processo penale

Processo penale: deposito telematico obbligatorio dal 1° aprile Dal 1° aprile 2025 scatta il deposito telematico obbligatorio per alcuni atti del processo penale, come previsto dal dm 206/2024

Deposito telematico processo penale

Il Decreto n. 206 del 27.12.2024 del Ministero della giustizia modifica il precedente regolamento sul processo penale telematico, introducendo importanti novità sui depositi telematici degli atti nei procedimenti penali.

In particolare, il provvedimento ha previsto il deposito telematico obbligatorio dal 1° gennaio 2025 negli uffici giudiziari penali (Procura della Repubblica presso il tribunale ordinario; Procura europea; Sezione del giudice per le indagini preliminari (GIP) del tribunale ordinario; Tribunale ordinario; Procura generale presso la corte d’appello (limitata ai procedimenti di avocazione)) contemplando tuttavia alcune deroghe temporanee.

Depositi telematici dal 1° aprile 2025

Tra queste rileva l’obbligo differito, appunto, al 1° aprile 2025, del deposito telematico per l’iscrizione delle notizie di reato (articolo 335 del codice di procedura penale) e per gli atti relativi ai procedimenti disciplinati dal libro VI, titoli I (abbreviato) III (direttissimo) e IV (immediato, del codice di procedura penale, impugnazioni comprese. Fino al 31 marzo tali atti potevano essere depositati non telematicamente. Dal 1° aprile, invece, le iscrizioni al Registro delle notizie di reato e i depositi relativi ai giudizi abbreviati, direttissimi e immediati dovranno avvenire esclusivamente in via telematica,

Le richieste dell’OCF

Tale adempimento ha messo in subbuglio l’avvocatura, che ha già evidenziato le criticità dei depositi telematici obbligatori nel processo penale, dati i malfunzionamenti e le sospensioni registrate nei mesi scorsi. Ad intervenire, nello specifico, è l’Organismo Congressuale Forense, con una nota del 31 marzo, esprimendo “forte preoccupazione per le numerose criticità ancora presenti, che rischiano di compromettere il diritto di difesa e il corretto funzionamento della giustizia”.

A gennaio, rammenta infatti l’OCF, “87 Presidenti di Tribunale hanno sospeso l’efficacia del DM nei rispettivi circondari a fronte di segnalazioni di malfunzionamento dai rispettivi RID (Referente Distrettuale per l’Innovazione) e MAGRIF (Magistrato di Riferimento per l’Innovazione)”. Alcuni decreti di sospensione sono stati prorogati nei giorni scorsi e altri potrebbero seguire. “Restano molte inefficienze, tra cui ritardi nelle iscrizioni al Registro Notizie di Reato, mancata annotazione delle nomine che impedisce il deposito di atti successivi, richiesta sistematica del certificato ex art. 335 CPP, mancata attivazione di funzionalità essenziali e rifiuto di accettazione dei depositi”. Queste le criticità evidenziate dall’Organismo. Senza contare che “l’assenza di un atto generico impedisce il deposito di richieste non previste espressamente, mentre le diverse interpretazioni della normativa da parte dei magistrati generano incertezza applicativa”.

Inoltre, rileva la nota, “alcuni uffici giudiziari escludono la costituzione di parte civile o la produzione documentale se non previamente depositata sul Portale depositi atti penali, altri richiedono il doppio deposito cartaceo e telematico nella stessa giornata, ignorando le difficoltà di accesso al fascicolo telematico da parte delle parti processuali”.

Da qui la richiesta di “interventi urgenti per risolvere le criticità evidenziate, garantendo uniformità e funzionalità al sistema telematico”.

 

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rigetto tardivo

Rigetto tardivo istanza iscrizione all’albo degli avvocati Per il Consiglio Nazionale Forense, il rigetto tardivo dell'istanza di iscrizione all'albo degli avvocati non comporta la nullità

Rigetto tardivo iscrizione albo avvocati

Il rigetto tardivo dell’istanza di iscrizione all’albo degli avvocati non ne comporta la nullità. Si tratta, infatti di un termine di natura ordinatoria che può avere ricadute sulla tempestività del ricorso, eventualmente prolungando i termini per la sua proponibilità. Così si è espresso il Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza n. 350/2024, pubblicata il 10 marzo 2025 sul sito del Codice deontologico, affronta la questione relativa alla notifica dei provvedimenti di rigetto delle istanze di iscrizione all’albo o registro professionale.

Contesto normativo

L’articolo 17, comma 7, della Legge n. 247/2012 prevede che il provvedimento di rigetto dell’istanza di iscrizione all’albo o registro debba essere notificato all’interessato entro 15 giorni dalla sua adozione. Tale disposizione riprende quanto già stabilito dall’articolo 37, comma 3, del Regio Decreto Legge n. 1578/1933.

La decisione del Consiglio Nazionale Forense

Nella sentenza in esame, il CNF ha chiarito che il termine di 15 giorni per la notifica del provvedimento di rigetto ha natura ordinatoria e non perentoria. Di conseguenza, una notifica tardiva o addirittura la mancata notifica del provvedimento non ne determina la nullità. Tuttavia, tali ritardi possono influire sulla tempestività del ricorso da parte dell’interessato, estendendo eventualmente i termini per la sua proposizione. 

notifica pec inesistente

Notifica PEC inesistente se l’indirizzo non risulta dai registri pubblici E’ inesistente e non può essere sanata la notifica effettuata da un indirizzo PEC che non risulta dai pubblici registri

Notifica PEC inesistente

Notifica PEC inesistente se eseguita da un indirizzo che non risulta dai registri pubblici. La notifica PEC degli atti tributari ha generato numerosi contenziosi, come evidenziato dalla recente sentenza n. 1828/2025 della Corte di giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio. La questione riguarda la validità delle notifiche effettuate da indirizzi PEC non registrati nei pubblici elenchi. Vediamo quali sono le ragioni per le quali la Corte è giunta a ritenere invalide le notifiche effettuate da un indirizzo di posta elettronica non risultante dai registri pubblici e a escludere ogni effetto sanante per il raggiungimento dello scopo, come previsto dall’articolo 156 c.p.c.

Mancata notifica PEC: indirizzo non risultante

Una società impugna una cartella di pagamento per IVA relativa al 2014, contestando la mancata notifica. La scoperta della cartella è avvenuta infatti solo attraverso un estratto di ruolo richiesto all’Agente della Riscossione. L’Agente della Riscossione produce in giudizio la prova dell’invio della cartella tramite PEC, sostenendo che la notifica fosse valida e che il credito fosse ormai definitivo per mancata opposizione nei termini previsti. La Commissione Tributaria Provinciale  accoglie la tesi dell’Agente, ritiene valida la notifica via PEC e dichiara inammissibile il ricorso per tardività. La società quindi presenta appello, contestando la legittimità della notifica, l’indirizzo PEC utilizzato dall’Ufficio non risultava infatti dai pubblici registri.

Notifica PEC inesistente e non sanabile

La Corte Tributaria analizza tutta la questione alla luce della normativa vigente. Secondo l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, la notifica via PEC è valida solo se effettuata da un indirizzo certificato presente nei pubblici elenchi. Dagli atti però emerge che l’indirizzo PEC utilizzato dall’Agente della Riscossione non risultava nei registri pubblici fino al 1 settembre 2022. Questo elemento porta la Corte a ritenere la notifica inesistente dal punto di vista giuridico.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione conferma questo orientamento, ribadendo che le notifiche effettuate da indirizzi non certificati non possono produrre effetti giuridici validi (Cass. 3093/2020, Cass. 17346/2019).

Le notifiche eseguite a mezzo pec da indirizzi pec che non risultano dai registri pubblici devono  essere considerate inesistenti e deve essere escluso di conseguenza ogni effetto sanante in virtù del raggiungimento dello scopo, come previsto dall’articolo 156 c.p.c.

L’utilizzo di un indirizzo PEC non ufficiale compromette la certezza giuridica della notifica. Il contribuente deve poter verificare con sicurezza la provenienza dell’atto, evitando il rischio di ricevere comunicazioni da soggetti non autorizzati.

La Corte si pronuncia quindi per l’annullamento della cartella di pagamento per l’inesistenza della notifica pec, evidenziato inoltre che la complessità della questione e l’evoluzione della giurisprudenza giustificano la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

Considerazioni finali

La sentenza è molto significativa perché conferma l’importanza della corretta procedura di notifica via PEC. Gli enti pubblici devono garantire che le comunicazioni provengono da indirizzi ufficiali registrati, per evitare il rischio di nullità degli atti e conseguenti perdite di gettito fiscale. Occorre rispettare rigorosamente le norme sulla notifica telematica. Le amministrazioni devono adeguarsi alle disposizioni vigenti per evitare contenziosi e annullamenti di atti impositivi. Per i contribuenti, invece, è fondamentale verificare sempre la provenienza delle notifiche ricevute e, in caso di dubbi, contestarne immediatamente la validità.

Si ringrazia il Dott. Comm. e Avv. Gian Luca Proietti Toppi per l’invio della sentenza

 

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protezione degli avvocati

Protezione degli avvocati: cosa prevede la convenzione Il Consiglio d'Europa ha adottato la prima convenzione internazionale per la protezione degli avvocati

Protezione degli avvocati: la convenzione UE

Il Consiglio d’Europa ha adottato la prima Convenzione internazionale per la protezione degli avvocati, volta a garantire una maggiore tutela alla professione forense. Questa Convenzione nasce in risposta all’aumento delle segnalazioni di minacce, intimidazioni e interferenze che ostacolano l’attività degli avvocati, inclusi impedimenti all’accesso ai clienti e attacchi fisici.

L’importanza della protezione degli avvocati

Gli avvocati svolgono un ruolo cruciale nella difesa dello Stato di diritto e nell’assicurare l’accesso alla giustizia per tutti, incluse le vittime di violazioni dei diritti umani. La fiducia dei cittadini nei sistemi giudiziari dipende in gran parte dalla libertà e dalla sicurezza con cui gli avvocati possono esercitare la loro professione.

Cosa prevede la Convenzione UE?

La Convenzione sulla protezione della professione di avvocato è destinata a garantire i diritti e l’indipendenza degli avvocati e delle loro associazioni professionali, prevedendo misure specifiche per la loro tutela. Tra gli aspetti principali regolamentati vi sono:

  • Diritto di esercizio della professione senza restrizioni indebite;
  • Tutela della libertà di espressione e dei diritti professionali;
  • Disposizioni per la protezione delle associazioni forensi;
  • Obbligo per gli Stati di garantire indagini efficaci in caso di atti di violenza o intimidazione.

Impegni richiesti agli Stati aderenti

Gli Stati firmatari si impegnano a garantire la sicurezza degli avvocati, proteggendoli da attacchi fisici, minacce e interferenze indebite nell’esercizio delle loro funzioni. Se tali atti costituiscono reati penali, dovranno essere oggetto di indagini tempestive e approfondite. Inoltre, la Convenzione impone agli Stati di riconoscere e rispettare l’indipendenza delle associazioni forensi, consentendo loro di operare autonomamente.

Firma e ratifica della Convenzione

La Convenzione sarà aperta alla firma il 13 maggio, durante la riunione dei ministri degli Affari Esteri del Consiglio d’Europa a Lussemburgo. Per entrare in vigore, il trattato dovrà essere ratificato da almeno otto Paesi, di cui sei Stati membri del Consiglio d’Europa.

L’applicazione della Convenzione sarà monitorata da un gruppo di esperti e da un comitato delle parti, che garantiranno il rispetto delle disposizioni previste.

Plauso dell’AIGA

L’Associazione Italiana Giovani Avvocati (AIGA) esprime il suo vivo apprezzamento per l’adozione, da parte del Consiglio d’Europa, del primo​Trattato internazionale volto a proteggere la professione di avvocato.

“Questo storico accordo rappresenta un passo fondamentale per contrastare i sempre più frequenti attacchi all’esercizio della professione legale che spaziano dalle molestie e minacce, alle aggressioni fisiche, alle interferenze nell’attività professionale, come gli ostacoli all’accesso ai clienti” scrive l’AIGA, la quale ribadisce “con forza la necessità di introdurre anche nella legislazione italiana un’aggravante specifica per le lesioni subite da​g​li avvocati nell’esercizio delle proprie funzioni”.

Tale proposta, già elaborata dall’associazione nel gennaio 2024, mira a fornire una tutela più efficace per gli avvocati che si trovano a operare in contesti di rischio.

“La protezione degli avvocati è essenziale per garantire l’accesso alla giustizia e la difesa dei diritti dei cittadini. Dietro ogni reato commesso nei confronti di un avvocato, nell’esercizio delle sue funzioni – afferma il presidente dell’AIGA, Carlo Foglieni – si cela un attacco ingiustificato e inaccettabile allo Stato di diritto”.

reddito di cittadinanza

Reddito di cittadinanza: bastano 5 anni di residenza Reddito di cittadinanza: non è assistenza sociale, ma il requisito di residenza deve essere ridotto a cinque anni

Reddito di cittadinanza e requisito residenza

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 31/2025, ha chiarito che il reddito di cittadinanza (Rdc) – abrogato dal 1° gennaio 2024 – non può essere considerato una misura assistenziale, poiché non mira esclusivamente a soddisfare bisogni primari. Piuttosto, si tratta di una politica attiva per l’occupazione, caratterizzata da obblighi e condizionalità stringenti, il cui mancato rispetto comporta la perdita del beneficio.

Il reddito di cittadinanza non è assistenziale

Nella sua interpretazione costituzionalmente orientata, la Corte ha ribadito che il Rdc non rientra tra le prestazioni di puro sostegno economico, ma è finalizzato all’inclusione lavorativa e sociale. A tal proposito, la sentenza ha sottolineato che la recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 29 luglio 2024 (cause riunite C-112/22 e C-223/22) non pregiudica questa interpretazione, in quanto la CGUE si è limitata a valutare il diritto dell’Unione, senza sindacare la legittimità dell’interpretazione italiana del Rdc.

Requisito di residenza: da dieci a cinque anni

La questione principale esaminata dalla Corte riguardava la legittimità del requisito di residenza decennale per accedere al Reddito di Cittadinanza. Se da un lato un criterio di radicamento territoriale può essere giustificato per evitare discriminazioni indirette, la durata di dieci anni è stata ritenuta eccessiva e non proporzionata agli obiettivi della misura.

Diversamente da altre prestazioni assistenziali, come l’assegno sociale, che valorizza l’inserimento pregresso dello straniero nella società italiana, il Rdc ha un obiettivo futuro, mirato all’integrazione nel mercato del lavoro. Ridurre il requisito di residenza a cinque anni consente di mantenere un criterio di selezione equilibrato, evitando discriminazioni e rispettando il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

L’equilibrio con il diritto dell’Unione Europea

L’adeguamento del requisito di residenza a cinque anni permette anche di armonizzare la normativa italiana con la giurisprudenza europea. La Corte di Giustizia dell’UE, infatti, aveva ritenuto il requisito decennale discriminatorio nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, senza però esprimersi sul trattamento riservato ai cittadini dell’Unione Europea. La modifica evita quindi una discriminazione alla rovescia nei confronti di questi ultimi, garantendo un accesso equo alla misura.

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contributo unificato

Contributo unificato: si paga solo sulle cartelle esattoriali La Cassazione ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario va versato solo sugli atti effettivamente impugnati

Contributo unificato: i chiarimenti della Cassazione

La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 6769/2025, ha chiarito che il contributo unificato nel giudizio tributario deve essere versato esclusivamente sugli atti effettivamente impugnati. Se il contribuente contesta solo le cartelle esattoriali, il pagamento del contributo non può estendersi all’intimazione di pagamento, anche se il giudice ne fa riferimento nella sentenza.

Il caso: il contribuente e l’impugnazione delle cartelle

Un contribuente, ricevuta la notificazione di intimazione di pagamento, aveva impugnato le tre cartelle esattoriali presupposte riportate nell’atto, senza contestare l’intimazione ad esse collegata.

Tuttavia, l’ufficio riteneva che il contributo unificato dovesse essere versato anche per l’intimazione di pagamento, non espressamente impugnata ma alla quale la CTP aveva operato riferimento nella sua decisione.

La questione finiva innanzi alla CTR del Lazio che riteneva fondata la tesi dell’ufficio, riformava la decisione della CTP e affermava la validità dell’atto di irrogazione delle sanzioni, compensando tra le parti le spese di lite.
Il contribuente adiva quindi il Palazzaccio, lamentando la “carenza, illogicità, erroneità e contraddittorietà della motivazione” della decisione adottata dalla CTR, perché, a suo dire, “non è dovuto il pagamento del contributo unificato in relazione ad atto non impugnato, e pertanto è illegittima l’irrogazione di sanzioni per non aver versato un contributo non dovuto”.

Il principio di diritto della Cassazione

La Cassazione ha ribaltato la decisione della CTR, accogliendo il ricorso del contribuente.

La Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto, secondo cui “ai fini del
pagamento del contributo unificato nel giudizio tributario, non ogni atto cui il giudice operi riferimento nella sua pronuncia diviene, per ciò solo, un atto impugnato; pertanto qualora li contribuente, ricevuta la notificazione di una intimazione di pagamento relativa a tre cartelle esattoriali, abbia proposto impugnazione esclusivamente avverso queste ultime, solo in relazione ad esse dovrà versare il contributo unificato, anche se il giudice, nella sua
decisione, abbia proposto valutazioni anche in ordine all’intimazione di pagamento”.
Pertanto, il ricorso è accolto e l’atto irrogativo delle sanzioni annullato.

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avvocato in affitto

L’avvocato in “affitto” L' avvocato in affitto o secondment è una pratica che garantisce alle aziende un’assistenza legale a tempo

L’avvocato in “affitto” rivoluziona il settore legale

Negli ultimi anni, il mondo della consulenza legale ha assistito a una trasformazione significativa. Questo grazie anche al fenomeno del secondment, noto come “avvocato in affitto”. Questo modello, nato nei paesi anglosassoni, ha introdotto maggiore flessibilità nella gestione del personale legale. Esso risponde infatti alle esigenze di aziende e studi professionali con soluzioni innovative e su misura.

Origini del secondment: da dove nasce l’idea

Il concetto di secondment (accordo tra datore e azienda per il distacco di un dipendente) ha origine nel Regno Unito e negli Stati Uniti alla fine del XX secolo. Le grandi multinazionali e i principali studi legali anglosassoni lo hanno adottato per rispondere a una due necessità principali.  Da un lato, offrire ai propri avvocati esperienze diversificate all’interno di aziende clienti. Dall’altro lato consentire alle aziende di avere professionisti qualificati a tempo determinato senza dover ampliare il proprio organico in modo permanente.

Le prime applicazioni del secondment risalgono agli anni ’80 e ’90. In questi anni le grandi law firms iniziarono a distaccare i propri avvocati presso le aziende clienti per periodi definiti, generalmente compresi tra sei mesi e due anni. Il fenomeno si è rapidamente diffuso nel mondo anglosassone. Oggi è una pratica consolidata e strategica per le realtà aziendali e legali.

Come funziona l’avvocato in affitto

Il meccanismo del secondment è relativamente semplice. Uno studio legale o una società di servizi giuridici fornisce un proprio avvocato a un’azienda per un periodo determinato. L’avvocato opera come un membro interno dell’ufficio legale dell’azienda, gestendo questioni legali quotidiane e interfacciandosi direttamente con i dirigenti e il personale. Lo studio legale continua a pagare lo stipendio del professionista, ma l’azienda ospitante rimborsa i costi. Al termine del periodo, l’avvocato può rientrare nello studio di provenienza o, in alcuni casi, essere assunto dall’azienda.

Questa pratica offre alle aziende un accesso immediato a competenze specialistiche senza il vincolo di un’assunzione definitiva e permette agli avvocati di ampliare la loro esperienza direttamente sul campo.

Vantaggi del secondment

Il successo del secondment è legato ai numerosi vantaggi che offre sia alle aziende sia agli avvocati e agli studi legali.

Per le aziende: accesso rapido a professionisti qualificati senza dover ampliare il personale; costi maggiormente prevedibili rispetto all’assunzione di un dipendente a tempo indeterminato; possibilità di testare un avvocato prima di un’eventuale assunzione diretta, maggiore flessibilità nella gestione dei picchi di lavoro e delle esigenze temporanee.

Per gli studi legali: opportunità di consolidare la relazione con i clienti aziendali, esperienza sul campo per i propri avvocati, utile per comprendere meglio le dinamiche aziendali, possibilità di offrire servizi più personalizzati e orientati al business.

Per gli avvocati: formazione diretta in un contesto aziendale; ampliamento delle competenze gestionali e strategiche e maggiore possibilità di carriera e network professionale.

Svantaggi e criticità dell’avvocato in affitto

Nonostante i numerosi benefici, il secondment presenta anche alcune sfide da considerare.

Per le aziende il rischio che l’avvocato distaccato non si integri rapidamente con la cultura aziendale e la dipendenza da personale esterno per questioni strategiche.

Per gli studi legali la possibile perdita di talenti se il cliente decide di assumere l’avvocato e la m minore disponibilità del professionista per le attività dello studio.

Per gli avvocati: la possibile difficoltà nel rientro nello studio legale dopo un’esperienza aziendale e la necessità di adattarsi a due ambienti di lavoro diversi nel corso della carriera.

Il secondment in Italia

In Italia, il secondment è ancora poco diffuso, ma sta iniziando a guadagnare terreno, specialmente nelle grandi aziende con uffici legali strutturati. Il sistema giuridico italiano, più rigido rispetto a quello anglosassone, potrebbe ostacolare una piena implementazione del modello. Tuttavia, con il crescente bisogno di flessibilità nel settore legale, molte aziende stanno esplorando formule alternative simili al secondment, come l’outsourcing legale o l’uso di consulenti esterni a tempo determinato.

Un ostacolo significativo è rappresentato dalla normativa italiana sul lavoro subordinato, che potrebbe rendere complesso il distacco temporaneo di un avvocato senza incorrere in problemi contrattuali. Inoltre, il ruolo dell’Ordine degli Avvocati e le specifiche regole deontologiche potrebbero influenzare l’applicabilità di questa pratica nel nostro paese.

Il secondment rappresenta una soluzione moderna ed efficace per rispondere alle sfide del mondo legale, garantendo flessibilità, formazione e integrazione tra professionisti e aziende. Mentre nei paesi anglosassoni è una realtà consolidata, in Italia la sua diffusione dipenderà dalla capacità di adattare il modello alle normative locali. Se ben strutturato il secondment potrebbe diventare uno strumento prezioso anche per le imprese italiane, offrendo un nuovo modo di gestire le risorse legali con maggiore efficienza e competitività.

 

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bonus musica

Bonus musica: come si ottiene Bonus musica: cos’è, la normativa di riferimento, a chi spetta, in cosa consiste, e come indicarlo nella dichiarazione dei redditi per averlo

Cos’è il bonus musica

Il Bonus Musica 2025 è una detrazione fiscale del 19% che viene calcolata sulle spese sostenute per l’iscrizione o l’abbonamento a corsi di musica riconosciuti. L’agevolazione si applica ai figli di età compresa tra i 5 e i 18 anni e consente di ottenere un rimborso fino a un massimo di 1.000 euro per ciascun figlio. Il beneficio è riservato alle famiglie con un reddito complessivo non superiore a 36.000 euro annui.

Normativa di riferimento

Il Bonus Musica è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge di bilancio 2020. Esso è disciplinato dall’articolo 15 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (T.U.I.R.), dedicato alle detrazioni degli oneri, che al comma 1, lettera e-quater) così dispone: “le spese, per un importo non superiore a 1.000 euro, sostenute da contribuenti con reddito complessivo non superiore a 36.000 euro per l’iscrizione annuale e l’abbonamento di ragazzi di età compresa tra 5 e 18 anni a conservatori di musica, a istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) legalmente riconosciute ai sensi della legge 21 dicembre 1999, n. 508, a scuole di musica iscritte nei registri regionali nonché a cori, bande e scuole di musica riconosciuti da una pubblica amministrazione, per lo studio e la pratica della musica.” 

La detrazione si applica quindi alle spese sostenute per corsi presso conservatori, istituti di Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM), scuole di musica registrate nei registri regionali, bande musicali e cori riconosciuti dalla pubblica amministrazione.

A chi spetta il bonus musica

Il Bonus Musica è destinato quindi ai contribuenti con figli di età compresa tra 5 e 18 anni, iscritti a scuole di musica accreditate. Per accedere alla detrazione, il reddito complessivo del nucleo familiare deve essere inferiore a 36.000 euro annui. Sebbene il bonus venga generalmente richiesto dai genitori, anche un minore con reddito proprio e obbligo dichiarativo può beneficiare direttamente della detrazione per le spese sostenute.

In cosa consiste

Il Bonus Musica consente di ottenere una detrazione fiscale pari al 19% sulle spese di iscrizione o abbonamento ai corsi musicali riconosciuti. L’importo massimo detraibile è di 1.000 euro per figlio, con un risparmio massimo di 190 euro per ogni minore iscritto.

La detrazione può essere attribuita a un solo genitore oppure suddivisa tra entrambi se gli accordi lo prevedono.

Cosa si deve indicare nel 730

Per ottenere la detrazione, non è necessaria alcuna domanda preventiva. Il contribuente deve conservare la ricevuta della spesa e riportarla nella dichiarazione dei redditi.

L’importo va inserito:

  • Nel quadro RP del Modello Redditi PF
  • Nel quadro E del Modello 730 (righi da E8 a E10), specificando il codice 45

Se le spese sono state sostenute per più figli, è necessario indicare l’importo relativo a ciascuno di loro nella dichiarazione.

Come richiedere il bonus musica

Per ottenere il Bonus Musica 2025, non è necessario presentare una domanda specifica. La detrazione va richiesta direttamente nella dichiarazione dei redditi tramite il Modello 730 o il Modello Redditi PF.

Per essere ammessi alla detrazione, le spese devono essere state sostenute tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2024. Il pagamento deve essere tracciabile e effettuato tramite bonifico bancario, versamento postale, assegni bancari o circolari, oppure carte di pagamento (di debito, di credito o prepagate). Non sono ammessi pagamenti in contanti.

Nel caso in cui il figlio compia 18 anni nel corso dell’anno, il requisito dell’età si considera rispettato se, per una parte dell’anno d’imposta, il figlio risulti ancora minorenne.

 

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licenziamento legittimo

Licenziamento legittimo per il dipendente che discrimina la collega Licenziamento legittimo quello irrogato al dipendente che offende ripetutamente e discrimina la collega per il suo orientamento sessuale

Licenziamento legittimo condotta discriminatoria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6345 del 10 marzo 2025, conferma il licenziamento legittimo del  dipendente disposto per motivi disciplinari, perché ritenuto responsabile di aver offeso reiteratamente l’orientamento sessuale di una collega.

Offese reiterate di contenuto sessista rivolte alla collega

Un dipendente si rivolge a una collega con frasi disonorevoli e immorali, lesive della sua dignità. Il comportamento, reiterato e aggravato dalla presenza di altri colleghi, ha portato all’espulsione del lavoratore dall’azienda. Il dipendente però ha impugnato il provvedimento davanti all’autorità giudiziaria.

In primo grado, il Tribunale respinge l’impugnazione del lavoratore. La Corte d’Appello invece dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendolo una misura sproporzionata, ma risolve comunque  il rapporto di lavoro, condannando l’azienda a pagare 20 mensilità di retribuzione. La società presenta ricorso incidentale in Cassazione, la quale accoglie il primo motivo, rinviando il caso alla Corte d’Appello per riesaminare la sussistenza della giusta causa di licenziamento. In sede di riassunzione, la Corte d’Appello rigetta il reclamo del lavoratore, confermando la legittimità della sanzione disciplinare.

Moleste le offese discriminatorie

I comportamenti offensivi e discriminatori legati all’orientamento sessuale di un collega integrano infatti una forma di molestia. La valutazione si basa sul contenuto oggettivo della condotta e sulla percezione soggettiva della vittima. Non occorre dimostrare lintenzione di arrecare danno da parte dell’autore. In questo caso, il lavoratore ha violato l’articolo 45, punto 6, del DPR 148/1931, che sancisce l’obbligo di mantenere una condotta rispettosa e decorosa nei confronti dei colleghi. Le frasi pronunciate sono state considerate disonorevoli, immorali e discriminatorie, immeritevoli di pubblica stima.

La Cassazione non può rivalutare il merito

La Cassazione respinge quindi i motivi sollevati dal lavoratore nei confronti della sentenza della Corte d’Appello, pronunciatasi in sede di rinvio. I giudici hanno ritenuto inammissibili tali argomentazioni,  perché finalizzate a ottenere una diversa valutazione dei fatti. La Suprema Corte  conferma quindi l’importanza del rispetto della dignità dei colleghi e della tutela contro le discriminazioni sessuali, elemento fondamentale dell’ordinamento giuridico italiano.

 

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pensione di reversibilità

Pensione di reversibilità: va valutato anche l’assegno di divorzio Pensione di reversibilità: l’assegno di divorzio è un elemento di valutazione e deve rispondere alla sua finalità solidaristica

Pensione di reversibilità e assegno di divorzio

La Cassazione nell’ordinanza n. 5839/2025 precisa che la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato non è vincolata all’importo dell’assegno divorzile. Quest’ultimo però deve essere considerato tra gli elementi di valutazione, senza automatismi, per garantire la finalità solidaristica della pensione.

Concorso tra ex coniuge e seconda moglie

Una vedova, titolare di una pensione di 500 euro mensili, agisce in giudizio per ottenere il riconoscimento della reversibilità nella misura dell’80% del trattamento pensionistico spettante all’ex marito defunto. Il matrimonio, contratto nel maggio del 1975 è cessato nell’ottobre del 2014. Alla stessa spetterebbe quindi un importo superiore a quello riconosciuto alla seconda moglie, il cui matrimonio è durato solo 5 anni. La donna ritiene inoltre che la reversibilità a lei spettante debba coincidere almeno con la misura dell’assegno di divorzio pari a 315,00 euro mensili.

Importo pensione di reversibilità

L’INPS nel costituirsi in giudizio precisa che l’importo della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’importo della pensione del defunto, è di 1.905,79 euro e che dopo la morte del marito la pensione di reversibilità è stata erogata solo alla vedova superstite.

La seconda moglie in giudizio chiede invece il riconoscimento della pensione di reversibilità nella misura non inferiore all’80% di quello spettante al marito defunto.

Il giudice di primo grado però riconosce il 70% della pensione del de cuius alla ex moglie e il restante 30% alla seconda moglie. Quest’ultima ricorre in appello, ma la Corte respinge il ricorso, la donna decide così di ricorrere in Cassazione.

Nell’unico motivo la stessa lamenta di non avere ricevuto una quota di pensione di reversibilità sufficiente a soddisfare le esigenze di vita più elementari mentre la ex moglie, al contrario, ha ricevuto una quota di pensione del tutto sproporzionata rispetto all’assegno di divorzio. A fronte infatti di un assegno divorzile di 357,00 euro mensili alla ex moglie è stata riconosciuta una pensione di 1200 euro mensili.

L’assegno di divorzio incide sul calcolo

La Cassazione accoglie il ricorso nei limiti indicati nella motivazione nella quale enuncia il principio giuridico da applicare quando si deve riconoscere all’ex coniuge la pensione di reversibilità.

Per la Cassazione nel determinare la quota di pensione di reversibilità spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, della legge numero 898 del 1970, è importante sottolineare che tale quota non deve necessariamente coincidere con l’importo dell’assegno divorzile, né quest’ultimo rappresenta un limite massimo invalicabile. Tuttavia, in linea con un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’entità dell’assegno divorzile deve essere considerata tra gli elementi di valutazione, senza che ciò implichi un automatismo. L’obiettivo è garantire che l’attribuzione della quota di pensione risponda alla finalità solidaristica dell’istituto, che si traduce nel sostenere economicamente coloro che hanno subito la perdita del supporto finanziario fornito in vita dal lavoratore defunto.

 

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