Vaccino anti-hpv

Vaccino anti-HPV: la Consulta legittima la legge della Puglia Per la Corte, la legge della Puglia sul vaccino anti-papilloma virus non viola la Costituzione

Vaccino anti-HPV e percorsi scolastici

Vaccino anti-HPV: con la sentenza n. 48 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’articolo 1 della legge della Regione Puglia n. 22/2024, che ha introdotto l’articolo 4-bis nella legge regionale n. 1/2024. Tale disposizione stabilisce che, per accedere ai percorsi formativi nella fascia 11-25 anni, inclusi quelli universitari, è necessario presentare una delle seguenti documentazioni alternative:

  • Attestazione della somministrazione del vaccino contro il Papilloma Virus Umano (HPV);

  • Certificazione dell’avvio del programma vaccinale;

  • Dichiarazione di rifiuto della vaccinazione;

  • Partecipazione a un colloquio informativo sui benefici del vaccino;

  • In alternativa, è possibile esprimere un “formale rifiuto” di produrre qualsiasi documento.

La Consulta conferma la legittimità della norma

Il ricorso era stato presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, che contestava la norma regionale per presunta violazione della competenza statale esclusiva in materia di “norme generali sull’istruzione” e di livelli essenziali delle prestazioni (LEP) relativi ai diritti civili e sociali, in base all’articolo 117, secondo comma, lettere n) ed m) della Costituzione.

Venivano inoltre richiamati presunti contrasti con:

  • Gli articoli 3 e 34 della Costituzione (principio di uguaglianza e diritto all’istruzione);

  • L’articolo 117, primo comma, in relazione all’articolo 9 del Regolamento UE 2016/679 (GDPR), per il trattamento dei dati personali sanitari.

La Corte ha però dichiarato inammissibile la questione relativa ai LEP per insufficienza della motivazione, e ha ritenuto non fondate le altre censure.

Promuovere la consapevolezza vaccinale

La Consulta ha riconosciuto la legittimità della legge regionale pugliese in quanto esercizio coerente delle competenze concorrenti in materia di tutela della salute e istruzione, previste dalla Costituzione. Il provvedimento non introduce un obbligo vaccinale vero e proprio, ma mira a promuovere la vaccinazione anti-HPV o, almeno, a favorire una scelta informata da parte degli studenti e delle famiglie.

L’obiettivo è quello di stimolare la riflessione consapevole, senza imporre in modo coercitivo la presentazione di attestati sanitari. Viene, infatti, espressamente prevista la possibilità di rifiutare formalmente la produzione di qualsiasi documentazione, salvaguardando così il diritto all’istruzione e il rispetto della libertà individuale.

La decisione

La Corte costituzionale ha confermato, dunque, che la normativa regionale che prevede, ai fini dell’iscrizione ai percorsi di istruzione per i giovani tra 11 e 25 anni, l’obbligo di documentare la propria posizione vaccinale rispetto al virus HPV – anche mediante un semplice rifiuto formale – è costituzionalmente legittima. La misura rispetta il principio di proporzionalità, non vìola il diritto allo studio e rappresenta uno strumento efficace per promuovere la prevenzione sanitaria in ambito educativo, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona.

fondo di solidarietà comunale

Fondo di solidarietà comunale legittimo Fondo di solidarietà comunale: legittimo per la Consulta il trasferimento di risorse ai comuni per i servizi essenziali

Fondo di solidarietà comunale

Con la sentenza n. 45 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Regione Liguria contro alcune disposizioni della legge n. 213 del 2023 (legge di Bilancio per l’anno 2024), in particolare l’articolo 1, commi 494, 497, 533, 534 e 535.

Le norme impugnate prevedono il trasferimento di risorse dal Fondo di solidarietà comunale al nuovo Fondo per l’equità del livello dei servizi, con vincolo di destinazione in favore dei comuni che non abbiano ancora raggiunto i livelli essenziali di prestazione (LEP) nei settori dei servizi sociali, degli asili nido e del trasporto scolastico per alunni con disabilità.

Rispetto dei livelli essenziali di prestazione

La scelta legislativa recepisce quanto già affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 71 del 2023, in cui è stato ribadito che, ai sensi dell’art. 120, secondo comma, della Costituzione, lo Stato può esercitare poteri sostitutivi qualora un ente territoriale non garantisca adeguatamente i diritti civili e sociali riconducibili ai livelli essenziali di prestazione.

Secondo la Corte, tale potere si collega in modo sistemico all’art. 119, quinto comma, Cost., che consente la creazione di fondi perequativi speciali, strutturati in modo distinto e trasparente, diversi dal fondo perequativo ordinario previsto dal terzo comma dello stesso articolo.

Distinzione fondi perequativi ordinari e speciali

La Consulta ha ribadito che, mentre il Fondo di solidarietà comunale, in quanto unico fondo perequativo riferito ai comuni, non può contenere quote vincolate, le risorse destinate al raggiungimento dei LEP possono invece essere correttamente allocate in fondi separati e dedicati, come nel caso del nuovo Fondo per l’equità del livello dei servizi.

Tale collocazione deve rispettare criteri di:

  • autonomia finanziaria regionale;

  • trasparenza amministrativa;

  • coerenza con la finalità costituzionale di riequilibrio territoriale.

Priorità alla spesa pubblica essenziale

La Corte ha sottolineato che il criterio adottato dal legislatore mira ad attuare il principio della spesa costituzionalmente necessaria, secondo cui, in un contesto di risorse pubbliche limitate, devono essere prioritariamente garantite le spese connesse alla tutela della salute, dei diritti sociali e delle politiche per la famiglia, rispetto ad altre voci di bilancio prive di specifica finalizzazione.

imu dovuta

Imu dovuta solo per la possibilità di avvalersi dell’immobile La Corte Costituzionale ha chiarito che l'IMU è dovuta anche se l'immobile non è utilizzato, rileva la titolarità dello stesso

IMU dovuta anche se l’immobile non è utilizzato

Imu dovuta anche se l’immobile non è utilizzato. Con la sentenza n. 49 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in relazione all’articolo 13 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, che disciplina l’Imposta Municipale Unica (IMU). I dubbi interpretativi riguardavano la presunta violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione, relativi ai principi di uguaglianza e capacità contributiva.

IMU anche in assenza di utilizzo effettivo

Secondo quanto stabilito dalla Consulta, l’obbligo di pagamento dell’IMU non dipende dall’uso concreto dell’immobile, bensì dalla mera titolarità del diritto reale su di esso. Anche gli immobili posseduti da imprese e destinati alla vendita, purché non locati, costituiscono indice rilevante di capacità contributiva.

Il criterio utilizzato è quello dell’“astratta possibilità di utilizzo” del bene: non è dunque necessaria la fruizione effettiva, essendo sufficiente che il possessore mantenga il controllo giuridico e materiale dell’immobile.

Il presupposto dell’IMU è il possesso

La Corte ha ribadito che l’IMU è un’imposta patrimoniale fondata sul possesso di immobili (proprietà, usufrutto o altro diritto reale). Solo in casi eccezionali può essere esclusa, ad esempio quando l’immobile sia oggettivamente inutilizzabile e il contribuente abbia adottato comportamenti diligenti per recuperarne la disponibilità.

Questo principio è stato chiarito anche nella sentenza n. 60 del 2024, con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non esclude dal tributo gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata regolare denuncia all’autorità giudiziaria.

Discrezionalità del legislatore

La Corte ha altresì richiamato il principio di discrezionalità legislativa, secondo cui spetta al Parlamento decidere in merito all’introduzione, quantificazione e condizioni delle agevolazioni fiscali, purché le scelte operate non risultino manifestamente irragionevoli.

In tal senso si colloca anche la sentenza n. 72 del 2018, in cui è stato ribadito che il legislatore è chiamato a trovare un equilibrio tra le esigenze di finanza pubblica e la capacità contributiva dei cittadini, contribuendo in modo equo al sostegno delle spese collettive.

aggio della riscossione

Aggio della riscossione: no a intervento retroattivo Per la Corte Costituzionale, il legislatore non era obbligato a eliminare retroattivamente l’aggio della riscossione

Aggio della riscossione

Con la sentenza n. 46 del 2025, la Corte costituzionale ha chiarito che il legislatore non era tenuto a intervenire retroattivamente in materia di aggio di riscossione, confermando la legittimità della scelta di prevederne l’abolizione solo a decorrere dal 1° gennaio 2022, come disposto con la legge di Bilancio 2022.

La pronuncia è intervenuta a seguito di una questione sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria, che lamentava una presunta lesione di vari principi costituzionali, connessa al mantenimento dell’aggio per i periodi antecedenti alla riforma.

Riforma dell’aggio: principio di discrezionalità

Secondo quanto affermato dalla Corte, l’intervento normativo che ha riformato il sistema di remunerazione dell’agente della riscossione dà seguito all’invito formulato con la sentenza n. 120 del 2021, ma senza necessità di retroattività. Quella decisione – ha spiegato la Corte – rientra tra le pronunce di “inammissibilità di sistema”, vale a dire quelle che, pur rilevando profili critici di compatibilità costituzionale, non comportano l’immediata declaratoria di incostituzionalità, ma rimettono al legislatore il compito di intervenire in maniera congrua e ponderata.

In questo ambito, si è quindi riconosciuto al Parlamento un ampio margine di discrezionalità, anche nella scelta del “quando” e del “come” intervenire. Il legislatore, pertanto, era legittimato a stabilire un termine di decorrenza futura per la nuova disciplina, senza dover incidere sui rapporti pregressi.

Il principio della non retroattività

La Corte ha sottolineato che anche la disciplina dell’efficacia temporale delle leggi rientra nella discrezionalità del legislatore, purché non violi principi di ragionevolezza o di tutela dell’affidamento legittimo. La scelta di applicare la riforma dell’aggio di riscossione solo per il futuro, come avvenuto dal 2022, risponde dunque a un criterio legittimo e conforme alla giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 130 e n. 71 del 2023, n. 22 del 2022, che confermano la facoltà del legislatore di adottare soluzioni diverse, purché non manifestamente irragionevoli, per eliminare eventuali criticità costituzionali).

domiciliari al padre

Domiciliari al padre se la madre non c’è La Consulta conferma l'ammissione dei domiciliari per il padre condannato se la madre è deceduta o non può occuparsi dei figli

Domiciliari al padre condannato

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 52/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di concessione dei domiciliari al padre condannato quando la madre è assente o inidonea, anche se i minori potrebbero essere affidati a terzi.

Secondo la Consulta, negare al genitore padre la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare in presenza di figli minori – solo perché questi possono essere assistiti da altre persone – lede l’interesse del minore a mantenere una relazione stabile con almeno uno dei genitori. Questo principio è stato affermato nella sentenza n. 52 del 2025, a seguito di ordinanze di rimessione emesse dai Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia.

I casi esaminati

Nel primo procedimento, un detenuto aveva chiesto il beneficio della detenzione domiciliare per accudire i propri figli minori, temporaneamente assistiti dalla sorella maggiore. Nel secondo, la richiesta proveniva da un padre con un figlio affetto da grave disabilità, la cui assistenza era interamente affidata alla madre.

La norma in questione e la decisione della Corte

La disciplina prevista dall’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario consente alla madre condannata di accedere alla detenzione domiciliare anche se il padre è disponibile ad occuparsi dei figli. Al contrario, al padre condannato tale possibilità è concessa solo se la madre è deceduta, irreperibile o completamente inidonea, e non vi siano altri soggetti disponibili all’affidamento.

Questa asimmetria normativa è stata oggetto di censura da parte dei giudici rimettenti, che ne hanno rilevato il potenziale contrasto con:

  • l’articolo 3 della Costituzione (principio di uguaglianza),

  • l’articolo 30 (diritti e doveri dei genitori),

  • l’interesse superiore del minore sancito anche a livello internazionale.

La Corte costituzionale, pur riconoscendo la valenza storica e sociale della protezione della maternità (ex art. 31 Cost.), ha dichiarato non irragionevole il trattamento differenziato previsto per la madre detenuta, in quanto coerente con le finalità di tutela del rapporto madre-figlio nei primi anni di vita. Tuttavia, ha ritenuto illegittimo limitare l’accesso alla misura per il padre nei casi in cui la madre non sia più in grado di garantire l’accudimento dei figli e vi sia un interesse concreto del minore a convivere con il padre.

Equilibrio tra esecuzione pena e tutela del minore

La Consulta ha sottolineato che la priorità resta sempre l’interesse del minore, anche rispetto alla funzione punitiva dello Stato. Pertanto, l’automatica esclusione del padre detenuto dalla possibilità di accedere alla detenzione domiciliare, solo perché i figli possono essere affidati a terzi, non può prevalere sull’esigenza di assicurare continuità nel legame familiare.

Resta fermo che il Tribunale di sorveglianza dovrà verificare, caso per caso:

  • l’assenza di pericolo di recidiva,

  • la reale idoneità del genitore a prendersi cura dei figli,

  • l’effettivo vantaggio che la convivenza potrebbe garantire al benessere psicofisico del minore.

cambio destinazione d'uso

Cambio destinazione d’uso: serve parere Consiglio comunale Per la Consulta, è incostituzionale la norma del Lazio che consente trasformazioni edilizie con cambio di destinazione d'uso senza il parere del Consiglio comunale

Cambio destinazione d’uso

Cambio destinazione d’uso senza il preventivo parere del Consiglio comunale: con la sentenza n. 51/2025, la Consulta ha annullato per illegittimità costituzionale l’articolo 4, comma 4, della legge della Regione Lazio n. 7/2017.

La disposizione impugnata consentiva, in via transitoria, l’esecuzione di interventi edilizi con cambio della destinazione d’uso anche in deroga agli strumenti urbanistici comunali, senza il coinvolgimento del Consiglio comunale, organo titolare delle scelte di pianificazione territoriale.

Violazione competenze urbanistiche comunali

Secondo la Corte, tale previsione comprime ingiustificatamente la potestà pianificatoria dei Comuni, poiché consente modifiche rilevanti del territorio senza l’approvazione dell’organo rappresentativo locale. Ciò risulta in contrasto con i principi costituzionali che regolano l’autonomia amministrativa e normativa degli enti locali (articoli 5 e 114 della Costituzione).

In particolare, l’esclusione del Consiglio comunale da scelte che incidono su:

  • la destinazione funzionale delle aree urbane,

  • il carico urbanistico complessivo,

  • la distribuzione degli insediamenti abitativi e produttivi,

può determinare effetti negativi sull’equilibrio urbanistico del territorio, soprattutto quando vengono compromesse aree a destinazione pubblica o sociale.

Rigenerazione urbana richiede visione integrata

La Consulta ha evidenziato come l’obiettivo di rigenerazione urbana debba essere interpretato in chiave integrata, tenendo conto non solo degli aspetti edilizi, ma anche dei risvolti sociali, economici e ambientali. Interventi trasformativi che alterano profondamente l’assetto urbano non possono prescindere dalla deliberazione consiliare, che costituisce espressione della sovranità territoriale dell’ente locale.

adozione del maggiorenne

Adozione del maggiorenne: il cognome non si cambia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di sostituire il cognome dell’adottato maggiorenne con quello dell’adottante, tutelando il diritto all’identità personale e garantendo coerenza con il sistema normativo

Adozione del maggiorenne e cambio cognome

Adozione del maggiorenne: il cognome dell’adottato non può essere sostituito con quello dell’adottante. Con la sentenza n. 53 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 299, primo comma, del codice civile, che disciplina gli effetti dell’adozione nei confronti dei soggetti maggiorenni. Secondo la Consulta, non viola gli articoli 2 e 3 della Costituzione la norma che consente l’aggiunta o l’anteposizione, ma non la sostituzione del cognome dell’adottato con quello dell’adottante, anche qualora vi sia il consenso di entrambi.

Cognome e identità personale

La Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia, sentenza n. 135/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità della norma nella parte in cui non permetteva di aggiungere (anziché soltanto anteporre) il cognome dell’adottante a quello del maggiorenne adottato, qualora entrambi avessero espresso consenso in tal senso. Tale modifica era finalizzata a tutelare il diritto all’identità personale, che si sviluppa anche attraverso la continuità del cognome originario.

Di contro, una sostituzione integrale del cognome rappresenterebbe un’eliminazione di un elemento identitario consolidato, che ha accompagnato l’individuo per almeno diciotto anni. Una tale possibilità, secondo la Corte, potrebbe inoltre esporre l’adottato a condizionamenti indebiti, soprattutto in considerazione dei vantaggi patrimoniali che derivano dall’adozione in età adulta, in particolare in ambito successorio.

Nessuna disparità irragionevole con l’adozione

La Consulta ha escluso che vi sia una disparità di trattamento tra l’adozione del maggiorenne e l’adozione legittimante del minore. Le due ipotesi, pur potendo presentare analogie in casi specifici (ad esempio quando l’adottante è stato in passato affidatario), rimangono ontologicamente distinte nella ratio e nella struttura normativa.

Cambio del cognome: già previsti strumenti adeguati

La Corte ha infine evidenziato che, in presenza di specifiche ragioni personali, l’adottato maggiorenne può comunque ricorrere alla procedura di cambiamento del cognome prevista dall’art. 89, comma 1, del d.P.R. n. 396/2000. Tale norma consente a chiunque vi abbia interesse di presentare apposita istanza al prefetto, illustrando i motivi alla base della richiesta, anche laddove il cognome sia ritenuto lesivo della propria identità o rivelatore dell’origine naturale.

affettività in carcere

Affettività in carcere: le linee guida Affettività in carcere: dopo la pronuncia della Consulta arrivano le linee guida che riconoscono ai detenuti il diritto all'intimità

Affettività in carcere: linee guida post Consulta

Sull’affettività in carcere arrivano le linee guida sottoscritte dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Lina Di Domenico.

Il documento recepisce le indicazioni della Corte Costituzionale, che nella sentenza n. 10/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie.”

Linee guida affettività in carcere: cosa prevedono

Le linee guida, alla luce di quanto sancito dalla Consulta, prevedono che i colloqui intimi saranno consentiti, a meno che non ci sia incompatibilità con l’assenza di un controllo visivo.

Il numero dei colloqui sarà il medesimo di quelli di cui i detenuti e gli internati fruiscono già mensilmente e la durata massima sarà di due ore.

Le amministrazioni penitenziarie dovranno individuare locali da destinare a questi colloqui, che siano in grado di garantire una certa riservatezza. Da preferire le aree vicino all’ingresso dell’istituto, ma la direzione può consentire lo svolgimento dei colloqui in locali distinti.

La stanza destinata ai colloqui intimi sarà arredata con un letto e servizi igienici. La stessa però non potrà essere chiusa dall’interno e sarà sorvegliata soltanto esternamente dalla Polizia penitenziaria equipaggiata per il controllo dei detenuti e dei soggetti ammessi ai colloqui intimi e all’ispezione della stanza prima e dopo l’incontro.

Via preferenziale per i detenuti che non beneficiano di permessi premio o di altri benefici che consentano loro di coltivare rapporti affettivi all’esterno e detenuti e imputati che, a parità di condizioni, devono scontare pene più lunghe e si trovano in uno stato di privazione della libertà da più tempo.

Per quanto riguarda i soggetti ammessi ai colloqui le linee guida indicano il coniuge, la parte dell’unione civile e il convivente, dopo gli opportuni controlli documentali e la firma del consenso informato del soggetto in visita.

Soggetti esclusi e possibili limitazioni

Sono esclusi dai colloqui intimi i detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali come quelli previsti dall’artt. 41-bis O.P. e dall’art. 14-bis O.P.

Alle Direzioni il compito di individuare eventuali ragioni ostative per ragioni di sicurezza o per la necessità di mantenere l’ordine e la disciplina.

Colloqui intimi esclusi in ogni caso per i detenuti in isolamento sanitario. I colloqui infine potranno essere negati nelle ipotesi di detenzione, dal parte dell’internato, di sostanze stupefacenti, oggetti atti a offendere e cellulari e nei casi in cui il soggetto abbia manifestato un’indole violenta o tenuto condotte che potrebbero comportare rischi in sede di colloquio.

 

Leggi anche: Colloqui intimi in carcere: diritto non mera aspettativa

trattenimento dello straniero

Trattenimento dello straniero: più garanzie per i migranti Convalida del trattenimento dello straniero: la Consulta boccia il rito senza contraddittorio previsto dal d.l. n. 145/2024

Convalida del trattenimento dello straniero

Trattenimento dello straniero: con la sentenza n. 39 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’art. 14, comma 6, del Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998), come modificato dal decreto-legge n. 145/2024, nella parte in cui richiama il rito camerale semplificato previsto per il mandato d’arresto europeo consensuale.

Il Giudice delle leggi ha ritenuto la disposizione lesiva degli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella misura in cui nega alle parti la possibilità di partecipare all’udienza davanti alla Corte di cassazione nel giudizio sulla convalida del trattenimento dello straniero espulso o richiedente protezione internazionale.

La disciplina contestata

La norma impugnata prevedeva l’applicazione, anche al giudizio di legittimità sulla convalida del trattenimento, del procedimento camerale privo di contraddittorio previsto per il mandato d’arresto europeo consensuale (art. 22, comma 5-bis, quarto periodo, legge n. 69/2005). In base a tale schema, la Corte di cassazione decide in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, entro sette giorni dalla ricezione degli atti.

Violazione del diritto di difesa

Secondo la Consulta, l’estensione di tale procedura al trattenimento amministrativo è manifestamente irragionevole, in quanto i due istituti presentano natura, finalità e struttura profondamente differenti.

Nel mandato d’arresto europeo consensuale, l’interessato presta il proprio consenso alla consegna, limitando l’oggetto del giudizio. Di contro, nel procedimento relativo alla convalida del trattenimento, vi è un confronto dialettico tra le parti e possono emergere profili di illegittimità sostanziale della misura restrittiva.

La soluzione indicata dalla Corte

A garanzia del diritto al contraddittorio e alla difesa, la Corte ha individuato nella disciplina prevista per il mandato d’arresto europeo ordinario (art. 22, commi 3 e 4, legge n. 69/2005) la norma più idonea a colmare la lacuna determinata dalla dichiarazione di illegittimità.

Tale procedura, pur mantenendo caratteri di celerità e semplificazione, prevede la partecipazione delle parti all’udienza camerale, salvaguardando così il nucleo essenziale delle garanzie giurisdizionali.

L’intervento del legislatore

La Corte costituzionale ha sottolineato che la sostituzione normativa operata ha valore provvisorio, nell’attesa di un eventuale intervento legislativo che possa rimodulare la disciplina del giudizio di legittimità in materia di trattenimento dello straniero, purché nel rispetto dei principi costituzionali e, in particolare, del diritto al processo e alla partecipazione attiva delle parti.

terzo mandato

Divieto del terzo mandato: incostituzionale la legge campana Corte costituzionale: è illegittima la legge campana che consente il terzo mandato al presidente della Giunta regionale

Divieto del terzo mandato

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 1 della legge della Regione Campania n. 16 del 2024, nella parte in cui consente al presidente uscente della Giunta regionale, già in carica per due mandati consecutivi, di candidarsi per un terzo mandato.

La norma impugnata prevedeva formalmente il divieto di immediata rieleggibilità per chi avesse già ricoperto la carica di presidente per due mandati consecutivi. Tuttavia, lo stesso articolo disponeva che il computo dei mandati avrebbe dovuto iniziare “dal mandato in corso alla data di entrata in vigore della presente legge”, neutralizzando così, di fatto, il limite dei due mandati consecutivi in vista della prossima consultazione elettorale.

La decisione

Secondo la Corte, tale previsione contrasta con l’art. 122, comma 1, della Costituzione, che demanda alle Regioni la disciplina delle condizioni di eleggibilità e incompatibilità “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica”. Uno di tali principi è contenuto nella legge statale n. 165 del 2004, la quale introduce il limite dei due mandati consecutivi per i presidenti delle Regioni che abbiano optato, tramite i propri statuti, per l’elezione diretta del presidente della Giunta.

Il giudizio della Consulta riafferma, dunque, l’efficacia vincolante dei principi fondamentali stabiliti dalla legge statale per le Regioni a statuto ordinario in materia elettorale, garantendo uniformità e coerenza nell’ordinamento repubblicano.