giurista risponde

Usufrutto coniuge legittimario L’azione esperita dal coniuge legittimario, destinatario dell’usufrutto generale, deve essere qualificata quale esercizio del rimedio di cui all’art. 550 c.c. o ricorre l’ipotesi prevista dall’art. 551 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. – Cass., sez. II, 18 ottobre 2023, n. 28962.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso con cui è stata, tra gli altri motivi, eccepita violazione dell’art. 550 c.c. e falsa applicazione dell’art. 551 c.c. per avere la Corte d’appello erroneamente qualificato la domanda avanzata dal coniuge, beneficiario dell’usufrutto universale, quale esercizio dell’azione di riduzione, dichiarandola inammissibile in assenza di apposita rinuncia scritta al legato.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione ha preliminarmente ribadito che l’attribuzione per testamento dell’usufrutto universale non individua un’istituzione di erede, ma un legato che non sempre riveste la forma del legato in sostituzione di legittima.

Invero, la qualificazione di un lascito come legato in sostituzione di legittima, pur non richiedendo formule tipiche, né che sia prevista espressamente l’alternativa, per l’onorato, tra conseguimento del legato stesso e richiesta della legittima, postula che, dal contenuto delle disposizioni testamentarie, risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà del testatore di soddisfare integralmente i diritti del legittimario mediante l’attribuzione di un bene o di un diritto sull’eredità, con conseguente istituzione ex asse di altra o di altre persone.

Il legittimario a favore del quale sia stato disposto il legato sostitutivo ha facoltà di scegliere se conseguire il legato o rinunciarvi e chiedere la legittima. Occorrerà a tal proposito promuovere l’azione di riduzione, all’esito vittorioso della quale il predetto legittimario assumerà il titolo di erede.

In mancanza di una chiara e univoca volontà del de cuius di tacitare l’onorato, il legato dovrà invece ritenersi in conto di legittima.

La Corte si discosta da tale assunto rilevando che “quando il legato abbia ad oggetto l’usufrutto generale, la fattispecie di riferimento, più che quella del legato in conto, è quella prevista dall’art. 550 c.c.”.

Parte della dottrina ha osservato che la scelta di cui al secondo comma dell’art. 550 c.c., se dare esecuzione alla disposizione testamentaria o abbandonarla, possa essere esercitata soltanto dal legittimario chiamato all’eredità, se e in quanto l’abbia accettata.

In particolare, si ritiene che nelle ipotesi in cui il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando l’usufrutto al legittimario e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, in quanto erede ab intestato, potrà esperire il rimedio previsto dalla disposizione in esame in luogo della riduzione. Mentre, se il testatore assegna al legittimario l’usufrutto universale, istituendo erede l’estraneo nella nuda proprietà, l’alternativa che si pone al primo non è se eseguire o meno il legato, perché quest’ultimo è eseguito dall’erede, ma se accettarlo, domandandone l’esecuzione, o rifiutarlo e chiedere la legittima proponendo l’azione di riduzione.

Secondo altro orientamento, nei casi in cui il testatore disponga della nuda proprietà di tutto l’asse, lasciando ai legittimari l’usufrutto, potrebbe configurarsi una figura di legato tacitativo. In tale ipotesi, il legittimario potrà, in alternativa alla rinunzia al legato e alla richiesta della legittima, valersi del rimedio previsto dall’art. 550.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha rilevato l’incompatibilità tra i due rimedi in esame per diversità di presupposti, struttura e finalità delle norme di cui agli artt. 550 e 554 c.c.

In particolare, si ritiene che non possa configurarsi un rapporto di alternatività tra gli strumenti prospettati dalle citate disposizioni. Qualora il testatore abbia disposto nei modi stabiliti dall’art. 550 c.c., la scelta offerta al legittimario non è fra l’abbandono della disponibile e l’esperimento dell’azione di riduzione, ma fra l’esecuzione della disposizione testamentaria e il suo abbandono, con conseguente possibilità di ottenere la parte corrispondente alla legittima in piena proprietà.

Tanto premesso, la Corte di Cassazione ha osservato come, ai fini della risoluzione della questione in esame, si dimostri necessaria una chiara e preventiva qualificazione della natura del lascito disposto in favore del legittimario, rilevabile anche grazie alla valutazione del contenuto delle singole disposizioni testamentarie.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione, avendo i giudici di merito erroneamente qualificato la disposizione come legato in sostituzione di legittima senza effettuare tale preliminare valutazione, cassa con rinvio, enunciando il seguente principio di diritto: “Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima”.

giurista risponde

Domanda congiunta separazione e divorzio È ammissibile, in rito, il cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. – Cass., Sez. I, 16 ottobre 2023, n. 28727. 

Nel caso di specie, le parti, con lo stesso ricorso, chiedevano di pronunciare la loro separazione personale, regolamentando i rapporti reciproci e quelli con i figli e, decorso il periodo di tempo previsto dall’art. 3, L. 898/1970 e previo passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

All’udienza fissata per la comparizione delle parti, il giudice prospettava ai coniugi l’esistenza di una questione pregiudiziale di puro diritto, relativa all’ammissibilità, in rito, del cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio.

Investita della questione, la Corte di Cassazione si è preliminarmente soffermata sulle due importanti novità introdotte dal D.Lgs. 149/2022.

La prima è rappresentata dall’istituto del c.d. rinvio pregiudiziale da parte del giudice di merito di cui all’art. 363bis c.p.c., con cui è stata introdotta la possibilità per il giudice di merito di sottoporre alla Suprema Corte una questione di diritto, in presenza di determinate condizioni.

Altra novità è rappresentata dal disposto dell’art. 374bis.49 c.p.c. che, con esclusivo riferimento al giudizio contenzioso, ha introdotto la possibilità di presentare contestualmente domanda di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, subordinando la procedibilità della seconda al decorso del termine a tal fine previsto dalla legge.

Occorre in proposito rilevare che analoga disposizione non è stata riprodotta nell’art. 473bis.51 c.p.c., che disciplina i procedimenti di cui all’art. 473bis.47 c.p.c. proposti su domanda congiunta.

Il legislatore ha pertanto espressamente previsto l’ammissibilità del cumulo delle domande contenziose di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza nulla disporre in merito all’eventualità in cui i coniugi presentino, cumulativamente, le stesse domande ma in forma congiunta.

Tanto premesso, la Corte ha rilevato l’esistenza di posizioni contrastanti nella giurisprudenza di merito e in dottrina in relazione all’ammissibilità del cumulo delle domande presentate in via consensuale.

Un primo indirizzo interpretativo sostiene l’ammissibilità del ricorso con domanda congiunta di separazione e divorzio, adducendo a sostegno della propria tesi argomentazioni sia di carattere letterale che di carattere sistematico.

Da un punto di vista letterale, si è osservato che, diversamente da quanto previsto nel sistema vigente ante riforma, ove il procedimento congiunto di separazione e quello di divorzio erano disciplinati da due diverse disposizioni, oggi la relativa disciplina è confluita in un’unica norma.

È stato altresì evidenziato l’uso del plurale nel comma 1 dell’art. 473bis.51 c.p.c. con riferimento alla “domanda congiunta relativa ai procedimenti di cui all’art. 473bis.47”.

Sulla scorta di tali considerazioni, si è rilevato che se il legislatore avesse inteso precludere ai coniugi la facoltà di presentare contestualmente le domande di separazione e divorzio con riferimento ai procedimenti su domanda congiunta non avrebbe né previsto un procedimento uniforme, né utilizzato il lessico “relativo ai procedimenti”, in luogo di “relativo al procedimento”.

Quanto al criterio sistematico, i sostenitori dell’ammissibilità del cumulo hanno indicato quale ulteriore elemento a favore della propria tesi la ratio sottesa all’introduzione del cumulo per i procedimenti contenziosi. Si ritiene infatti che la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio realizzi quel risparmio di energie processuali posto alla base della previsione dell’art. 473bis.49 c.p.c.

Altro orientamento propende invece per l’inammissibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio, sul presupposto che l’art. 473bis.51 c.p.c. non prevede espressamente la facoltà per le parti di presentare in via consensuale e con un unico ricorso domanda di separazione e di divorzio, diversamente da quanto disposto per le domande contenziose.

Un ulteriore argomento evocato dai sostenitori della tesi contraria all’ammissibilità del cumulo è rappresentato dal tema dell’indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale.

In particolare, si ritiene che qualora si ammettesse la possibilità del cumulo di domande di separazione e divorzio nei procedimenti congiunti verrebbe concessa alle parti la possibilità di costituire dei patti prematrimoniali volti a incidere sugli effetti del futuro divorzio, nulli ai sensi dell’art. 160 c.c.

Si è, di contro, evidenziato che, nei procedimenti presentati in forma congiunta, i coniugi non concludono, in sede di separazione, un accordo sugli effetti del futuro divorzio, tale da condizionare la volontà di un coniuge o da comprimere i suoi diritti indisponibili.

Si richiama in proposito l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di divorzio a domanda congiunta, secondo cui l’accordo “riveste natura meramente ricognitiva e non negoziale, con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, essendo soggetto alla verifica del tribunale che, in materia, ha pieni poteri decisionali”.

È stata altresì valorizzata l’assenza di disposizioni destinate a gestire le sopravvenienze con riferimento al cumulo di domande congiunte.

Invero, l’adattamento del processo contenzioso alle sopravvenienze risulta essere garantito dal disposto del comma 2 dell’art. 473bis.19 c.p.c., che prevede la possibilità per le parti di introdurre nuove domande e i relativi mezzi di prova nel caso in cui si verifichino mutamenti nelle circostanze. Non si riscontra, invece, analoga disposizione in materia di cumulo di domande congiunte.

È stata inoltre evidenziata l’incompatibilità del cumulo con la natura di procedimento di volontaria giurisdizione scaturente dalla domanda congiunta dei coniugi. In particolare, si ritiene che il processo volontario non potrebbe contenere una sentenza non definitiva, seguita da un rinvio per verificare la sussistenza, decorsi sei mesi, delle condizioni di procedibilità e da una conseguente sentenza definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.

Si è altresì rilevato che il risparmio di energie processuali che si ottiene nel giudizio contenzioso non è comparabile con quello che si potrebbe ottenere nel procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., essendo diversa la natura dei due giudizi oltre che l’attività processuale compiuta.

In particolare, si rileva che l’ammissione del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio comporterebbe un aumento della durata del procedimento, in quanto lo stesso resterebbe pendente per tutto il tempo necessario al maturare dei presupposti per il divorzio.

Si è, di contro, osservato che la compatibilità strutturale del cumulo con un determinato procedimento debba essere valutata in concreto e non sulla base della qualificazione astratta della natura del procedimento. Sul punto, si è evidenziato che il procedimento a domanda congiunta è ormai interamente definito con sentenza, con conseguente possibilità di applicare l’art. 279 c.p.c.

La Corte di Cassazione condivide il primo degli orientamenti esaminati, partendo dal presupposto che anche la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio rispecchia la stessa ratio posta alla base dell’art. 473bis.49 c.p.p., ossia quella di realizzare un “risparmio di energie processuali”.

Invero, i coniugi, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, potrebbero con un unico ricorso concludere la negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi e regolamentare in un’unica sede i rapporti reciproci e quelli con i figli, senza dover attendere la riapertura di altro procedimento.

A fondamento dell’ammissibilità del cumulo, la Corte ha inoltre rilevato che il codice di rito prevede tra le disposizioni in generale il cumulo oggettivo di domande anche tra loro non connesse per titolo o petitum, sicché non sembrano esservi ostacoli anche alla proponibilità in cumulo delle domande di separazione consensuale e divorzio congiunto.

Trattasi, in particolare, di un cumulo oggettivo di domande connesse in relazione alla causa petendi, in quanto volte a regolare, in successione, una crisi matrimoniale irreversibile.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

giurista risponde

Padre putativo e padre naturale: mantenimento dei figli In presenza di un padre putativo e di un presunto padre naturale, l’obbligo di mantenimento dei figli a carico di quest’ultimo decorre sin dalla nascita o dal passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.

Il contributo dato dal padre putativo poi disconosciuto non costituisce un’esenzione per chi è stato dichiarato padre dal dovere di mantenimento, fin dalla nascita del figlio, che discende dalla procreazione, ma viene in rilievo come una situazione di fatto che ha determinato una riduzione delle esigenze di mantenimento di cui il figlio aveva necessità ed alle quali gli effettivi genitori dovevano provvedere. – Cass., sez. I, ord. 13 ottobre 2023, n. 28442.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso proposto avverso la sentenza d’appello che, stante la presenza di un padre putativo, condannava il padre naturale al pagamento di una somma in favore della madre a titolo di rimborso pro quota delle spese dalla stessa sopportate sin dalla nascita del figlio.

In particolare, il ricorrente lamentava, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.c., per avere la Corte d’Appello valutato la presenza del padre putativo solo ai fini della quantificazione delle spese sostenute dalla madre per il mantenimento del figlio e non in termini di esenzione dal dovere di mantenimento per il presunto padre naturale fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale.

Veniva infatti ravvisata un’impossibilità giuridica per il riconosciuto padre di assolvere agli obblighi di assistenza materiale e morale che, nel periodo antecedente al disconoscimento, erano rimasti a carico del soggetto che aveva per primo provveduto al riconoscimento del figlio.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione, pur non negando l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tra il giudizio di disconoscimento di paternità e quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità, ha ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, “l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori”.

Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla portata dell’art. 277 c.c., ai sensi del quale “la sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento”. Dal testo della norma si evince che il genitore riconosciuto si fa carico tutti i doveri propri della procreazione, incluso quello del mantenimento ex artt. 148 e 316bis c.c., che lo stesso assume sin dalla nascita del figlio.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha precisato che non è stata dalla Corte d’appello ravvisata l’esistenza nel caso di specie di un doppio e contestuale titolo di mantenimento a carico di due soggetti distinti, quali il padre putativo e il presunto padre naturale, essendosi la stessa limitata ad applicare correttamente il combinato disposto degli artt. 277, 258, 148 e 316bis c.c.

Invero, la sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento accerta ab origine l’inesistenza del rapporto di filiazione e determina, automaticamente dal suo passaggio in giudicato, il venire meno dell’obbligo di mantenimento e l’accertamento che gli stessi erano privi di giustificazione”. Trattasi di un dovere che, sin dalla nascita, rimane a carico di chi sia considerato padre ai sensi dell’art. 231 c.c. oppure di chi sia dichiarato tale ai sensi dell’art. 269 c.c.

Quanto al contributo fornito dal padre putativo al mantenimento, la Corte ha precisato che le spese sostenute da quest’ultimo nel periodo antecedente al giudizio di disconoscimento della paternità non costituiscono un’esenzione per chi è stato successivamente dichiarato padre, ma rilevano solo in termini di riduzione dell’entità del mantenimento complessivo di cui il figlio aveva necessità.

Con altro motivo di ricorso, il ricorrente lamentava l’avvenuto riconoscimento del diritto del figlio di risarcimento del danno endo-familiare.

In particolare, si eccepiva l’insussistenza nel caso concreto di un fatto illecito nonché di una condotta colposa ravvisabile a carico del padre naturale, il quale non poteva ritenersi obbligato ad instaurare un rapporto con il figlio fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento dell’altra paternità.

La Corte di Cassazione, in linea con l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, ha ribadito che l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli essendo legato alla procreazione, prescinde dalla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, sicché il fondamento della responsabilità da illecito nel caso in cui alla procreazione non segua l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore è da rilevarsi nell’automatismo tra la responsabilità genitoriale e la procreazione. Il figlio avrà diritto ad essere istruito, educato ed assistito moralmente dal reale genitore dal momento in cui quest’ultimo abbia assunto coscienza del proprio status, a prescindere dall’esistenza di un padre putativo poi disconosciuto e della dichiarazione giudiziale di maternità o paternità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass., sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652;
Cass., sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960
giurista risponde

Stazione appaltante e variazione contratti La stazione appaltante può provvedere alla variazione dei contratti durante il periodo della loro efficacia?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, allorché sopravvengano esigenze tali da incidere sulle modalità esecutive delle prestazioni oggetto del contratto. – Cons. Stato, sez. III, 11 luglio 2023, n. 6797.

I Giudici di Palazzo Spada enunciano che. la stazione appaltante è legittimata a modificare il contratto durante il periodo della sua efficacia in presenza di sopravvenute esigenze tali da incidere sulle modalità esecutive delle prestazioni contrattuali. Ad ogni modo la variante è ammessa in presenza di determinate condizionali, quali: a) sopravvenienza di circostanze impreviste e imprevedibili per la stazione appaltante; b) mancata alterazione sostanziale della natura del contratto; c) eventuale aumento del prezzo nei limiti del 50% del valore del contratto iniziale.

Nel caso in cui la stazione appaltante operi nella fase che precede la stipulazione del contratto l’eventuale controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in quanto afferente alla fase esecutiva del contratto a nulla rilevando l’adozione della delibera impugnata o la asserita natura paritetica e non autoritativa dell’atto.

giurista risponde

Preavviso diniego e sanatoria Come opera l’istituto del preavviso di diniego e dell’onere istruttorio per la sanatoria nel caso in cui l’autore dell’abuso non sia il proprietario esclusivo del bene?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

La II Sezione del Consiglio di Stato chiarisce gli istituti. – Cons. Stato, sez. II, 21 luglio 2023, n. 7158.

La seconda Sezione del Consiglio di Stato chiarisce che l’istituto del preavviso di diniego costituisce un importante momento di interlocuzione tra p.a. e cittadino, ulteriore e successivo a quello della fase istruttoria vera e propria, connotata dalle forme tipiche della partecipazione.

È opportuno analizzare le modifiche introdotte all’art. 10bis della L. 241/1990 dall’art. 12 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (convertito dalla L. 11 settembre 2020, n. 120) evidenziando l’orientamento della giurisprudenza che intende legittimare la p.a. a svolgere, in sede di adozione del provvedimento e del relativo compendio motivazionale, una valutazione complessiva delle osservazioni del privato e a precisare ulteriormente le proprie posizioni giuridiche, con il solo limite della riconducibilità delle ulteriori argomentazioni allo “schema” delineato dalla comunicazione ex art. 10bis, cit. Pur se le argomentazioni siano meramente ripetitive di quelle già poste a base della domanda del privato può ancora ritenersi insussistente l’obbligo di un’analitica confutazione da parte dell’amministrazione procedente, fermo restando che il provvedimento deve argomentare chiaramente in senso reiettivo le osservazioni del privato e non limitarsi a mere formule di stile nel senso dell’avvenuta analisi delle stesse.

Con riferimento all’onere istruttorio per la sanatoria, il Consiglio di Stato chiarisce che l’art. 11 del D.P.R. 380/2001, recante le caratteristiche del permesso di costruire stabilisce che: “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” e che l’art. 36 individua chi abbia titolo nel responsabile dell’abuso, oltre che nell’attuale proprietario dell’immobile, con ciò volendo includere sia la posizione dell’autore dell’illecito non proprietario, sia quella del subentrante nella titolarità dell’immobile, per tale ragione presumibilmente incolpevole, ma interessato a difendere il valore del proprio bene anche in forza della sua regolarizzazione.

È opportuno precisare che, l’abusività di un’opera non può essere in alcun modo ricondotta all’assenso o dissenso degli altri comproprietari, dovendo dipendere esclusivamente dal rispetto delle regole sulla edificabilità dei suoli e di buon governo del territorio. Con la conseguenza che, la clausola di salvaguardia dei diritti dei terzi esime l’Amministrazione procedente da qualsivoglia approfondimento circa l’effettiva titolarità della pienezza del diritto proprietario del richiedente, sicché l’emergenza di future problematiche in tal senso non incidono sulla legittimità dell’atto adottato. Qualora, tuttavia, la carenza di legittimazione piena emerga per tabulas e non richieda né indagini suppletive, né prese di posizione a favore dell’una o dell’altra tesi di parte, l’Ente ha il dovere di compiere quel minimo di indagini necessarie per verificare se le contestazioni sono fondate sul piano quanto meno della legittimità formale e denegare il rilascio del titolo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento dell’esclusività, in fatto o in diritto, della sua posizione.

Ad ogni modo, la maggiore ampiezza della legittimazione a richiedere la sanatoria, rispetto a quanto dettato per il preventivo permesso di costruire, trova giustificazione nella possibilità da accordare al predetto responsabile, coincidente con l’esecutore materiale delle opere abusive, della fruizione di uno strumento giudiziario utile ad evitare le conseguenze penali dell’illecito commesso, ferma restando la salvezza dei diritti di terzi. Se, tuttavia, l’autore dell’abuso non è il proprietario esclusivo del bene, l’Amministrazione ha un onere aggravato di approfondimento della posizione dei contitolari, giusta la rilevanza che nel procedimento edilizio assume la figura del proprietario, quale destinatario, ancorché pro quota in caso di comproprietà, della sanzione dell’acquisizione del bene al patrimonio comunale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 28 aprile 2023, n. 4278;
Id. 7 aprile 2023, n. 3587;
Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2021, n. 3924;
Cons. Stato, sez. II, 26 marzo 2021, n. 2566;
Id. 27 marzo 2020, n. 2133;
Id. 12 marzo 2020;
Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2020, n. 4745;
Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 961;
Id. 23 dicembre 2019, n. 6394;
Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4933;
Cons. Stato, sez. IV, 14 gennaio 2019, n. 310;
Id. 9 marzo 2018, n. 1508;
Id. 24 febbraio 2017, n. 873;
Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2015, n. 67
giurista risponde

Giudicati impliciti giudice ordinario e vincoli giudice amministrativo In caso di traslatio iudicii conseguente a declaratoria di difetto di giurisdizione, i giudicati impliciti formatisi innanzi al giudice ordinario che ha declinato la giurisdizione vincolano il giudice amministrativo innanzi al quale la domanda sia poi riproposta?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia evidenzia la non vincolatività. – CGARS, sez. giur., 27 luglio 2023, n. 468.

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia risponde al quesito prendendo le mosse dall’art. 59, comma 2, della L. 69/2009, che stabilisce che, ove nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione che declini la giurisdizione ed indichi il giudice nazionale munito di giurisdizione sulla controversia, la domanda venga “riproposta” dinanzi a quest’ultimo giudice, “nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Il comma 5 aggiunge che: “In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice di cui al comma 1, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova”.

Con riferimento al processo amministrativo, l’art. 11, comma 2, c.p.a. stabilisce che: “Quando la giurisdizione è declinata dal giudice amministrativo in favore di altro giudice nazionale o viceversa, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute, sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione, entro il termine perentorio di tre mesi dal suo passaggio in giudicato”. Il successivo comma 6 precisa che: “Nel giudizio riproposto davanti al giudice amministrativo, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomento di prova”; il comma 7, infine, che: “Le misure cautelari perdono la loro efficacia trenta giorni dopo la pubblicazione del provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate. Le parti possono riproporre le domande cautelari al giudice munito di giurisdizione”.

Con riguardo alla vicenda in esame, il Collegio osserva che dalle suesposte disposizioni normative, al contrario di quanto dedotto dagli appellanti, non si evince la esatta unicità del processo instaurato dinanzi al giudice privo di giurisdizione e continuato, in virtù di tempestiva riassunzione, dinanzi al giudice indicato come munito di giurisdizione, in quanto sono le medesime norme di legge a perimetrare puntualmente gli effetti della traslatio iudicii, stabilendo la salvezza degli “effetti processuali e sostanziali della domanda”, ferme comunque restando “le preclusioni e decadenze intervenute”; nonché specificando che, nei rapporti tra giurisdizioni diverse, non si verifica mai la “riassunzione” dello stesso processo dinnanzi a un altro giudice, ma si ha sempre la “riproposizione della domanda” medesima in un distinto processo, in cui è tuttavia data ex lege salvezza, a certi fini e a determinate condizioni, agli effetti sostanziali e processuali della stessa domanda che, nel primo e distinto processo, era stata proposta a diversa giurisdizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 27 ottobre 2020, n. 23599; Id. 28 marzo 2019, n. 8674
giurista risponde

Passaggio in giudicato sentenza giudice amministrativo Quando la sentenza del giudice amministrativo passa in giudicato e decorre il termine per proporre la domanda risarcitoria?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Individua tali momenti il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia. – CGARS, sez. giurisd., 27 luglio 2023, n. 488. 

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia ha affermato che: “Il momento del passaggio in giudicato della sentenza amministrativa, coincidente con il dies a quo del termine decadenziale di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a., entro cui può proporsi la domanda risarcitoria, risulta articolato come segue:

a) la proposizione della revocazione ordinaria, essendo un mezzo di impugnazione ordinario, è ostativa alla immediata formazione del giudicato sulla sentenza revocanda, il quale dunque si forma con la pubblicazione della decisione di inammissibilità della revocazione, qualora tale ultima sentenza non sia passibile di ricorso per cassazione;

b) né, a prolungare di sei mesi tale termine, soccorre l’art. 107, comma 1, c.p.a., perché avverso la declaratoria di inammissibilità della revocazione non è ammesso il ricorso in Cassazione, non potendosi configurare da parte di tale sentenza una violazione dei limiti esterni della giurisdizione;

c) ne deriva che le sentenze del Consiglio di Stato passano in giudicato, nei vari possibili casi:

c.1) con lo spirare dei termini per proporre il ricorso per cassazione o la revocazione ordinaria, ove non proposti;

c.2) con la pubblicazione della sentenza che dichiara inammissibile il ricorso per revocazione;

c.3) il giorno in cui spirano i termini del ricorso per cassazione avverso la sentenza resa nel giudizio di revocazione, ove esso, avendo positivamente superato la fase rescindente e dunque revocato la sentenza gravata, abbia deciso in qualsiasi senso il c.d. giudizio rescissorio: è solo a tale ipotesi che si riferisce, ove correttamente inteso, l’art. 107, comma 1, c.p.a.;

d) la suddetta casistica non implica una sostanziale differenza tra revocazione ordinaria e straordinaria, poiché:

d.1) anche per quest’ultima, invero, superata positivamente la fase rescindente e rimosso così il giudicato che si era formato, la decisione sulla revocazione resa in esito alla fase c.d. rescissoria riapre – analogamente al caso di cui alla superiore lett. c.3) – il termine per il ricorso in cassazione ex art. 107, comma 1, c.p.a.; nonché, ove la decisione rescissoria sia favorevole anche nel merito, altresì il termine di 120 giorni ex art. 30, comma 5, c.p.a., per proporre la domanda risarcitoria;

d.2) viceversa, la declaratoria di inammissibilità della revocazione – sia straordinaria, sia ordinaria – tiene ferma la data di formazione del giudicato e, quindi, quella di decorrenza del termine ex art. 30, comma 5, c.p.a.:

d.2.1)  alla data della già avvenuta formazione del giudicato, per quella straordinaria;

d.2.2)  alla data della declaratoria di inammissibilità della revocazione, per quella ordinaria;

d.2.3)  salvo che, in ambo tali ipotesi, sia stato già proposto autonomamente il ricorso per cassazione, nel rispetto dei termini per esso previsti, comportando esso che il giudicato si vada a formare (non sulla decisione della revocazione, bensì sulla decisione, ove successiva, della Corte di Cassazione)”.

giurista risponde

Fonti alternative per la rilevazione dei prezzi È possibile l’apporto di fonti alternative per la rilevazione dei prezzi?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il Consiglio di Stato si esprime positivamente. – Cons. Stato, sez. V, 27 luglio 2023, n. 7359.

I Giudici di Palazzo Spada hanno condiviso le obiezioni dell’Associazione Nazionale Costruttori di Impianti e dei costruttori edili. Non è di per sé censurabile, l’utilizzo del meccanismo che fa perno su tre fonti di rilevazione “ufficiali”, per la rilevazione delle variazioni percentuali, in aumento o in diminuzione, dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi, trattandosi di un modo di organizzazione della discrezionalità, e come tale idoneo a vincolare in positivo le scelte dello stesso organo consultivo. Tuttavia, nel caso in esame, la discrasia e l’incongruità dei dati raccolti risultano sintomatiche del metodo di rilevazione seguito da ciascun Provveditorato, nonché dell’inadeguatezza scientifica della relativa verifica e del raffronto dei dati provenienti dalle diverse fonti. Pertanto, non risponde ai principi di ragionevolezza e di buona amministrazione privarsi dell’apporto di fonti alternative, in primo luogo, a fini di controllo del risultato ottenuto, e, quindi, di supporto all’istruttoria, se e nei limiti in cui sia necessaria l’implementazione di dati eventualmente mancanti. Alla luce di ciò risulta ragionevole e corretto procedere a rinnovare, in tutto o in parte, la fase della rilevazione quando vi siano scarti eccessivi tra i valori rilevati in ambito ministeriale e i valori risultanti da fonti private.

reato lieve entità

Reato di lieve entità: non è impedita l’emersione del lavoro nero La Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole il rigetto automatico dell'istanza di emersione del lavoratore straniero irregolare per la precedente condanna per un reato lieve

Reato lieve e lavoro irregolare

“È irragionevole e non conforme al principio di proporzionalità far discendere in via automatica il rigetto dell’istanza di emersione del lavoratore straniero irregolare da una precedente condanna per un reato di lieve entità, anziché dall’accertamento in concreto della sua attuale pericolosità”. È quanto si legge nella sentenza n. 43/2024 della Corte Costituzionale, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 103, comma 10, lett. c), del decreto-legge n. 34 del 2020, nella parte in cui “include fra i reati che comportano l’automatica esclusione dalla procedura di emersione del lavoro irregolare la previa condanna per il cosiddetto piccolo spaccio”.

Quest’ultimo è definito dal legislatore come illecito di ridotta offensività e rientra fra i reati per i quali opera l’arresto facoltativo in flagranza, vale a dire la regola utilizzata dallo stesso legislatore (all’art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020) per richiamare reati di minore gravità, ai quali non viene applicato il citato automatismo.

Esclusione automatica lavoratore da procedura di emersione

Per la Corte, la condanna per il richiamato reato non costituisce un indice univoco di persistente pericolosità tale da giustificare l’esclusione automatica del lavoratore dalla procedura di emersione. Ben può accadere, infatti, che il lavoratore straniero, tenuto conto del tempo trascorso dalla condanna, dell’espiazione della pena, dell’eventuale percorso rieducativo seguito, della condotta tenuta successivamente e di altri possibili indici probatori, non rappresenti più un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza.

L’automatismo è stato, quindi, ritenuto non coerente con la stessa finalità della legge introdotta nel corso dell’emergenza pandemica e «ispirata all’istanza di favorire l’integrazione lavorativa e sociale di persone che con il proprio lavoro avevano contribuito, spesso in condizioni di carenza di tutele, […] ad apportare significativi benefici alla comunità dei consociati nel contesto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19».

A seguito della pronuncia della Corte, all’ipotesi del lavoratore che in passato ha riportato una condanna per il reato di piccolo spaccio, troverà applicazione la previsione che lo esclude dalle procedure di emersione del lavoro irregolare solo se la pubblica amministrazione accerta in concreto la sua attuale pericolosità per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato (art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020).

Allegati

Jobs Act

Jobs Act: ok a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati La Corte Costituzionale dichiara legittima l'applicazione del contratto a tutele crescenti ai lavoratori già impiegati in piccole imprese

Jobs Act e tutele crescenti

Ok alle tutele crescenti ai lavoratori già impiegati in piccole imprese. Lo ha sancito la Corte costituzionale (con la sentenza n. 44/2024) dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che consente l’attrazione nell’ambito applicativo del regime delle tutele crescenti anche di lavoratori di piccole imprese, già in servizio alla data del 7 marzo 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, successive all’entrata in vigore dello stesso decreto, che abbiano comportato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi ottavo e nono, statuto dei lavoratori.

La qlc

La Sezione lavoro del Tribunale di Lecce aveva censurato tale disciplina deducendo la violazione dell’art. 76 della Costituzione, in riferimento ai criteri di delega fissati dall’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act).

Secondo il tribunale l’oggetto della delega, in quanto circoscritto alle «nuove assunzioni», ossia ai lavoratori “giovani” assunti a partire dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015), sarebbe violato nella misura in cui il nuovo regime si applica anche a lavoratori assunti prima di tale data, ma in piccole imprese che, solo successivamente, abbiano superato la soglia di quindici dipendenti occupati nell’unità produttiva.

In base alla delega legislativa, la disciplina dei licenziamenti doveva essere rivista «per le nuove assunzioni» in un assetto a doppio regime, ispirato alla logica secondo cui i lavoratori in servizio alla data del 7 marzo 2015, che già avessero la tutela reintegratoria ex art. 18 statuto dei lavoratori, l’avrebbero conservata immutata anche in caso di licenziamenti intimati successivamente; mentre ai lavoratori assunti ex novo, a partire da tale data, si sarebbe applicata direttamente la nuova più limitata disciplina del decreto legislativo.

Jobs Act sotto la lente della Consulta

Questo duplice e parallelo regime di tutela è stato già esaminato dalla Consulta con riferimento ai licenziamenti collettivi, in quanto “licenziamenti economici”, nella sentenza n. 7 del 2024, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate denunciando la violazione del medesimo criterio di delega.

Invece, con la sentenza n. 22 del 2024 la Corte ha ritenuto violato tale criterio di delega sotto altro e diverso profilo ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo limitatamente alla parola «espressamente».

Legittima la tutela crescente

Nella sentenza n. 44 del 2024, ora pubblicata, la Corte considera essere in sintonia con la legge di delega la disciplina per i lavoratori che erano sì già in servizio al 7 marzo 2015, ma che a quella data non beneficiavano della tutela reintegratoria perché non era integrato il requisito occupazionale previsto dall’ottavo e nono comma dell’art. 18 e quindi ad essi trovava applicazione solo la tutela indennitaria di cui alla legge n. 604 del 1966. In particolare la Corte ha ritenuto che il legislatore delegato, nell’esercizio del suo potere di completamento del quadro della disciplina, poteva regolare anche la posizione dei dipendenti di piccole aziende, per i quali non c’era un regime di tutela reintegratoria ex art. 18 da conservare, e ciò poteva fare tenendo conto dello «scopo» della delega e del bilanciamento voluto dal legislatore delegante (la non regressione della tutela reintegratoria di chi, essendo già in servizio, l’avesse alla data dell’entrata in vigore della nuova disciplina). In tal modo, da una parte non c’è stata una regressione in peius per tali lavoratori in quanto la tutela del decreto legislativo è, comunque, più favorevole del regime della legge n. 604 del 1966, ad essi applicabile in precedenza, prima del superamento della soglia occupazionale. D’altra parte è soddisfatto lo «scopo» della delega nel senso che, se invece fosse stata consentita l’acquisizione ex novo del regime di tutela dell’art. 18, ciò avrebbe potuto rappresentare una remora, per il datore di lavoro, a fare nuove assunzioni, proprio quelle assunzioni che invece il legislatore delegante voleva incentivare.

Quindi non è violata la legge di delega, sotto questo profilo, e pertanto ai lavoratori di piccole imprese, assunti prima dell’entrata in vigore dello decreto legislativo, non si applica l’art. 18 statuto dei lavoratori, bensì il regime di tutela del licenziamento individuale illegittimo, previsto per i contratti a tutela crescente, nel caso in cui il datore di lavoro abbia superato la soglia dimensionale di quindici lavoratori occupati nell’unità produttiva in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto stesso.

Allegati