spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate? Serve la prova dell’urgenza La Cassazione chiarisce che il condomino che anticipa spese urgenti per la cosa comune ha diritto al rimborso solo se dimostra l'urgenza

Spese condominiali anticipate

Spese condominiali anticipate: con l’ordinanza n. 16351/2025, la seconda sezione civile della Cassazione ha ribadito un principio consolidato: il condomino che anticipa spese per la conservazione della cosa comune senza l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea ha diritto al rimborso solo se dimostra l’urgenza dell’intervento, ai sensi dell’art. 1134 c.c. 

Il caso concreto

Il caso in esame riguardava condomini dell’ultimo piano che avevano anticipato lavori urgenti per la riparazione della copertura e dell’impianto di smaltimento delle acque meteoriche, gravemente deteriorati. Le somme anticipate superavano l’importo minimo, richiedendo un rimborso dagli altri condomini. 

Urgenza, non mera necessità

La Cassazione ha confermato che non basta la necessità dei lavori: è necessario dimostrare che essi non potevano essere differiti. L’urgenza si configura quando ritardare l’intervento avrebbe potuto provocare un danno, anche potenziale, alla cosa comune o alla sicurezza delle persone.

La Suprema Corte ha ribadito che l’urgenza va valutata secondo il criterio del “buon padre di famiglia”, considerando l’indifferibilità e l’impossibilità di avviso agli altri. 

Onere della prova: a carico del condomino

Spetta al condomino che chiede il rimborso dimostrare:

  1. le condizioni pericolose o degradanti della parte comune;

  2. l’indifferibilità dei lavori;

  3. l’impossibilità di coinvolgere tempestivamente l’amministratore o l’assemblea. 

Senza tali elementi, il diritto al rimborso non sussiste.

Allegati

canone libero

Locazioni: canone libero non registrato, scatta l’adeguamento La Cassazione chiarisce: i contratti di locazione a canone libero non registrati prima del 2016 devono essere ricondotti a congruità solo da tale data, entro i limiti dei canoni concordati dalle associazioni

Locazioni canone libero: cosa dice la Cassazione

Con l’ordinanza n. 15891 del 2025, la Corte di Cassazione ha precisato che un contratto di locazione a canone libero, scritto ma non registrato, stipulato prima del 1° gennaio 2016, è soggetto alla cosiddetta “riconduzione a congruità” soltanto a partire da tale data.

Il canone che il giudice potrà stabilire, in sostituzione di quello pattuito, non potrà superare i limiti definiti dalle associazioni di categoria. Questo vale sia per i contratti a canone libero che per quelli a canone concordato.

Le tre ipotesi interpretative della Corte

I giudici hanno ricostruito il quadro normativo incrociando l’articolo 13, comma 6, della legge n. 431/1998 (nullità dei patti contrari alla legge) con l’articolo 2 della stessa legge (tipologie contrattuali). Le tre principali situazioni sono:

1. Contratto registrato ma con canone simulato

Se il contratto è registrato a canone libero, ma il canone effettivo supera quello dichiarato, il patto è nullo. È dovuto solo il canone risultante dal contratto registrato.

2. Contratto a canone concordato con canone eccedente

Nel caso di contratto a canone concordato, se il canone pattuito è superiore a quello stabilito dalle associazioni di categoria, il patto è nullo. Vale il canone concordato ufficialmente.

3. Contratto scritto e non simulato, ma non registrato

Questa è l’ipotesi affrontata dalla Cassazione. In mancanza di registrazione, il contratto è nullo. Il canone viene stabilito dal giudice entro il limite dei valori concordati dalle associazioni, a prescindere dal tipo di contratto (libero o concordato).

Effetti limitati al periodo post-2016

La Suprema Corte ha evidenziato che la riconduzione a congruità si applica esclusivamente a partire dal 1° gennaio 2016, data di entrata in vigore della disciplina che ha previsto tale meccanismo.

In precedenza, l’assenza di registrazione comportava l’inefficacia del contratto, senza possibilità di adeguamento ex lege.

compensi avvocato

Compensi avvocato: il giudice non può tagliare oltre il 50% La Cassazione ribadisce che il giudice non può ridurre i compensi dell’avvocato oltre il 50% dei parametri medi previsti, anche in caso di cause semplici

Compensi avvocato: il principio della Cassazione

Compensi avvocato: con la sentenza n. 19049 depositata l’11 luglio 2025, la Sezione lavoro della Cassazione ha stabilito un principio di diritto rilevante in materia di liquidazione delle spese processuali. In particolare, ha affermato la Corte, il giudice non può in alcun caso ridurre oltre il 50% i valori medi previsti dalle tabelle ministeriali, anche quando la causa sia ritenuta di particolare semplicità. La pronuncia conferma l’orientamento già espresso in precedenti arresti (Cass. nn. 9815/2023 e 30154/2024) e si inserisce nel quadro della disciplina dell’equo compenso.

Il caso concreto: compenso liquidato al di sotto dei minimi

La vicenda trae origine da una causa in materia previdenziale instaurata da una donna contro l’INPS per il riconoscimento di un assegno mensile di assistenza. Il Tribunale di Cosenza, pur riconoscendo il diritto della ricorrente, aveva liquidato all’avvocato difensore un compenso di appena 1.932,00 euro, motivando tale riduzione con la “particolare semplicità della controversia”.

La professionista ha impugnato la decisione, lamentando la violazione del D.M. n. 55/2014, aggiornato prima dal D.M. n. 37/2018 e poi dal D.M. n. 147/2022, i quali prevedono soglie inderogabili per la determinazione del compenso forense in assenza di specifico accordo tra le parti.

Compensi avvocato: i limiti alla discrezionalità del giudice

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, ribadendo che, nel determinare le spese processuali a carico della parte soccombente, il giudice non può scendere sotto il limite del 50% dei valori medi tabellari, anche se la causa appare semplice. Tale vincolo si applica in particolare nei casi di liquidazione giudiziale, cioè in assenza di un accordo tra avvocato e cliente.

Come chiarito dalla Corte, la discrezionalità del giudice è dunque delimitata:

  • può aumentare i valori medi oltre l’80% nei casi previsti;

  • può ridurre i valori medi fino al 50%, eccezionalmente fino al 70% per la sola fase istruttoria;

  • non può mai scendere sotto i minimi, pena la violazione del principio di equo compenso.

Equo compenso e funzione pubblica della soglia minima

La sentenza richiama anche la normativa sull’equo compenso, sottolineando come i parametri ministeriali costituiscano uno strumento di garanzia dell’autonomia del professionista e della qualità della prestazione, assolvendo una funzione di interesse pubblico. In particolare, l’art. 13-bis della legge professionale forense vieta compensi inadeguati e impone al giudice, in caso di squilibrio, di rideterminare il compenso secondo i criteri regolamentari.

La Corte aggiunge che il sistema italiano non si pone in contrasto con i principi dell’Unione europea: la normativa non impone tariffe rigide tra le parti, ma soltanto nei casi di liquidazione giudiziale a danno della parte soccombente. Le parti restano libere di pattuire compensi anche inferiori ai minimi, fuori dall’ambito giudiziale.

Giurisprudenza europea e compatibilità con il diritto UE

La Suprema Corte ha infine affrontato il tema della compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione europea, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia del 25 gennaio 2024, causa C-438/22, in cui veniva dichiarata contraria alla concorrenza una normativa bulgara che impediva di pattuire compensi inferiori a soglie fissate per regolamento.

La Cassazione esclude analogie con il caso italiano, evidenziando tre differenze fondamentali:

  1. Le tariffe sono fissate per decreto ministeriale previa consultazione del Consiglio di Stato.

  2. La inderogabilità riguarda solo la liquidazione giudiziale, non gli accordi tra privati.

  3. L’individuazione di soglie minime è legittima perché risponde a finalità di tutela dell’interesse pubblico.

Allegati

illecito trattenere somme

Avvocati: illecito trattenere somme del cliente oltre il necessario Il CNF chiarisce che l’avvocato viola l’art. 31 CDF trattenendo somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario

Illecito trattenere somme del cliente

Illecito trattenere somme del cliente: il Consiglio Nazionale Forense, con la sentenza n. 472/2024, pubblicata il 4 luglio 2025 sul sito ufficiale del Codice Deontologico, ha affrontato la questione della gestione del denaro altrui da parte dell’avvocato, chiarendo che trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario configura una violazione deontologica.

Il comportamento è stato ritenuto in contrasto con l’art. 31 del Codice Deontologico Forense, che impone all’avvocato obblighi di puntualità e diligenza nella gestione di denaro, beni o valori altrui.

Il principio enunciato: dovere di puntualità e diligenza

La pronuncia stabilisce che l’avvocato non può trattenere somme spettanti al cliente oltre il tempo strettamente necessario per il compimento di attività funzionali all’esecuzione del mandato o alla rendicontazione.

La violazione di questo principio integra un illecito deontologico, anche in assenza di appropriazione indebita o dolo. È sufficiente la mancanza di tempestiva restituzione a determinare una condotta disciplinarmente rilevante.

L’articolo 31 CDF e la gestione del denaro altrui

L’art. 31 del Codice Deontologico Forense stabilisce che l’avvocato deve custodire il denaro ricevuto per conto del cliente in modo distinto dal proprio e restituirlo senza ritardo. La norma mira a garantire trasparenza, affidabilità e fiducia nella relazione fiduciaria tra cliente e difensore.

Il trattenere somme indebitamente, anche solo per negligenza, lede la deontologia forense e comporta responsabilità disciplinare.

equa riparazione

Equa riparazione anche per le persone giuridiche La Cassazione conferma che anche le società hanno diritto all’indennizzo per la durata irragionevole del processo

L’equa riparazione spetta anche a società ed enti collettivi

Con l’ordinanza n. 14749/2025, la Cassazione ribadisce che il diritto all’equa riparazione per la durata eccessiva di un processo riguarda anche le persone giuridiche, come società ed enti collettivi.
La violazione del termine ragionevole di durata del giudizio, stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e recepito in Italia dalla legge Pinto (L. n. 89/2001), genera un danno non patrimoniale che si presume esistente, salvo prova contraria.

Il caso concreto

La vicenda trae origine dal fallimento di una società, durato oltre quattordici anni, a fronte di un termine di sei previsto per tali procedure. Due società creditrici, dopo aver presentato istanza di ammissione al passivo, avevano chiesto l’indennizzo per il ritardo.
La Corte d’appello aveva riconosciuto il diritto al risarcimento, ma solo per il periodo coincidente con la permanenza in carica dei legali rappresentanti, ritenendo che il danno si identificasse nel disagio psicologico degli amministratori.
Questa impostazione è stata censurata dalla Cassazione, che ha chiarito che il danno appartiene alla società in quanto soggetto titolare del diritto, non ai suoi organi.

La natura del danno non patrimoniale per le persone giuridiche

Secondo la Suprema Corte, il danno non patrimoniale derivante da un processo eccessivamente lungo ha una componente oggettiva, diversa dallo stress o dall’ansia che possono colpire le persone fisiche.
Il pregiudizio consiste nella “deminutio” dell’immagine e della sfera giuridica dell’ente, che subisce una compromissione della sua posizione a causa del protrarsi dello stato di incertezza.
Proprio per questa ragione, la Cassazione ha ribadito che la durata della carica dell’amministratore è irrilevante ai fini della quantificazione del danno, che si radica nel patrimonio e nella dimensione giuridica della persona collettiva.

La presunzione del danno e l’onere della prova contraria

La decisione ripercorre un orientamento consolidato secondo cui il danno extrapatrimoniale, pur non essendo un danno “automatico”, si presume normalmente in base all’id quod plerumque accidit, ossia all’evento che di regola si verifica.
Questa presunzione è superabile soltanto se l’amministrazione resistente dimostra circostanze particolari che escludano la sussistenza del pregiudizio (ad esempio, l’infondatezza manifesta della pretesa azionata o altri elementi che dimostrino l’assenza di danno concreto).
Tuttavia, la Cassazione precisa che il mutamento degli organi societari durante la procedura non incide sulla spettanza dell’indennizzo alla persona giuridica.

I limiti soggettivi dell’indennizzo per la durata irragionevole

L’ordinanza si sofferma anche su un altro aspetto rilevante: il diritto all’equa riparazione spetta esclusivamente al soggetto che ha partecipato al giudizio che si è protratto oltre il termine ragionevole.
Di conseguenza, gli amministratori o i soci, se non hanno assunto la veste di parte processuale, non possono richiedere in proprio l’indennizzo per la durata del procedimento.
Questo principio, già affermato in altre decisioni, garantisce una corretta delimitazione dei soggetti legittimati a pretendere il risarcimento.

carta d'imbarco

Risarcimento volo cancellato: basta la carta d’imbarco La Cassazione conferma che per ottenere il risarcimento in caso di volo cancellato è sufficiente esibire la carta d’imbarco. Non serve anche il biglietto aereo

La carta d’imbarco come prova del contratto di trasporto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17644/2025, ha chiarito un principio importante per i passeggeri che richiedono il risarcimento in caso di mancata partenza del volo.
Secondo i giudici, la semplice presentazione della carta d’imbarco costituisce un elemento sufficiente a dimostrare l’esistenza del contratto di trasporto aereo, non essendo necessario allegare anche il biglietto.
Questo orientamento rafforza la tutela dei consumatori, semplificando l’onere probatorio nei procedimenti di risarcimento.

Il caso concreto

La vicenda ha riguardato un passeggero che, dopo la cancellazione del proprio volo Roma-Londra, aveva prodotto le carte d’imbarco a supporto della propria richiesta risarcitoria.
La Corte d’appello, pur prendendo atto della documentazione, aveva ritenuto che essa non bastasse a dimostrare l’acquisto del biglietto, dichiarando quindi carente la prova del contratto.
La Cassazione ha censurato tale decisione, evidenziando che la carta d’imbarco è strettamente collegata al biglietto, al punto da poter essere considerata prova equipollente.

Gli obblighi probatori delle parti

Nella pronuncia, la Suprema Corte ha ricordato la corretta ripartizione degli oneri probatori in materia di trasporto aereo, in linea con la Convenzione di Montreal del 1999 e con il Regolamento CE n. 261/2004.
Il passeggero è tenuto a:

  • fornire la prova del contratto di trasporto (titolo di viaggio o documento equivalente);

  • allegare l’inadempimento del vettore (ad esempio, la cancellazione o il ritardo del volo).

Spetta invece alla compagnia aerea dimostrare l’esatto adempimento, oppure che l’inadempimento sia derivato da cause di forza maggiore o da eventi eccezionali che la esonerino da responsabilità.

Carta d’imbarco: il principio affermato dalla Cassazione

Il Supremo Collegio ha ribadito che, nell’ambito del trasporto aereo internazionale, l’esistenza del contratto può essere provata non solo attraverso il biglietto ma anche con la produzione di qualsiasi documento idoneo a dimostrare la prenotazione e l’ammissione all’imbarco.
La carta d’imbarco, in quanto documento rilasciato direttamente dal vettore, costituisce pertanto una prova sufficiente per fondare la pretesa risarcitoria.

dl infrastrutture 2025

Dl infrastrutture 2025: cosa prevede Il Dl infrastrutture 2025 prosegue il suo percorso in Parlamento per la conversione in legge. Tra le novità il censimento degli autovelox

Dl infrastrutture 2025

Il Dl infrastrutture 2025 n. 73 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e in vigore dal 21 maggio 2025 continua il suo iter di conversione in legge. Dal 3 luglio 2025 il testo è in corso di esame in Commissione. Il decreto reca misure finalizzate a “garantire la continuità nella realizzazione di infrastrutture strategiche e nella gestione di contratti pubblici, il corretto funzionamento del sistema di trasporti ferroviari e su strada, l’ordinata gestione del demanio portuale e marittimo, nonché l’attuazione di indifferibili adempimenti connessi al Piano nazionale di ripresa e resilienza e alla partecipazione all’Unione europea in materia di infrastrutture e trasporti.”

Il testo si composto da 17 articoli dal contenuto variegato. Vediamo le misure più importanti.

Opere pubbliche e contratti

Modificata e integrata la normativa sulla ripresa dell’attività per la creazione del Ponte di Messina. Il Codice dei Contratti pubblici viene modificato in diversi punti e viene introdotto ex novo l’art. 46 bis nel Codice della protezione civile, contenuto nel decreto legislativo n. 1/2018.

il testo introduce la normativa transitoria che si occupa della verifica sismica degli uffici pubblici per interpretare  correttamente i termini “normale affollamento” e “affollamento significativo”.

Applicazione in deroga della disciplina sulla revisione dei prezzi contenuta nel Codice dei Contratti pubblici ai contratti di lavori (termine di presentazione delle offerte dal 01.07.2023 al 31.12.2023).

Trasporti e strade

L’articolo 3 del dl infrastrutture 2025 si occupa della disciplina dell’autotrasporto, mentre l’articolo 4 dei tempi di attesa per le operazioni carico e scarico. Il testo conferisce all’Autorità garante per la concorrenza poteri di diffida e sanzionatori in caso di violazione dei contratti pubblici di trasporto merci su strada. Stanziati nuovi fondi per rendere più moderno il settore dell’autotrasporto.

L’art. 5 interviene sulla disciplina della Motorizzazione civile con il fine di migliorane la sicurezza gestionale e informatica.

Dal 2026 al 2041 vengono autorizzate diverse spese per le attività necessarie all’affidamento del contratto Intercity. Spese autorizzate anche per la Gestione governativa della ferrovia Circumetnea.

Diventa facoltativa la scelta di fissare livelli massimi delle tariffe da parte delle compagnie aeree nei confronti di certi passeggeri, per evitare il rialzo dei prezzi.

Previsti interventi di riparazione delle reti stradali di interesse nazionale di competenza dell’ANAS presenti nelle zone alluvionate e terremotate dell’Emilia, delle Marche e della Toscana.

Concessioni demaniali e mare

Disposto l’aggiornamento dei canoni per le concessioni balneari mediante l’indice dei prezzi della produzione industriale in determinate ipotesi.

La Commissione tecnico-consultiva competente opererà presso l’Autorità per la Laguna di Venezia – Nuovo magistrato alle acque.

Si autorizzano in favore della  società RAM le spese necessarie per l’economia del mare, per il trasporto marittimo e fluviale e per l’assunzione di nuovo personale.

Concessioni autostradali

L’Articolo 11 modifica la legge sulle concessioni autostradali (L. 193/2024) per:

  • chiarire il valore di subentro;
  • obbligare all’adeguamento;
  • rinviare al sistema tariffario ART;
  • permettere lavori transitori;
  • armonizzare le procedure.

Dl infrastrutture 2025: energie rinnovabili

L’articolo 13 del Decreto Legislativo n. 190/2024 (TU FER) modifica la normativa sulle aree per impianti a energie rinnovabili (FER), in particolare quelle di accelerazione, per allinearsi alle direttive europee.

Misure per lo sport

L’amministratore delegato della società infrastrutture Milano Cortina rivestirà il ruolo di commissario straordinario per l’esecuzione di alcuni interventi necessari  allo svolgimento di Giochi Olimpici 2026.

Per il 2025 è previsto lo stanziamento di 5,25 milioni di euro per la Federazione Sportiva nazionale – ACI.

Dl infrastrutture 2025: novità autovelox

Le Commissioni VIII Ambiente e IX trasporti hanno approvato un emendamento che prevede una sorta di censimento degli autovelox in uso. L’emendamento si propone di individuare il numero degli autovelox effettivamente in uso, individuare quelli non conformi e comprendere quale impatto hanno sulla sicurezza dei cittadini le nuove regole che riguardano l’omologazione di questi strumenti.

Leggi anche gli altri articoli di diritto amministrativo

procura alle liti

Procura alle liti in lingua straniera: valida senza traduzione Le Sezioni Unite civili hanno stabilito che la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera è valida anche senza traduzione, poiché l’obbligo dell’italiano riguarda solo gli atti processuali

La procura alle liti in lingua straniera non è nulla

Le Sezioni Unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 17876 del 2025, hanno chiarito un principio di grande rilievo per la tutela del diritto di difesa: la procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è pienamente valida, anche se priva di traduzione in italiano e di certificazione traduttiva.

Secondo la Corte, l’obbligo di utilizzare la lingua italiana si applica esclusivamente agli atti processuali in senso stretto e non a quelli prodromici, come la procura con cui si conferiscono i poteri al difensore.

L’ambito di applicazione dell’art. 122 c.p.c.

La Cassazione ha ricordato che l’art. 122, comma 1, c.p.c., impone l’uso della lingua italiana “in tutto il processo”. Tale prescrizione riguarda però solo gli atti che si formano nel processo e per il processo: atti processuali veri e propri, come le comparse, le memorie, i ricorsi e le sentenze.

La procura alle liti, pur strettamente collegata al processo, ha natura meramente strumentale e preparatoria. Per questo motivo, non è soggetta alla regola della redazione obbligatoria in italiano.

La traduzione non è requisito di validità

Imporre la traduzione della procura come condizione di validità integrerebbe un vincolo non previsto dalla legge. La Corte ha evidenziato che un simile obbligo costituirebbe un ostacolo sproporzionato al diritto di azione in giudizio, privo di adeguata giustificazione in termini di interesse pubblico.

In linea con il principio di tassatività delle nullità, sancito dall’art. 156 c.p.c., non è possibile estendere per analogia il requisito della lingua italiana a documenti che non siano atti processuali.

Il ruolo del giudice e l’art. 123 c.p.c.

La Suprema Corte ha chiarito che, se il documento prodotto in giudizio è in lingua straniera, il giudice può applicare l’art. 123 c.p.c.: è dunque sua facoltà, e non un obbligo, disporre la nomina di un traduttore.

Il giudice può decidere di non avvalersi del traduttore se comprende il contenuto dell’atto o se non esistono contestazioni sulla traduzione eventualmente allegata.

Il caso concreto e i principi di diritto affermati

La decisione nasce da un procedimento ereditario in cui una delle parti aveva eccepito la nullità della procura speciale rilasciata negli Stati Uniti e autenticata da un notaio della Florida, proprio per l’assenza della traduzione in italiano.

La Corte di Cassazione ha respinto l’eccezione, stabilendo due principi di diritto fondamentali:

  1. La procura speciale alle liti redatta in lingua straniera e rilasciata all’estero è valida anche senza traduzione né certificazione, perché la disciplina della lingua italiana si riferisce ai soli atti processuali.

  2. Il giudice può eventualmente nominare un traduttore se necessario per comprendere il contenuto dell’atto, ma non è tenuto a farlo in assenza di contestazioni o difficoltà interpretative.

fine vita

Fine vita: analisi del testo base Fine vita: redatto il testo base, che contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita

Testo base sul fine vita

Sul fine vita, al Senato, è stato redatto il testo base, che riunisce diversi disegni di legge. Il testo unificato, composto da 4 articoli, contiene le disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita. Analizziamo uno a uno gli articoli del testo, che hanno suscitato critiche e polemiche.

Diritto alla vita: inviolabile e indisponibile

Il comma 1 del primo articolo contiene una disposizione di principio che sancisce il diritto alla vita in quanto presupposto fondamentale di tutti i diritti della persona. Segue poi la disposizione che attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare la vita di ogni individuo indiscriminatamente. Non rilevano, infatti, l’età, il sesso, la condizione di salute, personale o sociale. Il comma 2 sanziona, infine, con la nullità tutti gli atti di natura civile o amministrativa che dovessero contrastare con questi principi.

Fine vita: novità per il reato di istigazione o aiuto al suicidio

L’articolo 2 interviene sul secondo comma dell’articolo 580 c.p., che al comma 1 punisce con la reclusione fino a 12 anni la condotta di chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito o ne agevola l’esecuzione in qualsiasi modo, se il suicidio avviene.

Il nuovo comma 2 della norma, in base al testo base, prevede la non punibilità del soggetto agente, in presenza di circostanze specifiche:

  • il proposito del fine vita deve essersi formato in modo libero, autonomo e consapevole;
  • il soggetto che intende porre fine alla propria vita deve essere maggiorenne e pienamente capace di intendere e di volere;
  • lo stesso deve essere stato inserito in un percorso di cure palliative e tenuto in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali;
  • il soggetto deve essere affetto da una malattia irreversibile che gli causa sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili;
  • le sue condizioni devono essere state accertate da un apposito Comitato.

Cure palliative: piani di potenziamento

L’articolo 3 si occupa delle cure palliative, modificando il comma 4-bis dell’articolo 5 della legge n. 38/2010. Questa la formulazione potenziale della norma (modifiche in grassetto): “Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano presentano, entro il 30 gennaio di ciascun anno, un piano di potenziamento delle cure palliative al fine di raggiungere, entro l’anno 2028, il 90 per cento della popolazione interessata e di garantire l’integrale utilizzo, per le finalità di cui alla presente legge, delle somme di cui all’articolo 12, comma 2. Il monitoraggio dell’attuazione del piano è affidato all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) che lo realizza a cadenza semestrale. La presentazione del piano e la relativa attuazione costituiscono adempimento regionale ai fini dell’accesso al finanziamento integrativo del Servizio sanitario nazionale a carico dello Stato. Eventuali residui delle somme di cui all’articolo 12, comma 2, non utilizzati per le finalità di cui alla presente legge, sono in ogni caso restituiti allo Stato e non possono essere utilizzati per finalità diverse da quelle previste dalla presente legge”.

AGENAS: analisi dei piani

Dopo questo comma è previsto l’inserimento di altri tre commi.

Il comma 4-ter prevede che l’AGENAS istituisca un osservatorio per analizzare i piani regionali di potenziamento delle cure palliative (domiciliari e pediatriche). Ogni anno, inoltre, l’AGENAS dovrà inviare una relazione a diverse autorità (Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Presidenti di Senato e Camera) indicando le regioni che non hanno presentato tali piani o non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati l’anno precedente.

Il comma 4-quater, invece, dispone che in caso di mancata presentazione del piano da parte di una regione entro 30 giorni dalla relazione AGENAS, il Governo nomini un commissario ad acta fino al raggiungimento dello standard. Se poi la regione non dovesse raggiungere gli obiettivi di potenziamento delle cure palliative dell’anno precedente, il Ministro della Salute è tenuto a concedere un termine di massimo sei mesi; se l’inadempimento dovesse persistere, è prevista la nomina governativa di un Commissario.

Il comma 4-quinques chiarisce, infine, che alle novità contenute nei due commi precedenti si debba provvedere senza nuovi o maggiori oneri.

Comitato nazionale di valutazione fine vita

L’articolo 4 del testo base interviene sulla legge n. 833/1978, che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, aggiungendo l’art. 9-bis, che disciplina il Comitato nazionale di valutazione, un organo cruciale che fornisce un parere obbligatorio sulla presenza dei requisiti per l’esclusione della punibilità in casi specifici (riferiti all’articolo 580, terzo comma, del codice penale).

Composizione del comitato

La composizione del Comitato prevede la presenza di sette membri esperti: un giurista, un bioeticista, un medico anestesista-rianimatore specializzato in terapia del dolore, un medico specialista in cure palliative, uno psichiatra, uno psicologo e un infermiere. Questi professionisti sono nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, che designa anche presidente, vicepresidente e segretario. La durata in carica dei membri è di cinque anni, con la possibilità di due rinnovi. L’incarico è gratuito.

Fine vita: verifica requisiti di non punibilità

Qualora un cittadino maggiorenne e capace di intendere e di volere presenti una richiesta di verifica dei requisiti di non punibilità, il Comitato deve acquisire il parere non vincolante di uno specialista della patologia del richiedente. Se la richiesta include l’uso di farmaci “off label”, è necessario anche il parere non vincolante del Centro di coordinamento nazionale. Il Comitato ha sessanta giorni di tempo dalla richiesta per esprimersi, potendo disporre possibili proroghe in caso di necessità o di acquisizione dei pareri. Le norme generali sul procedimento amministrativo non si applicano in questo contesto e per svolgere le sue funzioni, il Comitato si avvale delle strutture del Ministero della Salute, senza oneri aggiuntivi. La richiesta presentata al Comitato potrà essere ritirata in qualsiasi momento dall’interessato. Se il Comitato dovesse accertare l’assenza dei requisiti, una nuova richiesta potrebbe essere presentata solo se si dimostra la successiva sussistenza degli stessi, e comunque non prima di centottanta giorni. Il parere rilasciato dal Comitato sarà valutato dall’autorità giudiziaria ai fini dell’applicazione della non punibilità.

Pur riconoscendo le competenze del Comitato, il personale, le strumentazioni e i farmaci del Servizio Sanitario Nazionale non potranno essere impiegati per facilitare l’esecuzione di quanto previsto dall’articolo 580 del codice penale.

Leggi anche:  Suicidio assistito: la Consulta torna sul fine vita

telemarketing molesto

Telemarketing molesto: addio dal 19 agosto Telemarketing molesto: dall'Agcom una delibera prevede il blocco delle chiamate illegittime in due tappe: dal 19 agosto e dal 19 novembre 2025

Stop al telemarketing molesto dal 19 agosto 2025

Dal 19 agosto 2025 primo stop al telemarketing molesto. Lo ha stabilito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la delibera n. 106/25/CONS, datata 30 aprile, ma pubblicata il 19 maggio 2025.

Con questa decisione l’Autorità ha approvato un regolamento che si pone l’obiettivo di assicurare la massima trasparenza in relazione alle offerte dei servizi di comunicazione elettronica e al numero chiamante.

Al provvedimento dell’Autorità sono allegati 5 documenti, tra i quali si segnalano i seguenti:

Lotta al Cli spoofing

La lotta al CLI spoofing arriva dopo che il Registro delle opposizioni e il Codice di Condotta per gli operatori non sono riusciti a impedire a soggetti illegittimi di ricorrere a numerazioni simulate italiane, chiamando da reti estere.

La pratica del CLI spoofing, come definito dal rapporto ECC 338 sullo Spoofing del giugno 2022 consiste infatti nella “tecnica che consente alla parte originaria e/o a qualsiasi operatore di rete che gestisce la chiamata o il messaggio di manipolare le informazioni visualizzate nel campo CLI con l’intenzione di ingannare la parte ricevente o gli operatori di rete che intervengono nella gestione della chiamata o del messaggio, facendogli credere che la chiamata o il messaggio provengano da un’altra persona, entità o posizione.”

Due tappe per il contrasto al telemarketing molesto

Per combattere la pratica del CLI spoofing l’Autorità ha deciso di intervenire per step.

  • Dal 19 agosto 2025 gli operatori devranno attivare le tecnologie necessarie per bloccare le chiamate che vengono effettuate con numeri fissi falsi.
  • Dal 19 novembre 2025 gli operatori devono invece attivarsi per disporre il blocco anche delle telefonati da numerazioni mobili simulate.

Per bloccare le chiamate si applicheranno delle tecnologie alla rete telefonica che saranno in grado di arrestare le chiamate sospette prima ancora che raggiungano il destinatario della chiamata, grazie alla capacità di questi strumenti di elaborare immediatamente i dati.

 

Leggi anche gli altri contenuti dedicati al telemarketing