doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.

appropriazione indebita leasing

Appropriazione indebita leasing L’appropriazione indebita nel contratto di leasing si realizza quando chi utilizza il bene, pur non pagando il canone, lo trattiene, anche se il concedente ne chiede la restituzione

Appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing

Il reato di appropriazione indebita commesso in relazione al contratto di leasing è oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, che hanno chiarito i dettagli di questo illecito penale.

Per comprendere alcune delle più recenti e interessanti pronunce che si sono occupate di questo reato è necessario analizzare separatamente e brevemente il reato di appropriazione indebita e il contratto di leasing per individuare al meglio le caratteristiche di questo reato.

Il reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un illecito penale punito dall’articolo 646 del codice penale.

La norma punisce nello specifico chi, per procurare a se stesso a ad altri soggetti un profitto ingiusto, si appropri di denaro o di cose mobili di altri soggetti che ne abbiano il possesso a qualsiasi titolo.

Questo illecito è punito a condizione che la persona offesa presenti querela. Le pene previste sono la reclusione da due a cinque anni e la multa da 1000 a 3000 euro.

Se il fatto viene commesso su cose che sono possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.

Il contratto di leasing

Il contratto di leasing, noto anche come locazione finanziaria, è un accordo che coinvolge tre soggetti diversi: l’utilizzatore, il concedente e il produttore o fornitore

Il concedente è il soggetto che, su specifica indicazione dell’utilizzatore, ordina la produzione di un bene o lo acquista direttamente dal produttore, pagandone il prezzo. Il bene viene quindi viene messo a disposizione dal concedente all’utilizzatore per un periodo di tempo determinato. Per l’uso di questo bene l’utilizzatore è tenuto a pagare al concedente un canone periodico. Quando l’accordo giunge a scadenza, in base a quanto concordato tra le parti, l’utilizzatore può acquistare il bene pagando il prezzo residuo. I canoni già pagati infatti vengono scomputati dal prezzo complessivo del bene. L’utilizzatore decide invece di non acquistare il bene deve restituirlo al concedente.

Cassazione: appropriazione indebita leasing

Una prima precisazione sulla configurabilità del reato di appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing la fornisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34911/2023.

La pronuncia chiarisce che in presenza di un contratto di leasing, affinché si configuri il reato di appropriazione indebita, devono sussistere le seguenti condizioni:

  • chi utilizza il bene non paga i canoni concordati;
  • il contratto contempla la risoluzione dell’accordo;
  • il debitore deve conoscere la volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene che a tal fine deve intimarne la restituzione;
  • l’utilizzatore deve comportarsi come uti dominus, non restituendo il bene senza giustificazione.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato di appropriazione indebita del bene di cui l’utilizzatore ha la materiale disponibilità in virtù del contratto di leasing, la Cassazione nella sentenza n. 3100/2023 chiarisce che: “il reato di appropriazione indebita di un bene in “leasing” è integrato dalla mera interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta “uti dominus” non restituendolo senza giustificazione, così da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato, e non da quando il contratto deve intendersi risolto a.causa dell’inadempimento nel pagamento dei canoni. L’applicazione del sopra esposto principio al caso in esame comporta proprio affermare la fondatezza del motivo poiché, avendo l’imputato ricevuto la risoluzione del contratto e la richiesta della restituzione del bene il 12 agosto 2005, è da tale data che deve ritenersi consumato il fatto di appropriazione indebita; con la conseguenza che il termine prorogato di anni 7 e mesi 6 decorreva il 12 febbraio 2013 e quindi antecedentemente la pronuncia di appello”. 

Dalle due pronunce analizzate emerge che, per integrare il reato di appropriazione, è necessaria l’interversione del possesso, che si realizza quando l’autore del reato del reato si comporti uti dominus, non provvedendo a restituire il bene senza giustificazione alcuna, così da concretizzare l’elemento soggettivo del reato. Nella sentenza n. 39791/2021 la Cassazione si è soffermata su quest’ultimo aspetto precisando che l’interversione del possesso “sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato la condotta appropriativa nella ritenzione di un autoveicolo, utilizzato “uti dominus” nonostante la risoluzione del contratto di “leasing” e la richiesta di restituzione del bene)”. 

reclamo Fornero

Reclamo Fornero: disciplina e svolgimento del giudizio d’appello Il reclamo Fornero si traduce nell’impugnazione davanti alla Corte di Appello della sentenza emessa al termine del primo grado del rito Fornero

Reclamo Fornero: riferimento normativo

Il reclamo Fornero è previsto e disciplinato dalla legge n. 92/2012, contenente le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

La legge Fornero n. 92/2012 disciplina infatti anche un rito particolare, previsto per impugnare i licenziamenti dei lavoratori che vengono disposti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, legge n. 300 del 20 maggio 1970.

Del reclamo, che rappresenta una parte eventuale del rito Fornero, si occupano nello specifico i commi 58, 59 e 60 e 61 dell’articolo 1 della legge 92/2012.

L’analisi del reclamo Fornero si rende necessaria anche se la riforma Cartabia ha abrogato l’intero rito. La procedura infatti è rimasta vigente, in via transitoria, per tutte le cause che sono state introdotte fino al 28 febbraio 2023, purché rientranti ovviamente nella casistica di questo rito particolare, nato per rendere più rapidi i procedimenti giudiziari in materia di licenziamento.

Come si presenta il reclamo alla Corte di Appello

Inquadrato normativamente il reclamo Fornero occorre comprendere come si presenta e come si svolge l’intero giudizio di impugnazione.

Per farlo occorre partire dal comma 58 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, il quale dispone che, contro la sentenza che ha deciso sul ricorso con cui è stato impugnato il licenziamento, è possibile proporre reclamo davanti alla Corte di Appello.

Dal punto di vista formale e procedurale il reclamo deve essere proposto con ricorso, da depositare a pena di decadenza nel termine di 30 giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione del provvedimento.

In questa fase non è possibile chiedere che vengano ammessi nuovi mezzi di prova o che vengano prodotti nuovi documenti. Ci sono però due casi in cui questa regola subisce eccezioni:

  • se il collegio ritiene che le nuove prove siano indispensabili per la decisione finale;
  • se la parte che ne richiede l’ammissione dimostri di non averli prodotti per colpa a lui non imputabile.

Svolgimento del giudizio di reclamo

Depositato il ricorso, l’autorità giudiziale deve provvedere a fissare l’udienza di discussione nei 60 giorni e assegnare all’opposto il termine per costituirsi fino a 10 giorni prima dell’udienza.

Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza devono essere comunicati dall’apponente all’opposto almeno 30 giorni prima del termine fissato per la sua costituzione.

L’opposto si deve costituire in cancelleria depositando una memoria difensiva e se vuole chiamare un terzo in causa lo deve dichiarare in questo atto a pena di decadenza.

Nel corso della prima udienza il giudice, in presenza di gravi motivi, può sospendere l’efficacia della sentenza impugnata. In questa sede inoltre, sentite le parti, procede all’istruzione senza formalità e decide con sentenza, con cui può accogliere o rigettare il reclamo Fornero.

La sentenza motivata viene quindi depositata in cancelleria nel termine di 10 giorni dall’udienza di discussione. Se la sentenza non viene comunicata o notificata si applica l’art. 327 c.p.c il quale sancisce che “indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 non possono proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.”

La sentenza emessa al termine del reclamo può essere impugnata in sede di Cassazione nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della stessa o dalla sua notificazione, se anteriore.

La Corte di Appello resta competente per la richiesta di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, che vi provvede come in sede di reclamo.

omessa denuncia di armi

Omessa denuncia di armi L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale previsto dall’articolo 697 del codice penale per tutelare la sicurezza pubblica

Omessa denuncia di armi: reato art. 697 c.p.

L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale contemplato dall’articolo 697 del codice penale, intitolato “Detenzione abusiva di armi”. La norma punisce nello specifico due condotte diverse.

  1. Il primo comma punisce chiunque detenga armi o caricatori per i quali la legge richiede la denuncia ai sensi dell’articolo 38 del TU della pubblica sicurezza, oppure munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando questa formalità è necessaria.
  2. Il comma 2 invece sanziona chi, avendo notizia che in luogo da lui abitato si trovino armi o munizioni, ometta di farne denuncia alle autorità.

Arresto e ammenda per i trasgressori

L’illecito penale previsto dal primo comma dell’art. 697 c.p è punto con l’arresto da tre a dodici mesi e con l’ammenda fino a 371 euro.

La violazione di quanto previsto dal comma 2 invece è punita con la pena dell’arresto fino a due mesi e con l’ammenda fino a 258 euro.

Denuncia art. 38 TU pubblica sicurezza

Il presupposto di questo reato, come emerge dalla norma, è l’obbligo di denunciare il possesso delle armi e di quanto occorre al loro utilizzo presso le autorità di pubblica sicurezza competenti, come previsto dall’art. 38 del Tu di pubblica sicurezza, da ultimo riformato ad opera del decreto legislativo n. 104/2018.

La versione attuale della norma dispone infatti che chi detiene armi o parti di esse (art. 1 bis comma 1 lette b) del dlgs n. 527/1992) così come munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve denunciarle a mezzo pec entro 72 ore da quando ne abbia acquisito la materiale disponibilità presso l’ufficio locale di pubblica sicurezza.

In alternativa, se questo ufficio manca, è possibile fare denuncia presso il comando locale dei carabinieri o presso la questura competente.

La denuncia è necessaria anche se la detenzione riguarda caricatori in grado di contenere più di 10 colpi per le armi lunghe e più di 20 per le armi corte.

La denuncia di detenzione deve essere presentata nuovamente ogni volta che il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso rispetto a quello che aveva indicato nella precedente denuncia. Chi ha la sola detenzione dell’arma deve assicurare che il luogo in cui è custodita presenti adeguate garanzie di sicurezza.

Soggetti esonerati dall’obbligo di denuncia

L’omessa denuncia di armi non è reato per determinate categorie di soggetti, che sono esonerati da questo obbligo. Si tratta in particolare di quei soggetti che, per motivi di lavoro, devono detenere e usare le armi e gli accessori necessari al loro funzionamento. Si tratta in particolare dei seguenti soggetti:

  • gli appartenenti alle forze armate;
  • le società di tiro a segno;
  • le istituzioni autorizzate in relazione alla detenzione degli oggetti destinati nei luoghi deputati allo scopo;
  • i soggetti che possiedono raccolte autorizzate di armi antiche, rare e di valore artistico;
  • le persone che, per una loro qualità permanente, hanno diritto di circolare armate nei limiti di quanto loro consentito.

Obbligo della certificazione medica

La detenzione di armi da parte di soggetti che non sono esonerati dall’obbligo di denunciare le armi in loro possesso e da parte di coloro che sono autorizzati a detenerle senza licenza, richiede, oltre all’obbligo di denuncia, anche quello di presentare specifica certificazione medica ogni 5 anni. Detto temine, se il detentore ha la licenza scaduta, decorre dalla data della scadenza, a meno che non l’abbia rinnovata.

Al  soggetto obbligato alla presentazione della certificazione medica, che trasgredisce, il prefetto può vietare di detenere le armi denunciate.

vincolo archeologico

Vincolo archeologico: definizione, normativa e ratio Il vincolo archeologico, che può essere diretto o indiretto, viene apposto su beni di interesse archeologico per finalità di tutela culturale

Vincolo archeologico: definizione

La definizione di vincolo archeologico è contenuta in modo chiaro all’interno della sentenza del Consiglio di Stato n. 399 del 2016.  Essa definisce il vincolo archeologico come quello che è “finalizzato a realizzare la tutela dei beni riconosciuti di interesse archeologico”.  

Esso non deve pertanto essere confuso con il vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico (art. 142 del Codice dei beni culturali e del paesaggio). Quest’ultimo infatti non mira a tutelare i beni, quanto piuttosto il territorio che li conserva. Il vincolo paesaggistico tutela quindi il paesaggio archeologico, da non confondere con il sito archeologico. Il paesaggio archeologico non si identifica pertanto con il solo sito archeologico, bensì con tutta la forma del paesaggio, ossia anche le aree circostanti al reperto e senza reperti, al cui interno è compreso il sito archeologico.

Il vincolo archeologico diretto e indiretto

Definito il vincolo archeologico in generale e compresi gli elementi distintivi rispetto al vincolo paesaggistico delle zone di interesse archeologico, occorre chiarire che lo stesso può essere diretto e indiretto. Anche in questo caso la definizione di questi due termini è contenuta in una sentenza del Consiglio di Stato e precisamente la n. 1658 del 2023.

Nello specifico, detta pronuncia definisce:

il vincolo archeologico diretto come quello che “viene imposto sui beni o sulle aree nei quali sono stati rinvenuti reperti archeologici, o in relazione ai quali vi è la certezza dell’esistenza, della localizzazione e dell’importanza del bene archeologico”;

il vincolo archeologico indiretto invece è quello che “viene imposto sui beni e sulle aree circostanti a quelli sottoposti a vincolo diretto, così da garantirne una migliore visibilità e fruizione collettiva, o migliori condizioni ambientali e di decoro”. 

Riferimenti normativi

Premessa l’esistenza di due tipologie di vincolo archeologico vediamo quali sono le norme che li contemplano.

Il vincolo archeologico diretto è previsto dagli articoli 1 e 3 della legge n. 1089/1939. L’articolo 1 dispone che sono assoggettate alle regole della legge anche le cose mobili e immobili di interesse archeologico. L’articolo 3 invece dispone che il Ministero notifichi in forma amministrativa ai possessori, proprietari o detentori dei beni di interesse archeologico indicati nell’articolo 1, che gli stessi presentano un interesse particolarmente importante. L’elenco delle cose mobili è conservato presso il Ministero.

Il vincolo archeologico indiretto è invece contenuto nell’articolo 21 della legge n. 1089/1939 e consiste nella prescrizione, da parte del Ministero competente, di misure, distanze e altre norme per evitare che venga messa in pericolo l’integrità delle cose immobili, che ne vanga danneggiata la prospettiva, la luce o che ne vengano alterate le condizioni ambientali e di decoro.

Le ragioni del vincolo archeologico

La ragione primaria dell’imposizione del vincolo archeologico è pertanto la tutela dei beni che presentano un evidente interesse culturale.

Ad affermarlo è anche l’articolo 2 del decreto legislativo n. 42/2004, che contiene il codice dei beni e del paesaggio culturale (ai sensi dell’articolo 10 della legge n. 137 del 6 luglio 2002).

Fanno parte infatti del patrimonio culturale le cose mobili e immobili che presentano un interesse archeologico ai sensi degli articoli 10 e 11.

Nello specifico l’articolo 10 definisce i beni culturali anche le cose mobili e immobili che appartengono allo Stato e altri enti pubblici territoriali o agli enti e istituti, persone giuridiche pubbliche o private senza fini di lucro, compresi gli enti ecclesiastici riconosciuti che presentano un interesse archeologico. Sono beni culturali inoltre, sempre in base a questa norma, anche quelle cose mobili e immobili di interesse archeologico che appartengono a soggetti diversi da quelli appena elencati e a chiunque appartenenti, ma che rivestono un particolare interesse archeologico per la completezza del patrimonio culturale della nazione.

Vincolo archeologico ed edificabilità

Dal punto di vista pratico il vincolo archeologico pone problemi soprattutto quando nell’area su cui lo stesso grava si deve realizzare un’opera.

Giurisprudenza oramai consolidata afferma che il vincolo apposto su un’area di interesse archeologico non esclude in assoluto l’attività di edificazione. La stessa può essere consentita infatti qualora non comprometta la conservazione dei beni e non alteri l’integrità dei reperti.

L’unico modo per scongiurare la violazione della legge in materia è tuttavia quello di chiedere informazioni presso gli uffici competenti della Soprintendenza distribuiti sul territorio nazionale per verificare la presenza di vincoli e tutele che possano impedire i lavori programmati.

 

Prostituzione minorile: reato art. 600 bis c.p. Il reato di prostituzione minorile è contemplato dall’art. 600-bis del codice penale a tutela della salute fisica e psichica dei minori

Il reato di prostituzione minorile

La prostituzione minorile contemplata dall’articolo 600 bis è un reato che il nostro legislatore ha inserito nel codice penale con la legge n. 269 del 3 agosto 1998 per adeguare la normativa italiana agli impegni assunti nelle sedi internazionali, finalizzati a tutelare il minore nella sua salute fisica e psichica.

L’art. 600-bis del codice penale

Passando all’analisi della norma, l’articolo 600 bis del codice penale, al primo comma, punisce chiunque recluta o induce, ossia arruola o spinge alla prostituzione una persona che non ha ancora compiuto i diciotto anni di età.

Il reato si configura però anche quando un soggetto qualsiasi favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di una persona che ancora non ha compiuto diciotto anni o ne trae profitto in altro modo.

La norma punisce pertanto sia le condotte finalizzate a convincere un minore a prostituirsi sia quelle che facilitano in qualche modo l’esercizio dell’attività di prostituzione da parte del minore.

Emerge pertanto che si tratta di un reato:

  • di pura condotta, è sufficiente infatti che il soggetto agente tenga una delle condotte previste dalla norma affinché si configuri il reato;
  • comune, ossia che chiunque può commettere.

Reclusione e pene pecuniarie

Chi tiene una delle condotte sopra elencate è punito con la pena della reclusione, che varia da un minimo di sei anni fino a una massimo di dodici anni e con una pena pecuniaria il cui importo varia da un minimo di 15.000 euro fino a un massimo di 150.000 euro. 

Atti sessuali con i minori

L’art. 600 bis del codice penale al comma 2 punisce anche chi compie atti sessuali con un minore, di età compresa tra i 14 anni e i 18 anni, offrendo o promettendo in cambio denaro o altre utilità, a meno che il suo comportamento non configuri un reato più grave.

Del resto, come ha chiarito anche la Cassazione nella SU n. 4616/2021, non c’è alcun dubbio che la volontà del minore venga fortemente condizionata dall’offerta di un corrispettivo in denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessa.

Da chiarire in ogni caso che, in questa ipotesi, affinché si configuri il reato, non è necessario che il soggetto abbia un rapporto sessuale completo con il minore. E’ sufficiente infatti un semplice contatto con la sfera sessuale del minore.

L’ignoranza dell’età della persona offesa

E’ necessario ricordare che, in relazione ai delitti contro la personalità individuale, nei quali è ricompreso la prostituzione minorile, l’articolo 602 quater del codice penale dispone che, quando gli stessi vengono commessi ai danni di un soggetto che non abbia ancora compiuto i 18 anni di età, il colpevole non può invocare a propria discolpa di non conoscere l’età della persona offesa, a meno che si tratti di ignoranza inevitabile, ossia non rimproverabile.

Su questa scusante la Cassazione nella sentenza n. 13312/2023 ha chiarito che: “il principio per cui, in tema di prostituzione minorile, il fatto tipico scusante previsto dall’art. 602-quater cod. pen. in relazione all’ignoranza inevitabile circa l’età della persona offesa è configurabile solo se l’agente, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia stato indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne fosse maggiorenne; ne consegue che non sono sufficienti, al fine di ritenere fondata la causa di non punibilità, elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti; così Sez. 3, n. 12475 del 18/12/2015, dep. 2016, G., Rv. 266484 – 01, che ha anche precisato che l’imputato ha l’onere di provare non solo la non conoscenza dell’età della persona offesa, ma anche di aver fatto tutto il possibile al fine di uniformarsi ai suoi doveri di attenzione, di conoscenza, di informazione e di controllo, attenendosi a uno standard di diligenza direttamente proporzionale alla rilevanza dell’interesse per il libero sviluppo psicofisico dei minori”.

riforma Cartabia processo civile

Riforma Cartabia processo civile La riforma Cartabia del processo civile e i correttivi in fase di approvazione per rendere la procedura ancora più efficiente 

Riforma Cartabia e correttivi

La riforma Cartabia del processo civile è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022. La legge di bilancio 2023 n. 127/2022 ha anticipato l’entrata in vigore di molte disposizioni della riforma, che ha modificato in modo organico il processo civile.

A meno di un anno dalla sua entrata in vigore, il Ministro della Giustizia Nordio ha già presentato una serie di correttivi alla Riforma Cartabia per velocizzare e alleggerire la procedura, soprattutto attraverso una maggiore digitalizzazione.

In attesa dell’approvazione definitiva dei correttivi, ricordiamo in breve le principali modifiche apportate dalla Cartabia al codice di procedura civile.

Modifiche alle disposizioni generali

Ampliata la competenza per valore del Giudice di Pace, che è stata innalzata a 10.000,00 euro per le cause relative a beni mobili e a 25.000,00 euro per le cause risarcitorie che riguardano i danni prodotto dalla circolazione stradale.

Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ora può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre il difetto del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o di altri giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei gradi di impugnazione il difetto può essere rilevato solo se oggetto di un motivo specifico. L’attore però non può impugnare la sentenza per denunciare la giurisdizione del giudice a cui si è rivolto.

In presenza di cause connesse relative a cause accessorie, di garanzia, accertamento incidentale o eccezione di compensazione, se una di esse è soggetta al rito semplificato di cognizione e l’altra a un rito speciale, le cause devono essere trattate con il rito semplificato di cognizione.

Cambiano le regole del regolamento di competenza. Chi propone l’istanza deve depositare il ricorso e i documenti a corredo della stessa nel termine perentorio di 20 giorni, che decorre dalla data dell’ultima notificazione alle parti. I processi nel cui ambito viene richiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno in cui la copia del ricorso notificato vene depositata davanti al giudice  innanzi al quale pende la causa o dal giorno in cui viene emessa l’ordinanza con cui il giudice chiede il regolamento di competenza.

Il Tribunale in composizione collegiale non decide più le cause indicate nei punti 5 e 6 dell’art. 50 bis c.p.c tra le quali figurano:

  • le impugnazioni alle delibere assembleari;
  • le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione della legittima.

A causa delle imponenti modifiche che hanno investito la normativa dedicata alle persone e alla famiglia l’art. 78 c.p.c limita la nomina del curatore speciale ai soli casi in cui viene rilevata l’urgenza di avere una persona che assista o rappresenti un incapace, una persona giuridica o una associazione, in attesa che venga nominato il soggetto che ne assuma la rappresentanza o lo assista. La nomina del curatore è prevista inoltre se c’è conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante.

Chi si comporta male in giudizio, nei casi contemplati dall’art. 96 c.p.c (responsabilità aggravata), viene raggiunto anche da una sanzione pecuniaria che varia da un minimo di 500 a un massimo di 5.000 euro.

Aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c, dedicato al principio del contraddittorio, che  prevede l’adozione di provvedimenti opportuni nel caso in cui il giudice rilevi una lesione del diritto di difesa.

Il nuovo art. 121 c.p.c, nel sancire la libertà della forme per gli atti per i quali la legge non prevede forme determinate, per tutti gli atti del processo sancisce il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità.

Introdotta la possibilità di svolgere le udienze da remoto, mediante collegamenti audiovisivi, come previsto dal nuovo art. 127 bis c.p.c. e di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte come prevede il nuovo art. 127 ter c.p.c.

Tante le novità che hanno investito le notifiche, con conseguente modifica degli articoli 137, 139, 147 e 149 bis c.p.c. Eliminate le comunicazioni a mezzo telefax, nessun limite orario per le notifiche a mezzo pec, che l’UG esegue ai destinatari obbligati di munirsi di un indirizzo di posta elettronica.

Le novità del processo di cognizione

La parte introduttiva del giudizio di cognizione cambia notevolmente. Modificato il contenuto dell’atto di citazione art. 163 c.p.c, modificati i termini per comparire art. 163 bis, le regole di costituzione dell’attore art. 165 c.p.c e del convenuto art. 166 c.p.c.

Le attività che le parti svolgevano a causa già iniziata con le memorie art. 183 c.p.c vengono ora anticipate all’interno delle memorie integrative art. 171 ter da produrre prima della prima udienza, la cui disciplina, contenuta nell’art. 183 c.p.c è stata completamente riformulata.

Eliminata l’udienza 184 c.p.c dedicata all’assunzione dei mezzi di prova, la riforma ha modificato anche l’art. 188 c.p.c. In base alla nuova formulazione di questa norma il giudice, una volta completata l’istruttoria, rimette le parti davanti al Collegio per la decisione, assegnando termini per note e comparse o dopo la discussione orale art. 275 bis c.p.c.

Cambiate le regole per la remissione della causa dal Collegio al Giudice monocratico e viceversa e introdotto il procedimento semplificato di cognizione per le cause “pronte”per la decisione.

Cambiato anche il procedimento davanti al giudice di Pace, che viene avviato con ricorso e al quale si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme del procedimento semplificato di cognizione.

Il giudizio di appello è stato in gran parte riformato. Modificato l’art. 342 c.p.c sulla forma dell’atto di appello e l’art. 343 c.p.c sui modi e termini dell’appello incidentale, che deve essere proposto a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata dall’appellante. Cambiate le regole sulla improcedibilità dell’appello, che ora viene dichiarata con sentenza. Completamente riformato l’art. 348 bis c.p.c sulla inammissibilità e manifesta infondatezza dell’appello. Torna il giudice istruttore in appello se il procedimento si svolge davanti alla Corte, cambia la trattazione in appello e anche la fase decisionale, che avviene alternativamente in base alle regole dell’art. 350 bis c.p.c dopo la discussione orale o in base a quanto previsto dall’art. 352 c.p.c, che prevede la decisione dopo la concessione di termini per note e comparse.

Il giudizio davanti alla Cassazione viene rinnovato attraverso la previsione di nuovi casi di ricorso e del nuovo rinvio pregiudiziale per la risoluzione di questioni di diritto. Cambiato anche il contenuto del ricorso e i termini di deposito del controricorso e del ricorso incidentale. Distribuiti diversamente anche i casi in cui la Cassazione può pronunciarsi in udienza pubblica o in camera di consiglio.

Il processo esecutivo è stato rinnovato con l’eliminazione della formula esecutiva da apporre sul titolo, sostituita dalla copia attestata conforme all’originale. Riformata la norma sul pignoramento in generale e l’art. 492 bis c.p.c sulla ricerca telematica dei beni da  pignorare. Introdotto ex novo l’art. 568 bis c.p.c che consente al debitore di procedere alla vendita diretta dell’immobile pignorato alle condizioni stabilite dall’art. 569 bis c.p.c.

teste de relato

Teste de relato: analisi dell’art. 195 c.p.p. La figura del teste de relato è prevista dall’art. 195 c.p.p. che disciplina l’utilizzo delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto nel processo penale

Chi è il teste de relato?

Il teste de relato è il testimone che racconta un fatto, non per averlo appreso direttamente, ma per averne acquisito conoscenza da un altro soggetto.

Vediamo in che modo il codice di procedura penale disciplina questa figura, ma soprattutto quale valore riconosce alle dichiarazioni di questo soggetto.  

Teste de relato nel processo penale: l’art. 195 c.p.p.

Il codice di procedura penale definisce la testimonianza de relato come testimonianza indiretta nell’art. 195 c.p.p.

  • Il primo comma di questa norma dispone che quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.”
  • Il secondo comma, a integrazione del primo, dispone che l’esame delle persone che hanno conoscenza diretta dei fatti, possa essere richiesto non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio direttamente dal giudice.
  • Il terzo comma precisa poi che, se non si osserva la regola contenuta nel primo comma, le dichiarazioni sui fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da terze persone non siano utilizzabili a meno che sia impossibile procedere all’esame del testimone diretto perché defunto, irreperibile o infermo.
  • Le regole contenute nell’art. 195 c.p.p si applicano anche quando il testimone indiretto abbia avuto la comunicazione del fatto in una forma diversa da quella orale.

Limiti per agenti e ufficiali di polizia giudiziaria

Il comma 4 della norma pone poi un limite alla testimonianza indiretta, che si rivolge nello specifico agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria. Questi soggetti non possono infatti deporre su quanto appreso dai testimoni in sede di acquisizione di sommarie informazioni o nel momento in cui raccolgono denunce, querele, istanze orali, sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee della persona indagata.

Testimonianza de relato e segreto professionale e d’ufficio

Il comma 6 dell’art. 195 c.p.p. pone un limite ulteriore all’utilizzo della testimonianza indiretta. Questa disposizione vieta infatti l’esame del testimone del relato se i fatti da loro appresi provengono da soggetti che sono tenuti al segreto professionale ai sensi dell’art. 200 c.p.p. o al segreto d’ufficio di cui all’art. 201 c.p.p. in relazione alle circostanze previste da questi due articoli, a condizione che i soggetti tenuti al segreto non abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano divulgati in un altro modo.

Inutilizzabilità per rifiuto o ignoranza

L’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p. prevede infine che le dichiarazioni del testimone de relato non siano utilizzabili se il soggetto si rifiuti o non sia comunque in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia che riguarda i fatti oggetto d’esame.

Questa disposizione, come l’intero articolo 195 c.p.p., hanno la finalità primaria di vietare le testimonianze anonime.

La Cassazione sulla testimonianza de relato

Vediamo ora, alcune recenti sentenze della Cassazione sulla testimonianza de relato:

Cassazione n. 3488/2024

La disciplina prevista in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 cod. proc. pen. non trova applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita da un soggetto che rivesta la qualità di imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso.

Cassazione n. 34818 /2023

Gli unici casi testualmente previsti di inutilizzabilità della testimonianza de relato trovano il loro fondamento nel fatto che il teste si rifiuti o non sia in grado di indicare la propria fonte di conoscenza (comma 7 dell’art. 195 c.p.p.) o nel fatto che, pur richiestone, il giudice non chiami a deporre le persone alle quali il teste abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (comma 3, in relazione al comma 1 dell’art. 195 cod. proc. pen.).

Cassazione n. 47531/2023

In tema di testimonianza indiretta, possono formare oggetto della testimonianza de relato del personale di polizia giudiziaria i risultati dell’individuazione fotografica poiché essa consiste in una dichiarazione ricognitiva resa da un teste della propria percezione visiva ove la difesa non abbia richiesto l’esame della fonte diretta (Sez. 5, n. 5701 del 05/11/2021, dep. 2022, Rv. 282779 – 01), così implicitamente rinunciando ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame (ex 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale multis, Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, Rv. 279259 – 01; Sez. 5, n. 50346 del 22/10/2014, Rv. 261316 – 01).

riforma Cartabia processo penale

Riforma Cartabia processo penale Il processo penale è stato profondamente modificato dalla Riforma Cartabia per accelerare la durata della procedura e rispettare così gli impegni del PNRR

Riforma Cartabia per ridurre la durata dei processi penali

La riforma Cartabia del processo penale è avvenuta con il decreto legislativo n. 150/2022, in vigore dal 30.12.2022. Il testo ha apportato le modifiche di maggiore rilevo al codice penale e al codice di procedura penale, al fine di rispettare gli impegni assunti dall’Italia con il PRNN, ossia ridurre prima di tutto la durata media dei processi penali nei tre diversi gradi di giudizio di almeno 1/4. Vediamo in breve le novità di maggiore rilievo.

Le modifiche al codice penale

La riforma ha inserito nel codice penale il nuovo art. 20 bis, che contempla le pene sostitutive della reclusione e dell’arresto, ossia la semilibertà sostitutiva, la detenzione domiciliare sostitutiva, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo e la pena pecuniaria sostitutiva.

Tra le circostanze attenuanti del reato previste dall’art. 62 c.p. è stato inserita anche la partecipazione del responsabile a programmi di giustizia riparativa con la vittima del reato, concluso con un esito riparativo. Qualora l’esito riparativo preveda l’assunzione, da parte del soggetto imputato, di impegni di natura comportamentale, la circostanza attenuante viene valutata solo se detti impegni sono stati rispettati.

All’interno dell’art. 131 bis c.p, che disciplina i casi di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la riforma ha ampliato e inserito specificamente i riferimenti normativi ai casi in cui l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità.

Nel determinare la multa o la ammenda il giudice ora deve valutare le condizioni patrimoniali del reo, anche nel disporre il pagamento rateale. Lo prevedono gli articoli 133 bis e 133 ter c.p. come riformulati dalla Riforma.

Cambiano le regole sulla conversione delle pene attraverso la modifica dell’art. 136 del codice penale.

Sono diventati procedibili a querela altri reati, fatte salve le eccezioni previste in presenza di determinate circostanze: lesioni personali art. 582 c.p, lesioni stradali, art. 590 c.p, sequestro di persona art. 605 c.p, violenza privata art. 610 c.p, violazione di domicilio art. 614 c.p, furto art. 624 c.p, turbativa violenta del possesso di cose immobili art. 626 c.p, danneggiamento art. 635 c.p, disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone art. 659 c.p; molestia o disturbo alle persone art. 660 c.p, truffa art. 640 c.p, frode informatica art. 640 c.p e appropriazione indebita art. 646 c.p.

Le modifiche della riforma al codice di procedura penale

La prima novità di rilievo apportata dalla riforma Cartabia consiste nella digitalizzazione del processo penale. Gli articoli 110 e 111 c.p.p per la prima volta prevedono la forma del documenti informatico degli atti del procedimento penale e il rispetto delle conseguenti regole per la redazione, la sottoscrizione, la conservazione, l’accesso, la trasmissione e la ricezione in formato elettronico di detti atti e documenti. Completano il set di norme dedicate alla digitalizzazione  sopratutto i seguenti articoli:

  • 111 bis c.p.p dedicato al deposito informatico;
  • 111 ter c.p.p sul fascicolo informatico e l’accesso agli atti;
  • 148 c.p.p sulle notifiche telematiche.

Cambiata la durata massima delle indagini preliminari:  sei mesi per le contravvenzioni, un anno  per i delitti, un anno e sei mesi per i delitti art. 407 comma 2. Ammessa la proroga di questi termini per una sola volta e per non più di sei mesi se le indagini sono complesse.

L’archiviazione della notizia di reato art. 408 c.p.p è consentita quando dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini non si può formulare una ragionevole previsione di condanna o applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Ampliate le fattispecie di reato per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio art. 552 c.p.p , con particolare riferimento a quei reati che non richiedono investigazioni complesse.

Nuova udienza “filtro” di comparizione prebattimentale dopo la citazione diretta art. 554 bis e 554 ter c.p.c, che funge da snodo tra le indagini preliminari e il dibattimento.

Il rito del patteggiamento prevede ora la possibilità per l’imputato e il P.M di chiedere al giudice di non applicare le pene accessorie o di applicarle per una durata determinata e di non disporre la confisca per determinati beni e determinati importi.

Per quanto riguarda le impugnazione in base alle modifiche della Cartabia, l’art. 593 c.p.p prevede l’inappellabilità delle sentenze che applicano la pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità e le sentenze di proscioglimento per reati che vengono puniti con la sola pena pecuniaria o con una pena alternativa.

contributi silenti

Contributi silenti pensione: cosa sono e come recuperarli I contributi silenti possono essere recuperati per conseguire la pensione con la ricongiunzione onerosa, la totalizzazione gratuita e il cumulo dei contributi versati

Contributi silenti: cosa sono

I contributi silenti sono rappresentati dai versamenti dei contributi previdenziali che non sono sufficienti per la maturazione della pensione presso un’unica gestione previdenziale.

Come fare per non perdere quanto versato e riuscire a costruire la propria pensione se nel corso della vita un soggetto è stato iscritto a più gestioni e casse previdenziali, ma in nessuna di queste ha raggiunto i requisiti per avere poi diritto a un trattamento pensionistico?

Come si recuperano i contributi silenti?

Alcuni enti o casse previdenziali dei professionisti riconoscono ai loro iscritti il diritto di ottenere la restituzione dei contributi versati, ma insufficienti a garantire loro una pensione. Non tutti però adottano queste politiche. In questo caso il lavoratore cosa può fare per non perdere i contributi versati?

I metodi per non perdere i contributi versati e garantirsi una pensione futura sono principalmente tre:

  • la ricongiunzione onerosa;
  • la totalizzazione gratuita;
  • il cumulo dei contributi versati.

Analizziamoli singolarmente per capire come funzionano a grandi linee.

La ricongiunzione onerosa

Il primo metodo che consente di recuperare i contributi è la ricongiunzione onerosa, disciplinata dalla legge n. 29/1979.

Questo metodo è oneroso perchè richiede al lavoratore il pagamento di una somma, ossia l’onere di riscatto, a cui può provvedere ratealmente.

Si tratta di un sistema che permette al lavoratore dipendente, sia esso pubblico o privato, che nella vita è stato iscritto a forme obbligatorie di previdenza sostitutive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti gestita dall’INPS, di chiedere che tutti i periodi di contribuzione obbligatoria, anche volontaria e figurativa, vengano ricongiunti nell’assicurazione generale obbligatoria o in quella a cui è iscritto al momento della domanda.

Questa facoltà è concessa anche ai lavoratori autonomi in presenza di determinati requisiti contributivi. Le regole per il calcolo e la misura della pensione sono quelle previste e adottate dalla Cassa presso la quale si accentra la posizione assicurativa del lavoratore.

La totalizzazione gratuita

Il secondo sistema che permette di non perdere i contributi versati, questa volta in modo gratuito, è la totalizzazione gratuita dei contributi.

Possono avvalersi di questo sistema tutti i lavoratori dipendenti, così come gli autonomi e i professionisti iscritti all’AGO, al FPLD, a forme sostitutive dell’AGO, a enti previdenziali per gli iscritti ad albi o elenchi professionali, alla gestione separata dei parasubordinati, al Fondo di previdenza per il clero e i ministri di culto non cattolici.

Ai fini della totalizzazione valgono anche i contributi versati in paese comunitari o in paesi con i quali l’Italia ha stretto convenzioni bilaterali, purché rispettino il minimale contributivo richiesto.

La domanda deve essere presentata all’ente presso il quale risulta accreditata l’ultima contribuzione, ma se il lavoratore è iscritto a più gestioni può scegliere a chi presentarla.

Il calcolo della pensione avviene pro quota, per cui ogni gestione lo determina in base ai periodi di iscrizione maturati dal lavoratore, di norma in base al sistema di calcolo contributivo o contributivo misto. 

Cumulo dei contributi versati

Il terzo metodo, anche questo gratuito, prevede il cumulo dei contributi versati delle varie gestioni, al fine di ottenere una pensione unica che viene liquidata con il sistema contributivo.

Questo sistema vale per i lavoratori iscritti da almeno due anni all’AGO, al FLPD, alle gestioni dei lavoratori autonomi, alle forme sostitutive AGO e alla gestione separata.

Il cumulo gratuito può essere utilizzato per la pensione di vecchiaia, per la pensione anticipata, per l’inabilità e per la pensione indiretta ai superstiti, ognuna delle quali è soggetta a regole particolari.

Il lavoratore deve fare domanda per il cumulo all’ente a cui è iscritto al momento della presentazione, se però il lavoratore è iscritto a una Cassa professionale, la domanda va presentata alla gestione INPS a cui è stato iscritto in precedenza.