domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.

cambio destinazione d'uso

Cambio destinazione d’uso: serve parere Consiglio comunale Per la Consulta, è incostituzionale la norma del Lazio che consente trasformazioni edilizie con cambio di destinazione d'uso senza il parere del Consiglio comunale

Cambio destinazione d’uso

Cambio destinazione d’uso senza il preventivo parere del Consiglio comunale: con la sentenza n. 51/2025, la Consulta ha annullato per illegittimità costituzionale l’articolo 4, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 7/2017.

La disposizione impugnata consentiva, in via transitoria, l’esecuzione di interventi edilizi con cambio della destinazione d’uso anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali, senza il coinvolgimento del Consiglio comunale, organo titolare delle scelte di pianificazione territoriale.

Violazione competenze urbanistiche comunali

Secondo la Corte, tale previsione comprime ingiustificatamente la potestà pianificatoria dei Comuni, poiché consente modifiche rilevanti del territorio senza l’approvazione dell’organo rappresentativo locale. Ciò risulta in contrasto con i principi costituzionali che regolano l’autonomia amministrativa e normativa degli enti locali (articoli 5 e 114 della Costituzione).

In particolare, l’esclusione del Consiglio comunale da scelte che incidono su:

  • la destinazione funzionale delle aree urbane,

  • il carico urbanistico complessivo,

  • la distribuzione degli insediamenti abitativi e produttivi,

può determinare effetti negativi sull’equilibrio urbanistico del territorio, soprattutto quando vengono compromesse aree a destinazione pubblica o sociale.

Rigenerazione urbana richiede visione integrata

La Consulta ha evidenziato come l’obiettivo di rigenerazione urbana debba essere interpretato in chiave integrata, tenendo conto non solo degli aspetti edilizi, ma anche dei risvolti sociali, economici e ambientali. Interventi trasformativi che alterano profondamente l’assetto urbano non possono prescindere dalla deliberazione consiliare, che costituisce espressione della sovranità territoriale dell’ente locale.

adozione del maggiorenne

Adozione del maggiorenne: il cognome non si cambia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di sostituire il cognome dell’adottato maggiorenne con quello dell’adottante, tutelando il diritto all’identità personale e garantendo coerenza con il sistema normativo

Adozione del maggiorenne e cambio cognome

Adozione del maggiorenne: il cognome dell’adottato non può essere sostituito con quello dell’adottante. Con la sentenza n. 53 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 299, primo comma, del codice civile, che disciplina gli effetti dell’adozione nei confronti dei soggetti maggiorenni. Secondo la Consulta, non viola gli articoli 2 e 3 della Costituzione la norma che consente l’aggiunta o l’anteposizione, ma non la sostituzione del cognome dell’adottato con quello dell’adottante, anche qualora vi sia il consenso di entrambi.

Cognome e identità personale

La Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia, sentenza n. 135/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità della norma nella parte in cui non permetteva di aggiungere (anziché soltanto anteporre) il cognome dell’adottante a quello del maggiorenne adottato, qualora entrambi avessero espresso consenso in tal senso. Tale modifica era finalizzata a tutelare il diritto all’identità personale, che si sviluppa anche attraverso la continuità del cognome originario.

Di contro, una sostituzione integrale del cognome rappresenterebbe un’eliminazione di un elemento identitario consolidato, che ha accompagnato l’individuo per almeno diciotto anni. Una tale possibilità, secondo la Corte, potrebbe inoltre esporre l’adottato a condizionamenti indebiti, soprattutto in considerazione dei vantaggi patrimoniali che derivano dall’adozione in età adulta, in particolare in ambito successorio.

Nessuna disparità irragionevole con l’adozione

La Consulta ha escluso che vi sia una disparità di trattamento tra l’adozione del maggiorenne e l’adozione legittimante del minore. Le due ipotesi, pur potendo presentare analogie in casi specifici (ad esempio quando l’adottante è stato in passato affidatario), rimangono ontologicamente distinte nella ratio e nella struttura normativa.

Cambio del cognome: già previsti strumenti adeguati

La Corte ha infine evidenziato che, in presenza di specifiche ragioni personali, l’adottato maggiorenne può comunque ricorrere alla procedura di cambiamento del cognome prevista dall’art. 89, comma 1, del d.P.R. n. 396/2000. Tale norma consente a chiunque vi abbia interesse di presentare apposita istanza al prefetto, illustrando i motivi alla base della richiesta, anche laddove il cognome sia ritenuto lesivo della propria identità o rivelatore dell’origine naturale.

affettività in carcere

Affettività in carcere: le linee guida Affettività in carcere: dopo la pronuncia della Consulta arrivano le linee guida che riconoscono ai detenuti il diritto all'intimità

Affettività in carcere: linee guida post Consulta

Sull’affettività in carcere arrivano le linee guida sottoscritte dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Lina Di Domenico.

Il documento recepisce le indicazioni della Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 10/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.”

Linee guida affettività in carcere: cosa prevedono

Le linee guida, alla luce di quanto sancito dalla Consulta, prevedono che i colloqui intimi saranno consentiti, a meno che non ci sia incompatibilità con l’assenza di un controllo visivo.

Il numero dei colloqui sarà il medesimo di quelli di cui i detenuti e gli internati fruiscono già mensilmente e la durata massima sarà di due ore.

Le amministrazioni penitenziarie dovranno individuare locali da destinare a questi colloqui, che siano in grado di garantire una certa riservatezza. Da preferire le aree vicino all’ingresso dell’istituto, ma la direzione può consentire lo svolgimento dei colloqui in locali distinti.

La stanza destinata ai colloqui intimi sarà arredata con un letto e servizi igienici. La stessa però non potrà essere chiusa dall’interno e sarà sorvegliata soltanto esternamente dalla Polizia penitenziaria equipaggiata per il controllo dei detenuti e dei soggetti ammessi ai colloqui intimi e all’ispezione della stanza prima e dopo l’incontro.

Via preferenziale per i detenuti che non beneficiano di permessi premio o di altri benefici che consentano loro di coltivare rapporti affettivi all’esterno e detenuti e imputati che, a parità di condizioni, devono scontare pene più lunghe e si trovano in uno stato di privazione della libertà da più tempo.

Per quanto riguarda i soggetti ammessi ai colloqui le linee guida indicano il coniuge, la parte dell’unione civile e il convivente, dopo gli opportuni controlli documentali e la firma del consenso informato del soggetto in visita.

Soggetti esclusi e possibili limitazioni

Sono esclusi dai colloqui intimi i detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali come quelli previsti dall’artt. 41-bis O.P. e dall’art. 14-bis O.P.

Alle Direzioni il compito di individuare eventuali ragioni ostative per ragioni di sicurezza o per la necessità di mantenere l’ordine e la disciplina.

Colloqui intimi esclusi in ogni caso per i detenuti in isolamento sanitario. I colloqui infine potranno essere negati nelle ipotesi di detenzione, dal parte dell’internato, di sostanze stupefacenti, oggetti atti a offendere e cellulari e nei casi in cui il soggetto abbia manifestato un’indole violenta o tenuto condotte che potrebbero comportare rischi in sede di colloquio.

 

Leggi anche: Colloqui intimi in carcere: diritto non mera aspettativa

trattenimento dello straniero

Trattenimento dello straniero: più garanzie per i migranti Convalida del trattenimento dello straniero: la Consulta boccia il rito senza contraddittorio previsto dal d.l. n. 145/2024

Convalida del trattenimento dello straniero

Trattenimento dello straniero: con la sentenza n. 39 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 14, comma 6, del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998), come modificato dal decreto-legge n. 145/2024, nella parte in cui richiama il rito camerale semplificato previsto per il mandato d’arresto europeo consensuale.

Il Giudice delle leggi ha ritenuto la disposizione lesiva degli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella misura in cui nega alle parti la possibilità di partecipare all’udienza davanti alla Corte di cassazione nel giudizio sulla convalida del trattenimento dello straniero espulso o richiedente protezione internazionale.

La disciplina contestata

La norma impugnata prevedeva l’applicazione, anche al giudizio di legittimità sulla convalida del trattenimento, del procedimento camerale privo di contraddittorio previsto per il mandato d’arresto europeo consensuale (art. 22, comma 5-bis, quarto periodo, legge n. 69/2005). In base a tale schema, la Corte di cassazione decide in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, entro sette giorni dalla ricezione degli atti.

Violazione del diritto di difesa

Secondo la Consulta, l’estensione di tale procedura al trattenimento amministrativo è manifestamente irragionevole, in quanto i due istituti presentano natura, finalità e struttura profondamente differenti.

Nel mandato d’arresto europeo consensuale, l’interessato presta il proprio consenso alla consegna, limitando l’oggetto del giudizio. Di contro, nel procedimento relativo alla convalida del trattenimento, vi è un confronto dialettico tra le parti e possono emergere profili di illegittimità sostanziale della misura restrittiva.

La soluzione indicata dalla Corte

A garanzia del diritto al contraddittorio e alla difesa, la Corte ha individuato nella disciplina prevista per il mandato d’arresto europeo ordinario (art. 22, commi 3 e 4, legge n. 69/2005) la norma più idonea a colmare la lacuna determinata dalla dichiarazione di illegittimità.

Tale procedura, pur mantenendo caratteri di celerità e semplificazione, prevede la partecipazione delle parti all’udienza camerale, salvaguardando così il nucleo essenziale delle garanzie giurisdizionali.

L’intervento del legislatore

La Corte costituzionale ha sottolineato che la sostituzione normativa operata ha valore provvisorio, nell’attesa di un eventuale intervento legislativo che possa rimodulare la disciplina del giudizio di legittimità in materia di trattenimento dello straniero, purché nel rispetto dei principi costituzionali e, in particolare, del diritto al processo e alla partecipazione attiva delle parti.

terzo mandato

Divieto del terzo mandato: incostituzionale la legge campana Corte costituzionale: è illegittima la legge campana che consente il terzo mandato al presidente della Giunta regionale

Divieto del terzo mandato

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1 della legge della Regione Campania n. 16 del 2024, nella parte in cui consente al presidente uscente della Giunta regionale, già in carica per due mandati consecutivi, di candidarsi per un terzo mandato.

La norma impugnata prevedeva formalmente il divieto di immediata rieleggibilità per chi avesse già ricoperto la carica di presidente per due mandati consecutivi. Tuttavia, lo stesso articolo disponeva che il computo dei mandati avrebbe dovuto iniziare “dal mandato in corso alla data di entrata in vigore della presente legge”, neutralizzando così, di fatto, il limite dei due mandati consecutivi in vista della prossima consultazione elettorale.

La decisione

Secondo la Corte, tale previsione contrasta con l’art. 122, comma 1, della Costituzione, che demanda alle Regioni la disciplina delle condizioni di eleggibilità e incompatibilità “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”. Uno di tali principi è contenuto nella legge statale n. 165 del 2004, la quale introduce il limite dei due mandati consecutivi per i presidenti delle Regioni che abbiano optato, tramite i propri statuti, per l’elezione diretta del presidente della Giunta.

Il giudizio della Consulta riafferma, dunque, l’efficacia vincolante dei principi fondamentali stabiliti dalla legge statale per le Regioni a statuto ordinario in materia elettorale, garantendo uniformità e coerenza nell’ordinamento repubblicano.

vincoli esproprio

Vincoli esproprio: illegittima la durata decennale Vincoli esproprio: la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la durata decennale della legge della provincia autonoma di Bolzano

Vincoli esproprio: intervento della Consulta

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 37/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 61, comma 2, della legge provinciale di Bolzano 10 luglio 2018, n. 9 (Territorio e paesaggio), nella parte in cui prevede una durata di 10 anni per i vincoli preordinati all’esproprio, in contrasto con il termine quinquennale stabilito dalla normativa statale.

Illegittimità della norma provinciale

Secondo la Corte, la previsione di un periodo di franchigia decennale – ovvero il lasso di tempo in cui il vincolo espropriativo è efficace senza obbligo di indennizzo – rappresenta una compressione eccessiva e irragionevole del diritto di proprietà, in violazione degli articoli 3 e 42 della Costituzione.

In particolare, la disciplina statale di riferimento, contenuta nell’articolo 9, comma 2, del d.P.R. n. 327/2001 (Testo unico espropri), stabilisce in cinque anni la durata massima dei vincoli preordinati all’esproprio, in continuità con la legge n. 1187/1968.

Deroga solo per esigenze specifiche

Le regioni a statuto speciale e le province autonome, pur godendo di potestà legislativa esclusiva in materia urbanistica, possono prevedere deroghe alla normativa nazionale solo se giustificate da esigenze concrete e peculiari del territorio. Tuttavia, la norma impugnata si limita a introdurre un termine decennale in via generale, senza motivazioni specifiche legate al contesto locale.

La Corte ha ritenuto che questa scelta normativa sia irragionevole e sproporzionata, poiché crea una disparità evidente rispetto alla disciplina statale senza fornire un’adeguata giustificazione.

La durata quinquennale come punto di equilibrio

La sentenza ha inoltre evidenziato che il limite quinquennale previsto dalla normativa nazionale rappresenta un punto di equilibrio tra l’interesse pubblico alla pianificazione urbanistica e la tutela del diritto di proprietà dei cittadini. Pertanto, la Corte ha ritenuto che la normativa statale costituisca un parametro di riferimento costituzionalmente adeguato e applicabile anche nella Provincia autonoma di Bolzano, in sostituzione del termine decennale dichiarato illegittimo.

ore d'aria al 41-bis

Ore d’aria al 41-bis: limite di due ore illegittimo Ore d’aria nel regime 41-bis: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo il limite di due ore

Ore d’aria nel regime 41-bis

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 30/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera f), primo periodo, della legge sull’ordinamento penitenziario. In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui imponeva un limite massimo di due ore al giorno per la permanenza all’aperto dei detenuti in regime speciale.

Ore d’aria nel 41-bis: cosa cambia dopo la sentenza?

La decisione della Corte Costituzionale è nata da una questione sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, il quale non ha messo in discussione l’intero regime differenziato 41-bis, ma ha esaminato un aspetto specifico della normativa: il diritto dei detenuti a trascorrere tempo all’aperto.

Con questa pronuncia, la permanenza all’aria aperta per i detenuti in regime speciale – non sottoposti a sorveglianza particolare – torna a essere regolata dall’articolo 10 dell’ordinamento penitenziario, che prevede:
Un minimo di quattro ore al giorno all’aperto.
La possibilità di riduzione a due ore solo per giustificati motivi.

Un trattamento ingiustificato

La Corte ha sottolineato che nel regime 41-bis le ore d’aria vengono trascorse all’interno del gruppo di socialità, un piccolo gruppo di detenuti (massimo quattro persone), accuratamente selezionato dall’amministrazione penitenziaria. Pertanto, la riduzione delle ore di permanenza all’aperto non offre alcun vantaggio in termini di sicurezza, che è già garantita dalla separazione dei gruppi e dalle misure di controllo adottate.

La restrizione, invece, risulta irragionevole e lesiva del principio di umanità della pena, poiché limita in misura sproporzionata la possibilità per i detenuti di beneficiare di aria e luce naturale, senza apportare benefici concreti alla collettività.

Verso un trattamento più conforme ai diritti umani

Secondo la Corte, l’estensione del tempo all’aperto per i detenuti del 41-bis rappresenta un passo avanti nel rispetto della dignità umana, contribuendo a migliorare le condizioni di detenzione non solo in termini oggettivi, ma anche nella percezione dei detenuti.

reddito di cittadinanza

Reddito di cittadinanza: bastano 5 anni di residenza Reddito di cittadinanza: non è assistenza sociale, ma il requisito di residenza deve essere ridotto a cinque anni

Reddito di cittadinanza e requisito residenza

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 31/2025, ha chiarito che il reddito di cittadinanza (Rdc) – abrogato dal 1° gennaio 2024 – non può essere considerato una misura assistenziale, poiché non mira esclusivamente a soddisfare bisogni primari. Piuttosto, si tratta di una politica attiva per l’occupazione, caratterizzata da obblighi e condizionalità stringenti, il cui mancato rispetto comporta la perdita del beneficio.

Il reddito di cittadinanza non è assistenziale

Nella sua interpretazione costituzionalmente orientata, la Corte ha ribadito che il Rdc non rientra tra le prestazioni di puro sostegno economico, ma è finalizzato all’inclusione lavorativa e sociale. A tal proposito, la sentenza ha sottolineato che la recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 29 luglio 2024 (cause riunite C-112/22 e C-223/22) non pregiudica questa interpretazione, in quanto la CGUE si è limitata a valutare il diritto dell’Unione, senza sindacare la legittimità dell’interpretazione italiana del Rdc.

Requisito di residenza: da dieci a cinque anni

La questione principale esaminata dalla Corte riguardava la legittimità del requisito di residenza decennale per accedere al Reddito di Cittadinanza. Se da un lato un criterio di radicamento territoriale può essere giustificato per evitare discriminazioni indirette, la durata di dieci anni è stata ritenuta eccessiva e non proporzionata agli obiettivi della misura.

Diversamente da altre prestazioni assistenziali, come l’assegno sociale, che valorizza l’inserimento pregresso dello straniero nella società italiana, il Rdc ha un obiettivo futuro, mirato all’integrazione nel mercato del lavoro. Ridurre il requisito di residenza a cinque anni consente di mantenere un criterio di selezione equilibrato, evitando discriminazioni e rispettando il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

L’equilibrio con il diritto dell’Unione Europea

L’adeguamento del requisito di residenza a cinque anni permette anche di armonizzare la normativa italiana con la giurisprudenza europea. La Corte di Giustizia dell’UE, infatti, aveva ritenuto il requisito decennale discriminatorio nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, senza però esprimersi sul trattamento riservato ai cittadini dell’Unione Europea. La modifica evita quindi una discriminazione alla rovescia nei confronti di questi ultimi, garantendo un accesso equo alla misura.

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permesso di soggiorno

Permesso di soggiorno: stessa pena per uso documenti contraffatti Per la Consulta non è costituzionalmente illegittima la mancata previsione di una riduzione della pena per chi usa un documento falsificato da altri per ottenere il permesso di soggiorno

Documenti contraffatti per permesso di soggiorno

L’uso di documenti contraffatti per ottenere un permesso di soggiorno: la pena prevista dalla legge non è manifestamente sproporzionata. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale, chiamata a giudicare la legittimità del Testo Unico sull’immigrazione, nella parte in cui non prevede una riduzione della pena per chi si limiti a utilizzare un documento da altri falsificato per ottenere un documento di soggiorno.

La qlc

Con la sentenza n. 27/2025, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione sollevata da un GIP del Tribunale di Vicenza. Il processo principale concerneva un cittadino straniero che aveva presentato alla Questura un certificato di conoscenza della lingua italiana poi rivelatosi contraffatto, al fine di ottenere un permesso di lungo soggiorno per cittadini non appartenenti all’Unione europea.

In sede di giudizio abbreviato, il GIP aveva deciso di sospendere il processo e di chiedere alla Consulta se sia legittimo prevedere la pena della reclusione da uno a sei anni sia per chi materialmente abbia falsificato il documento, sia per chi si sia limitato a utilizzarlo.

Il GIP aveva in particolare rilevato che il codice penale, nel disciplinare in via generale i reati di falso, prevede una riduzione della pena per chi si sia limitato a fare uso di un documento da altri falsificato. Il diverso e più grave trattamento dell’uso del documento falso da parte dell’articolo 5, comma 8-bis, del testo unico sull’immigrazione violerebbe il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, con conseguente pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, stabilita dall’art. 27 della Costituzione.

La decisione

La Corte, tuttavia, ha ritenuto infondati i dubbi del GIP. Anzitutto, la Costituzione non vieta al legislatore di prevedere un trattamento sanzionatorio più severo, rispetto a quello stabilito per i comuni reati di falso, per i falsi in materia di immigrazione, i quali offendono l’interesse statale a una ordinata gestione dei flussi migratori.

In secondo luogo, la Corte ha osservato che la condotta consistente nel semplice uso del documento falsificato per ottenere un documento di soggiorno non deve essere necessariamente considerata meno grave della condotta di falsificazione del documento stesso. “Chi presenta un documento falso alla Questura per ottenere un permesso di soggiorno normalmente ha anche concorso nella sua falsificazione, fornendo all’autore materiale i propri dati identificativi. Inoltre, è proprio l’uso del documento a creare l’immediato rischio che venga rilasciato un documento di soggiorno in assenza dei requisiti di legge, mentre la falsificazione del documento costituisce soltanto un’attività preparatoria rispetto a questo scopo”.

La norma in esame, dunque, non viola né il principio di eguaglianza, né il principio di proporzionalità delle sanzioni penali, desunto dalla finalità rieducativa della pena.