recidiva semplice

Recidiva semplice: la Consulta limita aumento automatico pena Stop all’aumento automatico della pena per recidiva semplice. La Consulta dichiara incostituzionale l’art. 63 co. 3 c.p. in caso di concorso con attenuanti

Recidiva: l’intervento della Consulta

Con la sentenza n. 74 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 63, comma 3, del codice penale, nella parte in cui consente l’aumento obbligatorio di un terzo della pena in presenza di recidiva semplice e di un’altra circostanza aggravante autonoma o a effetto speciale.

Automatismo irragionevole

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tribunale di Firenze, in un procedimento per minaccia aggravata commessa con armi, dove all’imputato era stata contestata anche la recidiva semplice ai sensi dell’art. 99, primo comma, c.p. In base alla norma censurata, la pena – già aumentata per l’aggravante a effetto speciale – avrebbe dovuto essere automaticamente incrementata di un terzo per effetto della recidiva.

La Consulta ha invece affermato che tale automatismo viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione, evidenziando come l’aumento obbligatorio della pena, previsto per la recidiva semplice, risulti più gravoso rispetto alla disciplina più favorevole applicabile nei casi di recidiva aggravata o qualificata, che consente al giudice di aumentare la pena solo fino alla metà e in via facoltativa.

Le motivazioni della Corte costituzionale

Pur riconoscendo l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale e nella determinazione delle pene, la Corte ha ribadito che le norme sanzionatorie devono comunque essere sottoposte al controllo di legittimità costituzionale, specialmente quando incidono sulla libertà personale.

Secondo la Corte, la disciplina censurata determinava un trattamento sanzionatorio sproporzionato e non coerente con il disvalore effettivo della condotta. In particolare, si veniva a creare una irragionevole disparità: mentre in presenza di recidiva aggravata il giudice può decidere se aumentare la pena, nel caso di recidiva semplice tale aumento era obbligatorio, anche se la condotta non era più grave.

straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: la misura è amministrativa La Corte costituzionale chiarisce che l’espulsione dello straniero detenuto ha natura amministrativa e non trattamentale, escludendo automatismi e tutelando i soggetti vulnerabili

Espulsione straniero detenuto

Espulsione straniero detenuto: con la sentenza n. 73 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Palermo, confermando la natura amministrativa dell’espulsione disposta nei confronti di cittadini stranieri irregolari in stato di detenzione. La norma oggetto del giudizio è l’art. 16, comma 5, del D.lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione).

Espulsione anticipata non è alternativa alla detenzione

La Consulta ha chiarito che l’espulsione applicata durante l’esecuzione della pena – nei confronti di stranieri irregolari con pena residua inferiore a due anni per reati non gravi – non costituisce una misura trattamentale, né può essere assimilata alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario.

Si tratta, piuttosto, di un provvedimento amministrativo che anticipa l’espulsione già prevista a causa dell’irregolarità del soggiorno e che, comunque, sarebbe intervenuta al termine della pena detentiva.

Valutazione individuale e garanzie contro automatismi

La Corte ha escluso qualsiasi automatismo nell’applicazione di tale misura, sottolineando che il magistrato di sorveglianza è tenuto a valutare caso per caso, operando un bilanciamento tra l’interesse pubblico all’espulsione e le condizioni personali e familiari del soggetto. Restano salvi, in ogni caso, i divieti di espulsione previsti per situazioni di vulnerabilità oggettiva o soggettiva, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 286/1998, cui rinvia espressamente anche l’art. 16, comma 9, dello stesso testo unico.

divieto di costruire

Legittimo il divieto di costruire a 150 m dalla battigia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di costruire entro 150 metri dalla battigia anche per i privati, rigettando le questioni di incostituzionalità sollevate

Divieto di costruire a 150 metri dalla battigia

Divieto di costruire: con la sentenza n. 72 del 2025, la Corte costituzionale ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (CGARS) in merito all’art. 2, comma 3, della legge regionale siciliana n. 15/1991. Tale norma conferma che il divieto di edificazione entro 150 metri dalla battigia – introdotto dalla l.r. n. 78/1976 – si applica immediatamente anche ai soggetti privati, senza necessità di recepimento nei piani urbanistici comunali.

Edilizia e vincoli costieri

Al centro della pronuncia vi erano ricorsi relativi al diniego di condoni edilizi per opere abusive realizzate entro la fascia di rispetto costiero tra il 31 dicembre 1976 e il 1° ottobre 1983, periodo precedente alla scadenza prevista per accedere al condono edilizio introdotto dalla l.r. n. 37/1985.

La Consulta ha ritenuto che la legge del 1991 operi come interpretazione autentica della norma del 1976, precisando un significato già implicito, ovvero che il vincolo costiero era operativo sin dall’origine anche nei confronti dei privati, non solo come parametro urbanistico.

Nessun legittimo affidamento sul condono edilizio

Rispondendo ai rilievi del CGARS, la Corte ha inoltre escluso che i proprietari di immobili abusivi potessero vantare un affidamento legittimo sulla possibilità di sanatoria, in quanto le norme regionali succedutesi tra il 1976 e il 1985 non supportavano alcuna certezza normativa in tal senso. La normativa sul condono non legittimava infatti aspettative contrarie al divieto costiero già vigente.

procedimento disciplinare

Avvocati: ok cancellazione durante il procedimento disciplinare La Consulta dichiara incostituzionale il divieto di cancellazione dall'albo degli avvocati durante il procedimento disciplinare

Cancellazione avvocati procedimento disciplinare

Con la sentenza n. 70 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nella legge professionale forense che vieta all’avvocato sottoposto a procedimento disciplinare di richiedere la cancellazione dall’albo professionale.

Libertà professionale e autodeterminazione

La questione è sorta nell’ambito di un giudizio dinanzi alle Sezioni unite della Cassazione, relativo al rigetto da parte del Consiglio dell’Ordine dell’istanza di cancellazione presentata da un avvocato affetto da gravi patologie, per via della pendenza di più procedimenti disciplinari a suo carico.

La Corte ha chiarito che il divieto di cancellazione, pur finalizzato a impedire che la rinuncia all’iscrizione possa neutralizzare l’efficacia dell’azione disciplinare, comprime in modo eccessivo diritti costituzionali fondamentali:

  • la libertà di autodeterminazione (art. 2 Cost.),

  • il diritto al lavoro e alla sua cessazione o trasformazione (art. 4 Cost.),

  • e il principio di proporzionalità (art. 3 Cost.).

In particolare, la norma ostacola la possibilità di accedere a prestazioni previdenziali o assistenziali che richiedono la cancellazione, e limita la libertà di avviare una diversa attività lavorativa non compatibile con la permanenza nell’albo.

Nessuna giustificazione per la compressione dei diritti

La Consulta ha ritenuto che, pur essendo legittimo l’obiettivo di garantire l’azione disciplinare, questo può essere perseguito attraverso strumenti meno invasivi. L’attuale disposizione non è la misura meno restrittiva dei diritti fondamentali e, pertanto, viola il principio di ragionevolezza e proporzionalità.

Effetti della pronuncia e ruolo del legislatore

La sentenza chiarisce che, in assenza di una disciplina sostitutiva, la cancellazione volontaria in pendenza di procedimento determina l’estinzione dello stesso. Tuttavia, l’azione disciplinare potrà essere riattivata in caso di richiesta di reiscrizione, purché non prescritta.

La Corte invita infine il legislatore a intervenire con una nuova norma che, pur salvaguardando l’efficacia dell’azione disciplinare, rispetti i diritti fondamentali dell’avvocato in linea con i parametri costituzionali.

pma e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: ok della Consulta La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere il figlio nato in Italia da PMA effettuata all’estero, tutelando l’identità e i diritti del minore

PMA e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: con la sentenza n. 68 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004, nella parte in cui non consente alla madre intenzionale – ossia alla donna che ha prestato preventivo consenso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero insieme alla madre biologica – di essere riconosciuta come genitore del minore nato in Italia.

Tutela interesse del minore e responsabilità genitoriale

Secondo la Corte, il mancato riconoscimento legale della genitorialità della madre intenzionale, nel caso di PMA praticata all’estero nel rispetto delle normative locali, viola diversi principi costituzionali, in particolare:

  • Art. 2 Cost., per la lesione del diritto all’identità personale del minore e alla certezza del proprio stato giuridico sin dalla nascita;

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevolezza della discriminazione rispetto ad altri nati da PMA e l’assenza di un controinteresse costituzionalmente rilevante;

  • Art. 30 Cost., per la lesione dei diritti del figlio ad essere riconosciuto e tutelato nei confronti di entrambi i genitori che hanno condiviso il progetto genitoriale.

La Consulta ha chiarito che la questione non attiene alle condizioni di accesso alla PMA in Italia, ma alla conseguenza giuridica derivante dal consenso consapevole prestato dalla coppia al ricorso a tecniche riproduttive fuori dal territorio nazionale.

L’interesse del minore come criterio guida

La Corte ha fondato la propria pronuncia su due capisaldi:

  1. L’impegno genitoriale condiviso che deriva dalla scelta comune di ricorrere alla PMA;

  2. La centralità dell’interesse del minore a veder riconosciuti i propri diritti nei confronti di entrambi i genitori, inclusa la madre intenzionale, a partire dalla nascita.

La negazione di tale riconoscimento, ha aggiunto la Corte, compromette il pieno esercizio del diritto del minore a essere educato, istruito e assistito moralmente da entrambi i genitori e a mantenere rapporti significativi anche con gli altri componenti delle rispettive famiglie d’origine.

PMA

PMA vietata alle donne single PMA e donne single: la Corte costituzionale conferma la legittimità della limitazione prevista dalla legge 40/2004

PMA e donne single

Con la sentenza n. 69 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 5 della legge n. 40/2004, nella parte in cui esclude l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) da parte della donna singola. Secondo la Consulta, tale previsione legislativa, pur comportando una restrizione al principio di autodeterminazione procreativa, non è manifestamente irragionevole né sproporzionata.

Bilanciamento tra autodeterminazione e tutela

La Corte ha osservato che la disciplina dell’accesso alla PMA implica delicate valutazioni etiche e rilevanti conseguenze sociali, che rientrano nella sfera della discrezionalità legislativa. Tale discrezionalità incontra come unico limite costituzionale il principio di non manifesta irragionevolezza, valutato in rapporto al bilanciamento degli interessi in gioco.

Nel caso specifico, il divieto di accesso alla PMA per le donne non coniugate o non conviventi con un partner maschile si fonda, secondo la Corte, su un principio di precauzione volto a tutelare i diritti e gli interessi del nascituro. Il legislatore ha ritenuto di non legittimare un progetto genitoriale che escluda, sin dall’origine, la presenza paterna, configurando questa scelta come una forma di protezione dell’equilibrio psicofisico del futuro minore.

Apertura a un possibile intervento normativo

Pur ritenendo non fondate le censure di incostituzionalità, la Consulta ha sottolineato che non sussistono preclusioni costituzionali a un’eventuale riforma legislativa che estenda l’accesso alla PMA anche alla famiglia monoparentale. Un’eventuale revisione in tal senso spetterebbe però esclusivamente al Parlamento, nell’esercizio delle proprie prerogative e responsabilità.

suicidio assistito

Suicidio assistito: legittimo il sostegno vitale Suicidio assistito: la Corte costituzionale conferma la legittimità del requisito del trattamento di sostegno vitale

Suicidio assistito: nuovo intervento della Consulta

Suicidio assistito: con la sentenza n. 66 del 2025, la Corte costituzionale ha confermato la non contrarietà alla Costituzione della previsione normativa che subordina la non punibilità dell’aiuto al suicidio alla condizione che la persona malata necessiti, secondo valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale. La pronuncia rigetta le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Milano in relazione all’art. 580 c.p., in un procedimento avviato a seguito della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero.

Sostegno vitale come criterio non discriminatorio

La Consulta, richiamando i principi già affermati nella sentenza n. 135 del 2024, chiarisce che il requisito del trattamento di sostegno vitale si considera soddisfatto quando, in base all’indicazione clinica, tale trattamento è necessario per garantire le funzioni vitali del paziente. È sufficiente che, in assenza del trattamento, la morte risulti prevedibile in un arco temporale ristretto. Non è invece richiesta la previa attivazione del trattamento al solo fine di accedere al suicidio assistito.

Non viola la Costituzione il limite salvavita

La Corte ha escluso che tale condizione integri una forma di discriminazione o rappresenti una violazione del diritto all’autodeterminazione. Ha inoltre ribadito che, pur potendo il legislatore adottare scelte differenti, queste dovrebbero essere accompagnate da idonee garanzie contro possibili abusi. Allo Stato deve essere riconosciuto un ampio margine di discrezionalità legislativa nel bilanciamento tra la tutela della vita (art. 2 Cost.) e il diritto all’autonomia personale, intesa come espressione del più ampio diritto allo sviluppo della personalità.

Garanzie procedurali essenziali e ruolo del legislatore

La Corte ha ribadito l’importanza delle condizioni sostanziali e procedurali, già individuate con la sentenza n. 242 del 2019, sottolineando la loro funzione nel prevenire abusi e nel tutelare soggetti vulnerabili. Tali requisiti costituiscono un argine anche rispetto a potenziali derive culturali che possano indurre persone malate a optare per il suicidio in assenza di un adeguato sostegno sociale e sanitario.

Criticità del sistema di cure palliative

Nel testo della pronuncia emerge inoltre un chiaro richiamo al dovere della Repubblica di garantire l’accesso effettivo a cure palliative e assistenza sociosanitaria domiciliare continuativa, poiché l’assenza di tali servizi incide significativamente sulle scelte delle persone affette da gravi patologie. La Corte ha segnalato con preoccupazione le criticità sistemiche: carenza di personale specializzato, disparità territoriali, lunghi tempi d’attesa e una presa in carico spesso inadeguata.

Infine, viene nuovamente sollecitato il Parlamento e il Servizio sanitario nazionale affinché provvedano alla puntuale attuazione della sentenza n. 242 del 2019, anche attraverso l’elaborazione di una disciplina normativa alternativa che, pur nel rispetto delle indicazioni costituzionali, possa fornire una risposta compiuta e uniforme alla tematica del fine vita.

Divieto del terzo mandato

Divieto del terzo mandato: i limiti della Consulta Corte costituzionale: il divieto del terzo mandato consecutivo per i Presidenti di Regione è un principio fondamentale

Divieto del terzo mandato consecutivo

Con la sentenza n. 64 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1 della legge regionale della Campania n. 16 del 2024, ribadendo che il divieto di un terzo mandato consecutivo per i Presidenti delle Giunte regionali costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento. Tale principio vincola le Regioni a statuto ordinario sin dalle prime leggi elettorali adottate dopo l’entrata in vigore della legge n. 165 del 2004.

Il divieto del terzo mandato: un limite necessario

Secondo la Consulta, il divieto in questione rappresenta un “temperamento di sistema” che bilancia l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale, fungendo da contrappeso costituzionalmente legittimo. Non si tratta di una limitazione alla forma di governo – riservata agli statuti regionali ai sensi dell’art. 123 Cost. – bensì di una norma di carattere elettorale, che incide sul diritto di elettorato passivo e rientra nella competenza statale quale principio fondamentale previsto dall’art. 122, primo comma, della Costituzione.

Obbligatorietà principio anche senza recepimento

La Corte ha chiarito che un principio fondamentale, in quanto tale, si applica direttamente e non necessita di recepimento esplicito da parte del legislatore regionale. Ciò vale anche per norme puntuali e specifiche come il divieto del terzo mandato consecutivo, che vincola automaticamente le Regioni sin dal momento in cui queste adottano leggi elettorali coerenti con l’elezione diretta del Presidente.

Il caso Campania: illegittima la deroga

Nel caso della Regione Campania, il divieto è divenuto pienamente operativo con l’entrata in vigore della legge regionale n. 4 del 2009, che, pur non esprimendosi esplicitamente in merito, rinvia in via generale alla normativa statale. La norma impugnata – che escludeva dal computo i due mandati già svolti dal Presidente in carica, permettendone una nuova candidatura – è stata ritenuta incostituzionale, poiché viola il principio fondamentale del limite ai mandati consecutivi, così come delineato dal legislatore statale.

Irrilevante l’inerzia su analoghe leggi regionali

Infine, la Corte ha chiarito che l’eventuale mancata impugnazione di disposizioni simili adottate da altre Regioni non influisce sulla valutazione di costituzionalità. L’illegittimità può infatti essere fatta valere anche in via incidentale, nei modi previsti dall’ordinamento.

abuso d'ufficio

Abuso d’ufficio: l’abrogazione non è incostituzionale La Consulta all'esito dell'udienza pubblica ha ritenuto che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non è incostituzionale

Abrogazione reato di abuso d’ufficio

Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 7 maggio 2025, la Consulta ha esaminato in camera di consiglio le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione, sull’abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale ad opera della legge numero 114 del 2024.

Convenzione di Merida

La Corte, si legge nel comunicato stampa ufficiale, ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).

Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso di ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale.

La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane.

 

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addizionale provinciale

Addizionale provinciale energia elettrica: incostituzionale La Consulta dichiara illegittima costituzionalmente l'addizionale provinciale sull'energia elettrica

Addizionale provinciale sull’energia elettrica

Con la sentenza n. 43 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’addizionale provinciale all’accisa sull’energia elettrica, già abrogata nel 2012. La norma istitutiva, infatti, è stata ritenuta in contrasto con i principi del diritto dell’Unione europea, in quanto priva di una finalità specifica e trasparente per l’utilizzo del gettito.

Mancanza di finalità specifica: contrasto con UE

Secondo la Consulta, la destinazione generica del tributo “in favore delle province” non soddisfa il requisito della finalità specifica, come richiesto dalle direttive comunitarie in materia di imposizione indiretta. Tale orientamento è coerente con la giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 27101/2019 e ordinanza n. 24373/2024), che aveva già evidenziato la natura meramente generica della destinazione delle somme, ritenendola assimilabile a una finalità di bilancio ordinaria.

Rilevanza sentenza Corte UE nel caso C-316/22

Nell’esaminare la questione, la Corte costituzionale ha tenuto conto anche della recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea dell’11 aprile 2024 (causa C-316/22, Gabel industria tessile spa e Canavesi spa). In tale decisione, la CGUE ha ribadito che, in una controversia tra privati, il giudice nazionale non può disapplicare direttamente una norma nazionale in contrasto con una direttiva. Tuttavia, ha riconosciuto il diritto del cliente del servizio di fornitura di energia elettrica di agire direttamente nei confronti dello Stato, quando non sia giuridicamente possibile agire contro il fornitore.