decreto paesi sicuri

Decreto Paesi sicuri In vigore dal 24 ottobre il decreto legge in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale

Decreto Paesi sicuri

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 24 ottobre 2024, il cd decreto Paesi sicuri, approvato dal Governo il 21 ottobre scorso, che modifica le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale.

Il decreto legge n. 158/2024 (pubblicato in GU il 23 ottobre e in vigore dal giorno successivo) detta nuove regole per la sospensione dei provvedimenti impugnati e, analogamente a quanto previsto da altri Paesi europei, aggiorna con atto avente forza di legge l’elenco dei Paesi di origine sicuri.

Paesi di origine sicuri: la lista

Tenuto conto dei criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea e dei riscontri rinvenuti dalle fonti di informazione fornite dalle organizzazioni internazionali competenti, sono considerati come Paesi di origine sicuri i seguenti: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.

L’elenco dei paesi di origine sicuri, dispone il decreto, “è aggiornato periodicamente con atto avente forza di legge ed è notificato alla Commissione europea”.

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giurista risponde

Regolamento edilizio adottato prima del 1967 e violazione del principio di uguaglianza Costituisce violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale il regolamento edilizio adottato da un ente locale prima del 1967 che abbia subordinato l’esercizio dello jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il regolamento edilizio non viola il principio di uguaglianza (Cons. Stato, sez. III, 8 febbraio 2024, n. 1297).

Preliminarmente è opportuno ricordare che l’art. 10 della L. 6 agosto 1967, n. 765 ha introdotto l’obbligo generalizzato della licenza edilizia per tutti gli interventi edilizi eseguiti sul territorio comunale, per il periodo antecedente al 1967 l’art. 31 della L. 17 agosto 1942, n. 1150 prevedeva un siffatto obbligo limitatamente ai centri abitati.

Con riguardo alla vicenda in esame, all’epoca in cui erano stati realizzati gli abusi, il Comune era dotato di un regolamento edilizio e di un programma di fabbricazione, il quale inseriva l’area di specie in zona semintensiva e all’art. 3 prevedeva espressamente il rilascio di apposita licenza edilizia per la costruzione di immobili nel territorio comunale. L’edificio di specie è stato realizzato in forza della licenza edilizia rilasciata nel 1965 e, una volta ultimati i relativi lavori, ha ottenuto il permesso di abitabilità.

I Giudici di Palazzo Spada hanno enunciato che il regolamento edilizio discrezionalmente adottato da un ente locale prima della L. 6 agosto 1967, n. 765 che abbia subordinato l’esercizio dello jus aedificandi al rilascio della licenza edilizia anche per l’edificazione al di fuori del centro abitato non integra la violazione del principio di uguaglianza formale e/o sostanziale sotto il profilo anche della diversità di trattamento a cui sarebbero stati sottoposti in relazione all’esercizio dello jus aedificandi, a seconda che l’edificazione fosse o meno avvenuta in un comune che aveva adottato quel regolamento, intuitivamente diverse essendo le singole realtà locali, con la conseguenza che neppure è immediatamente apprezzabile la violazione del principio di uguaglianza e la connessa diversità di trattamento.

Per quanto attiene al rilascio del certificato di abitabilità, questo non ha alcun effetto sanante rispetto alle opere abusive in quanto la illiceità dell’immobile sotto il profilo urbanistico-edilizio non può essere in alcun modo sanata dal conseguimento del certificato di agibilità che riguarda profili diversi. I due provvedimenti svolgono funzioni differenti e hanno diversi presupposti che ne condizionano il rispettivo rilascio: il certificato di agibilità serve ad accertare che l’immobile è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche in materia di sicurezza, salubrità igiene e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il titolo edilizio attesta la conformità dell’intervento alle norme edilizie ed urbanistiche che disciplinano l’area da esso interessata.

Contributo in tema di “Regolamento edilizio”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

osservatorio intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale: al via l’osservatorio Il ministero della Giustizia accogliendo la richiesta della Cassazione e del CNF ha istituito l'osservatorio IA insediato il 23 ottobre 2024

Osservatorio Intelligenza Artificiale

Con un decreto ministeriale del 10 luglio, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha istituito l’Osservatorio Permanente per l’Uso dell’Intelligenza Artificiale, accogliendo la richiesta congiunta che era stata avanzata dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio Nazionale Forense.

Il 23 ottobre 2024, il Guardasigilli ha presieduto la prima riunione dell’Osservatorio, il cui tavolo tecnico si è insediato in via Arenula lo stesso giorno.

Le richieste della Cassazione e del CNF

Nella lettera inviata al ministro della Giustizia, la Prima Presidente Margherita Cassano e il Presidente del CNF Francesco Greco avevano sottolineato “l’opportunità di istituire un luogo di riflessione e approfondimento che veda il permanente coinvolgimento di tutti gli attori fondamentali della giurisdizione e del processo, in cui affrontare tutti i temi che toccano il rapporto tra IA e giurisdizione, a partire dalla qualità e sicurezza delle banche dati giuridiche, agli strumenti di supporto dell’attività giurisdizionale e delle professioni”.

La condizione posta dalla Suprema Corte e dagli Avvocati è che “l’innovazione tecnologica debba supportare la funzione di giustizia per innalzarne la qualità e l’efficienza” e venga utilizzata in “modo compatibile con i princìpi cardine dello Stato di diritto, del giusto processo, del diritto inalienabile di difesa e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”.

Composizione Osservatorio IA

Sono stati nominati componenti dell’Osservatorio i vertici della Corte di Cassazione, tra cui la Prima Presidente Cassano, il direttore del Ced Enzo Vincenti – il Procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo, il direttore e il vicedirettore dell’Agenzia per la Cybersicurezza nazionale, Bruno Frattasi Nunzia Ciardi, il direttore generale del Dg Connect della Commissione Ue, Roberto Viola, il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco e il presidente del Consiglio nazionale del Notariato, Giulio Biino.

L’Osservatorio sarà presieduto dal ministro Carlo Nordio, il cui dicastero ha il compito di disciplinare l’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale da parte degli uffici giudiziari come previsto dal ddl governativo sull’IA.

Greco: “Passo fondamentale per la giustizia”

“La costituzione dell’Osservatorio permanente per l’uso dell’intelligenza artificiale – ha commentato il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco – rappresenta un passo fondamentale per garantire che l’innovazione tecnologica sia al servizio della giustizia e del cittadino. Si tratta di uno strumento che offre straordinarie opportunità per migliorare l’efficienza e la qualità del sistema giuridico, ma deve essere impiegata con prudenza e in conformità con i princìpi del nostro Stato di diritto”.

599 nuovi magistrati

599 nuovi magistrati in servizio Il Guardasigilli, Carlo Nordio, ha firmato il decreto di nomina dei 599 neo-magistrati vincitori del concorso indetto nel 2021

Decreto di nomina di 599 magistrati

Saranno in servizio dalla prima metà di novembre ben 599 neo-magistrati vincitori del concorso indetto con Dm del 1° dicembre 2021. Ieri, infatti, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha firmato il decreto di nomina.

“Si tratta di un risultato straordinario, in termini qualitativi e numerici, mai raggiunto prima di oggi, che costituisce solo il primo dei tasselli dell’attività avviata dalla Direzione Generale dei Magistrati per colmare le carenze di organico della magistratura ordinaria, in linea con gli obiettivi di Governo più volte ribaditi dal Ministro Nordio” si legge nella nota stampa ufficiale.

Altri 1.200 magistrati in arrivo

Sono in corso altre tre procedure concorsuali, per la complessiva assunzione di altri 1.200 magistrati ordinari.

Il Ministro Nordio ha espresso ringraziamento per il proficuo lavoro del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e in particolare della Direzione generale magistrati, che hanno consentito di realizzare in tempi celeri tutte le fasi del concorso fino all’assunzione dei nuovi magistrati.

piattaforma digitale dati

Piattaforma digitale dati: attivati i certificati per Anac Il Ministero della Giustizia ha attivato i primi servizi per l'Anac. Attualmente due i certificati disponibili, quello del Casellario giudiziale e quello delle Sanzioni Amministrative

Piattaforma Digitale Nazionale Dati

Il Ministero della Giustizia ha attivato negli scorsi mesi i primi servizi tramite la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND), destinati all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). Questa iniziativa, allineata con il nuovo Codice degli Appalti, rappresenta un passo iniziale verso un futuro più trasparente, rapido ed efficiente per il Fascicolo Virtuale dell’Operatore Economico (FVOE) ed è anche un passo in avanti significativo verso la digitalizzazione dei processi amministrativi e la semplificazione delle procedure che rientra fra le priorità dell’azione di Governo. Lo rende noto via Arenula con un avviso su Gnewsonline.it.

Certificati disponibili

In questa prima fase i servizi chiave messi a disposizione sono rappresentati da due certificati disponibili attraverso la PDND, fondamentali per verificare la legalità e l’affidabilità degli operatori economici:

  1. Certificato del Casellario Giudiziale ex art 28 D.P.R. 313/2002: Una certificazione completa e dettagliata dei precedenti penali di chi partecipa alle gare d’appalto.
  2. Certificato Sanzioni Amministrative ex art 32 D.P.R. 313/2002: Un documento essenziale per verificare l’integrità degli operatori economici sottoposti a verifica, inclusivo delle sanzioni amministrative ricevute.

La fattiva collaborazione tra il Dipartimento per l’innovazione tecnologia della Giustizia ed il personale del Casellario Giudiziale del Dipartimento degli Affari di Giustizia, unitamente al personale ANAC per le attività di competenza, ha reso tali certificati facilmente accessibili, riducendo drasticamente i tempi e i costi delle procedure amministrative.

I prossimi step

L’integrazione tra Ministero della Giustizia e ANAC, resa possibile grazie alla PDND, punta a rinnovare profondamente il modo in cui le informazioni vengono condivise e utilizzate nella gestione degli appalti pubblici.

Questo primo passo è solo l’inizio di un percorso di innovazione della Pubblica Amministrazione in Italia. L’obiettivo, fra le altre cose, è quello di arrivare a consentire ai cittadini di ottenere il casellario giudiziario accedendo online attraverso lo spid, senza doversi recare presso gli uffici giudiziari.

giurista risponde

Responsabilità del proprietario del fondo per danni cagionati da escavazioni La responsabilità del proprietario per i danni cagionati da escavazioni od opere realizzate nel sottosuolo ha natura colposa, ex art. 840 c.c. o carattere oggettivo, ai sensi dell’art. 2053 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini

 

La responsabilità del proprietario di un fondo per i danni derivanti da attività di escavazioni, ex art. 840 c.c., non opera in senso oggettivo ma richiede una condotta colposa. Ne deriva che, nell’ipotesi in cui i lavori di escavazione siano affidati in appalto, è l’appaltatore ad essere, di regola, l’esclusivo responsabile dei danni cagionati a terzi nell’esecuzione dell’opera. Ciò salvo che non risulti accertato che il proprietario committente, avendo – in forza del contratto di appalto – la possibilità di impartire prescrizioni o di intervenire per richiedere il rispetto delle normative di sicurezza, se ne sia avvalso per imporre particolari modalità di esecuzione o particolari accorgimenti antinfortunistici che siano stati causa (diretta o indiretta) del sinistro. In tale ultimo caso la responsabilità dell’appaltatore verso il terzo danneggiato può aggiungersi a quella del proprietario ma non sostituirla o eliminarla (Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 3092).

La sentenza in commento risolve il problema dei rapporti tra l’art. 840 c.c. e l’art. 2053 c.c., tracciando la linea di confine tra l’intervento della responsabilità a titolo colposo del proprietario o la sua qualificazione in termini di responsabilità oggettiva.

L’art. 840 c.c. – nel riconoscere la facoltà del proprietario di realizzare escavazioni od opere nell’ambito di tutta l’estensione della proprietà e, dunque, anche nel sottosuolo – postula l’accertamento della condotta colposa del proprietario in ipotesi di evento dannoso.

L’art. 2053 c.c., secondo un criterio di imputazione oggettivo, attribuisce la responsabilità al proprietario per i danni cagionati dalla rovina di un edificio o di una costruzione, salva la prova dell’assenza di difetti di manutenzione o di vizi di costruzione (così anche Cass. 21 febbraio 2023, n. 5368).

Nella fattispecie in esame, i proprietari di un immobile danneggiato dal crollo di un muro di contenimento sotterraneo (c.d. diaframma), costruito nell’ambito dei lavori di ristrutturazione del fondo adiacente, formulavano domanda risarcitoria tanto nei confronti della ditta appaltatrice dell’opera quanto nei riguardi, in via oggettiva ai sensi dell’art. 2053 c.c., della società proprietaria del fondo danneggiante. Tale ultima domanda giudiziale si basava sul presupposto che la caduta dell’opera sotterranea integrasse la nozione di rovina di edificio, di cui alla citata norma, essendo il diaframma un’opera non provvisionale ma definitiva, la cui distruzione qualificava in termini oggettivi la responsabilità del proprietario.

Nei primi due gradi di giudizio, veniva esclusa la responsabilità della società proprietaria del fondo danneggiante ai sensi dell’art. 2053 c.c., oltre che la responsabilità del progettista dell’opera e della direzione dei lavori per ragioni probatorie.

I danni causati durante l’esecuzione dell’opera sotterranea venivano imputati, nella specie, alla sola responsabilità della ditta appaltatrice, con esclusione di un accertamento della condotta colposa del proprietario committente ex art. 840 c.c., trattandosi di lavori di opere nel sottosuolo della proprietà.

Con ricorso in Cassazione, i proprietari del fondo danneggiato hanno lamentato, tra le altre, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2053 c.c. per mancata osservanza, nel giudizio di merito, del regime di responsabilità speciale previsto dalla citata norma.

La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha precisato che l’applicazione della disciplina per responsabilità colposa del proprietario ex art. 840 c.c. si applica tanto alle ipotesi di danno derivante da mera escavazione del sottosuolo quanto a quelle di realizzazione di opere sotterranee, in un’ottica di uniformità di trattamento postulato dalla norma.

Entrambe le attività sono espressione dell’esercizio di facoltà proprietarie, che incontrano il solo limite dell’impossibilità di causare danni al vicino. Se, nell’esercizio di tali facoltà, si producono danni ai vicini, in violazione del disposto di cui all’art. 840 c.c., il proprietario è obbligato al risarcimento del danno, anche in via solidale con l’impresa appaltatrice dei lavori, ove sia provata la sua ingerenza nei lavori medesimi.

Se, invece, l’evento lesivo è frutto della rovina di un edificio o di una costruzione, preesistenti o successivi all’attività di escavazione o al compimento di opere nel sottosuolo, il proprietario risponderà in via oggettiva del danno, ai sensi dell’art. 2053 c.c., prescindendo dall’eventuale condotta colposa.

La Corte ha affidato ad un momento temporale – il crollo dell’opera sotterranea durante o dopo la sua costruzione – e, dunque, all’esercizio in atto delle facoltà proprietarie il discrimen per l’applicazione dei due diversi criteri di imputazione della responsabilità del proprietario (così anche Cass. 17 ottobre 2006, n. 22226).

Nel caso di specie, il diaframma di contenimento sotterraneo, costruito per evitare movimentazione di terreno durante l’attività di ristrutturazione, si configura come un’opera, se non provvisionale, priva di autonomia funzionale. Correttamente, pertanto, il Giudice di merito ha fatto applicazione del criterio di imputazione soggettivo di cui all’art. 840 c.c. – e non di quello oggettivo di cui all’art. 2053 c.c. – e del correlato principio per cui la responsabilità del proprietario-committente esige l’accertamento, non configurato nella specie, della condotta di ingerenza colposa nei lavori appaltati.

Contributo in tema di “Responsabilità del proprietario del fondo”, a cura di Giovanna Carofiglio e Viviana Guancini, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

processo tributario

Processo tributario: contributo unificato sul valore della lite In assenza del valore della lite nel ricorso, il calcolo del contributo unificato va effettuato con riguardo a ciascun atto impugnato

Processo tributario e contributo unificato

Nel processo tributario, il contributo unificato si calcola sul valore della lite che corrisponde al valore dell’atto impugnato. E nel caso di assenza dell’indicazione del valore nelle conclusioni del ricorso, il calcolo del contributo unificato va effettuato con riguardo ad ogni atto impugnato. Lo ha chiarito la sezione tributaria della Cassazione con l’ordinanza n. 25625/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la CTP di Caserta accoglieva il ricorso proposto da un contribuente avverso l’avviso di irrogazione sanzioni per insufficiente pagamento del contributo unificato con riferimento ad un atto di pignoramento presso terzi. Il Mef impugnava la decisione e la CTR Campania rigettava il gravame, evidenziando che il valore della lite doveva identificarsi con quello dell’atto di pignoramento, e non con il valore della pretesa tributaria che aveva dato origine al detto pignoramento, vale a dire con il totale dei tributi (derivanti, nel caso di specie, da due cartelle di pagamento e da un atto di accertamento) dei quali il contribuente risultava debitore.

Il ministero adiva la Cassazione, deducendo che erroneamente la CTR aveva ritenuto che “l’Ufficio avesse richiesto il versamento del contributo unificato anche con riferimento al prodromico avviso di accertamento (anziché sulla base del solo atto di pignoramento) e per aver determinato il valore della lite sulla base dell’importo del credito non tributario vantato dal contribuente nei confronti del terzo pignorato (così come risultante dall’atto di pignoramento), anziché della pretesa tributaria (tributi dovuti dal contribuente a titolo di Irap e Irpef ed addizionali per li periodo d’imposta 2013) sulla scorta della quale era stata azionata la procedura di pignoramento”.

La decisione

Per la S.C., il motivo è fondato.
L’art. 12, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, ricorda preliminarmente la Corte, recita: “per le controversie di valore fino a tremila euro le parti possono stare in giudizio senza assistenza tecnica. Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni il valore è costituito dalla somma di queste”. Ora, l’art. 12, aggiungono dal Palazzaccio, “è norma che introduce una disciplina speciale rispetto a quella prevista dai giudizi civili, con conseguente inapplicabilità della disposizione generale di rinvio al codice di procedura civile stabilita dall’art. 1 d.Igs. n. 546 del 1992, cio in ragione della specificità del processo tributario”.

Il contributo unificato, che ha natura tributaria, “deve essere versato al momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio tributario dinanzi alla competente Commissione Tributaria. L’importo del contributo unificato tributario deve essere stabilito in relazione al valore della controversia che si intende instaurare che, per il processo tributario, corrisponde al valore dell’atto impugnato” aggiungono i giudici.

Per cui, “il valore della controversia, ai sensi dell’art. 12, comma 2, del d.Igs. n. 546 del 1992, è l’importo del tributo, al netto degli interessi e degli eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 16283 del 10/06/2021)”.

Nel caso di specie, la pretesa tributaria, al netto di interessi e sanzioni, ammontava ad euro 88.879,00, sul quale importo andava calcolato il contributo unificato dovuto.
In particolare, concludono da piazza Cavour, “in assenza di una indicazione del valore della lite nelle conclusioni del ricorso, il calcolo del contributo unificato deve essere effettuato con riguardo a ciascun atto impugnato ed il relativo importo deve risultare dalla sommatoria dei contributi dovuti con riferimento ad ogni atto impugnato sulla base del valore di ognuno di essi (cfr. Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 37386 del 21/12/2022)”.

Alla stregua delle considerazioni svolte, la S.C. accoglie il ricorso e decide la causa nel merito rigettando il ricorso originario del contribuente.

Allegati

mantenimento ai figli

Mantenimento ai figli: può essere versato in ritardo Non è punibile per la Cassazione la violazione degli obblighi di mantenimento della prole se si tratta di un inadempimento occasionale

Tenuità del fatto

Mantenimento ai figli, se versato in ritardo e l’inadempimento è occasionale scatta la causa di non punibilità. Questo quanto emerge dalla sentenza n. 21068/2024 con cui la sesta sezione penale della Cassazione ha accolto il ricorso di una donna condannata in appello per il reato di cui all’art. 570-bis c.p.

La vicenda

Avverso tale sentenza, la ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando travisamento della prova da parte della corte territoriale che aveva negato la produzione della documentazione attestante l’adempimento tardivo, dalla quale emergeva che la ricorrente aveva versato gli assegni di mantenimento in precedenza rimasti inadempiuti, provvedendo anche al regolare adempimento per le scadenze successive.
Sostiene la difesa che copia di tutti i bonifici era stata depositata alle udienze dibattimentali, sicchè il giudice di appello era incorso in un palese travisamento della prova, avendo ritenuto che la prova documentale non era stata mai prodotta in giudizio.
Con il secondo motivo, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’esclusione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, sottolineando come la Corte d’appello era stata fuorviata dal fatto di non aver riconosciuto l’adempimento tardivo, a fronte del quale le gravità della condotta avrebbe sicuramente meritato una diversa considerazione.

Produzione documentale

Per la S.C. il ricorso è fondato.
In relazione al primo motivo, a fronte della puntuale indicazione della produzione documentale, la Corte d’appello ha totalmente omesso l’esame della questione, limitandosi ad affermare che si trattava di una mera deduzione difensiva e senza verificare e confutare il dato specifico allegato dalla ricorrente. Per cui, nella specie, “il giudice di appello è incorso in un vizio di motivazione apparente, posto che a fronte della specificità del motivo dedotto in appello, la negazione della circostanza avrebbe reso necessaria l’esposizione delle ragioni per cui non poteva ritenersi fornita la prova documentale, procedendo in primo luogo alla verifica dell’effettività della produzione e, in caso di positivo riscontro, alla valutazione nel merito della documentazione”.
Tali doverosi passaggi sono stati del tutto pretermessi, “il che – proseguono i giudici – inficia di per sé la tenuta della motivazione, soprattutto ove si consideri la necessità di valutare la gravità e rilevanza dell’inadempimento”.
Secondo la più recente giurisprudenza, infatti, “la condotta incriminata dall’art. 570-bis cod. pen. non è integrata da qualsiasi forma di inadempimento civilistico, ma necessita di un inadempimento serio e sufficientemente protratto, o destinato a protrarsi, per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla entità dei mezzi economici che il soggetto obbligato deve fornire (Sez.6, n. 47158 del 20/10/2022, Rv. 284023)”.

Particolare tenuità del fatto

L’omessa valutazione del tardivo adempimento incide direttamente anche sull’ulteriore profilo dedotto dalla ricorrente, relativo al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
“La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. – ricordano dalla S.C. – è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, a condizione che l’omessa corresponsione del contributo al mantenimento abbia avuto carattere di mera occasionalità (Sez.6, n. 5774 del 28/1/2020, Rv. 278213)”.
L’applicazione di tale principio al caso di specie, imponeva, dunque, “la necessaria verifica della dedotta corresponsione, sia pur tardiva, degli assegni di mantenimento stabiliti in favore della prole, al fine di verificare se le concrete modalità della condotta potessero o meno dar luogo all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen.”.
Anche con riguardo a tale profilo, pertanto, concludono gli Ermellini, “si rende necessario l’annullamento con rinvio, al fine di integrare le lacune valutative e motivazioni in cui è incorsa la sentenza impugnata”.

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sospeso l'avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria del denaro del cliente La Cassazione conferma la sospensione dalla professione per due anni nei confronti dell'avvocato che si appropria delle somme del cliente

Illecito permanente avvocato

Sospeso l’avvocato che si appropria delle somme del cliente: l’illecito, ribadiscono le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 26374/2024, confermando la sospensione dalla professione per due anni, ha natura permanente.

La vicenda

Nella vicenda, alcuni soggetti segnalavano al competente Ordine professionale di essersi rivolti all’avvocato in questione per essere assistiti nella controversia avente ad oggetto il risarcimento del danno da essi sofferto in conseguenza della morte del rispettivo figlio e fratello in un sinistro stradale.

L’avvocato aveva incassato per conto loro la somma versata dalla compagnia assicuratrice tacendo la circostanza e intascando il denaro.

Veniva avviato procedimento disciplinare che si concludeva con l’irrogazione all’incolpato della sanzione della sospensione per due anni. La decisione veniva impugnata innanzi al CNF il quale rigettava il gravame.

L’avvocato impugnava quindi la decisione innanzi alla Cassazione con un ricorso fondato su un unico motivo.

Il ricorso

Nell’illustrazione del motivo, l’avvocato sosteneva che l’illecito disciplinare era stato commesso nel 2011, per cui esso era soggetto alle previsioni del codice deontologico vigente ratione temporis, le cui previsioni erano più favorevoli per l’incolpato rispetto alle corrispondenti previsioni del codice deontologico vigente al momento della decisione.

In particolare, il ricorrente sosteneva che “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di corretta gestione del denaro del cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente perché questo prevede la sospensione fino a tre anni, mentre quello non prevedeva espressamente una sanzione predeterminata”. Inoltre, che, “rispetto alla contestazione di violazione del dovere di informare il cliente, il codice deontologico attuale è più sfavorevole del precedente sia per le medesime ragioni appena indicate, sia perché qualifica quello di informazione come ‘dovere’, invece che come ‘obbligo'”.

La decisione

Per gli Ermellini, però, il ricorso è manifestamente infondato per due indipendenti ragioni.
La prima ragione è l’erroneità del presupposto di diritto da cui muove il ricorrente: ovvero che, avendo egli commesso il contestato illecito nel 2011, è a tale momento che occorre fare riferimento per individuare la disciplina applicabile ratione temporis.

La censura, osservano infatti dal Palazzaccio, “non tiene conto del fatto che una delle condotte ascritte a titolo di illecito disciplinare all’odierno ricorrente (non restituire il denaro incassato per conto dei clienti) è un illecito permanente”.

Come già stabilito dalla giurisprudenza precedente, aggiungono i giudici, “l’illecito disciplinare commesso dall’avvocato che si appropria di una somma di denaro destinata a un suo cliente ha natura permanente e la sua consumazione si protrae, in mancanza di restituzione, fino alla decisione disciplinare di primo grado” (così Cass. SS.UU. n. 23239/2022). Di conseguenza, la disciplina applicabile andava individuata in base al momento di cessazione della permanenza, non in base al momento di inizio della stessa.
La seconda ragione di infondatezza del ricorso, concludono dalla S.C. rigettando in toto le doglianze dell’avvocato, “è che il codice deontologico del 1997 puniva la violazione degli obblighi in tema di informazione del cliente e gestione del denaro altrui senza fissare la misura o il tipo della sanzione (art. 41 cod. deont. del 1997)”. Dunque, “in modo meno favorevole rispetto al codice deontologico del 2014, del quale pertanto correttamente fu fatta applicazione nel caso di specie, ai sensi dell’art. 65 d.lgs. 247/12”.

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Monopattini elettrici: no all’obbligo del casco Il Consiglio di Stato ricorda che la sicurezza è di potestà esclusiva dello Stato e non esiste una norma nazionale che impone l'adozione di caschi protettivi per i monopattini elettrici

Monopattini elettrici e obbligo del casco

Monopattini elettrici, nessun obbligo di indossare il casco. La sicurezza stradale è di potestà esclusiva dello Stato e non esiste una norma nazionale che impone il casco protettivo per i monopattini. E’ questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8079/2024, il quale pur dando atto “dell’alto e nobile intento di evitare incidenti stradali” ha rigettato l’appello del Comune di Firenze avverso la sentenza del Tar che aveva annullato l’ordinanza che imponeva l’obbligo di indossare il casco.

La vicenda

Nella vicenda, infatti, con ordinanza, il sindaco di Firenze introduceva l’obbligo per i conducenti maggiorenni di “”monopattini a propulsione prevalentemente elettrica… di indossare idoneo casco protettivo”. L’ordinanza ha individuato la giustificazione normativa nelle previsioni di cui agli artt. 6, 4° comma e 7, 1° comma del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (che sostanzialmente attribuiscono, all’Ente proprietario della strada ed all’Amministrazione comunale, la possibilità di prevedere prescrizioni e limitazioni della circolazione), oltre che nella previsione di cui all’art 4, 3° comma, d.m. Infrastrutture e Trasporti 4 giugno 2019 (Sperimentazione della circolazione su strada di dispositivi per la micromobilità elettrica).

Decidendo due ricorsi proposti da due società, Il TAR Firenze ha annullato detta ordinanza, rilevando l’incompetenza del Sindaco in materia. Il comune presentava appello dunque al Consiglio di Stato.

La decisione

Per palazzo Spada, “è evidente il difetto di potere da parte dell’organo emanante, dovendo l’alto e nobile intento di evitare incidenti stradali coordinarsi con la normativa statale (e segnatamente: il codice della strada) in tema di circolazione stradale; normativa che non assegna in alcun modo ai comuni il potere di imporre l’adozione di caschi protettivi in sede di utilizzo di monopattini (o qualsiasi mezzo a due ruote) sul territorio comunale”.

“La qual cosa è tanto più vera – aggiunge il Consiglio di Stato – se si considera che quella della ‘sicurezza’ (tra i quali rientra anche quella stradale) è una materia devoluta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117 co. 2 lett. h) Cost.), che la esercita pertanto con l’adozione di norme valevoli su tutto il territorio nazionale, e che per tale ragione non può essere delegata alle Regioni e agli altri enti territoriali, pena la frammentazione, su base locale, di un tessuto di regole che deve invece rimanere unitario”.

Per tali ragioni, l’impugnata sentenza deve ritenersi immune dalle lamentate censure, in quanto conseguenza della corretta applicazione dei succitati criteri di riparto di competenze – quoad circolationem – tra lo Stato e gli enti locali.

Pertanto, l’appello è infondato e va rigettato.