bonus mamme

Bonus mamme: la guida Bonus mamme: fino al 2026 esonero totale dei contributi per mamme con tre figli, stop per mamme con due figli

Bonus mamme: esonero contributivo totale

Il bonus mamma è un beneficio contributivo che la legge di bilancio 2024 n. 213/2023  ha previsto per favorire la natalità e il lavoro femminile.

Il comma 180 dell’articolo 1 prevede che per i periodi di paga compresi tra il 1° gennaio 2024 fino al 31 dicembre 2026, alle lavoratrici madri di tre o più figli, che hanno un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (escluso quello domestico) spetti un esonero contributivo del 100%.

L’esonero riguarda la quota dei contributi dovuti per invalidità, vecchiaia e superstiti, che sono a carico del lavoratore fino al compimento del 18° anno di età del figlio più piccolo.

Limite annuo dell’esonero contributivo

Il limite annuo dell’esonero è fissato in 3000 euro. L’importo va comunque riparametrato su base mensile.

Facendo un rapido calcolo, e quindi dividendo l’importo annuo di 3000 euro per 12 mensilità l’importo mensile massimo di esonero contributivo è di 250,00 euro.

Esonero in via sperimentale per le mamme con due figli

Il comma 181 dell’art. 1 della legge di bilancio 2024 prevede inoltre, in via sperimentale, in relazione ai periodi di paga compresi tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2024, l’esonero contributivo totale anche per le lavoratrici madri di due figli e con un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato fino al compimento del 10° anno di vita dei figlio più piccolo. Da questo esonero sono esclusi però i rapporti di lavoro domestico.

Esonero contributivo: come fare?

Con la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 l’INPS ha fornito le istruzioni sugli aspetti pratici della misura. Il documento dispone che le lavoratrici in possesso dei requisiti richiesti per ottenere l’esonero possano comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersene. A tal fine devono comunicare il numero dei figli e per ciascuno di essi il codice fiscale. I datori di lavoro possono quindi esporre nelle denunce retributive l’esonero spettante alla lavoratrice.

In alternativa, la lavoratrice potrà comunicare direttamente all’INPS il numero dei figli e i codici fiscali di ciascuno, compilando un applicativo dedicato.

Il messaggio INPS del 6 maggio 2024 n. 1702 ha infatti comunicato il rilascio dell’applicazione denominata “Utility esonero lavoratrici madri” il cui utilizzo è limitato alle lavoratrici fruitrici del bonus i cui figli non abbiano i codici fiscali inseriti nel flusso Uniemens.

Bonus mamme: compatibilità esoneri a carico datore

Poiché il bonus mamme va a sgravare la lavoratrice dal pagamento dei contributi dovuti per la sua quota, esso è compatibile con gli esoneri contributivi previsti per i datori di lavoro.

Il bonus mamme è alternativo però all’esonero sulla quota dei contributi previdenziali dovuti per invalidità, vecchiaia e superstiti, ossia sulla quota IVS, che sono sempre a carico del lavoratore, come previsto dal comma 15 dell’art. 1 della legge di bilancio 2024.

Bonus mamme 2025: precisazioni INPS

Come precisato dal messaggio INPS n. 401 del 31 gennaio 2025 la legge di bilancio non ha confermato il bonus mamme previsto dal comma 181 della legge di bilancio 2024. Le mamme con due figli e con contratto a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2025 infatti non beneficeranno più di questo bonus.

Continuano invece a beneficiare del bonus le mamme lavoratrici con tre figli perché la misura è stata confermata fino al 2026 “anche nelle ipotesi in cui la nascita (o laffido/adozione) del terzo figlio (o successivo) si verifichi nel corso delle annualità 2025-2026″. 

L’INPS chiarisce infine che la legge di bilancio 2025, dal 1° gennaio 2025, ha previsto in favore delle lavoratrici dipendenti (escluso il settore del lavoro domestico) e autonome con retribuzione o reddito imponibile ai fini previdenziali non superiore a 40.000 euro su base annua un esonero contributivo parziale “della quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore.” Queste donne devono essere mamme di due o più figli e l’esonero spetta fino al compimento del 10° anno del figlio più piccolo.

 

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rifiuto rapporti sessuali

Rifiuto rapporti sessuali: addebito del divorzio contrario alla CEDU Rifiuto rapporti sessuali: contrasta con il rispetto della vita privata ritenerlo causa di addebito del divorzio

Rifiuto rapporti sessuali nel vincolo matrimoniale

Rifiuto rapporti sessuali e addebito del divorzio. La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 23 gennaio 2025 affronta il tema del dovere coniugale di intrattenere rapporti sessuali e dei riflessi giuridici per il coniuge che non lo rispetta. La decisione a cui giunge la Corte riconosce il diritto di ogni individuo di scegliere se avere o meno rapporti sessuali, anche all’interno del matrimonio. Il consenso, ha ribadito la Corte, è un elemento imprescindibile per la libertà sessuale e qualsiasi atto sessuale non consensuale costituisce violenza. I giudici sono chiamati a interpretare le norme sui diritti e doveri coniugali in linea con il rispetto della vita privata e della libertà sessuale di ciascun coniuge.

Rifiuto rapporti sessuali: divorzio addebitato alla moglie

La sentenza pone fine a una vicenda che vede protagonista una coppia francese in crisi matrimoniale. L’autorità giudiziaria competente addebita il divorzio alla moglie, ritenuta responsabile di aver interrotto i rapporti intimi con il marito per oltre dieci anni. La Corte d’Appello di Versailles ha ritenuto questo rifiuto una violazione grave e ripetuta dei doveri matrimoniali, rendendo intollerabile la vita comune. La donna però ha impugnato la decisione fino alla Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso. A quel punto, la parte soccombente ha adito la Corte Edu, affermando il suo diritto al rispetto della vita privata (articolo 8 Cedu), che la sentenza avrebbe violato.

Diritto francese: i rapporti sessuali sono un dovere coniugale

Il codice civile francese, così come quello italiano, prevede una serie di diritti e doveri derivanti dal matrimonio, tra cui la “comunione di vita”, spesso interpretata come “comunità di letto”. La giurisprudenza francese include tra i doveri coniugali anche quello di intrattenere rapporti sessuali, sanzionando la prolungata astensione dalle relazioni intime.

Vita privata comprende quella sessuale, serve consenso

La Corte Edu però ha accolto il ricorso della donna, rilevando una violazione dell’articolo 8 della Cedu da parte dell’ordinamento francese. La Corte ha sottolineato come la nozione di “vita privata” includa anche la vita sessuale e che, di conseguenza, qualsiasi ingerenza in tale ambito debba essere giustificata e proporzionata. Nel caso specifico, la Corte ha criticato l’approccio del diritto francese, che sanziona il rifiuto di rapporti sessuali all’interno del matrimonio. Un tale obbligo, secondo la Corte, è sproporzionato e contrario al principio per cui solo ragioni gravi possono giustificare ingerenze nella sfera sessuale.

La Corte ha inoltre evidenziato come il dovere coniugale, previsto dall’ordinamento francese, non tenga conto del consenso ai rapporti sessuali, elemento fondamentale per la libertà sessuale di ciascun individuo. Qualsiasi atto sessuale non consensuale, ha ricordato la Corte, costituisce violenza sessuale.

Cosa prevede l’ordinamento italiano

Anche l’ordinamento italiano, pur non prevedendo espressamente un obbligo di vita sessuale, include tale aspetto tra i doveri coniugali. Il rifiuto di intrattenere rapporti sessuali può essere sanzionato con l’addebito della separazione, come confermato da diverse sentenze della Cassazione.

Attenzione però, perché la sentenza della Corte Edu impone una nuova interpretazione delle norme che regolano i rapporti coniugali. I giudici dovranno quindi considerare la vita sessuale come un elemento importante della relazione, ma mai determinante per una pronuncia sanzionatoria nei confronti del coniuge che rifiuti il proprio consenso a rapporti sessuali.

 

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affidamento condiviso

Affido condiviso L’affido condiviso (o affidamento condiviso) e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affido condiviso nella separazione

L’affido condiviso (o affidamento condiviso) è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

Affido congiunto e affido esclusivo

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole. Come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo.

Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli; e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile. Lo stesso dispone che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”.

Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

La casa familiare

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

Stabilità di vita

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affido condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

Diritto all’ascolto del minore

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Revisione affido condiviso figli

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

casa famiglia

Casa famiglia per il figlio che usa troppo il cellulare Casa famiglia per il minore problematico che cresce in un ambiente conflittuale e fa un uso smodato dello smartphone

Casa famiglia per figlio che fa uso smodato del cellulare

Un ragazzo di 13 anni viene collocato in una casa famiglia per decisione del Tribunale per i minorenni competente. La vicenda ruota attorno a una situazione familiare estremamente delicata, caratterizzata da alta conflittualità tra i genitori, episodi di violenza domestica e comportamenti problematici del minore, come l’uso smodato del cellulare. I genitori ovviamente si oppongono alla decisione di primo grado e poi a quella della Corte di’Appello. La Cassazione però con l’ordinanza n.1832/2025 respinge il ricorso dimostrando anche di condividere le conclusioni del giudice di primo grado sull’importanza di una corretta educazione digitale.

Collocazione del minore in casa famiglia

La vicenda prende avvio da una richiesta del Pubblico Ministero presso il Tribunale per i minorenni di Salerno, che nell’aprile 2022 ha chiesto la decadenza della responsabilità genitoriale. La situazione familiare era critica: i genitori non riuscivano a gestire i conflitti, e il figlio mostrava comportamenti aggressivi e una forte dipendenza dai dispositivi elettronici, in particolare dal cellulare. I servizi sociali, intervenuti per monitorare la situazione, hanno rilevato ulteriori problemi, tra cui difficoltà scolastiche e scarsa capacità dei genitori di garantire un ambiente stabile.

Il Tribunale ha deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori, disponendo l’affidamento del ragazzo ai servizi sociali. Il minore è stato collocato in una casa famiglia, con il divieto assoluto di utilizzare dispositivi elettronici. Inoltre, i contatti con i genitori sono stati limitati e demandati a successivi accertamenti.

Entrambi i genitori hanno impugnato il provvedimento, presentando ricorso alla Corte d’Appello. La Corte d’Appello, tuttavia, ha respinto i ricorsi, confermando la validità della decisione del Tribunale.

Nomina tardiva del curatore e pregiudizio per il minore

I genitori hanno quindi fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando cinque motivi principali di impugnazione. Tra questi, hanno ribadito la presunta violazione del diritto del minore a essere rappresentato adeguatamente e l’assenza di un difensore per il figlio nel primo grado di giudizio. Tuttavia, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze, stabilendo che, pur in presenza di errori procedurali, non era stato arrecato un concreto pregiudizio al minore.

Secondo i giudici, la nomina tardiva del curatore speciale non aveva inciso negativamente sull’esito del processo. Infatti, il curatore nominato successivamente ha potuto partecipare attivamente al giudizio d’appello, rappresentando gli interessi del minore in modo autonomo e indipendente.

La Cassazione ha richiamato anche il principio secondo cui l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. In situazioni di conflitto familiare e inadeguatezza genitoriale, è necessario intervenire prontamente per garantire un ambiente sereno al bambino. La collocazione in casa famiglia è stata ritenuta una misura adeguata, viste le difficoltà dei genitori di fornire un contesto stabile e protetto.

Inoltre, i giudici hanno sottolineato l’importanza di procedere con celerità in questi casi, evitando inutili ritardi che potrebbero aggravare il disagio del minore. Sebbene la nomina tardiva del curatore speciale rappresenti un errore procedurale, non ha reso nullo il processo, poiché il minore è stato adeguatamente rappresentato nelle fasi successive.

Educazione digitale: vietato l’uso dello smartphone

Un elemento centrale del caso è  luso eccessivo del cellulare da parte del ragazzo. Questo aspetto è emerso come un campanello d’allarme, evidenziando un problema diffuso tra i giovani. La dipendenza da dispositivi elettronici può avere conseguenze negative sullo sviluppo emotivo, sociale e scolastico dei ragazzi. In questo caso, il Tribunale ha scelto di vietare al minore l’utilizzo di smartphone e tablet, ritenendoli un fattore aggravante della sua situazione, già sufficientemente problematica.

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assegno divorzile

Assegno divorzile: quando si può chiedere la riduzione Assegno divorzile: la riduzione della misura non può essere accolta se il coniuge obbligato non prova il peggioramento delle sue condizioni

Assegno divorzile: riduzione respinta

Il Tribunale di Matera, con la sentenza n. 875 del 6 dicembre 2024, ha respinto la richiesta di riduzione dell’assegno divorzile avanzata da un ex coniuge. La domanda riduzione dell’assegno divorzile infatti può essere accolta solo in presenza di un effettivo peggioramento delle condizioni economiche del coniuge obbligato. Tale peggioramento però deve essere dimostrato in modo chiaro e documentato.

Domanda di riduzione dell’assegno di divorzio

Un pensionato ricorre in giudizio per chiedere la riduzione dell’assegno divorzile corrisposto all’ex moglie. L’uomo sostiene il peggioramento della sua situazione economica, a causa di una pensione insufficiente, finanziamenti da rimborsare e il pagamento dell’affitto. Per sopravvivere, ha iniziato a lavorare saltuariamente presso un fruttivendolo. Il ricorrente tuttavia dichiara di avere a disposizione solo poche centinaia di euro al mese.

L’ex moglie però contesta tali affermazioni. Ella sostiene che le difficoltà economiche del ricorrente sono in realtà conseguenza delle sue scelte personali. In ogni caso anche lei è gravata da un finanziamento mensile.

Riduzione assegno: serve prova peggioramento condizioni

Il Tribunale di Matera analizza dapprima la situazione patrimoniale di entrambe le parti e in decisione richiama i principi sanciti dalla giurisprudenza. La riduzione dell’assegno divorzile può avvenire solo se il richiedente dimostra un effettivo peggioramento delle proprie condizioni economiche, tale da richiedere una nuova valutazione del rapporto economico tra gli ex coniugi.

Nel caso specifico, però, il Tribunale ha rilevato che il ricorrente non ha subito un reale impoverimento. Dai documenti presentati, infatti, emerge che i suoi redditi mensili sono in realtà  superiori a quanto dichiarato. Il ricorrente, oltre alla pensione, percepisce ulteriori somme derivanti dal lavoro presso il fruttivendolo, pari a circa 1.200 euro mensili. L’uomo inoltre riceve un contributo dal Comune per coprire parte delle spese di affitto.

L’ex moglie, invece, dispone di una pensione netta di 614 euro al mese, ma deve rimborsare un finanziamento mensile di circa 168 euro. Alla luce di queste considerazioni, il tribunale ritiene ingiustificata la riduzione dell’assegno divorzile.

L’impegno lavorativo del pensionato migliora situazione

La sentenza sottolinea che l’impegno lavorativo del ricorrente, sebbene apprezzabile, non costituisce un obbligo giuridico. Vero però che i redditi derivanti dal lavoro contribuiscono a migliorare la sua situazione economica. Di conseguenza, l’assegno divorzile, stabilito in precedenza, resta adeguato a garantire l’equilibrio tra gli ex coniugi.

 

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rimborsi adozioni internazionali

Rimborsi adozioni internazionali: come fare domanda Rimborsi adozioni internazionali: dal 7 gennaio al 6 aprile 2025 è possibile presentare le istanze per il recupero delle spese

Rimborsi adozioni internazionali: le novità

Il decreto del Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità del 6 agosto 2024 ha introdotto importanti disposizioni per i rimborsi delle spese relative alle adozioni internazionali. Il provvedimento, registrato dalla Corte dei Conti il 12 settembre 2024, prevede:

  • le modalità per richiedere i rimborsi delle spese sostenute per le adozioni concluse nel 2023;
  • la riapertura dei termini per le richieste relative alle adozioni concluse nel 2022.

Termini di presentazione della domanda di rimborso

Le domande di rimborso possono essere inviate dalle ore 00:01 del 7 gennaio 2025 fino alle ore 23:59 del 6 aprile 2025. Le domande presentate oltre questa scadenza saranno considerate irricevibili.

Modalità di invio delle istanze

Per le procedure che si cono concluse tra il 1° gennaio e il 31 dicembre sia del 2022 sia del 2023, le istanze devono essere inviate tramite il portale “Adozione Trasparente” della Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI). L’accesso al portale richiede l’autenticazione con SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) o CIE (Carta d’Identità Elettronica).

Per alcune situazioni specifiche, come previsto dall’art. 36, comma 4, della legge n. 184/1983, o per chi ha adottato senza l’ausilio di un Ente autorizzato, le istanze possono essere inviate:

  • con raccomandata con avviso di ricevimento;
  • Per Posta Elettronica Certificata (PEC) all’indirizzo segreteria@pec.governo.it

Documentazione richiesta

Per garantire l’ammissibilità della domanda, è indispensabile presentare tutti i documenti richiesti, tra cui:

  • la certificazione delle spese sostenute rilasciata dall’Ente autorizzato;
  • l’attestazione ISEE in corso di validità;
  • la copia dei documenti d’identità dei coniugi.

In caso di adozione pronunciata all’estero e riconosciuta in Italia, è necessario allegare anche:

  • il provvedimento del Tribunale per i minorenni che riconosce l’adozione;
  • l’autocertificazione )Modello B DPR 445/2000) e la documentazione contabile delle spese sostenute.

Per le adozioni di minori “special needs”, è obbligatorio includere una dichiarazione attestante questa condizione.

Rimborsi adozioni internazionali importi

Il rimborso massimo è determinato in base alla fascia di reddito ISEE:

  • fino a 25.000 euro: rimborso massimo di 11.400 euro;
  • tra 25.001 e 40.000 euro: rimborso massimo di 9.000 euro;
  • oltre 40.000 euro: rimborso massimo di 6.600 euro.

In assenza dell’attestazione ISEE, il rimborso massimo è di 6.600 euro. Le spese rimborsabili includono i costi documentati per assistenza, traduzione, legalizzazione di documenti, trasferimenti e soggiorni all’estero.

Ai fini della quantificazione del rimborso sono esclusi gli importi erogati a titolo di contributo da parte degli enti territoriali con finalità analoghe a quelle di sostegno del percorso preadottivo.

Per i genitori di minori “special needs”, è previsto un contributo aggiuntivo proporzionato alla fascia ISEE, fino a un massimo di 3.420 euro.

Erogazione dei rimborsi adozioni internazionali

Entro 60 giorni, decorrenti dalla scadenza dei termini di presentazione delle istanze la segreteria tecnica della Commissione per le adozioni internazionali conclude la fase di valutazione della ammissibilità delle domande.

La liquidazione del rimborso si verifica una volta conclusa positivamente l’istruttoria della singola istanza.

Ogni rimborso erogato, completo dei dati identificativi del beneficiario, dovrà essere comunicato all’Agenzia delle Entrate per l’elaborazione della dichiarazione precompilata e per l’applicazione di eventuali deduzioni.

Istanze incomplete e assistenza

Le domande incomplete o prive della documentazione richiesta saranno dichiarate inammissibili. Per chiarimenti, è possibile inviare quesiti via email all’indirizzo rimborsi.cai@governo.it, specificando nell’oggetto “quesito DM rimborsi”. Le richieste di assistenza devono pervenire entro 10 giorni dalla scadenza per l’invio delle istanze.

Per maggiori dettagli e per le modalità operative, si invita a consultare il sito della Commissione per le Adozioni Internazionali: www.commissioneadozioni.it.

avvocato del genitore

L’avvocato del genitore tutela anche i figli Nei procedimenti in materia di famiglia, l'avvocato del genitore tutela in automatico anche i figli

Procedimenti in materia di famiglia: difesa estesa

Il ruolo dell’avvocato del genitore, nell’ambito dei procedimenti in materia di famiglia, non si limita alla difesa del rappresentato. Il legale deve tutelare anche gli interessi del minore coinvolto. Lo afferma il Consiglio Nazionale Forense, in un recente caso disciplinare che si è concluso con l’emanazione della sentenza n. 291/2024.

Diritto di visita: omessa informazione legale controparte

Una avvocata viene sottoposta a un giudizio disciplinare per presunta violazione dell’articolo 46, comma 7, del Codice Deontologico Forense. Secondo l’accusa, la professionista avrebbe omesso di informare il legale della controparte del deposito di un ricorso giudiziale durante le trattative stragiudiziali avviate. La questione riguarda in particolare la regolamentazione del diritto di visita e l’assegno di mantenimento di un figlio minore.

L’avvocato di controparte sostiene che l’avvocata abbia omesso di comunicargli l’avvenuto deposito del ricorso prima di un incontro, avvenuto il 6 novembre 2017. L’incontro era finalizzato a trovare un accordo stragiudiziale, ma il ricorso era già stato depositato il 3 novembre 2017.

Obbligo di informazione della controparte

Per il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) di Trento l’avvocata ha violato l’obbligo deontologico di informare il collega avversario dell’interruzione delle trattative e dell’inizio di un procedimento giudiziario. La ricorrente, a sua difesa, sostiene di aver preannunciato in realtà il deposito del ricorso. Le prove documentali e le testimonianze raccolte non hanno però confermato questa comunicazione con sufficiente chiarezza.

Per il CDD anche in caso di mancata interruzione formale delle trattative, il comportamento dell’avvocata è comunque contrario ai principi di colleganza e trasparenza richiesti dal Codice Deontologico. Considerata tuttavia la gravità ridotta della violazione, il CDD irroga la sanzione dell’avvertimento.

Procedimenti in materia di famiglia: ruolo dell’avvocato

Il caso mette in evidenza un principio fondamentale nei procedimenti familiari: lavvocato del genitore rappresenta anche, indirettamente, gli interessi del minore. La giurisprudenza sottolinea che il legale non deve limitarsi infatti a tutelare il diritto di difesa del cliente, ma deve agire per ridurre il conflitto tra le parti, proteggendo il benessere del minore.

Nel caso in questione, il deposito del ricorso senza una chiara comunicazione alla controparte ha alimentato il contenzioso, anziché contenerlo. L’avvocata, accettando di partecipare all’incontro del 6 novembre, ha implicitamente riconosciuto l’esistenza di trattative. Il ricorso già depositato tuttavia ha reso queste trattative solo apparenti.

Obbligo di trasparenza e comunicazione

L’articolo 46, comma 7, CDF impone all’avvocato di comunicare tempestivamente al collega avversario l’interruzione delle trattative stragiudiziali. Questo obbligo mira a garantire chiarezza nei rapporti professionali, evitando malintesi che possano compromettere il dialogo tra le parti.

Nel caso di specie, la mancanza di una comunicazione esplicita ha pregiudicato la fiducia tra i legali, con ripercussioni dirette sul procedimento. Il CDD ha sottolineato che l’avvocata avrebbe dovuto informare tempestivamente la controparte del deposito del ricorso, anche per garantire un quadro chiaro della situazione processuale.

L’interesse superiore dei minori

Nei procedimenti familiari, l’interesse superiore del minore deve prevalere su ogni altra considerazione. L’avvocato, in qualità di rappresentante legale di un genitore, assume un ruolo di responsabilità nei confronti del minore. La funzione del legale non si limita quindi a rappresentare il cliente, ma include un dovere di protezione nei confronti dei minori coinvolti.

Il CNF, dinnanzi al quale è giunta la questione disciplinare, ribadisce che l’avvocato deve adottare un approccio collaborativo e trasparente, mirato a ridurre il conflitto e a favorire soluzioni condivise. Questo principio assume un rilievo ancora maggiore nei casi di diritto di famiglia, dove le decisioni prese dai genitori e dai loro rappresentanti legali hanno un impatto diretto sul benessere dei figli.

 

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Divorzio guida legale

Divorzio: guida legale Il divorzio in Italia: disciplina ed evoluzione di un istituto segnato da profondi cambiamenti sociali che hanno inciso soprattutto sui tempi della procedura

Legge 898/1970: normativa divorzio in Italia

Il divorzio in Italia è regolato dalla Legge n. 898 del 1970, una delle pietre miliari del diritto di famiglia italiano. In virtù di questa legge il giudice può pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile quando verifica che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita, previa verifica di una causa specifica prevista dall’art. 3 e dopo un tentativo fallito di conciliazione. Per i matrimoni celebrati con rito religioso e trascritti civilmente, il giudice può dichiarare la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione, seguendo il medesimo iter.

Divorzio giudiziale

La legge n. 898/1970 stabilisce che lo scioglimento o la cessazione possano essere richiesti da un coniuge nei seguenti casi principali:

  • Condanne penali del coniuge:
    • ergastolo o pene superiori a 15 anni per delitti non colposi, escluse specifiche eccezioni;
    • pene per reati gravi come incesto, sfruttamento della prostituzione, omicidio volontario o tentato omicidio del coniuge o figli;
    • condanne per violenze domestiche o abusi sui familiari.
    • Assoluzioni per vizio totale di mente in reati che compromettono la convivenza.
    • Separazioni giudiziali o consensuali protratte per almeno 12 mesi (6 mesi per separazioni consensuali). Questi tempi, ridotti in virtù delle Legge n. 55/2015, in passato erano decisamente più lunghi. Si poteva infatti divorziare dopo tre anni di separazione decorrenti dall’udienza di comparizione dei coniugi in Tribunale.
    • Mancata consumazione del matrimonio, annullamento o scioglimento del matrimonio all’estero da parte di un coniuge straniero, o rettificazione di attribuzione di sesso.

Il Tribunale, accertata la sussistenza di una delle cause suddette, emette una sentenza che ordina la cessazione del matrimonio, obbligando l’ufficiale di stato civile ad annotare tale sentenza.

Effetti del divorzio

Per effetto del divorzio in Italia la donna perde il cognome aggiunto per matrimonio, salvo autorizzazione a conservarlo per motivi di interesse personale o dei figli. Trattasi di una decisione che può essere modificata per gravi motivi. La sentenza di divorzio può prevedere un assegno di mantenimento per il coniuge privo di mezzi adeguati, calcolato in base al contributo alla famiglia, ai redditi e alla durata del matrimonio. L’importo può essere adeguato automaticamente secondo l’inflazione. Su accordo, è possibile una corresponsione in unica soluzione, precludendo future richieste economiche. L’abitazione nella casa familiare viene assegnata prioritariamente al genitore affidatario dei figli o con cui essi convivono dopo la maggiore età. Il giudice considera le condizioni economiche di entrambi i coniugi, favorendo il coniuge più debole. L’assegnazione, se trascritta, è opponibile a terzi acquirenti, come stabilito dall’articolo 1599 del codice civile. Il tribunale disciplina l’amministrazione dei beni dei figli e, nel caso di responsabilità genitoriale condivisa, regola il contributo dei genitori al godimento dell’usufrutto legale.

Divorzio congiunto: alternativa rapida ed economica

Il divorzio a domanda congiunta rappresenta l’alternativa più rapida ed economica al divorzio giudiziale, grazie all’accordo tra i coniugi. La domanda deve essere presentata tramite ricorso al tribunale competente, ossia quello del luogo di residenza o domicilio di uno dei coniugi. Il ricorso deve contenere:

  • i motivi di fatto e diritto per lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se concordatario);
  • le informazioni sull’esistenza di figli comuni;
  • le condizioni concordate per i figli e i rapporti economici;
  • le ultime dichiarazioni dei redditi di entrambi;
  • i documenti essenziali come l’atto di matrimonio, lo stato di famiglia, il certificato di residenza e la copia della separazione consensuale o giudiziale.

Divorzio congiunto con negoziazione assistita

La negoziazione assistita, introdotta con il d.l. n. 132/2014 (convertito nella legge n. 162/2014) consiste in una convenzione tra le parti, assistite dai rispettivi avvocati, per raggiungere un accordo consensuale in buona fede e lealtà.

In materia di separazione e divorzio, l’art. 6 del dl consente ai coniugi di risolvere consensualmente questioni di separazione, cessazione degli effetti civili o modifica delle condizioni di divorzio. La procedura è applicabile sia in assenza che in presenza di figli. Senza figli, l’accordo necessita del nullaosta del Procuratore della Repubblica. In presenza di figli minori o non autosufficienti, il Pubblico Ministero valuta l’interesse della prole. Se necessario, il Tribunale interviene per tutelare i diritti dei figli. L’accordo autorizzato è equiparato ai provvedimenti giudiziali e deve essere trasmesso all’ufficiale di stato civile per gli adempimenti di trascrizione e annotazione.

Il divorzio davanti al sindaco

Il dl n. 132/2014 ha previsto anche il divorzio davanti al Sindaco, a cui non si può ricorrere in presenza di figli minori o maggiore di età non autosufficienti o portatori di handicap grave. L’articolo 12 prevede la possibilità per i coniugi di concludere davanti al sindaco (nella sua qualità di  ufficiale dello stato civile) del comune di residenza di uno di loro o del comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio e con l’assistenza facoltativa di un avvocato un accordo di di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché di modifica delle condizioni di divorzio. L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono il procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di divorzio. Anche questa procedura è più rapida rispetto a quella contemplata dalla legge storica sul divorzio n. 898/1970.

Il divorzio nella Riforma Cartabia

La Riforma Cartabia è intervenuta sull’istituto del divorzio in Italia modificando le regole dei procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie (art. 473 bis c.p.c – art- 473 ter).

Di queste norme, quelle contenute nella sezione II del capo III del Titolo IV bis del Libro II, si occupano anche dello scioglimento del matrimonio.

La norma di maggiore interesse da segnalare è l’art. 473 bis. 49 c.p.c che disciplina il cumulo delle domande di separazione e scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Divorzio: l’importanza della giurisprudenza

Sebbene siano trascorsi più di cinquant’anni dalla sua introduzione, il divorzio in Italia è in continua evoluzione. Questo perché si tratta di un istituto con una serie di implicazioni legali che richiedono una comprensione approfondita delle normative in vigore, ma anche delle più recenti sentenze della Corte di Cassazione. Sebbene il quadro normativo sia consolidato, la giurisprudenza continua infatti ad aggiornarsi, fornendo indicazioni preziose su come applicare le leggi in modo equo e giusto. Le nuove sfide sociali ed economiche e l’attenzione crescente per i diritti dei figli e il trattamento equo dei coniugi, continuano a plasmare l’evoluzione del diritto di famiglia italiano.

Nel corso degli anni, la Corte di Cassazione ha emesso numerose sentenze che hanno contribuito a chiarire e a far evolvere l’interpretazione dei vari interventi legislativi sul divorzio soprattutto per quanto riguarda i diritti e i doveri dei coniugi e l’efficacia delle separazioni. Le sue pronunce sono fondamentali per comprendere l’applicazione concreta delle leggi in contesti complessi. Vediamo che cosa dicono alcune delle sentenze  più significative degli Ermellini.

La separazione come condizione per il divorzio

Una delle tematiche più dibattute in Cassazione riguarda la durata della separazione prima di chiedere il divorzio. In particolare, la Corte ha chiarito che la separazione deve essere “effettiva” e non meramente formale. I coniugi devono cioè dimostrare di vivere in modo separato e di non avere più rapporti di vita comune. Nella sentenza Cass. Civ. n. 19174/2021, la Corte ha ribadito che la separazione deve comportare una “cessazione del progetto coniugale”, e non basta la semplice separazione di fatto.  

Affido dei figli: tema cruciale

Un altro aspetto rilevante delle recenti decisioni della Corte di Cassazione riguarda l’affido dei figli in caso di divorzio. La legge stabilisce che l’affido debba essere condiviso tra i genitori, salvo casi eccezionali in cui uno dei due non possa garantire un ambiente adatto alla crescita del minore. Tuttavia, la Cassazione ha più volte ribadito, come nella sentenza Cass. Civ. n. 15587/2022, che l’affidamento esclusivo di uno dei genitori è una misura estrema, da adottare solo quando il comportamento dell’altro genitore è pregiudizievole per il benessere del bambino. Nel caso in cui i genitori non raggiungano un accordo, la decisione finale spetta al giudice, il quale deve tenere conto dell’interesse del minore come principio fondamentale.

Il mantenimento dell’ex coniuge

Un altro punto centrale nelle dispute del divorzio riguarda il mantenimento. La Corte di Cassazione ha chiarito, con una serie di sentenze, che l’obbligo di mantenimento per il coniuge in difficoltà economiche non è automatico e dipende anche da una valutazione delle risorse economiche di ciascun coniuge. Nella sentenza Cass. Civ. n. 23448/2020, la Corte ha evidenziato che, qualora uno dei coniugi non abbia bisogno di un sostegno economico, non sussiste l’obbligo di versare un mantenimento. Inoltre, è stato affermato che la durata del mantenimento deve essere limitata nel tempo, soprattutto in caso di scioglimento di matrimoni da cui non siano nati figli o in presenza di un’indipendenza economica del coniuge richiedente.

 

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divorzio breve

Divorzio breve: la guida Divorzio breve: la legge n. 55/2015 ha ridotto i tempi del divorzio riducendo il tempo   di attesa dalla separazione consensuale o giudiziale

Divorzio breve: la legge n. 55/2015

Il divorzio breve, introdotto in Italia dalla Legge n. 55 del 2015, ha segnato un’importante evoluzione nel diritto di famiglia italiano. Questa legge ha ridotto significativamente il tempo necessario per ottenere la dissoluzione legale del matrimonio, migliorando così l’efficienza del sistema giuridico e rispondendo alle esigenze di una società sempre più dinamica. In questo articolo, esploreremo l’istituto alla luce della Legge n. 55/2015, analizzando i suoi effetti pratici e le implicazioni per i coniugi coinvolti.

Cos’è il divorzio breve?

Il divorzio breve è un’innovazione legislativa che ha ridotto i tempi necessari per ottenere il divorzio in Italia, abbattendo i periodi del divorzio successivi alla separazione previsti dalla Legge n. 898 del 1970. Questa normativa stabiliva infatti che i coniugi dovessero essere separati per almeno tre anni prima di poter chiedere il divorzio. Con l’introduzione della Legge n. 55/2015, queste tempistiche sono state ridotte. Questo cambiamento ha rappresentato una semplificazione per molte coppie, rendendo più rapida la conclusione di un matrimonio che, per vari motivi, è giunto al capolinea. L’obiettivo della riforma è stato quello di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali e rispondere alle necessità di una società in rapido cambiamento, in cui i legami coniugali si deteriorano più velocemente.

Legge n. 55/2015: modificati i tempi

La Legge n. 55/2015, approvata il 6 maggio 2015, ha modificato l’art. 3 della Legge n. 898 del 1970 (Legge sul Divorzio), che disciplinava i tempi del divorzio. Prima di tale riforma, come anticipato, i coniugi dovevano essere separati legalmente da almeno tre anni per poter ottenere il divorzio. Con l’introduzione del nuovo istituto, i tempi di separazione sono stati drasticamente ridotti, con l’intento di rendere più rapido e accessibile il processo di dissoluzione del matrimonio

La legge ha stabilito infatti che:

  • in presenza di una separazione consensuale, ossia quando i coniugi sono d’accordo sulla separazione e sugli effetti accessori (come l’affidamento dei figli e il mantenimento), il tempo di separazione necessario per chiedere il divorzio è ridotto a 12 mesi.
  • Nell’ipotesi invece di una separazione giudiziale, che viene avviata quando i coniugi non riescono a trovare un accordo e devono ricorrere al tribunale per risolvere le questioni relative alla separazione, il termine per chiedere il divorzio è ridotto a 6 mesi.  

Questa modifica ha reso il processo di divorzio più veloce ed efficiente, contribuendo a ridurre il tempo di attesa per chi desidera mettere fine a un matrimonio.

Come funziona il divorzio breve?

Lo scioglimento del matrimonio breve non cambia le modalità di separazione, ma agisce esclusivamente sui tempi in cui è possibile chiedere il divorzio. Vediamo come funziona nei due principali scenari

  1. La procedura di divorzio breve consensuale può essere avviata dopo 12 mesi dalla separazione consensuale. Il vantaggio principale è che, in questo caso, non è necessario il passaggio in tribunale, se non sono presenti figli minorenni o non ci sono altre problematiche legali da risolvere.
  2. Il divorzio breve giudiziale invece può essere avviato dopo che la separazione legale è stata dichiarata dal giudice. In questo caso i coniugi possono chiedere il divorzio dopo soli 6 mesi. Questo significa che, in caso di separazione giudiziale, i tempi per il divorzio sono molto più rapidi rispetto a quelli previsti prima della legge n. 55/2015.

Divorzio breve quali vantaggi

La Legge n. 55/2015 ha portato numerosi vantaggi, tanto per i coniugi quanto che per il sistema giuridico.

Maggiore rapidità

Il principale vantaggio è rappresentato dalla riduzione dei tempi. Le coppie che hanno già intrapreso un processo di separazione, ma che non sono ancora riuscite a ottenere il divorzio, possono finalmente porre fine al loro matrimonio con maggiore tempestività. Questo è particolarmente importante in un contesto in cui le persone cercano di risolvere rapidamente le difficoltà familiari per poter ricominciare una nuova vita.

Minore conflittualità

La possibilità di concludere rapidamente la procedura consente alle parti di evitare prolungamenti inutili e tensioni prolungate. I tempi più brevi incoraggiano infatti i soggetti coinvolti a trovare una soluzione pacifica.

Semplificazione delle procedure giudiziarie

La legge ha prodotto anche l’effetto di ridurre il carico di lavoro dei tribunali, perché la procedura è meno complessa. Con l’abbattimento dei tempi di separazione, il numero di casi pendenti in tribunale si è ridotto con conseguente alleggerimento del sistema giudiziario.

Maggiore tutela per i minori

Questo modo di procedere più rapido è senza dubbio positivo anche per i figli minorenni. La procedura accelerata riduce il periodo di conflitto e di incertezza familiare e i minori riescono ad adattarsi più velocemente alla nuova situazione.

Divorzio breve: svantaggi

Nonostante i numerosi vantaggi, l’istituto non è privo di criticità. Alcuni esperti ritengono che i tempi ridotti non permettono una riflessione adeguata sui danni emotivi della separazione per i coniugi e i figli minori. La rapidità della procedura potrebbe ridurre inoltre il tempo disponibile per una negoziazione accurata degli accordi, soprattutto per quanto riguarda la custodia dei figli e la divisione equa  dei beni.

 

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assegno di divorzio

Assegno di divorzio: vale anche il sacrificio della moglie straniera Assegno di divorzio: nel riconoscerlo e quantificarlo non si può ignorare il sacrificio della moglie che ha lasciato paese e carriera

Assegno di divorzio

L’assegno di divorzio deve tenere conto del sacrificio compiuto dalla moglie che ha lasciato il suo Paese d’origine per seguire il marito. Questo sacrificio assume un ruolo di rilievo nella valutazione dell’assegno divorzile, confermando il principio perequativo-compensativo. Lo ha sancito la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 31709/2024.

Valorizzato il contributo della moglie alla carriera del marito

Il Giudice di primo grado, in una causa di divorzio, riconosce alla ex moglie un assegno divorzile di 750 euro mensili, annualmente rivalutabile. Il Tribunale nella decisione valorizza la situazione economica delle parti e altri elementi cruciali. Tra questi emerge il sacrificio della donna, che ha lasciato il Turkmenistan, rinunciando a un incarico presso il Ministero dell’Economia, per trasferirsi in Italia e dedicarsi alla famiglia.

Il marito, professionista affermato con una carriera di lunga durata, nel tempo ha accumulato notevoli risorse economiche anche grazie al supporto della moglie. Il giudice ha infatti sottolineato che le conoscenze linguistiche della donna hanno senza dubbio favorito le attività professionali del coniuge. Il giudice dell’impugnazione conferma la decisione del Tribunale. Entrambi i coniugi però impugnano la sentenza: il marito contesta l’esistenza dei presupposti per l’assegno, mentre la moglie chiede un importo maggiore, pari a 5.000 euro mensili.

Il ruolo compensativo dell’assegno divorzile

La Cassazione rigetta il ricorso del marito, riconoscendo ancora una volta la funzione perequativa-compensativa dell’assegno divorzile. L’assegno spetta in presenza di uno squilibrio reddituale tra le parti e quando il coniuge richiedente dimostra l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive. Nel caso di specie la moglie ha dimostrato di non avere un’occupazione stabile e di trovarsi in una fase avanzata della vita, con difficoltà di reinserimento lavorativo. La rinuncia al proprio lavoro nel Paese d’origine rappresenta un sacrificio significativo, adottato per condividere un progetto familiare comune.

Il sacrificio della moglie: un elemento determinante

Secondo la Corte di Cassazione, il sacrificio compiuto dalla moglie assume in effetti un peso decisivo nella valutazione dell’assegno divorzile. Abbandonare il proprio Paese d’origine e un’occupazione stabile per seguire il marito rappresenta una scelta che ha influenzato profondamente la vita della donna. Tale scelta, condivisa da entrambi i coniugi, non può essere ignorata al momento della quantificazione dell’assegno. La decisione si colloca nel solco dei principi espressi dalle Sezioni Unite nel 2018 (sentenza n. 18287), secondo cui l’assegno di divorzio ha una duplice funzione: assistenziale e compensativa. Quest’ultima serve a riequilibrare i sacrifici fatti dal coniuge economicamente più debole durante la vita matrimoniale.

Criteri di valutazione ed equilibrio patrimoniale

La Corte d’Appello aveva comunque già valutato con attenzione lo squilibrio reddituale esistente tra le parti. Pur considerando i prelievi della moglie dal conto cointestato per un totale di 160.000 euro, aveva ritenuto che tale somma non fosse sufficiente a compensare lo squilibrio patrimoniale. L’importanza della valutazione globale della situazione economica dei coniugi al fine di determinare l’assegno di divorzio emerge chiaramente dalla sentenza.