sequestro di persona

Il sequestro di persona Sequestro di persona: cos'è, condotta tipica, natura del reato, elemento soggettivo, pena base, aggravanti, attenuanti e Cassazione

Sequestro di persona: cos’è

L’articolo 605 del Codice Penale regola il sequestro di persona, un crimine che difende la libertà personale. La Costituzione, all’articolo 13, garantisce la libertà di movimento e spostamento come un diritto inviolabile. Solo lo Stato, attraverso i suoi organi giurisdizionali, può legittimamente limitare questa libertà fondamentale.

Condotta del sequestro di persona

Il reato di sequestro di persona si concretizza quando qualcuno priva o restringe illegittimamente la libertà fisica di un individuo. La condotta tipica comprende azioni che tolgono a una persona la sua libertà personale, sia in modo commissivo (per esempio, chiudendo qualcuno in una stanza) sia in modo omissivo (per esempio, non rilasciando un soggetto e prolungandone la detenzione).

È cruciale che la condotta sia illegittima, ovvero non autorizzata dalla legge o da una causa di giustificazione (come un arresto legale o l’esercizio di un dovere professionale). L’errore sulla legittimità dell’azione può scusare, come previsto dall’articolo 47 del codice penale, purché l’azione non costituisca un altro reato. Il consenso della persona offesa (articolo 50 del codice penale) può escludere l’illiceità della condotta.

Natura del reato

Il sequestro di persona è un reato permanente: la condotta deve protrarsi per un periodo di tempo apprezzabile per configurare il crimine. Il reato si consuma nel momento in cui la libertà personale viene privata per un tempo sufficiente a superare la soglia di offensività. Per la sua configurazione, la vittima non deve poter riacquistare autonomamente la libertà in modo immediato, facile e senza rischi, anche se non tenta attivamente di farlo. È sempre ammesso il tentativo di sequestro.

Elemento soggettivo del sequestro di persona

Il reato richiede l’elemento soggettivo del dolo generico. Il soggetto agente deve avere cioè la coscienza e la volontà di privare o restringere la libertà personale del soggetto passivo. La Cassazione, con la sentenza n. 10357/2025, lo ha confermato stabilendo che l’autore del reato deve essere consapevole di privare illegittimamente la vittima della sua libertà fisica, intesa come libertà di movimento.

Attenzione però, perchè il fine specifico del soggetto agente può cambiare la qualificazione del reato. Se il sequestro infatti è finalizzato all’ottenimento di un riscatto, si configura il sequestro di persona a scopo di estorsione (articolo 630 del codice penale), un reato autonomo.

Pena base e circostanze aggravanti

La pena per il sequestro di persona prevede la reclusione da sei mesi a otto anni. Tuttavia, la sussistenza di diverse circostanze aggravanti specifiche aumentano la pena.

  • La pena sale infatti da uno a dieci anni di reclusione se il fatto viene commesso a danno di un ascendente, un discendente o il coniuge.
  • La stessa pena si applica se un pubblico ufficiale commette il sequestro abusando dei suoi poteri.
  • Se il fatto è commesso a danno di un minore, la pena va da tre a dodici anni di reclusione.
  • La pena è la detenzione da tre a quindici anni se il fatto è commesso in presenza delle circostanze precedenti (parenti stretti o pubblico ufficiale) o in danno di un minore di anni quattordici, oppure se il minore sequestrato viene portato o trattenuto in un paese estero.
  • Se il colpevole provoca la morte del minore sequestrato, la pena da applicare è l’ergastolo.

Circostanze attenuanti

L’articolo 605 prevede anche una circostanza attenuante specifica basata sul “ravvedimento operoso” da parte dell’autore del delitto. Le pene previste per il sequestro di minore (terzo comma) possono diminuire fino alla metà se l’imputato si adopera concretamente per:

  • far riacquistare la libertà al minore;
  • evitare ulteriori conseguenze del reato, fornendo un aiuto concreto all’autorità di polizia o giudiziaria per raccogliere prove decisive, ricostruire i fatti e individuare o catturare uno o più autori di reati;
  • evitare che vengano commessi ulteriori sequestri di minore.

Procedibilità

Nell’ipotesi prevista dal primo comma dell’art. 605 c.p, il reato è punibile a querela della persona offesa. La querela però non è necessaria se il fatto è commesso nei confronti di una persona incapace, per età o per infermità. In questo caso, il reato è perseguibile d’ufficio.

Differenza tra sequestro di persona e a scopo di estorsione

Di recente la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21241 ha chiarito la differenza tra il sequestro di persona semplice rispetto a quello commesso a scopo di estorsione.

La differenza fondamentale tra il sequestro di persona a scopo di estorsione (Art. 630 del Codice Penale) e il sequestro di persona semplice risiede nel dolo specifico dell’agente, piuttosto che nell’intensità della violenza o delle minacce utilizzate. Il sequestro di persona a scopo di estorsione è caratterizzato dalla finalità specifica di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione della vittima. Questo “scopo estorsivo” è l’elemento centrale che lo differenzia dal sequestro di persona semplice.

Pertanto:

  • Se il fine perseguito dall’autore è quello di far valere una pretesa illegittima, il reato configurabile sarà il sequestro di persona con finalità estorsiva.
  • Se l’agente priva la persona offesa della libertà di locomozione con l’intento di conseguire, attraverso tale forma di costrizione violenta, una pretesa legittima, si dovrà ritenere integrato il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in concorso formale con il reato di sequestro di persona semplice.

Leggi anche: Sequestro del coniuge: ok alla procedibilità d’ufficio

diritto alla pausa

Diritto alla pausa Diritto alla pausa: cos'è, quale normativa lo disciplina e cosa prevede la recente giurisprudenza della Cassazione

Diritto alla pausa: cos’è

Il diritto alla pausa è un diritto che il nostro ordinamento riconosce al lavoratore dipendente quando la giornata lavorativa supera le sei ore. Questa sospensione dall’attività lavorativa è necessaria per recuperare le energie, consumare un eventuale pasto e interrompere la ripetitività del lavoro.

Disciplina di riferimento: art. 8 dlgs n. 66/2003

L’articolo 8 del decreto legislativo n. 66/2023 (attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro) dispone che qualora la giornata lavorativa preveda più di 6 ore di attività, il dipendente ha diritto a un intervallo di pausa per il recupero delle energie fisiche e psichiche, per la consumazione di un eventuale pasto e per attenuare la monotonia delle mansioni.

Le specifiche riguardo alla durata e alle modalità di fruizione della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva. Qualora non sia presente una specifica disciplina collettiva, il lavoratore ha comunque diritto a una pausa di almeno 10 minuti. Questa pausa deve essere concessa tra l’inizio e la fine del turno giornaliero, tenendo conto delle esigenze tecniche del processo produttivo.

In linea generale, e salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, i periodi di pausa non sono considerati ore di lavoro retribuite e non concorrono al superamento dei limiti massimi di durata dell’orario di lavoro.

Questa disposizione si rifà a normative storiche in materia di orario di lavoro e riposi.

L’articolo 5 del Regio decreto n. 1955/1923 prevede infatti che le interruzioni di almeno 10 minuti e non più di due ore, durante le quali non viene richiesta alcuna prestazione al dipendente non vengono calcolate come lavoro effettivo. Di conseguenza, non sono retribuite e non rientrano nel calcolo dell’orario massimo, salvo particolari eccezioni.

Parimenti l’articolo 4 del Regio decreto n. 1956/2023 prevede che le pause intermedie che si prendono durante la giornata lavorativa non sono considerate lavoro effettivo. Di conseguenza, non vengono calcolate nel limite massimo di ore di lavoro giornaliere stabilito dalla legge.

Diritto alla pausa: giurisprudenza

Diversi aspetti applicativi del diritto alla pausa lavorativa sono stati specificati anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione.

Cassazione n. 21878/2025: il diritto alla pausa viene riconosciuto solo se il lavoratore può dimostrare che la pausa stessa è strettamente connessa o collegata alla sua prestazione lavorativa.Inoltre, per poter usufruire di questo diritto, la pausa deve essere eterodiretta, ovvero deve essere gestita e controllata dal datore di lavoro, e il lavoratore non deve averne la completa autonomia per quanto riguarda la sua durata.

Cassazione n. 20249/2025: la continua inosservanza dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003 può causare un danno da usura psicofisica al lavoratore. Questo danno può essere riconosciuto anche senza una prova diretta, purché si basi su presunzioni fondate.

Cassazione n. 12504/2025: la pausa non può essere negata o limitata dal datore di lavoro, in quanto è un elemento fondamentale per la salute e il benessere del lavoratore.Il datore di lavoro può intervenire e limitare la pausa solo in due casi: se la durata supera il tempo stabilito dal contratto collettivo o dal regolamento aziendale, in mancanza di queste disposizioni, se la pausa supera i 10 minuti. In conclusione, il datore di lavoro può vietare la pausa solo se questa eccede i limiti di tempo previsti.

Cassazione n. 8707/2025: legittimo il licenziamento dell’incaricato della raccolta porta a porta dei rifiuti. La motivazione è stata la violazione dell’articolo 8 del D.Lgs. n. 66 del 2003, che riguarda le pause intermedie. Nello specifico, il lavoratore aveva effettuato soste frequenti e prolungate in bar durante l’orario di servizio, superando i limiti di tempo previsti per le pause.

Leggi anche: Diritto al pasto anche fuori dalle fasce orarie per i turnisti

Concorso ministero

Concorso Ministero della Giustizia per funzionari e assistenti Concorso Ministero della Giustizia per funzionari e assistenti: assunzioni per 2970 unità di personale non dirigenziale

Concorso Ministero della giustizia per personale non dirigenziale

Il Ministero della Giustizia ha indetto un concorso pubblico per l’assunzione a tempo indeterminato di 2.970 unità di personale non dirigenziale. Il concorso è suddiviso in due profili: 370 Funzionari (Codice 01) per gli Uffici notificazioni, esecuzioni e protesti (UNEP) e 2.600 Assistenti (Codice 02) per la giurisdizione e i servizi di cancelleria.

Per il bando e la presentazione delle domande visita questa pagina

Domanda: presentazione e scadenza

Per la presentazione delle domande c’è tempo fino alle ore 23:59 del 29 agosto 2025. Le domande devono essere inviate esclusivamente in modalità telematica, autenticandosi tramite SPID, CIE, o altri sistemi di identità digitale sul portale inPA, all’indirizzo www.inpa.gov.it. È richiesto il pagamento di una tassa di partecipazione di 10 euro per ogni codice di concorso a cui si intende partecipare.

Requisiti di accesso al concorso

Il profilo di Funzionario (Codice 01) richiede una laurea specifica (triennale o magistrale) in ambiti giuridici, economici, o sociologici, come Giurisprudenza, Scienze Politiche, Economia, o Sociologia.

Per il profilo di Assistente (Codice 02), invece, è sufficiente un diploma di istruzione secondaria di secondo grado.

Oltre al titolo di studio, sono richiesti altri requisiti generali, come la cittadinanza italiana (o di altro Stato membro dell’UE), la maggiore età, il godimento dei diritti civili e politici e l’idoneità fisica.

Concorso Ministero della Giustizia: le prove  

La procedura concorsuale prevede una prova scritta e la valutazione dei titoli dichiarati nella domanda. La prova scritta si svolgerà in modalità telematica e, una volta terminata, verranno valutati i titoli solo per i candidati idonei. La data e il luogo in cui si terrà la prova scritta saranno pubblicati sul portale inPA almeno 15 giorni prima del suo svolgimento. Le graduatorie finali di merito, redatte sulla base del punteggio complessivo (prova scritta più titoli), saranno pubblicate sui siti del Ministero della Giustizia e inPA.

Assunzioni: requisiti preferenziali a parità di merito

I vincitori saranno assunti a tempo indeterminato e potranno scegliere la sede di lavoro in base alla posizione in graduatoria. A parità di merito, sono previste diverse preferenze, tra cui il maggior numero di figli a carico, l’aver svolto servizio militare volontario e specifici periodi di tirocinio o stage negli uffici giudiziari.

Come prepararsi alla prova scritta del concorso

Il successo in questo concorso pubblico richiede una preparazione attenta e mirata, che copra sia le materie tecniche e specialistiche, sia competenze pratiche come l’uso di software e la lingua inglese. È consigliabile scegliere i migliori manuali di preparazione specifici per profilo, come quelli editi da Edizioni Simone, che è possibile visualizzare cliccando qui.

Leggi anche la guida sul Ministero della Giustizia

norme imperative o cogenti

Norme imperative o cogenti Norme imperative o cogenti: cosa sono, che caratteristiche hanno, quali sono e come si distinguono dalle norme relative o derogabili

Norme giuridiche: tipologie in base all’efficacia

Le norme imperative o cogenti fanno parte del nostro ordinamento giuridico, un sistema complesso, composto da un insieme di regole che disciplinano la vita sociale. Non tutte le norme, però, hanno la stessa forza o lo stesso grado di obbligatorietà.

In base alla loro efficacia, infatti, le norme giuridiche possono essere distinte in:

  • norme assolute (o cogenti o imperative);
  • norme relative (o derogabili).

Comprendere questa distinzione è fondamentale per capire come funziona il nostro sistema legale e quali margini di manovra hanno i cittadini nel regolare i propri rapporti.

Norme imperative o cogenti o assolute o inderogabili

Le norme cogenti, dette anche imperative o assolute, sono quelle disposizioni a cui non è possibile sottrarsi. La loro forza vincolante è tale che la volontà dei privati non può in alcun modo modificarle o disapplicarle. Esse esprimono principi fondamentali e valori essenziali per l’ordinamento, la cui violazione comporterebbe un danno per la collettività o per diritti irrinunciabili.

Norme imperative o cogenti: diritto penale

Un esempio lampante è rappresentato dalle norme di diritto penale, che impongono precetti quali “non uccidere”, “non rubare”, “non truffare”. È impensabile che due individui possano accordarsi per rendere legale un omicidio o un furto; la legge vieta tali azioni in modo categorico, e la loro violazione comporta sanzioni penali.

Norma imperative o cogenti di diritto civile

Ma le norme imperative non si limitano al diritto penale. Anche nel diritto civile ne troviamo molte. Si pensi alle norme che regolano la validità di un contratto. L’articolo 1418 c.c., tanto per fare un esempio, prevede la nullità del contratto quando questo viola una norma inderogabile.

Un altro esempio molto chiaro è rappresentato dalla norma che vieta l’applicazione di tassi usurari nei prestiti. Anche se le parti fossero d’accordo, un interesse superiore al limite legale renderebbe la clausola nulla. Questo perché la norma contro l’usura è imperativa e tutela un interesse pubblico.

Riassumendo, le norme imperative contengono un comando che si deve rispettare obbligatoriamente, senza che i privati vi possano derogare. In caso di mancatosi può incorrere in una sanzione penale o nella nullità dell’atto compiuto.

Norme relative o derogabili 

Le norme relative o derogabili si suddividono in due sotto categorie: le norme dispositive e le norme suppletive.

Norme dispositive

Le norme dispositive disciplinano una certa fattispecie, ma permettono alle parti di accordarsi per l’applicazione di una disciplina diversa. Un esempio classico è la norma del Codice Civile che prevede il pagamento degli interessi in un contratto di mutuo. Questa norma è dispositiva perché le parti possono stabilire di comune accordo che il mutuo sia gratuito e che, di conseguenza, non siano dovuti interessi. La norma è presente nell’ordinamento, ma la sua applicazione può essere “disattivata” dalla volontà concorde delle parti.

Norme suppletive

Le norme suppletive invece, sono quelle che si applicano solo qualora le parti non abbiamo disposto nulla in relazione a una certa circostanza. In altre parole, mentre le norme dispositive devono essere espressamente derogate dalle parti, le norme suppletive intervengono solo per “supplire” (cioè “sostituire” o “integrare”) una lacuna lasciata dall’accordo tra i privati.

Un esempio chiarificatore è quello relativo al luogo di esecuzione di una prestazione. Se le parti non hanno specificato nel contratto dove deve essere eseguita la prestazione, o se il luogo non può desumersi dalla natura della prestazione o dagli usi, allora si applicano le norme stabilite dalla legge. Il codice, quindi, dà prevalenza alla volontà delle parti; solo in sua assenza interviene la norma suppletiva per evitare che la situazione rimanga priva di regolamentazione.

 

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revoca dimissioni

Revoca delle dimissioni: come annullare la rinuncia al lavoro Hai dato le dimissioni e ci hai ripensato? Scopri come revocare le dimissioni, entro quanto tempo farlo, a chi comunicarlo e quali norme regolano la procedura.

Che cos’è la revoca delle dimissioni

La revoca delle dimissioni è la possibilità riconosciuta al lavoratore di annullare la propria decisione di cessare il rapporto di lavoro, tornando quindi alla condizione originaria. Si tratta di una tutela importante, che consente di rimediare a dimissioni presentate in modo affrettato o in momenti di difficoltà.

Normativa di riferimento

La materia è disciplinata principalmente:

  •  dall’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, che ha introdotto la procedura telematica obbligatoria per evitare abusi e garantire certezza alla volontà del lavoratore;
  • dalla Circolare Ministero del Lavoro n. 12/2016, che ha chiarito le modalità operative della procedura telematica.

Entro quanto tempo si possono revocare le dimissioni

La legge stabilisce un termine ben preciso: la revoca deve avvenire entro 7 giorni dalla data in cui le dimissioni sono state inviate tramite la procedura telematica.

Questo termine è perentorio: una volta decorso, il recesso diventa definitivo e non potrà più essere ritirato, salvo casi eccezionali (ad esempio dimissioni viziate da dolo o violenza).

Come si revocano le dimissioni

La revoca segue lo stesso iter delle dimissioni: deve essere effettuata esclusivamente online, utilizzando la piattaforma del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Ecco i passaggi principali:

  1. accedere al portale Cliclavoro con SPID, CIE o CNS;
  2. compilare il modulo telematico di revoca delle dimissioni;
  3. confermare e inviare la revoca.
  4. il sistema genera un documento con data e protocollo che certifica l’operazione.

Revoca delle dimissioni: a chi si comunica

La revoca telematica viene trasmessa automaticamente:

  • al datore di lavoro, che riceve notifica ufficiale;
  • alla Ispettorato territoriale del lavoro competente.

Non è quindi necessario inviare ulteriori comunicazioni cartacee o via PEC, salvo casi particolari previsti dal contratto collettivo o accordi aziendali.

Cosa succede dopo la revoca delle dimissioni

Se la revoca è presentata nei termini e in modo corretto, le dimissioni perdono efficacia e il rapporto di lavoro prosegue senza interruzioni. Il datore di lavoro non può opporsi, poiché si tratta di un diritto del lavoratore previsto dalla legge.

Attenzione: se sono già stati presi accordi per l’uscita anticipata o pagato il preavviso sostitutivo, sarà necessario regolare eventuali aspetti economici.

Consigli utili

  • Verifica sempre la data di invio delle dimissioni: i 7 giorni decorrono da quel momento.
  • Utilizza il modulo di revoca ufficiale disponibile sul sito del Ministero del Lavoro;
  • Conserva la ricevuta di avvenuta revoca come prova.
  • In caso di dubbi o problemi, è consigliabile rivolgersi a un consulente del lavoro o al sindacato di categoria.

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aliquote di rendimento

Aliquote di rendimento AAliquote di rendimento: cosa sono, normativa di riferimento, come funzionano, esempio di calcolo e a cosa servono

Cosa sono le aliquote di rendimento

Le aliquote di rendimento sono uno degli elementi chiave per il calcolo della pensione retributiva nel sistema previdenziale italiano. Anche se il metodo retributivo è ormai superato dalla riforma Dini del 1995, le aliquote restano ancora oggi rilevanti per chi ha maturato anzianità contributiva prima del 1996 o in alcune gestioni speciali.

Le aliquote di rendimento sono percentuali fisse utilizzate per calcolare la quota di pensione spettante con il metodo retributivo, cioè sulla base delle ultime retribuzioni percepite e non dei contributi effettivamente versati.

In pratica, a ogni anno di contributi versati fino al 1995 (o fino al 2011 per i “salvaguardati”) corrisponde una determinata aliquota, che va applicata alla retribuzione pensionabile per determinare l’importo della pensione annua lorda.

Le aliquote possono variare in base:

  • alla gestione previdenziale (Fondo lavoratori dipendenti, ex Inpdap, CPDEL, CPI, ecc.);
  • al tipo di rapporto di lavoro (dipendente pubblico, privato, dirigente);
  • alla data di iscrizione al sistema previdenziale;
  • al numero di anni di contribuzione complessivi.

Normativa di riferimento

Le aliquote di rendimento sono disciplinate da una serie di norme stratificate nel tempo. Tra le principali fonti normative si segnalano:

  • Legge n. 153/1969, che contiene la “Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale”;
  • Legge n. 335/1995 (Riforma Dini), che ha avviato il passaggio al sistema contributivo;
  • D.lgs. n. 503/1992, che ha rimodulato l’aliquota annua e i periodi di riferimento;
  • Legge n. 214/2011 (Riforma Fornero), che ha previsto il passaggio definitivo al sistema contributivo dal 2012;
  • Regolamenti specifici per le gestioni ex INPDAP (CPDEL, CPI, CPS, CPUG).

Come funzionano le aliquote di rendimento

Il meccanismo è semplice: per ogni anno di anzianità contributiva maturata prima del 1996 (o entro il 2011 per chi ha diritto al sistema misto), si applica una percentuale di rendimento alla retribuzione pensionabile.

Formula di base:

Quota retributiva annua = Retribuzione pensionabile x Aliquota annua x Anni di contribuzione

Esempio:

  • Retribuzione pensionabile: € 30.000
  • Aliquota annua: 2%
  • Anni di contributi: 40

Pensione annua: 30.000 x 2% x 40 = € 24.000 (80% della retribuzione lorda)

Attenzione: esistono dei limiti massimi all’aliquota cumulata (in genere non oltre l’80% della retribuzione), salvo deroghe specifiche per alcune categorie di lavoratori del pubblico impiego.

Metodo retributivo, contributivo e misto 

Le aliquote di rendimento si applicano solo alle quote calcolate col sistema retributivo, ovvero:

  • Metodo retributivo puro: riservato a chi aveva almeno 18 anni di contributi al 31/12/1995 (non più vigente per i nuovi pensionati);
  • Metodo misto: per chi aveva meno di 18 anni al 31/12/1995. La pensione è calcolata:
    • con il metodo retributivo fino al 31/12/1995;
    • con il metodo contributivo dal 1° gennaio 1996 in avanti.

Dal 2012, tutti i lavoratori sono soggetti al sistema contributivo per le anzianità maturate successivamente.

Rilevanza delle aliquote di rendimento

Le aliquote di rendimento sono utilizzate anche per:

  • calcolare i riscatti di laurea, servizio militare o periodi non coperti da contribuzione, per chi opta per il metodo retributivo;
  • effettuare simulazioni pensionistiche (es. con il servizio INPS “Pensami”);
  • determinare la convenienza tra sistema retributivo, contributivo o misto in caso di opzioni di calcolo.

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bonus continuità docenti

Bonus continuità docenti Bonus continuità docenti: cos’è a chi è destinato, requisiti di accesso, importo e criteri di ripartizione delle risorse stanziate

Cos’è il bonus continuità docenti

Il “Bonus continuità docenti” è un incentivo economico, introdotto dal Decreto Ministeriale n. 242/2024, destinato agli insegnanti di ruolo in Italia.

Il decreto attua uno degli obiettivi del PNRR, che prevede “la valorizzazione del personale docente che presta servizio in zone caratterizzate da rischio di spopolamento e da valori degli indicatori di status sociale, economico e culturale e di dispersione scolastica.”

L’obiettivo della misura infatti è quello di premiare i docenti che assicurano stabilità e continuità didattica nella stessa scuola, riconoscendo il valore di un legame duraturo con l’istituto, cruciale per la crescita e il benessere degli studenti, specialmente quelli con esigenze particolari.

Bonus continuità docenti: requisiti di accesso

Per ottenere il bonus i docenti devono soddisfare requisiti specifici:

  • aver prestato servizio nella stessa scuola per almeno tre anni consecutivi (dal 2021/2022 al 2023/2024) senza aver richiesto trasferimenti o assegnazioni temporanee;
  • aver accumulato un minimo di 480 giorni di servizio complessivi presso lo stesso istituto nel triennio considerato. Sono inclusi anche i docenti rientrati nell’istituto di riferimento dopo un trasferimento temporaneo per mancata assegnazione di posto.

Importo e ripartizione del fondo

L’importo del bonus, da 200 a 500 euro, varia a seconda della scuola, in quanto il fondo totale stanziato per il 2023 è di 30 milioni di euro e viene ripartito in base a criteri come l’Indice ESCs (status socio-economico-culturale), il tasso di dispersione scolastica, la presenza di alunni stranieri e il turnover del personale docente.

Le scuole con maggiori difficoltà o instabilità ricevono una quota maggiore. Solo gli istituti che hanno raggiunto un punteggio minimo di 47 punti nella valutazione annuale del Ministero dell’Istruzione e del Merito hanno diritto a partecipare.

L’importo specifico per ciascun istituto è consultabile tramite un allegato ufficiale.

La distribuzione definitiva del bonus ai singoli docenti è poi definita tramite contrattazione d’istituto, che coinvolge il personale scolastico e i sindacati.

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adempimenti e pagamenti fiscali

Adempimenti e pagamenti fiscali: pausa ad agosto 2025 Adempimenti e pagamenti fiscali: nel mese di agosto 2025 è prevista una pausa estiva per contribuenti e Fisco

Adempimenti e pagamenti fiscali sospesi ad agosto 2025

Nel mese di agosto 2025 adempimenti e pagamenti fiscali vanno in pausa.

La sospensione degli adempimenti e dei pagamenti fiscali è una misura che offre diversi vantaggi a contribuenti e professionisti, come la possibilità di pianificare in modo più efficace le scadenze dei mesi di giugno e di luglio, ridurre lo stress ed evitare dimenticanze o ritardi.

Questa pausa estiva, consolidata negli anni e ulteriormente specificata dalla riforma fiscale, ha lo scopo infatti di alleggerire il carico burocratico e consentire una gestione più serena delle attività, soprattutto in un periodo in cui molti usufruiscono delle ferie.

Stop agli invii degli atti

L’articolo 10 del decreto legislativo n. 1/2024 sospende l’invio delle cartelle esattoriali, degli avvisi bonari e delle comunicazioni di irregolarità. Non verranno spediti neppure gli atti di liquidazione del TFR o le lettere di compliance. La sospensione copre l’intero mese di agosto.

Fanno eccezione solo i casi urgenti, gli atti derivanti da notizie di reato e le questioni che riguardano i soggetti con procedure concorsuali.

Pagamenti tributari sospesi

L’articolo 37, comma 11-bis, del decreto legge n. 223/2006 conferma invece la sospensione dei versamenti. I tributi con scadenza tra il 1° e il 20 agosto 2025 slittano. I contribuenti potranno pagarli entro il 20 agosto senza maggiorazioni.

Anche la trasmissione dei documenti da parte dei contribuenti su istanza dell’Agenzia è sospesa.

Dal 1° agosto al 4 settembre 2025 si fermano anche le richieste di informazioni.

In pausa i pagamenti degli avvisi bonari

L’articolo 7-quater, comma 17, decreto legge n. 193/2016 sospende i pagamenti degli avvisi bonari. Questa pausa va dal 1° agosto al 4 settembre e riguarda specificamente gli avvisi bonari.

Intervalli temporali sospensione adempimenti e pagamenti fiscali

Riepilogando, sono tre le fasce temporali che regolano la pausa fiscale.

  • dal 1° al 20 agosto si sospendono gli obblighi fiscali;
  • dal 1° al 31 agosto si ferma l’invio degli avvisi bonari; da controlli automatici
  • dal 1° agosto al 4 settembre si bloccano, tra gli altri, i versamenti conseguenti ai controlli automatici e a controlli formali sulle dichiarazioni dei redditi.

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negozio giuridico

Negozio giuridico: cos’è, differenze, elementi e vizi Cos'è il negozio giuridico, in cosa si differenzia da contratto e atto giuridico, quali sono i suoi elementi e le conseguenze dei vizi

Cos’è il negozio giuridico

Il negozio giuridico è una manifestazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici, riconosciuti e disciplinati dall’ordinamento. Si tratta di un atto umano consapevole e volontario, con cui il soggetto si propone di costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche soggettive.

L’ordinamento giuridico attribuisce efficacia normativa a tale manifestazione, purché conforme a determinati requisiti formali e sostanziali. I negozi giuridici possono essere unilaterali (come il testamento), bilaterali o plurilaterali (come i contratti).

Differenza con il contratto

Il contratto è una specie del genere “negozio giuridico”. In altre parole, ogni contratto è un negozio giuridico, non viceversa.

  • Il contratto implica un accordo tra due o più parti, come previsto dall’art. 1321 c.c., per produrre effetti giuridici (es. compravendita, locazione, appalto).
  • Il negozio giuridico, invece, include anche atti unilaterali o non negoziati, come la revoca di un mandato, l’accettazione di un’eredità o la disdetta.

La differenza sta quindi nella struttura: il contratto richiede il consenso reciproco, mentre il negozio può basarsi anche su una sola volontà.

Differenza con l’atto giuridico  

L’atto giuridico è un concetto più ampio e si riferisce a qualsiasi comportamento umano che produca effetti giuridici, sia esso volontario o meno. L’effetto giuridico non dipende dalla volontà dell’autore, ma è previsto direttamente dalla legge.

  • Un esempio di atto giuridico non negoziale è la denuncia di sinistro o il compimento di un atto illecito (es. diffamazione).
  • Il negozio giuridico, invece, ha effetti voluti e finalizzati dal soggetto che lo compie (es. donazione, testamento).

In sintesi, ogni negozio giuridico è un atto giuridico, ma non viceversa.

Gli elementi essenziali e accidentali

Perché un negozio giuridico sia valido, deve contenere determinati elementi essenziali (ex art. 1325 c.c., per i contratti), e può contenere elementi accidentali.

Elementi essenziali:

  1. la volontà delle parti, che deve essere libera, consapevole, espressa validamente;
  2. la causa, ossia la funzione economico-sociale che giustifica l’atto;
  3. l’oggetto, che deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile;
  4. la forma, se richiesta a pena di nullità dalla legge (es. forma scritta per la donazione).

Elementi accidentali (facoltativi):

  • la condizione, che consiste in un evento futuro e incerto da cui dipende l’efficacia del negozio;
  • il termine, ossia un evento certo nel tempo;
  • il modo, che si traduce in un obbligo accessorio imposto al beneficiario.

I vizi del negozio giuridico

Un negozio giuridico può essere invalidato quando presenta vizi della volontà o vizi che compiscono i suoi elementi essenziali.

Le conseguenze dei vizi sono:

  • la nullità: quando manca un elemento essenziale (es. oggetto illecito, causa illecita, forma mancante ove prevista). Il negozio è inefficace ab origine;
  • l’annullabilità: quando esiste un vizio nella volontà (es. errore, violenza, dolo – art. 1427 c.c.). Il negozio è efficace finché non viene annullato;
  • l’inefficacia: può derivare da cause diverse (es. condizione sospensiva non avverata, difetto di rappresentanza).

 

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Alcolock: cosa prevede il decreto del Mit Alcolock: in GU il decreto del Mit che ne disciplina il funzionamento e l’installazione per prevenire la guida in stato di ebbrezza

Alcolock: in GU il decreto di attuazione

Con il decreto del 2 luglio 2025, il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti ha dato attuazione all’articolo 3, comma 1 della legge n. 177/2024, che lo scorso anno ha apportato diverse modifiche al Codice della Strada. Il decreto del MIT, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 15 luglio 2025 stabilisce come devono funzionare i dispositivi alcolock e come si installano sui veicoli. Questi dispositivi servono a prevenire la guida in stato di ebbrezza. Il Ministero ha definito inoltre le caratteristiche tecniche di queste apparecchiature e ha individuato le officine che possono montarli.

Il decreto è in vigore dal 26 luglio 2025. Il Ministero deve aggiornare periodicamente le informazioni relative agli installatori autorizzati e ai modelli di veicoli idonei, pubblicandole online.

Alcolock: cos’è e come funziona

L’alcolock è un dispositivo che blocca l’avviamento del veicolo. Per avviare l’auto, chi guida deve soffiare nel dispositivo e il test deve mostrare un livello di alcol pari a zero.

Il dispositivo tiene traccia dei risultati dei test e dei altri eventi, come la data e l’ora, in una memoria interna. Esso funziona correttamente entro l’”intervallo di taratura”, durante il quale mantiene la precisione nel misurare l’alcol. Quando viene installato l’alcolock non è necessario aggiornare il documento di circolazione del veicolo.

Requisiti tecnici dell’alcolock

Il dispositivo deve rispettare precisi standard tecnici internazionali che definiscono i metodi di prova e le prestazioni degli etilometri. Deve bloccare il veicolo se rileva anche una minima quantità di alcol nell’aria espirata, ovvero più di 0 mg/l.

L’alcolock inoltre deve avere un’omologazione specifica come unità elettronica/elettrica, che ne attesta la compatibilità elettromagnetica. Deve riportare il marchio CE, indicando che rispetta le normative europee di sicurezza.

Obblighi del fabbricante del dispositivo

Il fabbricante dell’alcolock è tenuto a rispettare diversi obblighi. Costui in particolare deve:

  • fornire le istruzioni complete per installare, usare e manutenere l’alcolock;
  • assicurare che il dispositivo sia chiaramente marcato con informazioni essenziali, come il nome del produttore, il tipo di dispositivo, il numero di serie e la versione del software;
  • selezionare e comunicare al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti le officine autorizzate a montare i propri dispositivi;
  • inviare al Ministero il tipo di dispositivo, le istruzioni, un fac-simile del certificato di taratura e un elenco dei modelli di veicoli su cui è possibile installarlo;
  • fornire all’installatore ogni dispositivo alcolock con tutta la documentazione necessaria e un certificato di taratura.

Installazione e rimozione alcolock

Gli installatori, ossia la persona o l’azienda autorizzata al montaggio dell’alcolock, sono responsabili di seguire scrupolosamente le istruzioni di montaggio e di applicare il sigillo che previene manomissioni. Questo sigillo deve autodistruggersi quando si verifica un tentativo di alterazione.

Al momento dell’installazione, gli installatori devono fornire la dichiarazione di installazione, il certificato di taratura, le istruzioni per l’uso e quelle per la manutenzione.

Gli installatori provvedono anche all’eventuale smontaggio del dispositivo. Nel compiere questa operazione devono seguire le indicazioni del fabbricante.

Veicoli idonei per l’Installazione

È possibile installare l’alcolock su diverse categorie di veicoli che devono essere rispettose di specifiche norme europee che specificano i requisiti di omologazione dei mezzi a motore.

Anche per i veicoli che non rientrano nelle norme più recenti, l’installatore deve avere accesso alle informazioni del costruttore del veicolo per montare correttamente l’interfaccia necessaria.

Controlli e validità del dispositivo

Quando le autorità controllano un veicolo con alcolock, il sigillo di installazione deve risultare intatto. Chi guida deve esibire l’originale della dichiarazione di installazione e il certificato di taratura con un intervallo di validità attivo. Il guidatore è responsabile di verificare che il certificato di taratura sia sempre valido, come indicato nelle istruzioni del fabbricante.

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