anatocismo vietato

Anatocismo vietato senza se e senza ma La Cassazione ha ricordato che l'anatocismo è vietato a prescindere dalla delibera CICR ponendo fine al dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza

Anatocismo vietato dal 1° dicembre 2014

Anatocismo vietato senza se e senza ma dal 1° dicembre 2014. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 21344-2024, affermando il seguente principio di diritto: “In tema di contratti bancari, l’art. 120, comma 2, t.u.b., come sostituito dall’art. 1, comma 629, L. n. 147 del 2013, fa divieto di applicazione dell’anatocismo a far data dal 1 dicembre 2014 e tale prescrizione è da ritenersi operante indipendentemente dall’adozione, da parte del CICR, della delibera, prevista da tale norma, circa le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria”.  

Capitalizzazione trimestrale degli interessi illegittima

La vicenda risolta dalla Suprema Corte di Cassazione ha inizio quando l’Associazione movimento consumatori contesta la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi applicata da alcune banche locali dopo il 1° gennaio 2014.

Per l’Associazione tale pratica è del tutto illegittima perché contraria agli interessi dei consumatori e ai principi di trasparenza, equità e correttezza da rispettare nella stipula di qualsiasi contratto. Per tutte le ragioni suddette l’Associazione attrice chiede la restituzione degli interessi maturati o il ricalcolo dei saldi senza l’applicazione dell’anatocismo.

Le banche convenute contestano le richieste. A loro dire la norma modificata nel 2014 non può essere applicata per la mancata emanazione dei provvedimenti attuativi del CICR.

Anatocismo vietato immediatamente o previa delibera CICR?

La Cassazione risolve la controversia fornendo la corretta interpretazione della normativa del 2013. La stessa infatti, secondo gli Ermellini, ha generato un acceso dibattito su due fronti perché non è chiaro se:

  • abbia definitivamente vietato l’anatocismo bancario;
  • tale divieto fosse immediato o subordinato a una delibera del CICR.

Anatocismo vietato: chiara la legge del 2013

La Cassazione chiarisce che la norma del 2013, diversamente da quella del 1999, non contiene più un riferimento esplicito agli “interessi sugli interessi”. La stessa si limita infatti a menzionare la produzione di interessi. Il testo, anche se formulato in modo non preciso, vieta chiaramente l’anatocismo. Del resto questa conclusione è del tutto conforme con l’intenzione del legislatore di mettere la parola “fine”al fenomeno della produzione di interessi nei periodi successivi da parte degli interessi capitalizzati.

La Cassazione precisa quindi che l’articolo 120, comma 2 del Testo Unico Bancario, modificato nel 2013, preclude ogni forma di anatocismo, non solo quella successiva alla prima capitalizzazione.

Le banche contro le quali ha agito l’Associazione movimento consumatori non potevano pertanto continuare a capitalizzare gli interessi dopo l’entrata in vigore della nuova normativa nel 2013. Il divieto di applicare gli interessi anatocistici, previsto dall’art. 1283 del codice civile è stato ripristinato per i contratti bancari.

La nuova norma inoltre non richiede ulteriori interventi da parte del CICR, rendendo superfluo qualsiasi completamento normativo in merito.

Divieto di anatocismo dal 1° dicembre 2014: non serve la delibera CIRC

In conclusione per la Suprema Corte l’articolo 120, comma 2 del Testo Unico Bancario, come modificato dalla legge n. 147/2013, vieta lanatocismo a partire dal 1° dicembre 2014. Tale divieto è efficace indipendentemente dall’adozione di una delibera CICR. Questo principio chiarisce in modo definitivo la normativa. Illegittima la pratica della capitalizzazione degli interessi passivi successivamente alla data indicata.

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licenziato stampa troppo ufficio

Va licenziato chi stampa troppo in ufficio? Per la Cassazione, scatta la sanzione conservativa per la dipendente che usa la stampante dell'ufficio per uso personale

Stampa troppo in ufficio: esagerato il licenziamento

Va licenziato chi stampa troppo in ufficio per motivi personali? Ebbene no, la Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, ma attenzione la condotta non resta impunita.

Nel caso posto all’attenzione degli Ermellini il contratto collettivo nazionale contempla la misura conservativa della multa per mancato adempimento dell’obbligo di osservare scrupolosamente i doveri d’ufficio e conservare con la dovuta diligenza il materiale dell’azienda. Illegittimo quindi il licenziamento perché non rispettoso del principio di proporzionalità. Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza n. 20698/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la dipendente di una fondazione viene licenziata perché, senza alcuna autorizzazione, ha usato la stampante aziendale per scopi personali.

Il Tribunale accoglie il ricorso, dichiara illegittimo il licenziamento, conferma la risoluzione del rapporto di lavoro e dispone in favore della donna l’indennità risarcitoria da 12 a 18 mensilità dell’ultima retribuzione.

Licenziamento illegittimo per la Corte d’Appello

La Corte d’Appello, pur rilevando la violazione dell’art. 220 CCNL, conferma l’illegittimità del licenziamento e quantifica in 18 mesi l’indennità dovuta alla lavoratrice perché la condotta tenuta non è così grave da giustificare l’espulsione.

Parola alla Cassazione

La decisione viene impugnata dalla dipendente in sede di legittimità per contestare la mancata applicazione della sanzione conservativa della multa.

La datrice di lavoro resiste con controricorso, contestando l’affermata illegittimità del licenziamento irrogato.

Principio di proporzionalità e sanzione conservativa

Per gli Ermellini, è fondato il terzo motivo del ricorso principale sollevato dalla lavoratrice. La sentenza impugnata non è infatti conforme al principio di diritto in base al quale “in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dallarticolo 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge numero 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca lillecito con sanzione conservativa anche laddove si espressa attraverso clausole generali o elastiche”.  

Riprendendo la pronuncia della Cassazione n. 13744/2022 la condotta del lavoratore che esegue con negligenza il lavoro affidato non rientra tra quelle caratterizzate da una gravità tale da comportare il licenziamento disciplinare contemplato dall’art. 225 del CCNL Terziario, Distribuzione e servizi del 18 luglio 2008.

Tale condotta deve quindi essere sanzionata in via conservativa con una multa, nei limiti di attuazione del principio di proporzionalità eseguito dalle parti sociali con la previsione indicata.

Dello stesso avviso gli Ermellini, la condanna non è talmente grave da giustificare il licenziamento, con la conseguente operatività della tutela prevista dal comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

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avvocato trascurato abbandono difesa

Avvocato “trascurato”: è abbandono della difesa Cassazione a Sezioni Unite: abbandono della difesa, illecito disciplinare che comporta la violazione di diversi principi sanciti dalle norme deontologiche

Abbandono della difesa: plurimi i principi violati

L’ingiustificato abbandono della difesa è una condotta a cui consegue la violazione di plurimi e fondamentali principi deontologici: il diligente adempimento del mandato (articolo 26), il dovere di probità e dignità (articolo 9), il dovere di fedeltà (articolo 10) e il dovere di coscienziosa diligenza (articolo 12). Lo hanno chiarito le sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 20877-2024.

Abbandono della difesa per l’avvocato che salta due udienze

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina competente per territorio dispone la sanzione disciplinare della censura nei confronti di un avvocato. Il legale ricorre al CNF che però respinge il ricorso.

L’avvocato è incolpato di aver violato gli articoli 1, 10, 12 e 26 comma 3 del Codice Deontologico Forense perché dapprima ha assunto l’incarico di difensore di un privato, poi però non ha adempiuto fedelmente al proprio incarico. Il professionista non avrebbe preso parte ad alcuna udienza, trascurando in questo modo gli interessi del suo assistito.

Le accuse mosse all’avvocato

L’avvocato è accusato di aver abbandonato la difesa del suo assistito, imputato in un processo penale, non prendendo parte a due udienze. Il CNF ha concluso infatti che:

  • l’avvocato ha avuto conoscenza, a mezzo notifica, della data delle due udienze penali disertate;
  • lo stesso non può invocare l’errore inevitabile per il fatto di aver assunto la difese del cliente in due processi con imputazioni diverse, ma con un tratto comune a entrambi;
  • per integrare l’illecito disciplinare è sufficiente la suitas della condotta, non essendo necessario dimostrare la consapevolezza della illegittimità delle proprie azioni;
  • la censura è una sanzione corretta perché prevista per la violazione dell’art. 26 comma 3 del Codice Deontologico;
  • non rileva la nomina successiva dell’avvocato da parte dello stesso cliente per scontare la pena in forma alternativa.

Il ricorso in Cassazione

L’avvocato nel ricorrere in Cassazione contro la decisione del CNF nel primo motivo evidenzia la possibilità di richiedere la sospensione della esecutorietà della decisione nel ricorso, non essendo necessario proporla in forma autonoma.

Con il secondo motivo invece lamenta la violazione dell’art. 26 comma 3 del Codice deontologico evidenziando che il mero errore non integrerebbe la colpa, di cui non sussiste prova alcuna. Il legale sottolinea inoltre come la trascuratezza di cui è stato accusato non avrebbe cambiato l’esito del giudizio penale del suo assistito. La responsabilità per colpa lieve che gli è stata addebitata avrebbe potuto assumere rilievo solo sotto il profilo civilistico, non deontologico.

Per il difensore la trascuratezza non integra quindi l’illecito disciplinare previsto dall’art. 26 comma 3 del Codice deontologico.

Abbandono della difesa e violazioni deontologiche

La Cassazione rigetta il ricorso precisando che il Codice Deontologico non ha carattere normativo. Esso è composto da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono dati per dare attuazione ai valori che caratterizzano la professione e per garantire la libertà, la sicurezza e l’inviolabilità della difesa. La violazione del Codice  Deontologico rileva in sede giurisdizionale solo quando è ricollegabile all’incompetenza, all’eccesso di potere o alla violazione di legge come previsto dall’articolo 56 comma 3 del r.d.l n. 1578/1933.

Nessuno di questi vizi però è stato riscontrato in relazione ai motivi di impugnazione del secondo motivo. La coscienza e la volontà sono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o dell’omissione. Vi è quindi una presunzione di colpa per l’atto sconveniente vietato a carico di chi lo commette. Spetta all’accusato dimostrare l’errore inevitabile, non superabile con l’uso della normale diligenza oppure il sopravvenire di una causa esterna. Non è invece configurabile l’imperizia incolpevole perché il professionista legale è tenuto a conoscere il sistema delle fonti. Anche per quanto riguarda l’entità della trascuratezza riscontrata dal giudice disciplinare la Cassazione esclude la sussistenza del vizio censurabile.

La responsabilità deontologica dell’avvocato

L’articolo 26 del Codice Deontologico forense al comma 3 dispone “Costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita.” L’avvocato si è reso responsabile di mancata assistenza e difesa nel procedimento. Il giudizio sulla trascuratezza spetta all’organo disciplinare e non è sindacabile in sede di Cassazione. Non rileva, come sostenuto dall’avvocato ricorrente, che l’azione non porti a conseguenze pregiudizievoli per il cliente. Tale affermazione è del tutto estranea alla formulazione della norma e ai principi di decoro e dignità della professione forense. Privo di fondamento è anche il motivo con cui il ricorrente ha contestato la sanzione applicata. La sentenza impugnata ha spiegato che lingiustificato abbandono della difesa lede diversi e fondamentali principi deontologici:

  • il diligente adempimento del mandato (articolo 26);
  • il dovere di probità e di dignità (articolo 9);
  • il dovere di fedeltà (articolo 10);
  • il dovere di coscienziosa diligenza (articolo 12).

Insindacabile il giudizio sulla gravità della condotta espresso dal giudice disciplinare.

 

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matrimonio breve niente mantenimento

Matrimonio breve? Niente mantenimento Per la Cassazione, la breve durata del matrimonio deve essere valutata per stabilire la spettanza del diritto e quantificare l’assegno di mantenimento

Durata matrimonio e assegno di mantenimento

Se il matrimonio è di breve durata l’assegno di mantenimento può non spettare al coniuge richiedente. Lo ha precisato la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 20507-2024. 

La vicenda

La vicenda nasce nell’ambito di un giudizio di separazione giudiziale relativa a un rapporto coniugale da cui non sono nati i figli. La Corte d’Appello respinge l’impugnazione del marito gravato dal dover contribuire al mantenimento della moglie corrispondendo un assegno mensile di 3000 euro. Respinta la richiesta del marito di addebito della separazione alla moglie la Corte conferma il mantenimento in favore della donna alla luce dello squilibrio economico delle parti.

L’uomo nel ricorrere in Cassazione solleva quattro motivi di doglianza, tra i quali assume particolare rilievo e interesse il terzo, con il quale invoca la nullità della sentenza per l’omesso esame di due fatti storici decisivi come la breve durata del matrimonio e la giovane età della richiedente, al fine di stabilire la spettanza e il quantum dell’assegno di mantenimento.

Esclusione diritto al mantenimento

La Cassazione dichiara inammissibile il primo, il secondo e il quarto motivo sollevati dal ricorrente, accoglie invece il terzo perché fondato.

Sull’assegno di mantenimento conseguente alla separazione la Cassazione a Sezioni Unite, nella pronuncia n. 32914/2022 ha osservato che “La separazione personale tra i coniugi non estingue il dovere reciproco di assistenza materiale, espressione del dovere, più ampio, di solidarietà coniugale, ma il venir meno della convivenza comporta significativi mutamenti:

  1. a) il coniuge cui non è stata addebitata separazione ha diritto di ricevere dall’altro un assegno di mantenimento, qualora non abbia mezzi economici adeguati a mantenere il tenore di vita matrimoniale, valutate la situazione economica complessiva e la capacita concreta lavorativa del richiedente, nonché le condizioni economiche dell’obbligato, che può essere liquidato in via provvisoria nel corso del giudizio, ai sensi dell’art. 708 del codice di procedura civile;
  1. b) il coniuge separato cui è addebitata la separazione perde, invece, il diritto al mantenimento e può pretendere solo la corresponsione di un assegno alimentare se versa in stato di bisogno”. 

Ai fini della corresponsione dell’assegno di mantenimento rileva anche la durata del matrimonio, anche se la Cassazione fino al 2017 ha circoscritto questo profilo alla quantificazione dell’assegno di mantenimento.

Con pronunce successive a questa data però la Corte ha stabilito che la breve durata del rapporto coniugale, se da una parte non esclude automaticamente il diritto all’assegno, dall’altra può non instaurare una comunione spirituale e materiale tra i coniugi. In queste ipotesi può quindi rappresentare una causa di esclusione del diritto al mantenimento.

La decisione

La decisione impugnata dal marito in effetti non ha preso in considerazione la durata estremamente breve del rapporto coniugale sotto il profilo della spettanza e della quantificazione, anche se in sede di merito era stato accertato che la donna si era allontanata dalla casa coniugale a pochi mesi dal matrimonio. La sentenza va quindi cassata affinché la Corte d’appello riesamini la decisione alla luce dei principi suddetti relativi al mantenimento conseguente alla separazione, tra i quali assume rilievo la breve durata del matrimonio.

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stop mantenimento figlio

Stop mantenimento al figlio iscritto da 14 anni all’università Linea dura della Cassazione contro i figli "bamboccioni": non spetta il mantenimento al figlio ultratrentenne che in 14 anni di università ha dato solo un esame

Mantenimento figlio maggiorenne

Il figlio ultratrentenne, che ha trascorso 14 anni all’università sostenendo un solo esame, non ha più diritto all’assegno di mantenimento a carico del padre. Lo stesso non è stato in grado di dimostrare di essersi impegnato nel conseguire una qualificazione professionale o nella ricerca di un impiego per collocarsi nel mondo del lavoro e acquisire la propria indipendenza economica. Lo ha stabilito la corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19955-2024.

Revoca mantenimento figlio

Nell’ambito di una procedura di separazione coniugale il Tribunale stabilisce a carico del padre l’obbligo di versare al figlio maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, il mantenimento di 500 euro mensili, oltre al pagamento del 70% delle spese straordinarie.

Alla separazione segue il divorzio e la sentenza riduce a 350 euro mensili il mantenimento dovuto dal padre al figlio maggiorenne, ma conserva il contributo nella misura del 70% delle spese straordinarie e l’assegnazione della casa familiare alla moglie, che convive con il figlio.

Il padre appella la decisione, chiedendo anche la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio.

Mancata ricerca di un lavoro

La Corte d’appello però respinge la richiesta, limitandosi a ridurre il mantenimento per il figlio a 200 euro mensili.

Per la Corte il mantenimento al figlio non deve essere ancorato al raggiungimento della maggiore età, ma a quello della autosufficienza economica. Per far cessare l’obbligo del mantenimento è sufficiente che il figlio percepisca delle entrate, anche derivanti da un lavoro non stabile o che lo stesso possegga un patrimonio tale da garantirgli un reddito corrispondente alla professionalità acquisita e che abbia un’appropriata collocazione nel contesto economico in cui lo stesso è inserito adeguata alle attitudini e alle aspirazioni.

Incontestato che il ragazzo ormai ultratrentenne risulti privo di un’occupazione lavorativa in grado di garantirgli la propria indipendenza economica. Lo stesso ha più volte cambiato percorso di studi e ha cercato lavoro, prestando attività presso la Croce Rossa senza però conseguire una stabilità lavorativa. In seguito ha lasciato l’università, è  tornato a vivere con la madre, ma ha avuto difficoltà a inserirsi nel mondo del lavoro anche a causa della sopravvenuta pandemia. Lo stesso è stato anche vittima di un infortunio, che ha comportato un intervento chirurgico e una prognosi di 60 giorni. Queste le ragioni per le quali la Corte, in considerazione dell’età del figlio, si è limitata a ridurre il mantenimento a 200 euro, lasciando invariata la misura del contributo per le spese straordinarie.

Il padre, insoddisfatto della decisione della Corte di Appello, la impugna di fronte alla Cassazione.

Onere della prova

Gli Ermellini ritengono fondato il motivo del ricorso con il quale il padre lamenta la mancata revoca del mantenimento dovuto al figlio. Per il ricorrente il fatto che il figlio abbia sostenuto un solo esame in 14 anni di università sufficiente a giustificare la revoca del mantenimento. Di fatto il figlio non ha mai dimostrato di aver messo in atto dei tentativi seri per trovare un’occupazione e collocarsi in modo stabile nel mondo del lavoro.

La Cassazione ricorda di aver affermato di recente che l’onere della prova relativa alle ragioni che fondano il mantenimento sono a carico del richiedente. Spetta infatti al figlio dimostrare di aver curato con impegno la propria preparazione professionale e tecnica o di essersi attivato nella ricerca di un lavoro. È sempre onere del richiedente inoltre provare la mancanza di indipendenza economica perché pre-condizione necessaria ai fini della richiesta del mantenimento.

L’onere della prova dei presupposti necessari per il mantenimento però è più facile quando il figlio ha da poco superato la maggiore età e negli anni successivi, soprattutto se ha iniziato un percorso di studi, perché in questo modo dimostra l’impegno di entrare a far parte del mondo degli adulti. Con l’avanzare dell’età l’onere della prova diventa più gravoso. La decisione sul mantenimento rende necessaria la valutazione del caso concreto e un’indagine sulle scelte di vita compiute e sull’impegno del figlio nell’acquisire una qualificazione professionale.

La decisione

Nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto conclusa la formazione universitaria del figlio anche senza il conseguimento di un risultato e ha ritenuto incontestato il fatto che lo stesso,  ultratrentenne, fosse senza lavoro e senza autonomia economica. La Corte non ha indagato se nel corso di tutti questi anni abbia comunque cercato una sua collocazione nel mondo del lavoro. La stessa si è accontentata nel considerare come esistenti e giustificate le difficoltà riscontrate negli ultimi anni e imputate al COVID, all’infortunio e alla crisi del mercato.

 

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Autovelox: basta la segnalazione Per la Cassazione, non è necessario che il cartello segnali che l'apparecchio rilevi la velocità media del veicolo

Autovelox: è sufficiente che il cartello lo segnali

Per l’autovelox basta la segnalazione. L’obbligo è assolto, infatti, se il cartello avverte che la strada è sottoposta al controllo elettronico della velocità, senza necessità di dover specificare che l’apparecchiatura effettua il calcolo della velocità media. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 19377-2024.

Autovelox non segnalato

Una società si oppone al verbale con cui le è stata contestata, a un automezzo di sua proprietà, la violazione del superamento del limite di velocità su un tratto di strada. Il ricorso viene rigettato dal Giudice di Pace. La società appella la decisione e il tribunale annulla la sanzione. Per il giudice dell’impugnazione la violazione è stata accertata con un’apparecchiatura elettronica che misura la velocità dei veicoli in relazione alla velocità media tenuta in un determinato tratto stradale. Questa caratteristica di rilevamento però non è stata adeguatamente segnalata agli automobilisti. Il cartello riporta infatti solo la dicitura “controllo elettronico della velocità”, senza fare alcun riferimento al calcolo della velocità media. La rilevazione della velocità effettuata in questo modo quindi è illegittima perché:

  • non preceduta da idonea segnalazione, come previsto dall’articolo 142, comma 6 del codice della strada;
  • l’apparecchio ha preso in considerazione due punti del tratto stradale, uno iniziale e uno finale, di cui però solo il primo può essere visibile.

A dire della ricorrente, il controllo basato sulla velocità media non è idoneo a invitare i conducenti alla prudenza e neppure a far affidamento sul controllo elettronico, che normalmente viene eseguito su un punto fisso.

Cartello autovelox deve segnalare solo controllo velocità

Il Comune opposto contesta la decisione del Tribunale e la Cassazione accoglie il ricorso.

Per gli Ermellini il Tribunale ha errato nel considerare inadeguato il cartello di segnalazione dell’apparecchio elettronico per il rilevamento della velocità per la mancata indicazione del controllo mediante il calcolo della velocità media.

Tale ragionamento non può essere condiviso perché non è conforme alla normativa in materia.

Il codice della strada consente infatti l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche per il controllo della velocità anche per calcolare la velocità media su determinati tratti di strada, stabilendo che le stesse debbano essere segnalate con impiego di cartelli o dispositivi luminosi.

Per la legge quindi l’uso di questi apparecchi richiede solo un’adeguata segnalazione. La normativa non prevede regole distinte per gli apparecchi che rilevano la velocità media su determinati tratti stradali e quelli che compiono il controllo su un punto fisso.

L’obbligo di segnalazione pertanto deve ritenersi soddisfatto quando è presente un cartello che avverte che quel tratto di strada è sottoposto al controllo elettronico della velocità, senza ulteriori specificazioni.

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deposito telematico sentenza cassazione

Primo deposito telematico sentenza penale Cassazione Il ministero annuncia che il 16 luglio è stato effettuato il primo "storico" deposito telematico di una sentenza penale di Cassazione

Cassazione, primo deposito telematico sentenza penale

Nella giornata del 16 luglio 2024, è stato effettuato il primo deposito telematico di una sentenza penale di Cassazione, grazie ad una applicazione tecnologica innovativa realizzata dalla direzione generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del ministero della Giustizia. Ne dà notizia la stessa via Arenula, tramite il proprio giornale Gnewsonline.it

“Il processo telematico compie oggi un ulteriore, significativo, passo in avanti, con il primo storico deposito di una sentenza penale in Corte di Cassazione, grazie all’applicazione tecnologica realizzata dalla Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia” afferma infatti il dicastero.

“La digitalizzazione della giustizia è uno degli obiettivi primari a cui sta lavorando il Ministero guidato da Carlo Nordio. Il traguardo raggiunto oggi rappresenta un concreto passo in avanti verso la realizzazione del programma di innovazione tecnologica, nel più ampio progetto di efficientamento della giustizia, che è fra gli obiettivi fissati dal Pnrr”. conclude il ministero.

revisione assegno divorzio convivenza

Assegno di divorzio all’ex moglie “indigente” anche se convive Per la Cassazione, qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge indigente, se quest’ultimo è privo dei mezzi adeguati, conserva il diritto all'assegno divorzile

Revisione delle condizioni di divorzio

Il caso in esame attiene al tema della revisione delle condizioni di divorzio in relazione al quale la Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso di specie, con ordinanza n. 13739/2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex moglie e ha cassato il decreto impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello.

Nella specie, la Corte ha anzitutto ripercorso la giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione alle condizioni necessarie affinché si possa procedere alla revisione dell’assegno divorzile.

Ciò posto, il Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che la Corte d’appello, nella precedente fase di giudizio, aveva sminuito, nell’ambito della propria decisione, l’elemento costitutivo della convivenza della beneficiaria dell’assegno.

La giurisprudenza in materia di convivenza

In particolare, ha precisato la Corte, la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di revisione dell’assegno divorzile, afferma costantemente che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto (…) non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza”.

Componente compensativa dell’assegno di divorzio

Proseguendo l’esame in ordine alla possibile revoca dell’assegno divorzile nel caso di specie, la Corte ha ricordato che “qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa”.

Sulla scorta del percorso argomentativo offerto dalla Corte, la stessa ha dunque concluso il proprio esame affermando che “la revisione dell’assegno richiede la presenza di ‘giustificati motivi’ e impone la verifica sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali”.

La decisione

Per le ragioni sopra brevemente rappresentate, la Corte ha dunque accolto il ricorso proposto dall’ex moglie avverso il provvedimento adottato dal Giudice di prime cure con cui veniva rigettato il reclamo, proposto dalla beneficiaria, in relazione alla riduzione dell’assegno divorzile in suo favore.

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Avvocati assolti per le offese alla controparte Le offese contenute negli scritti difensivi non sono punibili se riguardano l’oggetto della causa, non occorre che siano vere o necessarie

Offese negli scritti difensivi

Le offese non necessarie e non vere, anche se non giustificabili in ambito processuale-civilistico, rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 598 cod. pen., purché relative all’oggetto della controversia. L’art. 598 cod. pen. consente la massima libertà nel diritto di difesa e per l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 598 cod. pen. sono necessarie due condizioni: le offese devono riguardare l’oggetto della causa o del ricorso pendente dinanzi all’autorità giudiziaria o amministrativa e devono avere una rilevanza funzionale per le argomentazioni a sostegno della tesi o per l’accoglimento della domanda. Non è necessario che le offese contengano un minimo di verità o che la verità sia deducibile dal contesto. L’interesse tutelato è la libertà di difesa in relazione logica con la causa, indipendentemente dalla fondatezza dell’argomentazione. La causa di non punibilità è applicabile anche quando le espressioni ingiuriose non sono né necessarie né decisive per l’argomentazione, l’importante è che siano inserite nel contesto difensivo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 20520-2024.

Diffamazione aggravata: avvocati assolti

La Corte d’Appello di Venezia conferma l’assoluzione di due avvocati dall’accusa di diffamazione aggravata (art. 595, secondo comma, cod. pen.).

Gli imputati erano stati accusati di aver offeso la reputazione di un notaio per mezzo di un atto di citazione in revocatoria in cui gli stessi avevano sostenuto che le azioni giudiziali del pubblico ufficiale avevano provocato ai genitori sofferenze tali da cagionare la morte della madre del notaio stesso, deceduta invece a causa di una caduta accidentale.

Nel presentare ricorso per Cassazione il notaio ritiene erronea l’applicazione dell’art. 598 cod. pen., perché l’offesa non era pertinente all’oggetto dell’azione giudiziaria, ma mirava solo a ledere la sua reputazione. Lo stesso rileva inoltre la presenza di vizi di motivazione sulla esimente dell’art. 598 cod. pen., evidenziando la mancanza di nesso funzionale tra l’offesa e l’azione giudiziale.

Libertà di difesa: offese negli scritti difensivi non sono punibili

La Corte di Cassazione però respinge il ricorso perché infondato. Le censure si concentrano sull’errata applicazione dell’esimente prevista dall’art. 598 cod. pen. e vengono esaminate congiuntamente.

L’articolo 598 c.p, che si occupa delle offese contenute negli scritti e nei discorsi pronunciati davanti  alle autorità amministrative e giudiziarie, per finalità di rilievo nella presente causa, dispone che “1. Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.”

L’art. 598 c.p.

Dalla lettera della norma emerge che l’art. 598 cod. pen. protegge la libertà di difesa, coprendo gli atti funzionali a questo diritto anche se offensivi, purché inseriti nel contesto difensivo.

Lo stesso ricorrente ha ricordato che la non punibilità prevista dall’articolo 598 cod. pen. richiede la sussistenza di due soli requisiti, ossia che le offese riguardino l’oggetto della causa o del ricorso presentato davanti all’autorità giudiziarie o amministrativa e che le stesse siano funzionali alla tesi difensiva prospettata.

Non è necessario neppure che le offese siano veritiere o strettamente necessarie, le stesse devono essere correlate alla causa e questo principio è stato applicato dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto le frasi degli imputati funzionali alla difesa dei loro clienti.

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