nella stessa direzione, un orientamento della giurisprudenza formatosi immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma ha tentato di ricondurre alla nozione di violazione di legge lo sviamento di potere, che costituisce un vizio di legittimità collegato necessariamente all’esercizio di un’attività discrezionale e che, dunque, dovrebbe collocarsi al di fuori del perimetro della fattispecie, stando al tenore letterale della norma. Lo sviamento di potere, che consiste nel potere esercitato per un fine diverso da quello stabilito dalla legge e, dunque, per uno scopo egoistico o comunque estraneo ai fini che la pubblica amministrazione è chiamata a perseguire, secondo tale orientamento, si pone al di fuori dello schema della legalità e determina la lesione dell’interesse tutelato dalla norma che incrimina l’abuso d’ufficio. La violazione di legge rilevante ai fini dell’integrazione dell’art. 323 cod. pen. riguarda, difatti, non soltanto la condotta del pubblico ufficiale che contrasta con le norme di legge che disciplinano l’esercizio del potere, ma anche le condotte dirette a realizzare un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito, realizzando una violazione dello schema normativo che legittima l’attribuzione.

Nella medesima prospettiva anti-formalistica, in cui si colloca la pronuncia in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto integrati gli estremi dell’abuso d’ufficio anche a fronte di violazioni di fonti subprimarie attuative di specifici precetti di legge e, in alcuni casi, anche nell’ipotesi di violazioni di norme regolamentari che si risolvano nella specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito nella norma primaria, a condizione che quest’ultima risulti conforme ai canoni della tipicità e della tassatività.

La Suprema Corte ha affermato, difatti, come non possa ritenersi dirimente il carattere formale del tipo di norma violata ogni volta che questa costituisca, quanto al contenuto, diretta applicazione di un precetto legislativo dal quale non residuino margini di discrezionalità e risulti, dunque, riconducibile a un’attività vincolata, interamente disciplinata dalla norma di fonte primaria.

Alla luce delle presenti considerazioni, la Sezione IV della Suprema Corte ha fornito risposta positiva al quesito, confermando la rilevanza della violazione degli strumenti urbanistici di fonte subprimaria richiamati dalla legge, in quanto operano come presupposti di fatto della norma di legge violata (così anche Cass. 8 marzo 2022, n. 13148).

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen. 33240/2021; Cass. pen. 13148/2022
Difformi:      Cass. pen. 28402/2022
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Sanzione accessoria revoca patente: è automatica? Può ritenersi costituzionalmente legittima l’automatica applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, prevista dal comma 8 dell’art. 213 Cds, in caso di circolazione del custode con un’autovettura oggetto di sequestro?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

La sanzione accessoria della revoca della patente del custode che abbia posto in circolazione il veicolo sequestrato, a lui affidato, non può essere automatica conseguenza accessoria della sanzione principale, dovendo consentirsi all’autorità amministrativa preposta di valutare le complessive circostanze del caso concreto, affinché tale sanzione non risulti essere sproporzionata rispetto al fatto di cui all’art. 213, comma 8, cod. strada. – Corte Cost. 9 dicembre 2022, n. 246. 

La Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disposizione del comma 8 dell’art. 213 del Codice della Strada, nella parte in cui prevede un automatismo nell’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida a fronte della circolazione del custode con un veicolo sottoposto alla misura del sequestro.

In particolare, la Corte è chiamata a valutare se l’introduzione del suddetto automatismo rientri nella discrezionalità del legislatore ovvero se si ponga in contrasto con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza della risposta sanzionatoria.

La Consulta, dopo aver ripercorso l’evoluzione normativa della norma oggetto del sindacato di costituzionalità, che ha visto notevolmente inasprire il relativo trattamento sanzionatorio per effetto del decreto sicurezza del 2018 (D.L. n. 113), in ragione della sostituzione della sanzione accessoria della sospensione del titolo abilitativo alla guida da uno a tre mesi con quella della revoca della patente, ha ribadito come il principio di necessaria proporzionalità della sanzione alla condotta illecita trovi applicazione anche con riguardo al trattamento sanzionatorio di natura amministrativa.

Il principio di proporzionalità delle sanzioni amministrative deriva dal combinato disposto tra l’art. 3 Cost. e le norme costituzionali poste a tutela dei diritti compressi dalla sanzione nel caso concreto.

A tal proposito, la giurisprudenza costituzionale, in diverse occasioni, ha evidenziato come un indifferenziato automatismo sanzionatorio costituisca un possibile indice di disparità di trattamento e di irragionevolezza intrinseca.

La discrezionalità del legislatore risulta legittimamente esercitata e sfugge al sindacato di costituzionalità, costituendo espressione di scelte di politica sanzionatoria, nell’ipotesi in cui introduca una sanzione accessoria, in aggiunta a quella principale, nel complessivo trattamento sanzionatorio dell’illecito amministrativo. La sanzione della revoca della patente, inoltre, si caratterizza per una spiccata funzione deterrente, data la notevole carica di afflittività, e consente di contrastare comportamenti pericolosi al fine di garantire la sicurezza della circolazione stradale.

Risulta censurabile, tuttavia, la scelta del legislatore di applicare la suddetta sanzione accessoria in via indifferenziata, a fronte di qualsiasi condotta di messa in circolazione di un veicolo assoggettato al vincolo del sequestro per effetto di una precedente violazione del codice della strada, mediante la previsione di un indifferenziato automatismo della revoca della patente di guida, che si aggiunge alla sanzione pecuniaria principale, prescindendo dalla gravità del fatto concreto.

La sanzione accessoria che caratterizzava l’originaria formulazione dell’art. 213 è consistita per lungo tempo nella sospensione della patente di guida, che si caratterizzava per un’intrinseca flessibilità quanto alla durata, in quanto compresa tra un minimo di un mese e un massimo di tre mesi, e consentiva la graduazione della risposta sanzionatoria in relazione alle circostanze del caso e alla gravità della condotta.

La sanzione della revoca della patente, introdotta con la riforma del 2018, non presenta la medesima flessibilità, bensì impone all’autorità amministrativa competente un automatismo nella relativa applicazione, prescindendo da ogni valutazione del caso concreto. Si tratta, inoltre, di una sanzione notevolmente più gravosa della precedente, in quanto il destinatario risulta inabilitato alla guida per lungo tempo, potendo richiedere nuovamente la patente soltanto dopo due anni, con conseguente possibile compromissione di esigenze lavorative, personali e sociali, potendo anche incidere sull’esercizio di diritti fondamentali.

La Corte Costituzionale, pertanto, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 8 dell’art. 213 del codice della strada, per violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo del difetto di necessaria proporzionalità della sanzione amministrativa, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente, precludendo all’autorità competente, il prefetto, di considerare la gravità della violazione dei doveri di custodia nel caso specifico, nonché le ripercussioni della misura in questione sugli aspetti essenziali della vita dell’individuo. L’automatismo, per effetto della declaratoria di incostituzionalità parziale della disposizione, è sostituito, dunque, con la possibilità di applicare la sanzione della revoca della patente ove si riveli misura proporzionata al caso concreto, a seguito della valutazione dell’autorità amministrativa.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 22/2018; Corte Cost. 99/2020; Corte Cost. 24/2020
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Trattamento sanzionatorio rapina impropria È costituzionalmente legittimo, l’art. 628, comma 2, c.p. nella parte in cui equipara il trattamento sanzionatorio della rapina impropria nelle due ipotesi in cui la violenza e la minaccia vengono utilizzate al fine del possesso ed al fine dell’impunità?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 628, secondo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione. — Corte Cost. 20 dicembre 2022, n. 260.

Nel caso di specie il soggetto agente, a seguito del tentativo di impossessarsi di alcune confezioni di generi alimentari sottraendole dai banchi di un supermercato, adoperava violenza e minaccia ai danni dell’addetto alla vigilanza allo scopo di darsi alla fuga.

Il giudice rimettente denunciava l’irragionevolezza, al metro dell’art. 3 Cost., dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio disposta dall’art. 628, comma 2, c.p. tra le due fattispecie di rapina c.d. impropria, cioè tra l’ipotesi in cui l’autore del reato adoperi violenza o minaccia, immediatamente dopo la sottrazione della cosa, per assicurarne a sé o ad altri il possesso e quella in cui tenga la medesima condotta al solo scopo di procurare a sé o ad altri l’impunità. Nel primo caso, infatti, il soggetto agente perseguirebbe uno scopo illecito, ossi l’impossessamento del bene mobile altrui, mentre nel secondo il fine della fuga o dell’impunità sarebbe da considerarsi del tutto lecito.

L’ordinanza di rimessione trae le mosse da una precedente questione di legittimità costituzionale e dichiarata non fondata da Corte cost. 31 luglio 2020, n. 190 attinente la legittimità dell’equiparazione del trattamento sanzionatorio delle ipotesi di rapina propria ed impropria.

La Corte costituzionale, con la pronuncia in commento, richiama le osservazioni già allora enucleate, evidenziando come il tratto qualificante del delitto di rapina sia l’impiego di «una condotta violenta o minacciosa nel medesimo contesto – di tempo e di luogo – di una aggressione patrimoniale», giacché «la combinazione di tali elementi comporta non irragionevolmente un trattamento sanzionatorio diverso rispetto a quello che sarebbe applicabile in base al cumulo delle figure componenti».

Tale connotazione caratterizza, secondo la pronuncia in commento, non solo il rapporto tra rapina propria ed impropria, e quindi il comma 1 ed il comma 2 dell’art. 628 c.p., ma accomuna anche le due ipotesi interne allo stesso comma 2, giustificando tanto nel primo quanto nel secondo caso la medesima cornice edittale.

In ambo le fattispecie, infatti, l’elemento fondante la pari risposta sanzionatoria è il requisito della immediatezza tra l’aggressione al patrimonio e l’aggressione alla persona.

Tale immediatezza, del resto, distingue anche il tratto unificante delle condotte appena richiamate ed alla base del reato complesso di rapina, dall’aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61, comma 1, n. 2), c.p., per la quale non è richiesta una specifica relazione di contestualità tra il reato posto in essere e quello realizzato al fine dell’impunità.

La Corte costituzionale nella sua argomentazione afferma poi l’irrilevanza del richiamo, operato dal giudice rimettente, all’art. 336 c.p. che nel punire la violenza e la minaccia ad un pubblico ufficiale, al comma 2 prevede un aumento di pena nel caso in cui la condotta del comma 1 sia volta a costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto del proprio ufficio. In tal caso l’illiceità dello scopo della condotta giustifica un aumento della cornice edittale.

Tuttavia, tale raffronto non appare dirimete in quanto, mentre la rapina si configura quale reato complesso di danno, l’art. 336 c.p. si struttura come reato complesso di pericolo, non essendo necessaria per la sua integrazione il compimento dell’atto d’ufficio.

Infine, appare parimenti errato il richiamo all’«anelito di libertà» che animerebbe la rapina impropria a dolo di impunità, rendendola meno grave di quella a dolo di possesso. Bisogna, infatti, distinguere il concetto di «impunità» dalla diversa nozione di «libertà». Quest’ultima è sì incomprimibile ma solo qualora il soggetto non si renda autore di fatti illeciti. In tal caso la stessa si trasformerebbe in impunità nel momento in cui a seguito della commissione dei medesimi egli tenti di sottrarsi alla propria responsabilità. Che la libertà possa essere legittimamente lesa dinnanzi alla commissione di fatti delittuosi è, del resto, confermata dalla giurisprudenza che esclude la scriminante della legittima difesa in favore di chi, trattenuto dal personale del supermercato, usa violenza o minaccia.

Non può, dunque, il sentimento dell’impunità giustificare un minor trattamento sanzionatorio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte Cost. 190/2020
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Bancarotta distrattiva per fatti già puniti: violazione del ne bis in idem? Integra violazione del ne bis in idem la contestazione del reato di bancarotta distrattiva per fatti già puniti, con sentenza divenuta irrevocabile, a titolo di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Nel caso di sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di truffa aggravata non integra violazione del ne bis in idem una successiva condanna per il reato di bancarotta distrattiva essendo le due condotte strutturalmente diverse e non essendo integrato il concetto di «stesso fatto» di cui all’art. 649 c.p.p. – Cass. IV, 21 dicembre 2022 n. 48360.

Nel caso di specie ad un imprenditore veniva contestato il delitto di bancarotta a seguito della distrazione della somma di 200.000 euro ottenuta, con artifizi e raggiri, a titolo di caparra per l’alienazione di un immobile di cui la società non era proprietaria, fatto per il quale già era stato condannato per il reato di truffa aggravata.

Con l’unico motivo, il ricorrente deduceva violazione di legge e vizio di motivazione quanto al principio del ne bis in idem, che, regolamentato all’art. 649 c.p.p., vieta che si possa essere puniti più volte per lo stesso fatto.

Secondo una prima tesi il concetto di «fatto» di cui al richiamato articolo andrebbe inteso in senso giuridico, con la possibilità, dunque, di subire una seconda condanna qualora i fatti oggetto della prima venissero diversamente qualificati in un differente titolo di reato.

Tuttavia, la giurisprudenza ormai maggioritaria, attribuisce al fatto un’accezione materiale, facendo riferimento alla condotta concretamente posta in essere a prescindere dalla qualifica giuridica che alla stessa può essere data. Si afferma, infatti, che altrimenti il divieto di cui all’art. 649 c.p.p. potrebbe essere facilmente eluso attraverso una diversa qualifica giuridica dello stesso fatto.

Particolare è l’ambito applicativo del divieto in esame nel caso di concorso formale di reati, in cui, cioè, il soggetto agente integra con un’unica condotta più fattispecie illecite.

In tal caso si è posto il problema della compatibilità tra il divieto del ne bis in idem e l’istituto del concorso formale di reati il quale, punendo più volte la stessa condotta, sembra porsi ontologicamente in conflitto con il primo.

Tale problema, come affermato da Corte cost. 21 luglio 2016, n. 200, è in realtà solo apparente.

Quando si discute della possibilità di procedere ad una seconda contestazione nei confronti di colui già destinatario di una pronuncia di condanna per un reato posto in essere con la medesima condotta, il concetto di «stesso fatto», di cui all’art. 649 c.p.p., dovrà essere inteso relativamente alla triade condotta-nesso causale-evento. Ciò posto, qualora la seconda contestazione inerirà, ad esempio, un evento diverso da quello oggetto della fattispecie già accertata con giudicato, il divieto del ne bis in idem dovrà ritenersi rispettato.

In applicazione di tali principi al caso oggetto della pronuncia in commento la Cassazione ha proceduto mediante una verifica sostanziale dei rapporti di interferenza tra le due fattispecie.

Al soggetto già condannato per il reato di truffa aggravata, a seguito dell’acquisizione di una somma a titolo di caparra confirmatoria da parte del ricorrente, quale legale rappresentante della società successivamente fallita, mediante la stipula di un contratto preliminare di vendita di un immobile di cui la società non era proprietaria, veniva ora contestato il reato di bancarotta distrattiva per aver prelevato e destinato a fini extrasociali tali risorse, in violazione della garanzia patrimoniale generica.

Nella fattispecie in disamina, pertanto, diversa è la condotta: la truffa consiste nell’induzione in errore determinante l’atto dispositivo e, la bancarotta per distrazione, nella destinazione della medesima somma per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall’entità dell’indebita prestazione erogata a seguito di artifizi e raggiri) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per i creditori, oltre al nocumento dell’affidabilità dei terzi.

Siffatti principi sono stati più volte riaffermati dalla Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.

Nel caso in esame, dunque, essendo diversa la stessa condotta dei due reati il disposto di cui all’art. 649 c.p.p. non può ritenersi violato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 34655/2005; Cass. pen. 27594/2019
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Morte congiunto sinistro stradale e danno parentale Come si liquida il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale a seguito della morte di un prossimo congiunto coinvolto in un sinistro stradale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In caso di perdita definitiva del rapporto parentale ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto. – Cass., sez. VI, 13 dicembre 2022, n. 32697

A seguito di un sinistro stradale nel quale morì una ragazza che viaggiava in qualità di trasportata, i parenti della stessa chiedevano al Tribunale la condanna della compagnia assicurativa del veicolo al risarcimento dei danni da perdita del rapporto parentale. La madre e la sorella della deceduta, non ritenendo satisfattive le somme corrisposte dalla convenuta a titolo di indennizzo, deducevano che la prova dell’intensità del vincolo affettivo fosse desumibile dalla documentazione prodotta e che la morte della loro congiunta, stante la dinamica del sinistro, fosse dipesa esclusivamente dalla condotta gravemente colposa della conducente del veicolo. In termini analoghi, ma con distinti atti di citazione hanno provveduto i nonni, i due fratelli e il padre della vittima, ritenendo non satisfattivo l’indennizzo corrisposto al padre, nonché ingiustificato il mancato riconoscimento di un danno in capo ai nonni.

Integrato il contraddittorio nei confronti del proprietario del veicolo su cui si trovava come trasportata la vittima e disposta la riunione dei giudizi, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere, per intervenuta transazione, in relazione al rapporto processuale tra la sorella della vittima e la compagnia assicuratrice. Venivano inoltre rigettate tutte le domande proposte dagli attori, non ritenendo sussistenti rapporti affettivi idonei a giustificare un risarcimento maggiore rispetto a quello riconosciuto in sede stragiudiziale, con compensazione delle spese di lite.

Avverso tale decisione venivano proposti distinti gravami alla Corte di appello. La compagnia assicuratrice, costituendosi, chiedeva il rigetto delle domande degli appellanti e, in caso di accoglimento, l’accertamento del concorso di colpa della vittima nella causazione del sinistro, con conseguente riduzione proporzionale del risarcimento eventualmente riconosciuto in eccedenza rispetto a quanto già accordato.

Riuniti i due procedimenti, la Corte di appello imputava la morte della vittima nella misura del 30% a sua colpa concorrente e, nella misura del 70%, a colpa della conducente del veicolo, condannando la compagnia assicuratrice, in solido con il proprietario dell’autovettura, al risarcimento del danno da perdita di legame parentale. Venivano dunque liquidati importi diversi in favore di ciascuno dei familiari superstiti. La Corte di merito ha ritenuto, inoltre, non meritevole di accoglimento la domanda proposta iure proprio dal padre della giovane deceduta, confermando sul punto la decisione di primo grado, sia pure con diversa motivazione.

Avverso la richiamata sentenza veniva proposto ricorso per cassazione per due motivi. Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2059 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, sostenendo che la Corte di appello avrebbe liquidato, in suo favore, sulla base della “non effettività del legame padre figlia”, il danno da perdita parentale al di sotto dei valori minimi di cui alle Tabelle di Milano, “senza motivare” al riguardo, così violando l’art. 1226 c.c. La Corte territoriale avrebbe, secondo il ricorrente, fondato la sua decisione esclusivamente sulla base di mere dichiarazioni, omettendo di valutare le ulteriori dichiarazioni rese dallo stesso e dagli operatori dei Servizi Sociali del Comune, da cui sarebbe emersa la volontà del padre di riavvicinarsi alla figlia e la conseguente permanenza del vincolo affettivo.

Si lamenta, inoltre, una disparità di trattamento con la madre della vittima, alla quale sarebbe stato riconosciuto un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante, sostiene il ricorrente, avesse avuto un “trascorso di vita del tutto simile al padre, caratterizzato dall’analoga carenza del rapporto di convivenza con la figlia”.

Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, il motivo di ricorso non merita accoglimento. La Corte territoriale ha infatti espressamente richiamato l’orientamento della Corte di Cassazione in tema di danno da perdita del rapporto parentale, secondo cui «è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità. Il giudice può discostarsi dalla misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione» (Cass. 14 novembre 2019, n. 29495; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21230; Cass. 8 aprile 2020, n. 7743).

Correttamente, dunque, la Corte di merito ha applicato tali principi e correttamente ha motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Più precisamente secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale, nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale con riguardo alla relazione padre-figlia, ha in primis valutato la travagliata storia familiare della vittima e, stante l’assenza di una stabile convivenza con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti. Non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale della figlia con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni rese innanzi al Tribunale per i Minorenni, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del padre agli incontri organizzati dai Servizi Sociali, nonché nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia. Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto nella motivazione dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti, sicché il primo motivo di ricorso è ritenuto infondato.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, dei parametri dalle stesse forniti e del principio di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c. c., dall’art. 2056 c. c. e dall’art. 2059 c. c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”. In qualità di erede del nonno della vittima, il ricorrente sostiene che la Corte di appello sarebbe incorsa in una incongrua motivazione in relazione alla mancata applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano nella quantificazione del danno da perdita parentale con riferimento al nonno paterno della vittima, in quanto ai fini di tale liquidazione, nonostante abbia riconosciuto l’intensità e la presenza del legame parentale tra i nonni paterni e la nipote, avrebbe ritenuto di procedere alla determinazione del quantum senza l’utilizzo delle Tabelle, bensì procedendo in via equitativa. L’incongruità della motivazione, argomenta il ricorrente, consterebbe nell’essersi la Corte limitata a considerare il difetto di convivenza con la nipote, l’esiguo lasso di tempo intercorso tra la morte della stessa e quella del nonno e la presenza di altri familiari a sostegno del dolore patito dal nonno paterno in tale periodo.

Anche il secondo motivo di doglianza, secondo la Suprema Corte, è incentrato su un’asserita incongruità e contraddittorietà della motivazione in merito al discostamento effettuato dai valori astrattamente predisposti dalle Tabelle di Milano e alla diversa quantificazione del danno operata in favore dei due nonni paterni, con conseguente – ad avviso del ricorrente – violazione dell’art. 1226 c.c. La Corte territoriale, in assenza di allegazioni specifiche, ha individuato il quantum del risarcimento del danno per la nonna paterna nel minimo previsto dalle tabelle milanesi; nel caso del nonno paterno, invece, ha posto in rilievo l’esiguità del tempo di sopravvivenza dello stesso rispetto alla data di morte della nipote e, stante l’assenza di convivenza della ragazza con i nonni ed il sostegno verosimilmente ricevuto dal resto della famiglia, ha rideterminato il quantum in via equitativa. Anche in questo caso, secondo la Corte di Cassazione, la motivazione risulta logica e congrua, né sussistono gli ulteriori lamentati vizi, poiché la durata della sopravvivenza al parente defunto (sette mesi) e il sostegno ricevuto verosimilmente dagli altri componenti della famiglia sono parametri che ben possono essere considerati ai fini della liquidazione del danno da perdita parentale. Anche il secondo motivo di ricorso è, quindi, infondato.

Conclusivamente, il ricorso viene rigettato, con liquidazione delle spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ. 29495/2019; Cass. civ. 21230/2016; Cass. civ. 7743/2020
giurista risponde

Denuncia vizi ex art. 1495 c.c. e termine di decadenza Da quando decorre il termine di decadenza per la denuncia dei vizi dei beni acquistati dal compratore ex art. 1495 c.c., qualora si tratti di vizi rilevabili attraverso un accertamento tecnico giudiziale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

In tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, una volta eccepita dal venditore la tardività della denuncia rispetto alla data di consegna della merce, incombe sull’acquirente l’onere della prova di aver denunciato i vizi nel termine di decadenza previsto dall’art. 1495 c.c., pari ad otto giorni dalla scoperta del vizio occulto, e, per altro verso, che tale termine decorre dal momento in cui il compratore ne ha acquisito certezza obiettiva e completa: ma solo se la scoperta del vizio avvenga gradatamente ed in tempi diversi e successivi (ma, in difetto di accertamento sul punto e di una censura dello stesso per omesso esame di fatti decisivi, non è questo il caso), in modo da riverberarsi sulla consapevolezza della sua entità, occorre far riferimento al momento in cui detta scoperta, se del caso a seguito di un accertamento tecnico preventivo, si sia completata. – Cass. sez. VI, 22 novembre 2022, n. 34290.

La Corte di Appello ha riformato la sentenza di primo grado, la quale ha accolto la domanda di risoluzione dei contratti di compravendita, stipulati tra l’attore e la società appellante, per la dedotta mancanza, ex art. 1490 c.c., delle qualità che la venditrice aveva promesso e garantito, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”.

In particolare, la Corte d’Appello ha accolto l’eccezione di decadenza e di prescrizione che la società convenuta aveva sollevato, evidenziando che: 1) il compratore, a norma dell’art. 1495 c.c., ha l’onere di denunciare i vizi rinvenuti entro il termine di otto giorni dalla scoperta; 2) tale termine, se si tratta vizi occulti, decorre dalla scoperta degli stessi nella loro manifestazione esteriore mentre, se si tratta di vizi normalmente riconoscibili decorre dal momento in cui sia stato possibile acquisire, in base ad elementi obiettivi e con apprezzabile grado di approssimazione e certezza e secondo buona fede, la conoscenza degli stessi, e cioè, di regola, dalla consegna o, comunque, dal momento dell’acquisizione della certezza oggettivo del difetto; 3) l’onere della prova della tempestività della denuncia incombe sull’acquirente poiché detta denuncia costituisce una condizione necessaria dell’azione; 4) l’inosservanza dell’obbligo di denuncia preclude l’esperimento tanto dell’azione di risoluzione prevista dall’art. 1492 c.c., quanto dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1494 c.c.; 5) l’azione si prescrive in ogni caso si prescrive entro un anno dalla consegna.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto, innanzitutto, che non si tratta di vizi occulti, in quanto inerenti all’assenza del valore artistico dei beni acquistati, ed, in secondo luogo, che le consegne dei beni erano avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, mentre l’unica denuncia documentata risale al settembre 2011. Inoltre, nell’atto introduttivo del giudizio l’attore ha dedotto di aver “di recente” verificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che “i beni acquistati non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore e privi di valore sia artistico che economico”, senza aver, tuttavia, prodotto “alcuna documentazione scritta di una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, avendo, piuttosto, fornito elementi che evidenziano chiaramente come “i vizi furono lamentati con missiva in una data del tutto sganciata da qualsiasi conoscenza dei vizi denunciati”.

Né, secondo la Corte, si potrebbe ricondurre la conoscenza dei vizi alla lettura di un articolo pubblicato da un quotidiano in data 4-4-2010, il quale riportava la notizia di una class action nei confronti della venditrice per aver venduto libri non rivendibili perché ritenuti senza alcun valore da esperti e galleristi. Tale articolo, infatti, risale al 2010, mentre la prima ed unica missiva di denuncia dei vizi risale solo al mese di “settembre 2011”, quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello il compratore ha proposto ricorso in Cassazione per violazione e la falsa applicazione dell’art. 1497 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Secondo il ricorrente, l’acquirente non aveva alcuna cognizione tecnica della mancanza delle qualità promesse tanto che, per averne esatta e specifica cognizione, aveva promosso il giudizio per l’accertamento delle dedotte ed eventuali carenze delle qualità promesse, individuate, tra l’altro, nelle pregresse pronunce giudiziali rese ai danni della venditrice. Soltanto all’esito di queste ultime il ricorrente avrebbe quindi compreso che i beni acquistati non avevano alcun pregio artistico né alcun valore tale da legittimare il prezzo pagato. La domanda giudiziale era, dunque, l’unico rimedio che il compratore poteva proporre per ottenere, in relazione all’oggetto delle vendite, l’accertamento necessario ai fini della risoluzione dei contratti, non potendo valutare autonomamente l’esatto valore dei beni venduti.

La Suprema Corte, tuttavia, nel richiamare quanto argomentato dalla Corte d’Appello, dichiara di non condividere le censure dedotte dal ricorrente. Infatti l’acquirente, pur avendo sostenuto in giudizio di aver “di recenteverificato, “a mezzo di esperti di arte e studiosi della materia”, che i beni acquistati “non contenevano e conservavano alcun valore artistico, trattandosi di opere normalmente rivendute presso qualsivoglia rivenditore”, ed erano, quindi, privi delle qualità promesse e garantite dalla venditrice, vale a dire “l’autenticità e l’esclusività di ogni singola opera acquistata”, non aveva, poi, fornito in giudizio la prova di “una denuncia tempestivamente inviata entro gli otto giorni dalla consegna o dall’eventuale scoperta”, così conseguita, dei vizi lamentati. L’attore aveva infatti soltanto documentato, pur a fronte di consegne avvenute in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, un’unica denuncia, risalente al mese di settembre 2011, vale a dire quando “era ampiamente maturata la decadenza e la prescrizione dell’azione”.

Correttamente, dunque, la Corte d’Appello ha ritenuto che, a fronte di beni consegnati in occasione degli acquisti, risalenti agli anni 2002, 2003 e 2005, l’azione si era anche prescritta. Infatti, in tema di compravendita, l’azione del compratore contro il venditore per far valere la garanzia prevista dall’art. 1495 c.c. si prescrive, in ogni caso, nel termine di un anno dalla consegna del bene compravenduto, e ciò anche se i vizi non siano stati scoperti o non siano stati tempestivamente denunciati o la denuncia non fosse neppure necessaria, sempre che la consegna abbia avuto luogo dopo la conclusione del contratto, coincidendo, altrimenti, l’inizio della prescrizione con quest’ultimo evento (Cass. 15 dicembre 2020, n. 28454; Cass. 5 maggio 2017, n. 11037; Cass. 15 dicembre 2011, n. 26967).

In conclusione, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso perché manifestamente infondato, liquidando le spese di lite secondo la regola della soccombenza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., S.U., 328/1991; Cass. civ. 5142/2003; Cass. civ. 13695/2007;
Cass. civ. 844/1997; Cass. civ. 11046/2016; Cass. civ. 28454/2020;
Cass. civ. 11037/2017; Cass. civ. 26967/2011
giurista risponde

Responsabilità per custodia e condotta colposa della vittima Il custode risponde della caduta nella buca se la condotta colposa della vittima era imprevedibile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, l’accertamento della responsabilità deve essere condotto ai sensi dell’art. 2051 c.c. e non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 o 2, c.c.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno. – Cass. III, 19 dicembre 2022, n. 37059

La vicenda riguardava la domanda di risarcimento danni avanzata contro un supercondominio e il suo gestore per la caduta in una buca adiacente allo scalino del marciapiede. La Cassazione – con la sent. 37059/2022 – ha respinto il ragionamento con cui il giudice di secondo grado aveva cancellato il ristoro dei danni deciso in primo grado nella misura di 41mila euro. La sentenza annullata con rinvio aveva accolto l’argomento difensivo secondo cui il pedone conosceva l’esistenza della buca e le condizioni di luce e di posizionamento della stessa non costituivano in sé un pericolo, ma è la condotta colpevole e scevra di prudenza della vittima che avrebbero determinato il danno interrompendo così il nesso causale di esso con la cosa (la buca). Per la Cassazione non basta dimostrare la colpa, ma anche l’imprevedibilità e l’inevitabilità del fatto dovuto alla condotta della vittima. Così come i giudici di appello, sempre secondo la Cassazione, non potevano escludere il nesso causale tra il danno e la cosa affermando che quest’ultima non conteneva in sé alcun elemento di pericolo inevitabile con l’ordinaria diligenza e prudenza. Ma ciò non basta a evitare che il custode risponda dei danni: va provato il caso fortuito.

La Cassazione precisa che i criteri con cui si giudica la responsabilità aquiliana ex art. 2043 del Codice civile non sono sovrapponibili a quelli che determinano la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. Infatti, nel caso del custode non va accertata la sua colpa nell’aver determinato l’evento dannoso in quanto è sufficiente il suo rapporto giuridico con la cosa custodita. Da cui scaturisce automaticamente la sua responsabilità per i danni arrecati dalla cosa a meno che provi che l’evento si è determinato per un fatto imprevedibile ascrivibile come caso fortuito. Prova, la sola, che spezza il nesso giuridico tra il danno e la cosa che pur materialmente sono tra loro connessi.

L’inattesa condotta da parte di una persona sensata o l’avverarsi di comportamenti mai verificatisi prima può far venir meno il nesso causale tra la cosa e il danno verificatosi. Infatti, la condotta colposa del danneggiato deve risultare imprevedibile e non prevenibile al fine di far degradare la cosa da cui si origina l’infortunio a mera occasione del verificarsi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 31 ottobre 2017, n. 25837; Cass. 24 giugno 2020, n. 26524;
Cass. 16 febbraio 2021, n. 4035
giurista risponde

Immobile indivisibile e istanza del condividente Nell’applicazione dell’art. 720 c.c., l’inclusione dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente presuppone l’espressa e specifica istanza del condividente interessato?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

L’espressa e specifica istanza del condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non abbia fatto esplicita richiesta al riguardo (benché titolare della maggior quota).

Accertata la non comoda divisibilità di uno più immobili ereditari (da intendersi in relazione alla struttura del bene e al numero dei condividenti, e rilevante anche per uno solo di essi), l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può aver luogo ove questi non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo di base vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni – cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisce comunione fra gruppi di condividenti – allorché non vi sia il consenso di costoro. – Cass. VI, 15 dicembre 2022 n. 36736.

La vicenda scaturisce dalla decisione assunta dal giudice di prime cure – e confermata in appello –, di sciogliere la comunione ereditaria sub iudice assegnando all’attore (il coniuge superstite) determinati beni, e altri beni congiuntamente ai convenuti (i fratelli del de cuius), gravandoli altresì del pagamento di un conguaglio. Il Tribunale assumeva tale decisione tenuto conto della non comoda divisibilità dei beni – ostativa ad una omogenea distribuzione di essi tra i coeredi –, che avrebbe imposto l’applicazione dell’art. 720 c.c., con l’attribuzione congiunta a più condividenti. Nello specifico il Tribunale, tenuto conto della richiesta di attribuzione di determinati beni da parte dell’attore, le dava seguito, assegnando i restanti beni congiuntamente ai convenuti.

I ricorrenti in Cassazione lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 720 c.c., per l’essersi disposta l’assegnazione congiuntamente ad essi, in assenza di una richiesta in tal senso e data la non comoda divisibilità dei beni.

Segnatamente, l’art. 720 c.c. descrive un meccanismo per cui, a fronte della presenza nell’eredità di beni immobili non comodamente divisibili (o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o igiene) e della impossibilità di procedere alla divisione dell’intera sostanza senza il loro frazionamento, detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto la quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se manca la disponibilità in tal senso, in estremo subordine si dà luogo a vendita all’incanto. Nel caso in esame, i ricorrenti (convenuti in primo grado), non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione a fronte della valutazione di non comoda divisibilità, ma solo la disponibilità ad aderire alle proposte conciliative dell’attore, e purché non fossero gravati del pagamento di conguagli. Non avendo avuto seguito le menzionate proposte, il giudice – ritengono i ricorrenti – avrebbe dovuto attivare il meccanismo residuale della vendita dei beni non oggetto di richiesta, piuttosto che procedere come avvenuto. La Suprema Corte condivide tali doglianze, osservando preliminarmente come, nell’ambito della comunione ereditaria, il diritto di ciascun erede alla quota in natura (art. 718 c.c.) non sia quello a una porzione di ciascun bene, bensì a una porzione formata in modo da riprodurre quanto più è possibile la composizione qualitativa della massa (art. 727, comma 1, c.c.): ciò significa che la divisione deve avvenire non dividendo, ma distribuendo in porzioni i singoli beni, secondo un criterio di proporzione quantitativa e qualitativa. Ciò posto in via di principio, è comune che tale regola non possa applicarsi a pieno in relazione agli immobili, essendo gli stessi o numericamente insufficienti o qualitativamente troppo eterogenei: in questi casi, la divisione va effettuata in primis frazionandoli o, se non comodamente divisibili, tramite il meccanismo ex art. 720 c.c. In tale terreno, come evidenziato, può darsi una preferenza – a discrezione del giudice – per il titolare della maggior quota o di altro coerede, ma ciò solo se vi sono richieste di attribuzione: in caso contrario, deve darsi luogo alla vendita, giacché i poteri discrezionali del giudice non si estendono all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente (anche titolare della maggior quota). Similmente, deve escludersi che possa includersi l’immobile ereditario non comodamente divisibile nella porzione di più coeredi in assenza della loro richiesta congiunta di attribuzione, essendo in linea di principio vietato il menzionato raggruppamento parziale delle porzioni, se manca il consenso dei soggetti interessati.

Rispetto al caso in esame, quindi, la Suprema Corte procede a cassare con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte della richiesta del solo attore originario di attribuzione di alcuni beni indivisibili, infatti, il giudice di merito non avrebbe potuto attribuire i restanti beni d’ufficio agli altri condividenti né individualmente né congiuntamente, ma avrebbe dovuto disporre la loro vendita.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20250
giurista risponde

Illecito civile violazioni doveri verso i figli La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole integra un illecito civile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

La violazione dei diritti di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, là dove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti: viene in rilievo un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, liquidabile anche in via equitativa. – Cass. I, 28 novembre 2022, n. 34950.

Nel caso di specie, il ricorrente, nato a seguito di un rapporto sessuale non protetto e riconosciuto dal padre svariati solo decenni dopo, aveva promosso azione risarcitoria per il danno sofferto dall’assenza di una relazione parentale con il genitore. La Corte d’appello aveva respinto la domanda risarcitoria, non essendosi provato che questi avrebbe beneficiato di migliori condizioni di vita in virtù di un più celere riconoscimento.

Nela decisione in esame la Suprema Corte ha riformato la sentenza della Corte d’appello, in quanto la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, e ben può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti. L’illecito intrafamiliare, infatti, può produrre anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa. Questo illecito può quindi dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità qualora l’inadempimento del genitore abbia causato un complessivo disagio materiale e morale per il figlio e da tale disagio siano derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli (di carattere patrimoniale, oltre che non patrimoniale), tra cui l’impossibilità di affermarsi in maniera socialmente più soddisfacente e di svolgere degli studi, che possono aver precluso le possibilità di realizzazione professionale, con rilievo anche economico. In tale situazione, ove sussista la prova del danno morale e mancando la ragionevole possibilità di dimostrare la sua precisa entità, è certamente consentita la liquidazione di esso in via equitativa.

Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. (e nelle norme di matrice internazionale recepite dal nostro ordinamento) un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Si osserva altresì, ai fini del decorso del termine di prescrizione, che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo (ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente, che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno) che permanente (se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione, poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli).

La Corte di appello, limitandosi a raffrontare le possibili condizioni di vita e deducendo la mancanza di prova in ordine al preteso pregiudizio subito, ha del tutto omesso di considerare che il figlio, dalla nascita a tutta l’età matura, è stato privato della figura genitoriale paterna sia nella vita strettamente familiare che nel contesto sociale di appartenenza (costituito – circostanza non irrilevante – da un piccolo centro urbano). Invece, essa avrebbe dovuto accertare se e quali siano stati gli effetti causati da detta assenza sullo sviluppo fisiopsichico del ricorrente, mentre si è soffermata solo su profili di tipo sostanzialmente economico. Di conseguenza, la Suprema Corte ha cassato la decisione con rinvio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079;
Cass. 27 maggio 2019, n. 14382; Cass. 10 giugno 2020, n. 11097;
Cass. 6 ottobre 2021, n. 27139; Cass. 16 dicembre 2021, n. 40335;
Cass. 12 maggio 2022, n. 15148
giurista risponde

Danno parentale e tabelle milanesi Ai fini della liquidazione del danno parentale, il giudice può applicare le nuove tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Sono legittime e vanno, dunque, applicate dal Giudice di merito le ultime tabelle milanesi sul danno parentale, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, in quanto l’assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all’età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta. – Cass. III, 16 dicembre 2022, n. 37009.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’adozione di parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale pronunciandosi su un ricorso proposto dagli eredi di una donna defunta a seguito di trasfusioni con sangue infetto.

Al riguardo, occorre riferire che in un recente passato la giurisprudenza si è interrogata sulla esaustività delle tabelle milanesi a risarcire il danno da lesione del rapporto parentale.

Secondo un primo indirizzo, prevalente, nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21 aprile 2021, n. 10579, 29 settembre 2021, n. 26300, Cass. 23 giugno 2022, n. 20292), infatti, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi), con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.

Secondo questa impostazione, infatti, rispetto a questa particolare tipologia di danno non patrimoniale il sistema tabellare a punti è l’unico capace di raggiungere lo scopo per la quale è stato concepito: l’uniformità e la prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza. Ne deriva – per la Cassazione – la sostanziale inapplicabilità della tabella di Milano che non valuta il danno parentale con la tecnica del punto variabile (utilizzata per il danno biologico) ma si limita a individuare alcune forbici di valore per categorie di congiunti, che non consente di pervenire a quella uniformità delle decisioni predicata da Cass. 12408/2011.

Alle sollecitazioni provenienti dalla Suprema Corte, ha risposto l’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che il 29 giugno 2022 ha adeguato le tabelle milanesi alle modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale secondo i criteri del sistema a punti.

La Suprema Corte nella pronuncia in esame, infine, ha riconosciuto queste nuove tabelle coerenti con i principi di equità, uniformità e prevedibilità enunciati nel proprio precedente del 2021, n. 10579.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. III, 21 aprile 2021, n. 10579