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Festival di Sanremo: addio alla Rai? Festival di Sanremo: dal 2026 gara pubblica, l’affidamento alla RAI è illegittimo, non rispetta le norme sui contratti pubblici

Festival di Sanremo: affidamento illegittimo alla RAI

Illegittimo l’affidamento diretto del Festival di Sanremo alla RAI da parte del Comune di Sanremo.  Dal 2026, l’organizzazione del Festival dovrà passare attraverso una gara pubblica. La decisione, contenuta nella sentenza del TAR Liguria n. 843/2024, nasce dal ricorso presentato dai discografici italiani, rappresentati dal presidente dell’Associazione Fonografici Italiani.

Festival della canzone italiana: concessione marchio

Nel 2023, il presidente dell’Associazione Fonografici Italiani la sua etichetta discografica  contestano la concessione diretta del Marchio “Festival della Canzone Italiana” alla RAI, senza una procedura di evidenza pubblica.

La convenzione, infatti, garantiva alla RAI l’uso esclusivo del marchio e l’organizzazione delle edizioni 2024 e 2025. Il Comune avrebbe dovuto invece rispettare le norme europee e nazionali sui contratti pubblici, aprendo il bando a operatori del settore.

Festival di Sanremo:  la convenzione tra Comune e RAI

La convenzione per il Festival di Sanremo prevede che la RAI organizzi l’evento a sue spese, presentando un progetto-programma al Comune per l’approvazione. In cambio, ottiene i diritti di sfruttamento economico del marchio e del Festival. Il Comune fornisce supporto logistico e floreale e riceve un corrispettivo, oltre a una percentuale sui ricavi generati dalla RAI.

Il TAR ha evidenziato che questa convenzione è un “contratto attivo”, poiché la RAI trae un’opportunità di guadagno. Pertanto, la concessione dovrebbe seguire i principi di trasparenza, concorrenza e imparzialità, previsti dalla normativa vigente.

Marchio e format: entità distinte

Un punto centrale della sentenza riguarda la distinzione tra il marchio e il format. Il TAR ha stabilito che il marchio “Festival della Canzone Italiana” non è inscindibilmente legato al format ideato dalla RAI. Dal 1951 al 1991, infatti, il Comune ha gestito il Festival autonomamente. La RAI si è infatti limitata trasmettere la manifestazione canora in televisione.

Negli ultimi anni poi, il format del Festival è stato modificato più volte, dimostrando l’assenza di un legame indissolubile tra marchio e organizzazione. Nel 2021, ad esempio, il Festival si è svolto senza pubblico per via della pandemia e in altre edizioni sono stati introdotti cambiamenti significativi nelle modalità di gara e conduzione.

Le difese della RAI e del Comune di Sanremo

La RAI ha sostenuto di essere titolare esclusiva del diritto d’autore sul format e di aver investito interamente nella sua creazione. Il TAR però ha respinto questa tesi, affermando che il contratto con il Comune riguarda lo sfruttamento del marchio, non del format.

Il Comune, dal canto suo, ha difeso la convenzione come immodificabile, sottolineando la necessità di un legame tra organizzazione e trasmissione televisiva. Questa posizione non ha convinto i giudici, che hanno ritenuto possibile separare i due ruoli, come avveniva prima del 1991.

Festival di Sanremo: negata la qualifica di bene culturale

Il Tar ha escluso che il Festival, il marchio o il format possano essere qualificati come beni culturali ai sensi del Codice dei beni culturali. Si tratta di diritti immateriali e di una manifestazione circoscritta nel tempo e nello spazio, non assimilabile a espressioni di identità culturale collettiva.

Conseguenze sul Festival di Sanremo

Le edizioni 2024 e 2025 rimangono salve, poiché l’organizzazione è già in fase avanzata. Tuttavia, dal 2026, il Comune dovrà aprire una gara pubblica per assegnare la gestione del Festival. La RAI, quindi, potrebbe non essere più l’organizzatrice principale dell’evento. La sentenza segna un cambiamento epocale per il Festival di Sanremo. Dal 2026, nuovi operatori potranno concorrere per gestire l’evento, garantendo maggiore trasparenza e concorrenza. La competizione potrebbe portare a innovazioni significative nel panorama musicale e mediatico italiano.

 

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giurista risponde

Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

lecito dare cibo

Lecito dare cibo ai gatti randagi Illegittima l'ordinanza che vieta ai cittadini di dare cibo agli animali randagi. Vanno però rimossi i contenitori utilizzati

Illegittimo divieto di sfamare randagi

Lecito dare cibo ai gatti randagi. Illegittima, dunque, l’ordinanza che vieta ai cittadini di somministrare alimenti a questi animali. Chi li sfama però deve utilizzare appositi contenitori e rimuoverli successivamente. La mancata rimozione costituisce abbandono di rifiuti e può essere sanzionata.Lo ha affermato il TAR Sicilia nella sentenza n. 3844/2024.

La vicenda

L’ordinanza contestata vietava indiscriminatamente la somministrazione di cibo ad animali vaganti, come cani e gatti, oltre ad altri animali selvatici. Una delle associazioni per la protezione degli animali ha impugnato il provvedimento, sottolineando che il divieto contrasta con le normative nazionali e regionali per la tutela degli animali d’affezione. Secondo l’associazione, la misura era eccessiva, priva di fondamento logico e in contrasto con il principio di protezione degli animali sancito dalla legge.

Crudele esporre i randagi alla fame

Il TAR ha sottolineato che il randagismo è un problema sociale da affrontare con umanità e rispetto per gli animali. Privare i randagi del cibo fornito da cittadini sensibili alle loro condizioni significa esporli alla fame e a comportamenti potenzialmente pericolosi, come rovistare nei rifiuti o diventare aggressivi per sopravvivere. Questo approccio, secondo il giudice amministrativo, risulta crudele e contrario alla legge.

Inoltre, nessuna norma vieta di alimentare animali randagi nei luoghi dove trovano rifugio. Al contrario, la legge quadro nazionale del 1991 promuove la tutela degli animali d’affezione e condanna ogni atto di crudeltà, maltrattamento o abbandono. Questi principi mirano a favorire una convivenza equilibrata tra esseri umani e animali, tutelando anche la salute pubblica e l’ambiente.

Ordinanza illegittima e ingiustificata

Il TAR ha anche evidenziato l’assenza di ragioni straordinarie che potessero giustificare l’adozione dell’ordinanza. Non sono emerse situazioni di emergenza igienico-sanitaria o pericoli per la pubblica incolumità tali da richiedere un intervento straordinario. Secondo il giudice, le circostanze citate erano fisiologiche e prevedibili. Inoltre, con le dovute precauzioni, non rappresentavano un rischio immediato per l’igiene pubblica.

La sentenza ribadisce quindi che è possibile alimentare i randagi, ma occorre rispettare alcune regole. Gli alimenti devono essere posti in contenitori idonei, che devono poi essere rimossi per evitare la dispersione di rifiuti. La mancata osservanza di questo obbligo può essere sanzionata, poiché si configura come abbandono di rifiuti. Il TAR in questo modo afferma i principi di tutela degli animali sanciti dalla legge. Cani e gatti randagi non possono essere lasciati morire di fame o essere abbandonati a sé stessi. Le autorità devono promuovere soluzioni rispettose e conformi alle normative vigenti, evitando misure che ignorano il benessere degli animali e i diritti dei cittadini.Occorre quindi un approccio equilibrato e responsabile nella gestione del randagismo, in linea sia con il quadro normativo italiano che con il senso civico.

 

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demolizione ricostruzione

Demolizione, ricostruzione e nuova opera: il Tar fa chiarezza Demolizione, ricostruzione e nuova opera si distinguono per l’entità delle modifiche apportate rispetto all’edificio preesistente demolito

Demolizione, ricostruzione e nuova opera

La ricostruzione dopo la demolizione si distingue dalla nuova opera in ragione dell’entità delle modifiche apportate. Si ha ricostruzione quando i volumi, l’altezza e la sagoma non subiscono variazione, si ha nuova opera, assoggettabile quindi alle regole della attività corrispondente, quando gli interventi vanno a modificare la sagoma, i volumi e le superfici. Il TAR delle Marche lo chiarisce nella sentenza n. 809/2024.

Contributo di costruzione se è nuova opera

Una S.R.L agisce nei confronti di un Comune per chiedere l’annullamento di una determina. Il provvedimento le richiede il pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di “costruzione” relativo a un permesso di costruire in sanatoria per la demolizione e ricostruzione di due fabbricati con cambio di destinazione d’uso. Le opere in effetti hanno dato vita a una nuova costruzione.

Durante i lavori di ristrutturazione da parte della società gli agenti della polizia municipale accertano infatti la difformità delle opere rispetto al permesso di costruire. Essi rilevano la quasi integrale demolizione del fabbricato B, atteso che ne sono rimasti conservati tronconi di muratura in misura non significativa rispetto alla sagoma originaria dell’edificio originario e tra l’altro non incluse nella nuova struttura ricostruita, contravvenendo alla prescrizione contenuta nel titolo rilasciato che ne prevedeva la conservazione al fine di ricondurre l’intervento proposto nell’ambito della ristrutturazione edilizia”.

Il tutto si è verificato in violazione dei limiti del titolo abilitativo e previsti per salvaguardare alcune porzioni di uno dei fabbricati.

Ricostruzione e nuova opera: differenze

Ai fini del decidere il TAR distingue lintervento di demolizione con successiva ricostruzione da quello con cui si realizza una nuova costruzione. A questo proposito lo stesso chiarisce che, dopo una demolizione, la distinzione tra ricostruzione e nuova costruzione si basa in particolare sul grado di variazione rispetto all’opera precedente.

Si parla quindi di ricostruzione quando l’intervento non  modifica il volume, la sagoma e l’altezza della costruzione precedente. L’edificio conserva in sostanza le caratteristiche fondamentali dell’edificio demolito.

Si realizza al contrario una nuova opera quando l’edificio viene demolito e al suo posto viene edificato un edificio nuovo e diverso, anche se parzialmente, rispetto a quello originario.

Il TAR ricorda che: Per costante giurisprudenza, non può essere ricompresa tra gli interventi di manutenzione straordinaria assoggettati a concessione gratuita una ristrutturazione c.d. pesante, se non addirittura una nuova costruzione, realizzata con la demolizione dell’edificio preesistente e l’edificazione di un organismo edilizio nuovo e diverso, almeno in parte, da quello originario; ne consegue che in questo caso il rilascio della concessione in sanatoria è correttamente sottoposto al pagamento dell’oblazione in misura pari al doppio del contributo di costruzione.”

 

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conciliazione obbligatoria

Conciliazione obbligatoria: stop per voli cancellati e ritardi Stop alla conciliazione obbligatoria in caso di voli cancellati o ritardi, i passeggeri potranno rivolgersi subito al giudice

Addio conciliazione obbligatoria per ritardi e voli cancellati

Il tentativo di conciliazione obbligatoria previsto per i passeggeri aerei, vittime di ritardi e voli cancellati non sarà più vincolante. In presenza di questi inadempimenti i passeggeri potranno rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria. Lo ha deciso il TAR Piemonte nella sentenza n. 1093-2024, annullando la delibera dell’Autorità di regolazione dei trasporti n. 21/2023 nella parte in cui prevede l’obbligo del tentativo di conciliazione prima di ricorrere in giudizio. Procedura che, come sostenuto anche dal ricorrente, aggrava le spese e causa un’inutile perdita di tempo.

Volo cancellato:  richiesta compensazione e rimborso spese

Un privato ricorre al TAR Piemonte, facendo presente che in data 18 febbraio 2023 lo stesso, lavorando a Verona, avrebbe dovuto raggiungere la sua famiglia, residente a Lucera, in provincia di Foggia.

Per arrivare rapidamente dal suo nucleo familiare l’uomo aveva prenotato un volo che gli avrebbe consentito di arrivare a destinazione entro la mattinata.

Pochi minuti prima del decollo però il ricorrente veniva a sapere che il suo volo era stato cancellato. L’uomo, dopo avere trovato in autonomia un mezzo di trasporto su strada, raggiungeva la famiglia in serata.

Il mese successivo l’uomo inviava un reclamo al vettore aereo, chiedendo la compensazione pecuniaria forfettaria di 250,00 euro (regolamento CE n. 261/2004 art. 7 par. 1, lett. a), il rimborso del biglietto aereo e il rimborso delle spese ulteriori sostenute. La Compagnia però non forniva alcun riscontro alle sue richieste.

La conciliazione aumenta i costi per il passeggero

Il ricorrente, che a questo punto avrebbe dovuto risolvere la controversia in via stragiudiziale, ne contesta l’obbligatorietà perché, a suo dire, il tentativo di conciliazione si risolve in un inutile perdita di tempo e in un aggravio di spese. Per il ricorrente la procedura conciliativa preventiva e obbligatoria impedisce infatti di ricorrere immediatamente in giudizio per far valere le proprie ragioni.

Per tutti questi motivi il ricorrente chiede l’annullamento della delibera dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti dell’8 febbraio 2023, n. 21 (compreso l’allegato A e tutti gli atti presupposti) perché impone la conciliazione obbligatoria preventiva in presenza di una controversia tra gli operatori economici che gestiscono servizi di trasporto e gli utenti o consumatori.

Conciliazione obbligatoria: viola il diritto di agire in giudizio

Il TAR accoglie il ricorso perché fondato. In effetti, come rileva il Tribunale amministrativo, la procedura conciliativa preventiva e obbligatoria costituirebbe un inutile e ingiustificato aggravio, viste lirrinunciabilità dei diritti previsti dal Regolamento e la predeterminazione forfettaria dellimporto della compensazione. Inoltre, essa, impedendo al passeggero di rivolgersi immediatamente a un tribunale in caso di rigetto del reclamo o di esercitare una scelta tra rivolgersi ad un tribunale o ad un altro organismo competente, precluderebbe laccesso alla giustizia, ponendosi in contrasto con il Regolamento europeo e con i principi costituzionali in materia di diritto di azione (cfr. art. 24 Cost)”. 

Il TAR fa presente inoltre che il passeggero potrebbe scoraggiarsi e rinunciare a far valere i propri diritti perché la piattaforma per la conciliazione obbligatoria prevede un accesso digitale di cui non tutti dispongono e con il quale non tutti hanno dimestichezza. Il passeggero potrebbe sentirsi costretto a chiedere  assistenza a un legale, che dovrebbe comunque pagare e a cui dovrebbe anticipare le spese necessarie per avviare la procedura. Senza dimenticare i costi che tutti i passaggi (reclamo, conciliazione ed eventuale giudizio) comportano.

 

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giurista risponde

Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione Costituisce materia di giurisdizione esclusiva il risarcimento del danno ingiusto?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, il risarcimento del danno ingiusto non costituisce una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore ( T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 3 giugno 2024, n. 3528).

È opportuno precisare che in tema di riparto della giurisdizione, l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva, ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.

Pertanto, la domanda risarcitoria proposta nei confronti dell’amministrazione per i danni subiti dal privato, che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo, rientra nella giurisdizione ordinaria, non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimo pretensivo del danneggiato.

Ed invero, la situazione giuridica, la cui lesione costituisce la causa della pretesa del privato di vedersi risarciti i danni causati dall’annullamento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, non è l’interesse legittimo alla conservazione del bene della vita acquisito con tale provvedimento, bensì l’affidamento incolpevole dal medesimo riposto nella legittimità di tale provvedimento.
Sul punto la giurisprudenza della Cote di Cassazione (Cass., Sez. Un., ord. 24 aprile 2023, n. 10880; Id., 6 febbraio 2023, n. 3514; Id., ord. 24 gennaio 2023, n. 2175, Id., ord. 29 aprile 2022, n. 13595; Id., 11 maggio 2021, n. 12428; Id., 8 luglio 2020, n. 14231) ha specificato che in relazione agli interessi legittimi pretensivi, infatti, l’interesse del privato all’ampliamento della propria sfera giuridica è soddisfatto quando l’amministrazione, all’esito del procedimento, emani il provvedimento che produce l’effetto positivo, senza che rilevi, dal punto di vista del medesimo privato, se tale emanazione sia legittima o illegittima; al privato interessa soltanto di poter vedere ampliata la propria sfera giuridica, cioè acquisire un bene della vita.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha dichiarato il difetto di giurisdizione, in relazione ad una richiesta di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della condotta dell’ente che aveva dapprima autorizzato lo svolgimento dell’attività degli indicati locali e, successivamente, rilevato l’assenza dei presupposti per il rilascio della necessaria autorizzazione unica ambientale.

Contributo in tema di “Risarcimento del danno ingiusto e giurisdizione”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

avvocati pubblici e badge

Avvocati pubblici: il badge non lede l’autonomia Il Consiglio di Stato chiarisce che l'obbligo di utilizzo del badge da parte degli avvocati degli enti pubblici non ne lede l'autonomia professionale

Avvocati pubblici e badge

Avvocati pubblici e badge: il rapporto di lavoro subordinato tra gli avvocati e la Regione permette che gli stessi siano assoggettati al meccanismo di rilevazione automatica delle presenze, senza che ne venga intaccata l’indipendenza. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 5878/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tar accoglieva il ricorso di alcuni avvocati in servizio presso l’ufficio legale della Regione. Gli stessi avevano fatto ricorso contro la circolare che aveva esteso il meccanismo della rilevazione automatica delle presenze indistintamente a tutto il personale dipendente.
Gli avvocati ritenevano che l’obbligo di utilizzo del badge fosse incompatibile con l’indipendenza e l’autonomia professionale proprie della qualifica di avvocato della Regione.

La Regione Campania impugnava la sentenza innanzi a Palazzo Spada ritenendo che “l’autonomia professionale degli avvocati non è intaccata dalla rilevazione delle presenze che non incide sulle modalità con cui svolgono il proprio lavoro professionale”.

Il badge non lede l’autonomia degli avvocati

Il Consiglio di Stato ritene l’appello fondato.

“Non vi è dubbio che l’avvocatura degli enti pubblici costituisce un’entità organica autonoma nell’ambito della struttura disegnata dalla sua pianta organica a salvaguardia delle prerogative di libertà nel patrocinio dell’amministrazione che si caratterizza per l’assenza di ingerenza nelle modalità di esercizio della professione – affermano infatti i giudici amministrativi – ma resta pur sempre un dato normativo ineludibile cioè l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato nel caso di specie con la Regione”.

Ed allora, “fermo restando che tutte le attività esterne presso uffici giudiziari saranno riscontrate dall’Amministrazione attraverso le autodichiarazioni che gli avvocati presenteranno a tempo debito, in occasione della loro presenza presso gli uffici comunali non vi è alcuna ragione per cui non timbrino all’ingresso ed all’uscita. Tale modalità di controllo non lede in alcun modo la libertà di patrocinio ma è la conseguenza che, seppur con la particolarità prima ricordata, sono comunque dipendenti pubblici, e come tali soggetti al controllo del datore di lavoro”.

La giurisprudenza del CDS

Del resto, medesima conclusione era stata già affermata dal Consiglio di Stato con alcune sentenze, come la n. 5538/2018 e la n. 2434/2026. Quest’ultima sul punto afferma “con tali provvedimenti non si realizza un’ingerenza gerarchica nell’esercizio intrinseco della prestazione d’opera intellettuale propria della professione forense, e cioè «nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente», ai sensi dell’art. 23 l. n. 247 del 2012, ma si sottopone l’attività a forme di controllo estrinseco, doverose e coerenti con la partecipazione dell’ufficio dell’avvocato dell’ente pubblico all’organizzazione amministrativa dell’ente stesso. L’art. 23 riferisce «la piena indipendenza ed autonomia» soltanto a questa «trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente» e non trasforma affatto, ex lege, l’inerente ufficio in un organo distinto e comunque autonomo dal resto dell’ente locale. Non si ravvisa qui dunque alcuna incompatibilità con le caratteristiche di autonomia nella conduzione professionale dell’ufficio di avvocatura”.

La decisione

Da qui l’accoglimento dell’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, il respingimento del ricorso di primo grado.