giurista risponde

Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale È legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per l’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel piano educativo individualizzato (P.E.I.)?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo, non essendo il Piano educativo individualizzato (P.E.I.) vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale in relazione al complesso delle risorse disponibili (Cons. Stato, sez. III, 12 agosto 2024, n. 7089).

Il Collegio osserva che è legittimo il provvedimento del comune che assegni un numero di ore di assistenza scolastica per la promozione dell’autonomia e della comunicazione dell’alunno minore con disabilità in misura inferiore a quanto indicato nel Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e richiesto dal dirigente scolastico, non essendo il P.E.I. vincolante per l’ente locale, in capo al quale residua un margine di apprezzamento discrezionale, da esercitarsi con prudente equilibrio a mente del rango fondamentale dei diritti sottesi alle misure di inclusione scolastica, in relazione al complesso delle risorse disponibili.

È necessario ricordare che vi è una distinzione tra ore di sostegno didattico, quali funzioni scolastiche stricto sensu, di competenza dell’ufficio scolastico regionale (USR), e le misure di sostegno ulteriori rispetto a quelle didattiche, tra le quali le misure di assistenza scolastica di competenza dei comuni, oggetto della decisione, per le quali i comuni attribuiscono le risorse complessive secondo le modalità attuative e gli standard qualitativi previsti nell’apposito accordo concluso in sede di conferenza unificata.

Emerge, in ogni caso, il carattere prevalente del diritto alla salute ed all’integrazione del disabile rispetto a vincoli di bilancio genericamente allegati; da qui l’obbligo per l’ente locale di misurarsi con le condizioni del caso concreto e tendere sempre al raggiungimento di un punto di equilibrio che assicuri la massima tutela possibile al disabile.

(*Contributo in tema di “Piano educativo individualizzato (P.E.I.) e discrezionalità dell’Ente locale”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

addio pensione di reversibilità

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico La Cassazione rammenta che la reversibilità della pensione sussiste solo se c'è l'elemento della "vivenza a carico"

Pensione di reversibilità e vivenza a carico

Addio pensione di reversibilità per il figlio non a carico. Ai fini del diritto, infatti, deve sussistere cioè l’elemento della vivenza a carico. Lo ricorda la Cassazione con l’ordinanza n. 19485/2024.

Pensione di reversibilità negata

Nella vicenda, la Corte d’Appello di Torino accoglieva il gravame proposto da un uomo, avverso la sentenza del Tribunale di Asti che aveva respinto la domanda proposta da quest’ultimo nei confronti dell’Inps, volta a chiedere il pagamento in suo favore della pensione di reversibilità, quale figlio maggiorenne inabile e convivente a carico della madre a far tempo dalla data del decesso, oltre agli arretrati di legge, interessi e rivalutazione monetaria.

Il Tribunale aveva respinto la domanda ritenendo non sufficientemente provato il requisito della vivenza a carico, alla luce del trattamento pensionistico di assistenza che già percepiva (pensione di invalidità e reddito di cittadinanza) che aveva indotto il primo giudice ad escludere che l’uomo dipendesse economicamente dalla madre.

La Corte d’Appello, per quanto d’interesse, ha ritenuto sussistente sia il requisito della “vivenza a carico” della madre da parte del ricorrente, anche per l’assenza di reddito imponibile, che il requisito sanitario.

Il ricorso dell’Inps

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’Inps ricorre per cassazione, lamentando violazione di legge per avere il giudice del gravame riconosciuto il diritto alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito sanitario, nonostante l’espressa eccezione sollevata sul punto dall’Istituto, non sussistendo alcuna presunzione di inabilità lavorativa in capo a chi è stato accertato invalido civile al 100%. Inoltre, l’Inps deduceva l’errore in cui era incorsa la corte territoriale nell’aver riconosciuto il diritto del richiedente alla prestazione di reversibilità, ritenendo sussistente il requisito della vivenza a carico della madre, benché fosse decaduto dall’onere della prova, senza che il giudice potesse procedere d’ufficio alla acquisizione dei documenti offerti dalla difesa.

La vivenza a carico

Per la Cassazione, il primo motivo è infondato; infatti, la Corte d’Appello motiva sulla sussistenza dell’inabilità lavorativa, quand’anche prendendo spunto dal certificato attestante l’invalidità civile al 100% e l’Istituto previdenziale non censura efficacemente tale accertamento di fatto.

Il secondo e il terzo motivo, invece, che possono essere oggetto di un esame congiunto, sono fondati.

Infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, il requisito della “vivenza a carico”, se non si identifica indissolubilmente con lo stato di convivenza né con una situazione di totale soggezione finanziaria del soggetto inabile, “va considerato con particolare rigore, essendo necessario dimostrare che il genitore provvedeva, in via continuativa e in misura quanto meno prevalente, al mantenimento del figlio inabile e tale accertamento di fatto è rimesso al giudice di merito (cfr. Cass. n. 9237/2018)”.

La decisione

Nel caso di specie, il dato valorizzato dalla Corte territoriale del reddito imponibile del ricorrente pari a zero è inconferente a fronte della percezione, da parte dello stesso, dell’importo di euro 800,00 mensili a titolo di pensione di invalidità e di reddito di cittadinanza; in buona sostanza, la Corte d’Appello doveva chiarire perché non erano da considerare sufficienti tali redditi a fronte delle reali esigenze di vita del ricorrente e perché l’intervento di sostegno economico della madre del ricorrente doveva considerarsi effettuato in misura prevalente, a fronte dei sussidi economici che lo stesso già percepiva.

Per cui, in accoglimento del secondo e terzo motivo, la sentenza va cassata e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Torino, affinché, alla luce di quanto sopra esposto, riesamini il merito della controversia.

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Allegati

codice rosso

Codice Rosso: ok a braccialetto elettronico e a distanza minima La Corte Costituzionale ha legittimato le nuove disposizioni sul divieto di avvicinamento nei reati di genere, ossia l'obbligo di braccialetto elettronico e la distanza minima di 500 metri dalla persona offesa

Codice Rosso e divieto di avvicinamento

Codice Rosso: la Consulta ha dichiarato infondati i dubbi sulla distanza minima di 500 metri e sull’obbligo di braccialetto elettronico, chiarendo però che l’impossibilità tecnica del controllo remoto non può risolversi in un automatismo cautelare a sfavore dell’indagato.

Le qlc sull’art. 282-ter, commi 1 e 2, c.p.p.

Con la sentenza n. 173, depositata oggi, 4 novembre 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Modena, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nei riguardi dell’art. 282-ter, commi 1 e 2, cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 168 del 2023 (“nuovo codice rosso”).

Il rimettente ha censurato tali modifiche normative, inerenti la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, poiché esse, prescrivendo la distanza minima di 500 metri e l’applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico, avrebbero reso la misura stessa troppo rigida, in contrasto con il principio di individualizzazione e con la riserva di giurisdizione in materia di restrizione della libertà personale, avendo inoltre la novella stabilito che, qualora l’organo di esecuzione accerti la «non fattibilità tecnica» del controllo remoto, il giudice debba imporre l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari, anche più gravi.

Braccialetto elettronico e distanza minima

La Corte ha sottolineato che il braccialetto elettronico è un importante dispositivo funzionale alla tutela delle persone vulnerabili rispetto ai reati di genere, e che la distanza minima di 500 metri corrisponde alla finalità pratica del tracciamento di prossimità, quella di dare uno spazio di tempo sufficiente alla persona minacciata per trovare sicuro riparo e alle forze dell’ordine per intervenire in soccorso.

Il giudice delle leggi ha osservato altresì che, sebbene negli abitati più piccoli la distanza di 500 metri possa rivelarsi stringente, l’indagato ne riceve un aggravio sopportabile, quello di recarsi nel centro più vicino per trovare i servizi di cui necessita; mentre, ove rilevino «motivi di lavoro» o «esigenze abitative», il comma 4 dell’art. 282-ter cod. proc. pen. consente al giudice di stabilire modalità particolari di esecuzione del divieto di avvicinamento, restituendo flessibilità alla misura. «A un sacrificio relativamente sostenibile per l’indagato» – afferma dunque la Corte – «si contrappone l’impellente necessità di salvaguardare l’incolumità della persona offesa, la cui stessa vita è messa a rischio dall’imponderabile e non rara progressione dal reato-spia (tipicamente lo stalking) al delitto di sangue».

Il controllo da remoto

In riferimento poi alla riscontrata impossibilità tecnica del controllo elettronico, evenienza oggettivamente non imputabile all’indagato, la Corte evidenzia come la norma censurata possa interpretarsi in senso costituzionalmente adeguato, sicché il giudice, in tal caso, non è tenuto a imporre una misura più grave del divieto di avvicinamento, ma deve rivalutare le esigenze cautelari della fattispecie concreta, potendo, all’esito della rivalutazione, in base ai criteri ordinari di idoneità, necessità e proporzionalità, scegliere non solo una misura più grave (quale il divieto o l’obbligo di dimora), ma anche una misura più lieve (quale l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria).

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forense card

Forense Card: cos’è e quali vantaggi La Forense Card è un servizio messo a disposizione degli iscritti da Cassa Forense che permette, tra le altre cose, di pagare i contributi previdenziali anche a rate

Cos’è la Forense Card

La Forense Card è un servizio messo a disposizione dalla Cassa Forense in collaborazione con la banca popolare di Sondrio, essenzialmente per il pagamento dei contributi previdenziali ma può essere usata anche come carta di credito ordinaria e per richiedere un prestito.

E’ riservata esclusivamente agli iscritti all’ente previdenziale degli avvocati e non serve essere clienti della banca, basta essere titolari di un qualsiasi conto corrente bancario o postale.

I vantaggi della Forense Card

Tra i vantaggi della Forense Card, ricorda Cassa Forense, c’è la possibilità di effettuare pagamenti pagamenti presso gli esercizi convenzionati con Visa e Mastercard e prelievi di contanti presso tutti gli sportelli automatici ATM convenzionati con Visa e Mastercard in Italia e all’estero.

Ma in particolare, la Card consente di versare via internet, in modo sicuro e senza spese, i contributi previdenziali, con addebito sul conto corrente e con possibilità di dilazionarli.

La Forense Card consente altresì di trasformare in contanti l’importo del plafond assegnato, con accredito della somma richiesta direttamente sul proprio conto.

Come richiederla

La carta, gratuita e senza canone annuale, può essere richiesta soltanto via internet, accedendo dall’Area Riservata sul sito di Cassa Forense e compilando il modulo di richiesta direttamente online.

Previa verifica del possesso dei requisiti per il rilascio, la carta viene inviata direttamente al domicilio del richiedente.

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imu indeducibile

Imu indeducibile dall’Irap La Corte Costituzionale ribadisce la non fondatezza dell'indeducibilità dall'Irap dell'Imu sugli immobili strumentali

Imu sugli immobili strumentali

Imu indeducibile dall’Irap. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171/2024, ha ribadito la non fondatezza dell’indeducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali dall’IRAP. Pronunciandosi nuovamente sulla questione di legittimità costituzionale, la Consulta ha dichiarato infatti la manifesta infondatezza della questione sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Milano in riferimento all’art. 53 Cost., ribadendo, in sostanza, quanto già affermato con la sentenza n. 21 del 2024.

Il precedente

In riferimento all’IRAP, ha affermato il giudice delle leggi, mancano «quelle evidenze normative che hanno condotto questa Corte con la richiamata sentenza n. 262 del 2020 a riconoscere carattere strutturale alla deduzione dell’IMU sugli immobili strumentali con riguardo all’IRES e, di conseguenza, a ritenere vulnerata, in forza della prevista totale indeducibilità, la coerenza interna dell’imposta. La diversità della natura dei due tributi, dei loro presupposti, delle specifiche basi imponibili e delle precipue discipline evidenzia come le medesime argomentazioni della sentenza di questa Corte n. 262 del 2020 non possano essere estese all’IRAP».

Doppia imposizione giuridica

La Corte ha anche chiarito che non vi è un fenomeno di doppia imposizione giuridica, perché i presupposti di IMU e IRAP sono diversi.

La sentenza ha altresì dichiarato non fondate le questioni sollevate dal medesimo rimettente e dalla CGT di primo grado di Reggio Emilia in riferimento al principio di uguaglianza, in quanto le affermazioni contenute nella citata sentenza n. 262 del 2020, con la quale la Corte costituzionale ha sottolineato – ma nel contesto di una riscontrata rottura del principio di coerenza – l’indebita penalizzazione delle imprese che abbiano scelto di investire gli utili nell’acquisto della proprietà degli immobili strumentali, non si prestano a essere pedissequamente traslate in riferimento al regime dell’IRAP.

La pronuncia ha anche dichiarato manifestamente inammissibile la questione sollevata in riferimento all’art. 41 Cost. dalla CGT di Milano; nonché quelle sollevate dalla CGT di Reggio Emilia in riferimento all’art. 53 Cost. e, con riguardo agli artt. 3 e 53 Cost, sull’art. 5, comma 3, del decreto legislativo n. 446 del 1997.

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Potere di autotutela e denuncia di inizio attività (DIA/SCIA) È consentito il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in caso di inerzia dell’amministrazione nell’esaminare gli atti del procedimento?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Il differimento del termine per l’esercizio del potere di autotutela in relaziona a una denuncia di inizio attività è consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2024, n. 6636).

Preliminarmente è opportuno ricordare che il differimento del termine iniziale per l’esercizio del potere di autotutela, ai sensi dell’art. 21nonies della L. 241/1990, deve essere determinato dalla impossibilità per l’amministrazione, a causa del comportamento dell’istante, di svolgere un compiuto accertamento sulla spettanza del bene della vita nell’ambito della fase istruttoria del procedimento di primo grado. Viceversa, nel caso in cui l’amministrazione sia nelle condizioni di conoscere lo stato dei luoghi e la conformità documentale, l’inerzia nell’esaminare gli atti, come nella DIA, si rivela del tutto ingiustificata.

Il superamento del limite temporale per l’esercizio del potere di autotutela in relazione a una denuncia di inizio attività è, dunque, consentito nei casi in cui il soggetto richiedente ha rappresentato uno stato preesistente diverso da quello reale, con conseguente impossibilità per la P.A. di conoscere fatti e circostanze rilevanti, imputabile al soggetto che ha beneficiato del rilascio del titolo, non potendo la negligenza dell’amministrazione procedente tradursi in un vantaggio per la stessa. Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine per l’esercizio dell’autotutela deve essere individuato nel momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.

Con riguardo alla vicenda in esame la Sezione ha riscontrato l’esercizio del potere di autotutela dopo oltre sei anni dalla presentazione della denuncia di inizio attività e pertanto tale tempo si configura come non ragionevole rispetto ai limiti posti all’esercizio dello ius poenitendi tratteggiato dalla disciplina dell’autotutela e rispetto alla posizione di affidamento del soggetto destinatario dell’atto di ritiro, in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione della DIA annullata.

(*Contributo in tema di “Potere di autotutela e denunzia di inizio attività (DIA/SCIA)”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

modello red precompilato

Modello Red Precompilato online L'INPS informa che è online il nuovo servizio RED Precompilato per confermare, integrare e o rettificare la dichiarazione reddituale

Modello RED

E’ online il nuovo servizio RED Precompilato. Lo rammenta l’INPS sul canale WhatsApp Inps per tutti.

Sul Portale INPS, informa l’istituto, “è disponibile per i pensionati la nuova Campagna RED ordinaria 2024 per la dichiarazione dei redditi percepiti nel 2023”.

Il modello RED, si ricorda, è il documento telematico che i percettori di pensione devono compilare per dichiarare quei redditi che risultano rilevanti ai fini del riconoscimento di alcune prestazioni economiche.

Come accedere al servizio

Il nuovo servizio, accessibile tramite la pagina “La dichiarazione della situazione reddituale (RED)”, permette ai pensionati la precompilazione dei dati reddituali già conosciuti dall’INPS che possono essere confermati, integrati e rettificati.

La scadenza per la presentazione della dichiarazione dei redditi, ricorda infine, l’INPS, è il 28 febbraio 2025.

Per approfondimenti collegarsi all’apposita sezione sul sito INPS

brevetti+

Brevetti+: al via le domande per accedere agli incentivi Aperto dalle ore 12:00 di oggi 29 ottobre, lo sportello per inviare le domande per accedere agli incentivi Brevetti+ 2024, l'intervento promosso dal Mimit a favore delle PMI

A chi spettano le agevolazioni

Le agevolazioni, consistenti in un contributo a fondo perduto fino a un massimo di 140.000 euro e non superiore all’80% dei costi ammissibili, saranno concesse, in regime de minimis, anche alle PMI appena costituite, aventi sede legale e operativa in Italia, che possiedono almeno uno dei seguenti requisiti:

  • essere titolari o licenziatari di un brevetto per invenzione industriale concesso in Italia successivamente al 1° gennaio 2023
  • essere titolari di una domanda nazionale di brevetto per invenzione industriale depositata successivamente al 1° gennaio 2022 con un rapporto di ricerca con esito “non negativo”
  • essere titolari di un brevetto concesso dall’EPO e convalidato in Italia successivamente al 1° gennaio 2023
  • essere titolari di una domanda di brevetto europeo o di una domanda internazionale di brevetto depositata successivamente al 1° gennaio 2022, con un rapporto di ricerca con esito “non negativo” che rivendichi la priorità di una precedente domanda nazionale di brevetto.

Percentuale e oggetto del contributo

L’agevolazione potrà raggiungere l’85% dei costi ammissibili nel caso di imprese in possesso della certificazione della parità di genere e il 100% per le imprese beneficiarie che al momento della presentazione della domanda risultano contitolari, con un Ente pubblico di ricerca, della domanda di brevetto o di brevetto rilasciato, ovvero titolari di una licenza esclusiva avente per oggetto un brevetto rilasciato a uno dei suddetti Enti pubblici, già trascritta all’UIBM, senza vincoli di estensione territoriali.

Il contributo è finalizzato all’acquisto dei seguenti servizi specialistici:

  • progettazione, ingegnerizzazione e industrializzazione
  • organizzazione e sviluppo
  • trasferimento tecnologico

La misura è gestita da Invitalia per conto del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

 

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giurista risponde

Vendita di bene immobile con vizi gravi In caso di vendita di bene immobile con vizi gravi, il venditore può chiamare in causa il terzo costruttore per essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi

 

Nell’ipotesi di vendita di bene immobile con vizi gravi, è possibile chiamare in causa il terzo costruttore: tuttavia il venditore non può trasferire la responsabilità derivante dalla mancata comunicazione all’acquirente dei vizi noti dell’immobile, trattandosi di una violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, ai sensi dell’art. 1175 c.c., che rimane esclusivamente a carico del venditore (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233). 

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare a quali condizioni il venditore può essere esonerato dalla responsabilità relativa ai difetti di costruzione di un bene immobile.

In primo grado il venditore veniva condannato al pagamento di una somma a titolo di riduzione del prezzo di vendita, escludendo la responsabilità della società costruttrice sia perché il convenuto si era limitato a chiedere di essere da questa manlevato, senza tuttavia esperire una vera e propria azione ex art. 1669 c.c., sia perché sarebbe comunque trascorso il termine decennale dall’ultimazione dell’opera.

In secondo grado, viceversa, la società costruttrice veniva condannata a tenere indenne il venditore da tutte le conseguenze economiche derivanti dalla condanna.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando l’erronea applicazione dei principi di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali. In particolare, si obbiettava che, pur avendo riconosciuto la violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’adempimento dei rapporti contrattuali ex art. 1175 c.c. a carico del venditore, venivano addebitate queste conseguenze economiche, derivanti da un suo personale comportamento, alla società costruttrice.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha stabilito che nell’ipotesi in cui il venditore sia a conoscenza di un vizio del rapporto contrattuale, occorre valutare in che misura ciò possa incidere, ai sensi del principio di buona fede e correttezza, nelle trattative e nell’esecuzione del contratto.

Nel caso di specie, il venditore era a conoscenza del vizio di costruzione imputabile alla società costruttrice, ma, ciò nonostante, non informava l’acquirente di questo difetto strutturale dell’immobile.

La disciplina contenuta nell’art. 1669 c.c. rappresenta un’ipotesi di responsabilità speciale di natura extracontrattuale atta a garantire la conservazione e la funzionalità di edifici destinati per loro natura a durare nel tempo, a tutela dell’incolumità e della sicurezza pubblica. Pertanto, fermo restando la responsabilità della società costruttrice per i vizi dell’immobile, che possono essere ascritti nel novero della responsabilità ex art. 1669 c.c., essa non può rispondere per gli ulteriori danni derivanti dal comportamento, contrario a buona fede e correttezza, tenuto dalla società venditrice durante le trattative e l’esecuzione del contratto.

Per tali ragioni, la Cassazione ha accolto questo motivo di ricorso e rinviato la causa al Giudice di merito, il quale dovrà valutare se il comportamento della società venditrice è stato conforme ai canoni di buona fede e correttezza.

(*Contributo in tema di “Vendita di bene immobile con vizi gravi”, a cura di Manuel Mazzamurro e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 78 / Ottobre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

troppe scuole

Troppe scuole: autonomia regionale a rischio La Consulta ha bocciato la legge della regione Sardegna sul mantenimento delle autonomie scolastiche esistenti, in quanto eccessiva rispetto al contingente stabilito dallo Stato

Autonomia scolastica e contingente statale

Troppe scuole mettono a rischio l’autonomia regionale in materia scolastica. La Consulta, infatti, con la sentenza n. 168/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Sardegna (n. 2/2024) che prevedeva il mantenimento di tutte le autonomie scolastiche esistenti nell’anno 2023-2024.

Pur restando ferma “la competenza delle regioni a definire il tipo e l’ubicazione delle istituzioni scolastiche e a istituire nuovi plessi ovvero ad aggregare quelli esistenti, tenendo anche conto delle peculiari esigenze di ciascun territorio” ha affermato la Corte Costituzionale, alla luce di una sua precedente sentenza (n. 223/2023), è pur vero che la riforma statale (da ultimo con legge 197/2022) “impone alle regioni di rispettare il contingente di dirigenti scolastici e amministrativi determinato tramite decreto ministeriale”.

Troppe scuole, legge bocciata

La Corte ha, pertanto, ritenuto che la legge della Regione Sardegna n. 2 del 2024, “nel porsi l’obiettivo di mantenere tutte le autonomie scolastiche esistenti, dunque a prescindere dal contingente dirigenziale definito dallo Stato, si ponga in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost., che attribuisce alla competenza legislativa statale esclusiva la materia «norme generali sull’istruzione»”.

La legge regionale, infatti, per il giudice delle leggi, “viola il principio della necessaria corrispondenza tra dirigenti assegnati alle regioni e istituzioni scolastiche presenti sul territorio. La disposizione impugnata è anche in contrasto con la lettera g) del secondo comma dell’art. 117 Cost., in quanto, come esplicitato dalla sentenza n. 223 del 2023, la determinazione del contingente scolastico riguarda personale inserito nel pubblico impiego statale”.