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Delitto di omicidio e motivo abietto Nel delitto di omicidio la circostanza aggravante del motivo abietto può ritenersi integrata per il solo fatto che l’autore abbia agito per gelosia?

Quesito con risposta a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez

 

La gelosia, rientrante nei cd stati emotivi e passionali, non è di per sé idonea ad integrare la circostanza aggravante del motivo abietto. Questa, piuttosto, si ritiene sussistente nel caso in cui il delitto di omicidio sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza (Cass., sez. I, 25 ottobre 2024, n. 39245).

La questione sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione riguarda la configurabilità della circostanza aggravante dei motivi abietti.

Il ricorrente, condannato per omicidio ai danni del coniuge, contesta l’erronea applicazione dell’art. 577, n. 4, c.p. in relazione all’art. 61, n. 1, c.p. Ad avviso della difesa i giudici di merito hanno trascurato alcuni elementi individualizzanti (come il contesto sociale dell’imputato) che, invece, rivestono un ruolo centrale ai fini del riconoscimento, o meno, dell’aggravante in esame. In particolare, la Corte territoriale avrebbe attribuito la condotta del soggetto ad una reazione animata da gelosia, senza tener conto degli elementi prospettati dalla difesa.

I giudici della Prima Sezione hanno analizzato l’ambito applicativo delle circostanze de qua.

L’art. 61, n. 1, c.p. contempla le aggravanti dei motivi abietti o futili che, peraltro, sono richiamate anche tre le aggravanti speciali del delitto di omicidio, per cui si tratta di due distinte fattispecie che possono ricorrere separatamente. Il motivo è abietto quando rileva “un tale grado di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità” (Cass. 5 febbraio 2017, n. 33250). Il motivo abietto è qualificabile come motivo ignobile, spregevole o vile. Diversamente, il motivo è futile quando caratterizzato da sproporzione sul piano oggettivo e sul piano soggettivo. In particolare, a livello oggettivo ci deve essere sproporzione tra il fatto realizzato e il motivo che lo ha determinato; a livello soggettivo la sproporzione deve essere espressione di un moto interiore ingiustificato, così da rendere “lo stimolo esterno come mero pretesto di un impulso criminale” (Cass. 27 giugno 2019, n. 45138). Ciò premesso, la pura gelosia (cioè una condizione psicologica rientrante nei cd stati emotivi e passionali) non è di per sé idonea ad integrare automaticamente le aggravanti in questione, in quanto non è qualificabile da sola come espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima.

La giurisprudenza di legittimità è ormai concorde nel ritenere che l’aggravante dei motivi abietti ricorra quando l’omicidio sia compiuto non per motivi di gelosia legati ad un desiderio di vita in comune, ma sia la manifestazione di una reazione punitiva nei confronti della vittima. Invero, la condizione di gelosia è idonea ad integrare l’aggravante di cui trattasi tutte le volte in cui risulti “ingiustificata espressione di supremazia e possesso”, ossia tutte le volte in cui l’agente consideri la vittima come propria appartenenza e non ne tolleri l’insubordinazione (Cass. 10 marzo 2023, n. 16054).

In applicazione di questi principi la Suprema Corte ha dichiarato infondati i motivi di ricorso e, pertanto, ha ritenuto immune da censure la decisione di merito. La Corte distrettuale ha correttamente ancorato la circostanza di cui all’art. 61, n. 1, c.p. ad elementi concreti (come ad esempio il contesto storico-sociale) ed ha correttamente qualificato la gelosia come condizione riconducibile all’aggravante dei motivi abietti. Nel caso di specie la gelosia ha assunto i caratteri di “abnormità e spregevolezza” che hanno portato l’agente alla consumazione del fatto omicidiario. Si tratta, quindi, di una condizione psicologica espressione di uno spirito punitivo connessa al mero desiderio egoistico di preservare la posizione di dominio acquisita sulla donna.

 

(*Contributo in tema di “Delitto di omicidio e motivo abietto”, a cura di Mariarosaria Cristofaro e Serena Ramirez, estratto da Obiettivo Magistrato n. 80 / Dicembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

beni demaniali

Beni demaniali: cosa sono Beni demaniali: definizione, tipologie, finalità, normativa di riferimento e giurisprudenza delle Corti principali

Cosa sono i beni demaniali

I beni demaniali sono quei beni di proprietà dello Stato o di altri enti pubblici, destinati a soddisfare esigenze di interesse generale. Si caratterizzano per essere inalienabili, imprescrittibili e non soggetti a espropriazione forzata. La loro gestione e tutela sono finalizzate a garantire l’uso collettivo e il rispetto della funzione pubblica cui sono destinati.

Tipologie di beni demaniali

Essi possono essere suddivisi in:

  • Beni del demanio necessario: comprende i beni che appartengono per natura allo Stato, come fiumi, spiagge, strade e porti.
  • Beni del demanio accidentale: include beni che diventano demaniali in virtù di una specifica destinazione d’uso pubblico, come edifici storici o parchi.

Finalità dei beni demaniali

La funzione principale di questi beni è di garantire l’interesse pubblico, fornendo risorse o spazi necessari al benessere collettivo.

Questi beni infatti:

  • possono essere utilizzati da tutti i cittadini, come le spiagge o le strade;
  • possono essere concessi in uso a soggetti privati, mantenendo però la destinazione pubblica.
  • devono essere preservati per le generazioni future, assicurandone la fruibilità e la conservazione.

Normativa di riferimento

La disciplina che si occupa di questi beni è contenuta nel Codice Civile e in diverse leggi specifiche:

  • articoli 822-830 del Codice Civile: definiscono questi beni, la loro natura, le modalità di gestione e i limiti di utilizzo;
  • Codice della Navigazione: disciplina i beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale, come spiagge, porti e acque interne;
  • decreto legislativo n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio): regola la tutela dei beni demaniali di interesse storico, artistico e paesaggistico;
  • legge n. 112/2008: detta norme sulla concessione e gestione dei beni demaniali marittimi.

Giurisprudenza sui beni demaniali

La giurisprudenza ha spesso contribuito a chiarire e integrare la disciplina normativa, affrontando questioni legate alla loro gestione, uso e tutela.

  • Corte Costituzionale: ha ribadito che i beni demaniali sono inalienabili, ma possono essere concessi in uso nel rispetto della destinazione pubblica (cfr. Corte Cost. n. 320/2011).
  • Consiglio di Stato: ha chiarito che l’uso privato di questi beni, ad esempio tramite concessioni, non può prevalere sull’interesse collettivo. Le concessioni devono rispettare i principi di trasparenza e parità di trattamento (cfr. Cons. Stato sentenze gemelle 17 e 18/2021).
  • Corte di Cassazione: la natura demaniale di un bene non impedisce la costituzione di diritti reali o personali in favore di privati mediante concessione, né la circolazione di tali diritti, che nei rapporti privatistici assumono il carattere di diritti soggettivi perfetti (cfr. Cass. n. 31642/2019).

 

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reddito di cittadinanza

Reddito di cittadinanza indebitamente percepito: niente tenuità del fatto La Cassazione conferma la negazione della particolare tenuità del fatto per il reddito di cittadinanza indebitamente percepito

Reddito di cittadinanza indebitamente percepito

Niente particolare tenuità del fatto a chi percepisce indebitamente il reddito di cittadinanza per non aver comunicato tempestivamente la nuova occupazione. Così la terza sezione penale della Cassazione con sentenza n. 36936/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Lecco condannando una donna in relazione al reato di cui all’art. 7 comma 2 del DL 4/2019.

L’imputata proponeva ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, di non avere l’obbligo di comunicare all’ente pubblico di riferimento la nuova assunzione, non trattandosi di
una variazione occupazionale, rispetto alla presentazione della domanda del reddito di cittadinanza, atteso che con la nuova assunzione permaneva il pregresso stato di occupata. Peraltro, non sussisterebbe alcun termine per operare la suddetta comunicazione, con conseguente assenza del reato. Conseguentemente, inoltre, la ricorrente non avrebbe avuto consapevolezza della pretesa illiceità del comportamento ascrittole.
Si doleva, altresì, del diniego dell’applicazione della speciale tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p.

La decisione

Gli Ermellini le danno torto.

La Corte d’appello ha, infatti, “congruamente osservato, in maniera condivisibile, come ala luce dell’art. 3 comma 8 del dl .n 4/2019, laddove nell’ultima parte del predetto comma 8
invero prevede che ‘l’avvio dell’attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore al’INPS per il tramite della Piattaforma digitale per il Patto per il lavoro di cui all’articolo 6, comma 2, a pena di decadenza dal beneficio, entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, ovvero di persona presso i centri per l’impiego’ risulti obbligo di comunicazione e tempestivo del nuovo lavoro dipendente, che abbia generato la rimodulazione della somma percepibile a titolo di reddito di cittadinanza in uno con la consumazione del reato ascritto”.  Quanto alla tesi – giuridica – per cui la comunicazione non sarebbe stata necessaria a fronte della persistenza comunque di uno stato di occupata della ricorrente, “occorre innanzitutto richiamare la regola per cui il vizio di motivazione non è configurabile riguardo ad argomentazioni giuridiche delle parti. Queste ultime infatti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate, e allora il fatto che il giudice le abbia disattese dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, come nel caso di specie, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di
correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. ni tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 Emmanuele)”.

Per il Palazzaccio, “valida è anche la risposta, tutt’altro che mancata, sulla assenza di consapevolezza della violazione”. Si rammenta peraltro, scrivono i giudici, “che in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l.”.

Nulla di fatto, anche con riferimento alla negazione della fattispecie di cui all’art. 131 bis cod. pen., “stante la considerevole somma indebitamente percepita, costituendo, li valore di quanto ingiustamente percepito, una argomentazione di per sé autonoma e adeguata. Le rappresentazioni difensive per cui la donna si sarebbe appropriata di una somma minore attengono al merito della vicenda, e come tali non possono essere sindacate in questa sede” concludono da piazza Cavour.
Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

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legittima la competenza

Legittima la competenza del Tar Lazio sui giochi pubblici La Corte Costituzionale ha ritenuto legittima la competenza del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Agenzia delle dogane in materia di giochi pubblici

Legittima la competenza del Tar

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 5 del 2025, si è pronunciata in merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Piemonte riguardo alla norma che attribuisce alla competenza funzionale del TAR Lazio, sede di Roma, le controversie relative ai provvedimenti adottati dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (A.D.M.) in materia di giochi pubblici con vincita in denaro.

Le norme sotto esame

La disposizione analizzata si trova nella prima parte della lettera q-quater) dell’articolo 135 del codice del processo amministrativo. Questa norma è stata oggetto di scrutinio rispetto alla sua compatibilità con gli articoli 3, 25, primo comma, 76 e 125 della Costituzione. La Corte, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale, ha ritenuto che la previsione non violi i principi fondamentali enunciati nei suddetti articoli.

La concentrazione delle competenze presso il TAR Lazio

Secondo la Corte, la concentrazione delle controversie sui provvedimenti dell’A.D.M. presso un unico Tribunale Amministrativo Regionale non costituisce uno stravolgimento irragionevole dei criteri ordinari di riparto della competenza giurisdizionale amministrativa. Gli atti oggetto della norma hanno un chiaro rilievo nazionale, in quanto funzionali al perseguimento di interessi pubblici di primaria importanza.

Gli interessi pubblici coinvolti

La Corte ha precisato che i provvedimenti dell’A.D.M. rispondono a esigenze di coordinamento amministrativo e gestione unitaria delle concessioni di gioco pubblico su scala nazionale. Inoltre, questi atti mirano a garantire:

  • Ordine pubblico e sicurezza, con particolare riferimento alla prevenzione della criminalità e al contrasto della ludopatia;
  • Interessi fiscali dell’erario, che richiedono un approccio uniforme e centralizzato.

Anche nel caso in cui i provvedimenti siano emessi da una direzione territoriale dell’Agenzia, gli interessi pubblici sottesi – che vanno oltre il contesto locale – giustificano la concentrazione delle competenze presso il TAR Lazio.

La visione d’insieme come necessità giurisdizionale

La Corte ha sottolineato che, per gestire in modo efficace gli interessi pubblici di carattere nazionale, è necessario attribuire a un unico tribunale la competenza su tali controversie. Questa scelta consente una visione d’insieme che supera i limiti di una competenza territoriale frammentata e garantisce una maggiore coerenza nelle decisioni giurisdizionali.

 

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dimissioni per fatti concludenti

Dimissioni per fatti concludenti: le indicazioni dell’INL Dimissioni per fatti concludenti a seguito di assenza ingiustificata: l'Ispettorato fornisce i primi chiarimenti dopo il Collegato Lavoro

Dimissioni per fatti concludenti

La nota n. 579/2025 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fornito i primi chiarimenti in merito alla procedura per le dimissioni per fatti concludenti a seguito di assenza ingiustificata del lavoratore. Il documento, pubblicato in risposta alle novità introdotte dal Collegato Lavoro, mira a fornire indicazioni utili per la corretta gestione di tali situazioni, sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. L’INL ha messo a disposizione (allegato alla nota) anche un modello di comunicazione dell’assenza ingiustificata con cui i datori di lavoro potranno attivare la procedura.

Dimissioni per fatti concludenti nel Collegato Lavoro

In merito, specifica l’ispettorato, l’art. 19 della legge 203/2024 integra l’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015 che disciplina le “Dimissioni volontarie e risoluzione consensuale” introducendo un nuovo comma 7-bis secondo il quale “in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo”.

La norma affida anzitutto l’onere, in capo al datore di lavoro, di comunicare alla sede territoriale dell’Ispettorato, l’assenza ingiustificata del lavoratore che si sia protratta oltre uno specifico termine. Ciò ovviamente laddove il datore intenda far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro e pertanto la comunicazione, chiarisce l’INL, non va effettuata sempre e in ogni caso.

La procedura prevista dalla nota n. 579/2025

Laddove il datore di lavoro intenda effettuare la comunicazione, dovrà anzitutto verificare, si spiega nella nota, “che l’assenza ingiustificata abbia superato il termine eventualmente individuato dal contratto collettivo applicato o che, in assenza di una specifica previsione contrattuale, siano trascorsi almeno quindici giorni dall’inizio del periodo di assenza”.

A questo punto, la comunicazione effettuata alla sede territoriale dell’INL, preferibilmente a mezzo pec, dovrà riportare tutte le informazioni a conoscenza dello stesso datore concernenti il lavoratore e riferibili non solo ai dati anagrafici ma soprattutto ai recapiti, anche telefonici e di posta elettronica, di cui è a conoscenza. Al fine di uniformare i contenuti e semplificare l’adempimento, l’INL mette a disposizione un modello ad hoc (allegato alla nota).

In base alla comunicazione pervenuta e ad altre informazioni già in possesso degli Ispettorati territoriali, gli stessi potranno avviare la verifica sulla “veridicità della comunicazione medesima”, contattando anche il lavoratore.

Risoluzione del rapporto e prova contraria

Secondo la previsione del Collegato lavoro, il protrarsi dell’assenza ingiustificata e la comunicazione del datore di lavoro, fanno sì che il rapporti di lavoro si intenda risolto per dimissioni del lavoratore. Pertanto, una volta decorso il periodo previsto dalla contrattazione collettiva o quello indicato dal legislatore ed effettuata la comunicazione all’INL, il datore di lavoro potrà procedere alla comunicazione della cessazione del rapporto di lavoro.

L’effetto risolutivo del rapporto potrà ad ogni modo essere evitato laddove il lavoratore dimostri “l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Al riguardo il legislatore pone dunque in capo al lavoratore l’onere di provare non tanto i motivi che sono alla base dell’assenza, bensì l’impossibilità di comunicare gli stessi al datore di lavoro (ad es. perché ricoverato in ospedale) o comunque la circostanza di averli comunicati.

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l'inferriata installata

L’inferriata installata per ragioni di sicurezza non si tocca Il tribunale di Catania ha dichiarato nulla la delibera condominiale che imponeva la rimozione di un'inferriata installata per sicurezza

Nullità delibera condominiale

Con la sentenza n. 121 dell’8 gennaio 2025, il Tribunale di Catania ha dichiarato la nullità di una delibera assembleare che obbligava un condomino a rimuovere l’inferriata installata all’ingresso della propria abitazione per motivi di sicurezza.

L’inferriata installata all’ingresso: il caso

Un condomino aveva installato un’inferriata al portone d’ingresso del proprio appartamento, situato al piano terra, per proteggere l’abitazione da possibili intrusioni. L’assemblea condominiale, ritenendo che l’installazione alterasse il decoro architettonico dell’edificio e invadesse parti comuni, ne aveva deliberato la rimozione a spese del condomino. Quest’ultimo ha impugnato la delibera davanti al Tribunale di Catania.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale ha accolto le ragioni del condomino, stabilendo che la delibera assembleare era nulla. Dalla consulenza tecnica espletata è emerso, infatti, che l’inferriata non invadeva parti comuni, non ledeva il decoro architettonico dell’edificio e insisteva su una parte di proprietà esclusiva.

La posa in opera era da intendersi peraltro come intervento relativo all’adozione di misure finalizzate a prevenire il rischio del compimento di atti illeciti da parte di terzi. Ovvero tutelarsi dal pericolo di intrusioni.

Pertanto, l’assemblea non aveva il potere di imporre la rimozione di un’opera realizzata su una proprietà privata che non arrecava pregiudizio alle parti comuni o agli altri condomini. Ed anzi la delibera impugnata “rappresenta un’ingerenza” su una parte di proprietà esclusiva. Con la conseguenza che la stessa va dichiarata nulla, come da insegnamento delle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. Cass. 9839/2021).

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assicurazione casalinghe

Assicurazione casalinghe: tutto quello che c’è da sapere L’assicurazione casalinghe copre i danni causati da infortuni domestici riportati da soggetti di età compresa tra i 18 e i 67 anni

Assicurazione casalinghe INAIL

L’assicurazione casalinghe è uno strumento importante di tutela contro gli infortuni domestici. Regolamentata dall’INAIL, questa forma di assicurazione è obbligatoria e offre una copertura essenziale per chi lavora in ambito domestico.

Chi deve sottoscrivere l’assicurazione?

Secondo la normativa italiana, l’assicurazione contro gli infortuni domestici è obbligatoria per tutte le persone di età compresa tra i 18 e i 67 anni che svolgono in maniera abituale, esclusiva e gratuita il lavoro domestico. Ciò comprende attività come la pulizia, la manutenzione della casa e delle sue pertinenze (o delle parti condominiali comuni) la preparazione dei pasti e l’assistenza ai familiari.

È importante notare che questa assicurazione riguarda sia uomini che donne, sfatando il mito che sia riservata esclusivamente alle casalinghe. Anche studenti, pensionati e disoccupati, se dediti alla cura della casa, rientrano tra i soggetti obbligati.

Quanto costa l’assicurazione

Il premio annuo dell’assicurazione è accessibile e ammonta attualmente a 24 euro. In alcuni casi, l’assicurazione può essere gratuita, come per coloro che presentano un reddito basso (personale di Euro 4.648,11 o familiare di Euro 9.296,22) o rientrano in determinate fasce di esenzione. Gli interessati possono verificare i requisiti per l’esenzione sul sito ufficiale dell’INAIL.

Quali rischi copre

L’assicurazione copre gli infortuni gravi che avvengono durante lo svolgimento di attività domestiche, come cadute, ustioni o lesioni derivanti dall’uso di elettrodomestici. La protezione si estende a eventi che causano un’invalidità permanente pari o superiore al 16%. In caso di incidente, è prevista un’indennità commisurata al grado di invalidità, e, nei casi più gravi, una rendita vitalizia.

Come si sottoscrive

L’iscrizione all’assicurazione per le casalinghe è semplice e avviene con il pagamento premio, che può essere effettuato nelle seguenti modalità:

  • online, attraverso il portale dell’INAIL;
  • presso gli uffici postali, utilizzando il bollettino precompilato disponibile sul sito INAIL.
  • con il supporto dei patronati, che offrono assistenza gratuita per la compilazione delle pratiche.

Sanzioni per chi non si assicura

Non sottoscrivere l’assicurazione, pur essendo obbligatoria, espone a rischi importanti. In caso di infortunio domestico, chi non è assicurato non potrà accedere alle tutele previste, lasciando scoperta ogni forma di indennizzo.

 

 

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ispettori del lavoro

Ispettori del lavoro: indennità premiale e di amministrazione cumulabili La Corte Costituzionale ritiene che l'indennità premiale spettante agli ispettori del lavoronon possa essere scomputata dall'indennità di amministrazione corrisposta per la stessa annualità

Indennità premiale ispettori del lavoro

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 4/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1-bis, comma 1, del decreto-legge 18 ottobre 2023, n. 145, convertito con modificazioni, nella parte in cui prevedeva lo scomputo dell’indennità premiale dalle somme corrisposte agli ispettori del lavoro per l’anno 2022 a titolo di perequazione dell’indennità di amministrazione. Tale disposizione riguardava esclusivamente il personale dell’Ispettorato nazionale del lavoro e prevedeva una compensazione tra emolumenti aventi natura e finalità differenti.

Le censure del Tribunale di Milano

Il Tribunale di Milano, in qualità di giudice del lavoro, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale, evidenziando un deficit di ragionevolezza nella norma impugnata. La compensazione era ritenuta inappropriata in quanto coinvolgeva due indennità con funzioni e caratteristiche divergenti, oltre a configurare una violazione della riserva di contrattazione collettiva in materia di retribuzioni. La Corte costituzionale ha accolto la prima censura, dichiarando assorbita la seconda, poiché già la prima risultava sufficiente per annullare la disposizione.

La differenza tra le due indennità

La Corte ha chiarito la natura delle indennità in questione. L’indennità di amministrazione, regolata dalla contrattazione collettiva del comparto Funzioni centrali, è un compenso incentivante collegato alla presenza in servizio e non legato al raggiungimento di specifici obiettivi o condizioni straordinarie di lavoro. Al contrario, l’indennità premiale una tantum, introdotta dall’art. 32-bis del decreto-legge n. 50 del 2022, è stata riconosciuta per premiare l’impegno straordinario del personale dell’Ispettorato, richiesto per affrontare specifiche attività, tra cui:

  • Il contrasto al lavoro sommerso;
  • La vigilanza sul rispetto delle normative in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
  • L’attuazione delle misure previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

Gli aggravamenti di lavoro e l’ampliamento dell’organico

La Corte ha sottolineato come l’indennità premiale fosse giustificata dall’aumento dei carichi di lavoro straordinari verificatosi nel 2022, dovuto anche all’attuazione delle disposizioni del decreto-legge n. 146 del 2021. Tale normativa aveva ampliato le competenze dell’Ispettorato in materia di salute e sicurezza sul lavoro e previsto un incremento di oltre mille unità nell’organico dell’ente. Tuttavia, i nuovi concorsi pubblici banditi per l’assunzione del personale si sono conclusi solo negli ultimi mesi del 2022, lasciando il personale in servizio a gestire carichi straordinari di lavoro.

La decisione finale della Corte

Secondo la Corte costituzionale, prevedere lo scomputo dell’indennità premiale dagli incrementi retributivi previsti per l’indennità di amministrazione è manifestamente irragionevole. La prima indennità era stata erogata per far fronte a carichi di lavoro eccezionali e temporanei, mentre la seconda è legata all’ordinaria attività lavorativa. Tale differenza di finalità rende inaccettabile qualsiasi compensazione tra i due emolumenti, a tutela del diritto dei lavoratori dell’Ispettorato nazionale del lavoro a ricevere entrambi i riconoscimenti economici spettanti.

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Tasso di interesse e usura Secondo quali parametri il giudice deve qualificare le operazioni di finanziamento intercorrenti tra privati ai fini della valutazione del tasso di interesse come usurario?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Il giudice del merito deve rinvenire i profili di omogeneità tra le categorie individuate dai decreti ministeriali e il rapporto in causa, rispetto ai quali assumono rilievo soprattutto: la natura del prestito, ossia se si tratta di un negozio tra privati, non tra professionisti quali banche o intermediari non bancari, rispetto al quale dovrebbe essere chiarita l’eventuale funzione di scopo del finanziamento tale da integrare la struttura tipica del negozio, ampliandone la causa, nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali (Cass., sez. II, 5 settembre 2024, n. 23866).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla qualificazione giuridica di un contratto di finanziamento al fine di valutare se gli interessi applicati allo stesso fossero o meno usurari.

In primo grado il Giudice qualificava il contratto intercorrente tra le parti come operazione di mutuo, sulla base delle categorie individuate dal Ministero del Tesoro per l’individuazione del tasso-soglia, ritenendo pertanto come usurario il tasso di interesse del 10% applicato.

Il Giudice d’appello, viceversa, riteneva valida la clausola di previsione degli interessi convenzionali contenuta all’interno della scrittura privata intercorrente tra le parti; in particolare, il rapporto dedotto in giudizio veniva qualificato come “altro finanziamento a breve, medio/lungo termine”, sulla base dell’assunto che le operazioni di finanziamento chirografario non possono essere qualificate come mutui.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’erronea qualificazione della scrittura privata nella categoria “altri finanziamenti” anziché in quella dei contratti di mutuo, con conseguente applicazione di un diverso tasso di riferimento per la determinazione dell’usura.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, delinea i criteri sulla base dei quali deve essere effettuata l’operazione di qualificazione del contratto di finanziamento oggetto di causa. In particolare, in caso di dubbio circa la riconducibilità di un’operazione finanziaria all’una o all’altra delle categorie, identificate con Decreto Ministeriale cui si riferisce la rilevazione dei tassi globali medi, l’interprete deve procedere ad individuare i profili di omogeneità che l’operazione stessa presenti rispetto alle diverse tipologie ivi contemplate, attribuendo rilievo, a tal fine, ai richiamati parametri normativi individuati dall’art. 2, comma 2, L. 108/1996, apprezzando, in particolare, quelli, tra essi, che, sul piano logico, meglio giustifichino l’inclusione del prestito preso in esame in questa o in quella classe di operazioni. Pertanto, i parametri da valorizzare sono la natura del prestito nonché, con riferimento ai rischi assunti dai creditori, la corresponsione annuale di interessi convenzionali e il pagamento della quota capitale per intero, oltre alla dazione di garanzie personali.

Per tali ragioni, la Corte di cassazione ha ritenuto di accogliere il motivo proposto e di rinviare il giudizio rinviato alla medesima Corte d’Appello che, in applicazione dei principi sopra riportati, provvederà alla corretta qualificazione del rapporto negoziale di cui è causa ai fini dell’individuazione del tasso di interesse soglia di riferimento.

 

(*Contributo in tema di “Tasso di interesse e usura”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Avvocato in ritardo: il giudice non è tenuto ad aspettare Si tratta infatti, afferma la Cassazione, di una mera prassi che risponde al buon senso e al rispetto del ceto forense ma che non è imposta da alcuna norma

Ritardo avvocato in udienza

Avvocato in ritardo? Non c’è alcun obbligo per il giudice di attendere il legale che si presenti anche se soltanto dopo pochi minuti in udienza. Questo quanto affermato dalla quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 2779/2025, respingendo il ricorso di un uomo condannato in appello per furto aggravato.

Breve ritardo

L’avvocato sosteneva di avere tardato soltanto qualche minuto in quanto impegnato in altra aula, ma il giudice, previa nomina di difensore d’ufficio, aveva chiuso il verbale.

Mera prassi attendere l’avvocato

La Cassazione, nel ritenere la risposta della Corte territoriale “logica ed adeguata”, ha spiegato che “la prassi di attendere il difensore di fiducia, anche per qualche tempo dopo che è decorso l’orario fissato per l’udienza, risponde alle regole di buon senso e rispetto del ceto forense ma non è imposto da alcuna norma e dunque la sua violazione non determina alcuna nullità processuale”.

Da qui il rigetto del ricorso.

 

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