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Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Riconoscimento qualifiche professionali conseguite all’estero e abilitazione all’insegnamento Le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento devono definirsi in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Michela Colapinto, Raffaella Alessia Miccoli

 

Le misure organizzative adottate dal Ministero sulla base della sopra menzionata normativa di rafforzamento della capacità amministrativa di recente introduzione inducono ad apprezzare la collaborazione istituzionale, volta ad evitare l’ulteriore proposizione di ricorsi nella materia in esame, ed a ritenere ragionevole la previsione formulata nei chiarimenti, in base alla quale le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali acquisite all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento dovrebbero essere definite in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico (Cons. Stato, Ad. Plen., 22 aprile 2024, n. 6).

Con la pronuncia in rassegna il Consiglio di Stato è stato chiamato a interrogarsi in ottemperanza sulla questione del riconoscimento in Italia delle qualifiche professionali conseguite all’estero.

Nel dettaglio, le ricorrenti, aspiranti docenti di ruolo nelle istituzioni scolastiche pubbliche, hanno vittoriosamente agito nella presente sede giurisdizionale amministrativa contro i dinieghi a suo tempo loro opposti dall’allora Ministero dell’Istruzione (ora dell’Istruzione e del Merito) di riconoscimento in Italia delle qualifiche professionali dalle stesse conseguite all’estero, secondo la direttiva 2005/36/CE del 7 settembre 2005 (relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali).

Il giudicato formatosi a definizione dei giudizi di annullamento dei dinieghi in questione, di cui alla sentenza della Adunanza Plenaria del 28 dicembre 2022, n. 18, ha stabilito che l’allora Ministero dell’Istruzione è tenuto a: i) «esaminare «l’insieme dei diplomi, dei certificati e altri titoli», posseduti da ciascuna interessata; non dunque a «prescindere» dalle attestazioni rilasciate dalla competente autorità dello Stato d’origine»; ii) «procedere quindi ad «un confronto tra, da un lato, le competenze attestate da tali titoli e da tale esperienza e, dall’altro, le conoscenze e le qualifiche richieste dalla legislazione nazionale», onde accertare se le stesse interessate abbiano o meno i requisiti per accedere alla professione regolamentata di insegnante, eventualmente previa imposizione delle misure compensative di cui al sopra richiamato art. 14 della direttiva».

A fronte dell’inerzia serbata dall’Amministrazione successivamente al giudicato, le ricorrenti hanno quindi agito nel presente giudizio per la relativa ottemperanza.

Con l’ordinanza del 4 dicembre 2023, n. 17, l’Adunanza Plenaria ha riunito i ricorsi per ragioni di connessione e ha disposto un’istruttoria, con la quale ha chiesto al Ministero dell’Istruzione e del Merito chiarimenti su eventuali misure di carattere normativo, regolamentare e organizzativo adottate per definire le domande di riconoscimento delle qualifiche professionali conseguite all’estero per l’abilitazione all’insegnamento in Italia.

L’incombente istruttorio è stato adempiuto con la nota del Capo del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito in data 5 febbraio 2024 (prot. n. 486).

Con l’innanzi indicata ordinanza istruttoria 17/2023 la Adunanza Plenaria ha chiesto al Capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione e del Merito di riferire sull’adozione di «misure di razionalizzazione e di semplificazione delle procedure di riconoscimento delle qualifiche professionali ottenute all’estero», con l’obiettivo di «deflazionare l’arretrato accumulatosi presso gli uffici ministeriali – nel rispetto delle posizioni soggettive dei singoli interessati – e di contenere l’ingente contenzioso amministrativo sviluppatosi in materia».

Con la nota di riscontro del 5 febbraio 2024, il Capo Dipartimento ha innanzitutto rappresentato che è stato di recente rafforzato l’organico della competente direzione generale, ovvero quella per gli ordinamenti scolastici, la valutazione e l’internazionalizzazione del sistema nazionali di istruzione. Inoltre, egli ha sottolineato che è stata data attuazione all’art. 5, comma 18, del D.L. 22 aprile 2023, n. 44 (recante “Disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche”, convertito dalla L. 21 giugno 2023, n. 74), il quale prevede che «(i)l Ministero dell’istruzione e del merito, sulla base di una convenzione triennale, si avvale del Centro di informazione sulla mobilità e le equivalenze accademiche per le attività connesse al riconoscimento dei titoli di abilitazione all’insegnamento ovvero di specializzazione sul sostegno conseguiti all’estero».

A questo specifico riguardo, il Capo del Dipartimento ha riferito che dopo la stipula della convenzione il Centro è attualmente operativo ed è impegnato nell’istruttoria delle domande di riconoscimento, secondo quanto previsto nell’accordo.

Sulla base di queste misure di carattere organizzativo, conclude la nota, è stato fissato l’«obiettivo di definire tutte le posizioni soggettive dei richiedenti il riconoscimento del titolo estero entro il 30 giugno 2024», in tempo per l’assegnazione degli incarichi per il prossimo anno scolastico; in parallelo si prevede che il contenzioso attualmente pendente in sede giurisdizionale amministrativa in materia sia portato a graduale definizione.

Tanto premesso in merito alla questione giuridica e alla luce dei chiarimenti depositati dall’Amministrazione, la Corte ha ritenuto che la presente controversia possa ritenersi sufficientemente istruita, senza necessità di sentire il Capo del Dipartimento.

Le misure organizzative adottate dal Ministero sulla base della sopra menzionata normativa di rafforzamento della capacità amministrativa di recente introduzione inducono ad apprezzare la collaborazione istituzionale, volta ad evitare l’ulteriore proposizione di ricorsi nella materia in esame, ed a ritenere ragionevole la previsione formulata nei chiarimenti, in base alla quale le domande di riconoscimento dei titoli di qualificazione professionale acquisiti all’estero ai fini dell’abilitazione in Italia all’insegnamento dovrebbero essere definite in tempo utile per l’assegnazione degli incarichi di docenza per il prossimo anno scolastico.

 

Contributo in tema di “Riconoscimento delle dei titoli di qualificazione professionale conseguiti all’estero e relativa abilitazione all’insegnamento”, a cura di Claudia Buonsante, Giusy Casamassima, Michela Colapinto, Raffella Alessia Miccoli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Competenza delitto di lesioni personali dopo la riforma Cartabia Delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta: chi è competente?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

 

Se la competenza per materia per il delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, permanga in capo al tribunale ovvero sia stata attribuita dalla stessa norma al giudice di pace.

Appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia in ordine al delitto di lesione personale nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento. – Cass., Sez. Un., 28 marzo 2024, n. 12759.

Nel caso di specie, la Corte d’appello territoriale confermava la sentenza con cui il Tribunale, sul presupposto della sua competenza, aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 582 c.p., per aver cagionato lesioni personali alla persona offesa, giudicate guaribili in trenta giorni.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in ordine alla individuazione del giudice competente, relativamente al delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, quando il fatto è perseguibile a querela, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Secondo un primo orientamento, il giudice di pace è competente per il delitto di lesioni personali, anche nel caso di malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, sempre che la perseguibilità sia a querela a norma dell’art. 582 c.p. attualmente in vigore.

A fondamento di questo indirizzo, una interpretazione estensiva, o “parzialmente analogica” dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 274/2000, coerente con la finalità deflattiva della Riforma e con la persistente vigenza del D.Lgs. 274/2000, istitutivo della competenza penale del giudice di pace.

Secondo un diverso orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del combinato disposto del “nuovo” art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4 D.Lgs. 274/2000, il giudice di pace non ha più alcuna competenza in materia di lesioni personali, poiché le ipotesi perseguibili a querela sono ora previste tutte nel primo comma dell’art. 582 c.p. e dall’art. 4, limite di ogni altro metodo ermeneutico, ivi compreso quello dell’interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso, ha ritenuto che nella interpretazione delle citate disposizioni occorra farsi guidare da una interpretazione letterale, limite insuperabile anche qualora si proceda a una interpretazione estensiva, ai sensi degli artt. 12 preleggi e 101, comma 2, Cost. Tuttavia, il rispetto della lettera della legge impone di esaminare la singola disposizione in modo sistematico, per individuare il preciso significato e l’ambito applicativo della stessa, ovvero considerando tutte le norme riferite alla disciplina dell’identica vicenda che si pongano tra loro in rapporti di reciproca interferenza, dal momento che le disposizioni normative non possono mai essere prese in considerazione isolatamente, dovendo sempre essere valutate come componenti di un “insieme” tendenzialmente unitario, in coordinamento con le altre riferite alla disciplina dell’identica vicenda. Per tale ragione, la Suprema Corte afferma che l’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, va letto in combinato disposto con l’art. 15, comma 1, L. 24 novembre 1999, secondo una interpretazione sistematica, che valorizza il dato testuale risultante dal combinato disposto delle due previsioni normative.

In questa prospettiva, è possibile ritenere che, tra i possibili significati attribuibili al dato testuale del combinato disposto delle due previsioni normative, rientra senz’altro anche quello secondo cui sono devoluti alla competenza del giudice di pace i delitti consumati o tentati di lesione personale, quando la procedibilità per gli stessi sia a querela e fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento.

*Contributo in tema di “Delitto di lesioni personali e competenza”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Millantato credito e traffico di influenze illecite Sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito e il reato di traffico di influenze illecite?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346bis c.p., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della L. 3/2019; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma 2, c.p., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice. – Cass., Sez. Un., 15 maggio 2024, n. 19357.

Il caso da cui scaturisce il rinvio alle Sezioni Unite Penali è quello di un soggetto, detenuto in carcere, il quale convinceva un altro recluso a promettergli del denaro in cambio dell’intermediazione che il primo avrebbe esercitato su di un agente penitenziario, rimasto ignoto, per evitare che l’altro recluso fosse trasferito in altra struttura detentiva, nonostante tale trasferimento non fosse stato programmato dall’amministrazione penitenziaria. Nelle more del giudizio – nel quale inizialmente si procedeva per il delitto ex art. 319quater c.p. – interveniva la L. 3/2019 che introduceva il reato di cui all’art. 346bis c.p., per cui l’imputato veniva condannato dalla Corte d’Appello che riformulava la condanna di primo grado.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è relativo alla possibilità di ravvisare continuità normativa tra l’abrogata fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346bis c.p.), con particolare riguardo alla punibilità del “venditore di fumo” (ovvero del soggetto che chieda ad un soggetto denaro o altre utilità in cambio della sua intermediazione presso un pubblico ufficiale, quanto tuttavia tale influenza non esista, configurandosi la stessa quale mera occasione per ingannare il privato).

La soluzione positiva si fondava su due ordini di considerazioni. In primo luogo la volontà del legislatore del 2019 sarebbe stata quella di conformarsi agli obblighi di criminalizzazione imposti dalle fonti sovranazionali e, pertanto, l’introduzione dell’art. 346bis c.p. dovrebbe “ampliare” lo spettro delle condotte punibili, certamente non restringerlo. In secondo luogo si sostiene che le condotte che l’art. 346, comma 2, c.p. riconduceva al “pretesto” di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, coinciderebbero con le “relazioni (reali o) asserite” di cui all’art. 346bis c.p.

La soluzione negativa, invece, parte innanzitutto dalla considerazione che, innanzitutto, ci sarebbe diversità strutturale già nei beni tutelati tra il millantato credito di cui all’art. 346, comma 2 c.p. ed il nuovo 346bis c.p.. Infatti se nella prima norma assume una rilevanza centrale la tutela del patrimonio del compratore “circuito” dalla millanteria, la nuova disposizione è incentrata sull’anticipazione della tutela del buon andamento della p.a. che, nel caso del venditore di fumo, non risulterebbe affatto intaccata. A seguire la medesima giurisprudenza ha a più riprese osservato che non può farsi coincidere il “pretesto” del vecchio millantato credito con le “relazioni asserite” del traffico di influenze illecite. La prima espressione, infatti, designa un rapporto che l’intermediario sa inesistente e che viene utilizzato per raggirare il privato “compratore di fumo”; la seconda espressione delinea invece una serie di rapporti dell’intermediario i quali possano far aspirare il privato al favorevole esercizio del patrimonio pubblico, pure se tale risultato non si configuri come sicuro.

Le Sezioni Unite, investite della questione controversa in giurisprudenza, sposano la tesi della discontinuità tra le due fattispecie di reato, precisando quanto segue. Innanzitutto la differenza strutturale tra le due fattispecie emerge anche solo dalla considerazione che, mentre il millantato credito era reato monosoggettivo, il nuovo traffico di influenze illecite, ai sensi del comma 2, è reato necessariamente plurisoggettivo nel quale entrambe le parti vengono sanzionate se c’è la relazione con il pubblico ufficiale. Si riafferma inoltre che, per quanto concerne l’offensività delle condotte di cui all’art. 346bis c.p., ora il bene giuridico tutelato è certamente il solo buon andamento della pubblica amministrazione che, nel caso di un’influenza solo millantata, non sarebbe di certo offeso. Non possono essere dirimenti, in senso contrario, le pur valide obiezioni che valorizzano l’astratta volontà del legislatore di ampliare le ipotesi di reato punibili e non certo di restringerle: sul punto, infatti, per pacifico insegnamento giurisprudenziale si evidenzia che anche l’interpretazione sistematica non può comunque ignorare la formulazione ed il significato letterale delle norme di legge (cfr. Cass., Sez. Un., 19 maggio 1999, n. 11).

Per quanto concerne l’offesa al patrimonio del “compratore di fumo” – che la giurisprudenza prevalente vedeva offeso nel vecchio reato di millantato credito – la Corte si occupa anche della punibilità della condotta del “venditore di fumo” a titolo di truffa. La questione impone di valutare se tra il delitto di truffa e l’abrogata fattispecie di millantato credito (e, in particolare, delle condotte di cui al secondo comma) sussista un rapporto di specialità e, quindi, se possa ravvisarsi un fenomeno di abrogatio sine abolitione. Il rapporto di specialità ex art. 15 c.p., secondo le conclusioni sulle quali si è attestata la giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664), va investigato alla luce della comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non essendo valorizzabili, per un deficit di legalità, i criteri di assorbimento e consunzione.

Nel caso in esame le Sezioni Unite evidenziano come, confrontando la struttura delle due fattispecie, tra esse non possa rinvenirsi un rapporto di specialità unilaterale ma, piuttosto, di specialità bilaterale poiché ognuna presenta elementi specializzanti rispetto all’altra: il pretesto di dover comprare la funzione nel millantato credito, l’ingiusto profitto e l’induzione in errore nella truffa). Tale rapporto di interferenza esclude che tra i due reati possa individuarsi una continuità temporale con “riespansione” della norma generale e, pertanto, la condotta del venditore di fumo sarà punibile purché nel processo sia stato contestato anche quest’ultimo reato e ne siano stati accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi.

(*Contributo in tema di “Millantato credito e traffico di influenze illecite”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Vendita immobile oggetto di locazione e pagamento quote condominiali In presenza di un contratto di compravendita di un immobile oggetto di locazione, il cessionario acquirente dell’immobile subentra nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio

 

In mancanza di una contraria volontà dei contraenti, la vendita di immobile oggetto di locazione (vale anche per la donazione o cessione) determina, ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., la surrogazione del terzo acquirente (o donatario o cessionario) nei diritti e nelle obbligazioni del venditore (o donante o cedente) che sia anche locatore senza necessità del consenso del conduttore, perciò anche il subentro nell’obbligo di pagamento delle quote condominiali del condominio di cui fa parte l’immobile locato. – Cass., sez. II, 4 marzo 2024, n. 5704.

 Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a scrutinare il ricorso per cassazione con cui si richiedeva di definire gli effetti rinvenienti dalla stipula di un contratto di compravendita avente ad oggetto un immobile locato.

La pronuncia in esergo prende le mosse da un’articolata vicenda processuale in cui un Condominio – dopo aver infruttuosamente esperito due procedure di espropriazione mobiliare nei confronti del titolare di un immobile per il mancato pagamento di contributi condominiali negli anni dal 2008 al 2014 – agiva in giudizio per chiedere l’emissione di un provvedimento monitorio nei confronti della società (ex proprietaria-cedente) che aveva ceduto gli immobili al soggetto moroso, e da cui, medio tempore, aveva riacquistato gli stessi, salvo poi cederli in locazione.

La società ingiunta ricorreva in giudizio promuovendo opposizione a decreto ingiuntivo, anche in virtù della tempestiva comunicazione che era stata al Condominio circa l’avvenuta cessione, al soggetto moroso) delle due unità immobiliari interessate.

Il giudice di prime cure, con una sentenza poi confermata in appello, rigettava la domanda dell’opponente.

Viene proposto, quindi, ricorso per Cassazione, articolato in una pluralità di motivi di gravame.

In particolare, con il primo motivo si denunciava la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1118 e 1123 c.c., nonché dell’art. 63 disp. att. c.c., in quanto il giudice di appello, muovendo da una non corretta qualificazione in sede monitoria della domanda del condominio, sarebbe incorso in un’errata applicazione delle norme sul pagamento del quantum debeatur.

Nel secondo argomento di censura si eccepivano due questioni intrinsecamente connesse: per un verso, la violazione dei criteri di ripartizione degli oneri probatori (artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c.), nella parte in cui i giudici di appello avevano imputato all’opponente (i.e. la società) l’obbligo di esibire il contratto da cui rilevare il trasferimento dell’immobile al cessionario inadempiente, trattandosi di elemento fattuale pacificamente ammesso; per altro verso, la violazione del principio di irretroattività della legge in relazione all’applicazione dell’art. 63 disp. att. c.c., avendo applicato tale disposizione nella formulazione introdotta nel 2012, ad una fattispecie anteriore a tale data.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso di parte denuncia l’illegittima inversione dell’onere della prova in sede di gravame, nella parte in cui era stato imputato erroneamente alla società l’onere di dimostrare l’inesistenza in capo a sé della qualità di condomina con riferimento al periodo della morosità e non già al Condominio, anche tenuto conto di tutte le vicende di cessione e di successivo riacquisto degli immobili.

Ne consegue, in punto di diritto, che l’ingiunto destinatario del ricorso per decreto ingiuntivo andava individuato nel cessionario e non già nella società cedente, la quale – tutt’al più – avrebbe potuto rispondere, per effetto della sopravvenuta entrata in vigore della modifica apportata al citato art. 63 disp. att. c.c., solo delle ultime due annualità.

Alla luce del summenzionato iter argomentativo, la Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa al Tribunale, il quale dovrà attenersi ai principi di diritto evidenziati in massima.

(*Contributo in tema di “Vendita di immobile oggetto di locazione e obbligo di pagamento delle quote condominiali”, a cura di Umberto De Rasis, Maurizio Della Ventura e Federica Florio, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

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Richiesta di rinvio pregiudiziale e mancata pronuncia Si configura l’errore revocatorio in caso di mancata pronuncia sulla richiesta di rinvio pregiudiziale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, pur se il giudice nazionale di ultima istanza non può essere obbligato dalle parti a presentare una domanda di rinvio pregiudiziale, tuttavia è obbligato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio. – Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3164.

La Sezione ha ritenuto che, pur se il giudice nazionale di ultima istanza non può essere obbligato dalle parti a presentare una domanda di rinvio pregiudiziale, è tuttavia obbligato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio e nel caso in cui ritenga di non rinviare dovrà motivare sul difetto di rilevanza o sulle altre ragioni di esonero dall’obbligo di rinvio, ciò considerata la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia EU.

In ragione del sistema di cooperazione tra la Corte di giustizia EU e i giudici nazionali di cui all’art. 267 T.F.U.E., terzo paragrafo, il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. va riferito anche all’istanza di rinvio pregiudiziale avanzata dalle parti.

Pertanto, l’omissione di pronuncia sull’istanza di rinvio pregiudiziale risulta equiparabile all’omessa pronuncia su domanda o eccezione di parte, implicando che anche a tale fattispecie sono applicabili i principi sulla rilevanza del processo causale che ha determinato l’omessa pronuncia non ex se ma come risultato di un vizio dovuto ad errore di fatto revocatorio. Dunque, anche per l’istanza di rinvio pregiudiziale, l’errore revocatorio è configurabile in ipotesi di omessa pronuncia, purché si evinca dalla sentenza che in nessun modo il giudice ha preso in esame l’istanza.

Contributo in tema di “Richiesta di rinvio pregiudiziale e mancata pronuncia”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Nesso di causalità e interruzione da concause successive Il nesso di causalità che collega le condotte omissive o commissive dell’imputato all’evento lesivo prodotto, può essere interrotto da concause successive idonee a determinare l’evento?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Con riferimento al nesso di causalità, fermo il principio della c.d. equivalenza delle cause o della conditio sine qua non, le cause sopravvenute intanto possono giudicarsi atte ad interrompere il nesso di causalità con la precedente azione o omissione dell’imputato, in quanto diano luogo ad una sequenza causale completamente autonoma da quella determinata dall’agente, ovvero ad una linea di sviluppo dell’azione precedente del tutto autonoma ed imprevedibile, ovvero ancora nel caso in cui si prospetti un processo causale non totalmente avulso da quello antecedente, ma caratterizzato da un percorso totalmente atipico, di carattere assolutamente autonomo ed eccezionale ovverosia integrato da un evento che non si verifica se non in fattispecie del tutto imprevedibili, tali non essendo ad esempio, l’eventuale errore medico. – Cass., sez. IV, 14 marzo 2024, n. 10656.

L’art. 41 c.p. afferma a tal proposito, il principio dell’equivalenza delle cause, stabilendo da un lato la responsabilità del soggetto agente seppure in presenza di cause indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, qualora sia provato che l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato a prescindere da esse. Dall’altro la non responsabilità del soggetto agente innanzi a cause sopravvenute del tutto eccezionali, atipiche ed anomale rispetto al decorso dei fatti, in base ad un giudizio prognostico e controfattuale.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte omissive dell’agente e l’evento morte del soggetto leso, tenuto conto delle cause determinanti la morte. In primo e secondo grado era stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato, in considerazione di una ricostruzione dei fatti che vedeva l’imputato aver posto in essere una condotta omissiva causativa dell’incidente mortale, senza la quale la preesistente condizione medica dell’infortunato non sarebbe degenerata a tal punto da causarne il decesso. Per tutto il giudizio di merito infatti, la dinamica dell’infortunio non è mai stata oggetto di contestazione, ad esserlo invece è stato il nesso di causalità che ricollega l’evento morte alle condotte dell’agente, non potendosi escludere – a dire del ricorrente – che il decesso fosse sopraggiunto per causa anomala ed indipendente rispetto alle lesioni di cui all’infortunio.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando violazione di legge penale e vizio di motivazione quanto al ritenuto nesso causale tra la condotta dell’imputato e il decesso della vittima. Il prevalente e consolidato orientamento interpretativo del disposto dell’art. 41, comma 2 c.p., più volte riaffermato dalla giurisprudenza di legittimità e sopra riportato è stato ripreso nella decisione de qua della Corte che, ritenendo il motivo infondato ha rigettato il ricorso.

Contributo in tema di “Nesso di causalità, condotte omissive e commissive e interruzzione da concause successive”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

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Scriminante legittima difesa per chi ha provocato la situazione di pericolo È possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, quando il soggetto che la invoca abbia lui stesso provocato la situazione di pericolo o si sia alla stessa volontariamente esposto pur avendo la possibilità di sottrarsi?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non è possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, nemmeno putativa, quando il soggetto che la invoca ha provocato lui stesso la situazione di pericolo, ovvero ha “accettato la sfida” innescando una sorta di duello con l’avversario, e nemmeno è invocabile quando il soggetto si è volontariamente esposto al pericolo, pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso in presenza di un commodus discessus. La legittima difesa è, infatti, configurabile, solo quando l’autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all’offesa mediante aggressione. – Cass., sez. I, 5 marzo 2024, n. 9435.

L’imputato propone ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari e confermata dal Tribunale del Riesame, lamentando l’errata applicazione delle norme sul riconoscimento della scriminante della legittima difesa, anche putativa.

Il fatto storico ha ad oggetto una lite condominiale tra due famiglie iniziata con ingiurie ed offese reciproche scambiate dai balconi delle rispettive abitazioni. A seguito delle aggressioni verbali, l’imputato era sceso nell’androne del palazzo armato di coltello e, una volta raggiunto dalla vittima, si scagliava contro la stessa colpendola più volte all’addome, provocandone la morte.

La difesa evidenzia il vizio di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale del Riesame che – erroneamente – non ha riconosciuto la scriminante della legittima difesa, almeno putativa, in considerazione del fatto che l’indagato aveva temuto che la vittima avesse con sé una pistola che già in precedenti occasioni aveva minacciato di voler usare. Non solo. Sostiene la difesa che i giudici non avrebbero considerato che, secondo la giurisprudenza costante, la scriminante può essere riconosciuta anche se il pericolo è stato volontariamente causato dall’aggressore che non poteva evitarlo con la fuga, circostanze, queste, ritenute sussistenti nella fattispecie de qua.

Il Tribunale del Riesame, invece, ha escluso l’applicazione della scriminante perché l’aggressione nell’androne era iniziata per volontà dell’imputato contro la vittima, perché non era stata provata la circostanza che quest’ultima potesse avere con sé una pistola, ma soprattutto perché l’imputato si era volontariamente esposto al pericolo e, quindi, ad una possibile reazione della vittima quando, invece, ben avrebbe potuto rifugiarsi nella propria abitazione o andare in strada dove c’erano molte persone.

La Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla difesa ritenendo che la decisione impugnata sia perfettamente conforme ai consolidati principi giurisprudenziali.

Smentendo, infatti, l’affermazione del difensore dell’imputato, la Corte evidenzia che è pacifico e consolidato in giurisprudenza che la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, non può essere riconosciuta quando il soggetto che la invoca abbia causato, o abbia concorso a causare, la situazione di pericolo; nemmeno può essere riconosciuta quando il soggetto si sia volontariamente esposto al pericolo pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso senza pregiudizio o quando il soggetto abbia “accettato la sfida” con il proprio avversario perché in tal caso manca la convinzione di dover agire per lo scopo difensivo.

Contributo in tema di “Scriminante della legittima difesa invocata da chi ha provocato la situazione di pericolo”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio Come occorre impostare il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio ai fini della distinzione tra i reati di incendio e di danneggiamento seguito da incendio?

Quesito con risposta a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano

 

Il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio va formulato sulla base di una prognosi postuma, “ex ante”, rapportato al momento in cui l’autore ha posto in essere la propria azione, e non già tenendo conto di come il fatto si è concluso. Il giudizio prognostico, inoltre, deve essere a base parziale, ovvero fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (Cass., sez. I, 16 novembre 2023, n. 5527).

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la qualifica giuridica del fatto in oggetto.

È stata applicata, a seguito di ordinanza, la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, ritenendo sussistenti gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di cui all’art. 423 c.p., per avere egli cagionato l’incendio di un’autovettura posteggiata in un’area di parcheggio, cospargendo il veicolo di liquido accelerante ed innescando il fuoco che, avvolgendo il mezzo, lo ha distrutto, con l’aggravante di aver commesso il fatto in orario notturno e in circostanze di tempo tali da ostacolare la pubblica e privata difesa.

L’indagato, a seguito di riesame, è stato rimesso in libertà, previa riqualificazione del fatto di reato ai sensi dell’art. 424, comma 1, c.p.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione dal Procuratore della Repubblica, contestando la qualificazione giuridica del fatto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha preliminarmente ricordato quanto stabilito da Cass. 17 maggio 2019, n. 29294, relativamente alla distinzione tra reato di incendio di cui all’art. 423 c.p. e reato di danneggiamento a seguito di incendio ex art. 424 c.p.

La differenza inerisce l’elemento soggettivo. Il primo, infatti, richiede la sussistenza del dolo generico e dunque «la volontà di cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e la loro violenza, tendono a propagarsi in modo da creare un effettivo pericolo per la pubblica incolumità, mentre il secondo è caratterizzato dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, senza la previsione che ne deriverà un incendio».

La Cassazione ha, inoltre, richiamato la condivisa interpretazione dell’art. 423 c.p. fornita dalla Cass. 14 dicembre 2021, n. 46402, secondo cui ai fini dell’integrazione di tale delitto occorre distinguere il concetto di fuoco da quello di incendio, poiché si determina quest’ultimo solo quando il fuoco divampi irrefrenabilmente, «così da porre in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone».

È stato chiarito che il giudizio sulla ricorrenza del pericolo di incendio vada formulato sulla base di una prognosi postuma, ex ante, relativa al momento in cui è l’autore ha compiuto la propria azione. Tale giudizio deve essere a base parziale, cioè fondato sulla valutazione delle circostanze concrete esistenti al momento dell’azione, senza che possano rilevare fattori eccezionali o sopravvenuti (così anche Cass. 22 aprile 2010, n. 35769)

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che in sede di riesame si era verificata una omissione della valutazione ex ante.

Alcune circostanze, invece, andavano valorizzate, quali l’utilizzo di liquido accelerante con conseguente flash fire generatosi dallo sversamento di liquido accelerante e la vicinanza dell’autovettura ad alberi ad alto fusto, alla pubblica via, al palo dell’illuminazione elettrica ed un tombino contente cavi elettrici di rame.

Nell’ordinanza impugnata, inoltre, non è stato tenuto conto che, all’arrivo dei Vigili del Fuoco, il fuoco era giunto ad intaccare un albero a grande fusto posto a distanza di 3 m e che , secondo il rapporto dei Carabinieri, qualora le fiamme avessero avvolto il fusto maggiormente, si sarebbe verificato un effetto domino tra gli alberi a causa del quale le fiamme si sarebbero propagate verso gli immobili adiacenti e i veicoli parcheggiati nelle vicinanze.

L’intervento che aveva impedito la diffusione delle fiamme – l’arrivo dei Vigili del Fuoco – costituisce, dunque, fattore esterno, indipendente dalla volontà dell’agente.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e annullato l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del riesame, affinché proceda a nuovo giudizio, attenendosi al principio evidenziato in massima.

 

Contributo in tema di “Reato di incendio e di danneggiamento seguito da incendio”, a cura di Stella Liguori e Raffaella Lofrano, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Accesso al fascicolo digitale e terzo non costituito È possibile l’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, l’accesso al fascicolo digitale da parte del terzo non costituito è possibile e non si pone in contrasto con la disciplina primaria dell’istituto dell’intervento. – Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 12 aprile 2024, n. 5.

Preliminarmente è opportuno ricordare che, in materia di accesso al fascicolo digitale, l’art. 17, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 28 luglio 2021, consente l’accesso, previa autorizzazione del giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel processo. Tale previsione non si pone in contrasto con la disciplina primaria, non alterando i presupposti e le condizioni dell’istituto processuale dell’intervento, che restano disciplinati dagli artt. 28, 50, 51, 97, 102, comma 2, 109, comma 2, c.p.a. La facoltà di accesso al fascicolo è, infatti, funzionale al diritto di difesa, perché in caso contrario il terzo interverrebbe al buio e ciò comporterebbe ingiustificata ed eccessiva restrizione del diritto di difesa di chi aspira a conoscere gli atti di un processo in cui non è stato evocato.

Ad ogni modo, la norma non viola la disciplina in materia di protezione dei dati personali, atteso che, in base al diritto dell’Unione europea, il divieto di trattamento non opera se è necessario accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali.

Contributo in tema di “Accesso al fascicolo digitale e terzo non costituito”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica