giurista risponde

Responsabilità per custodia e condotta colposa della vittima Il custode risponde della caduta nella buca se la condotta colposa della vittima era imprevedibile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza di una sconnessione o buca stradale, l’accertamento della responsabilità deve essere condotto ai sensi dell’art. 2051 c.c. e non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 o 2, c.c.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, così da degradare la condizione della cosa al rango di mera occasione dell’evento di danno. – Cass. III, 19 dicembre 2022, n. 37059

La vicenda riguardava la domanda di risarcimento danni avanzata contro un supercondominio e il suo gestore per la caduta in una buca adiacente allo scalino del marciapiede. La Cassazione – con la sent. 37059/2022 – ha respinto il ragionamento con cui il giudice di secondo grado aveva cancellato il ristoro dei danni deciso in primo grado nella misura di 41mila euro. La sentenza annullata con rinvio aveva accolto l’argomento difensivo secondo cui il pedone conosceva l’esistenza della buca e le condizioni di luce e di posizionamento della stessa non costituivano in sé un pericolo, ma è la condotta colpevole e scevra di prudenza della vittima che avrebbero determinato il danno interrompendo così il nesso causale di esso con la cosa (la buca). Per la Cassazione non basta dimostrare la colpa, ma anche l’imprevedibilità e l’inevitabilità del fatto dovuto alla condotta della vittima. Così come i giudici di appello, sempre secondo la Cassazione, non potevano escludere il nesso causale tra il danno e la cosa affermando che quest’ultima non conteneva in sé alcun elemento di pericolo inevitabile con l’ordinaria diligenza e prudenza. Ma ciò non basta a evitare che il custode risponda dei danni: va provato il caso fortuito.

La Cassazione precisa che i criteri con cui si giudica la responsabilità aquiliana ex art. 2043 del Codice civile non sono sovrapponibili a quelli che determinano la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. Infatti, nel caso del custode non va accertata la sua colpa nell’aver determinato l’evento dannoso in quanto è sufficiente il suo rapporto giuridico con la cosa custodita. Da cui scaturisce automaticamente la sua responsabilità per i danni arrecati dalla cosa a meno che provi che l’evento si è determinato per un fatto imprevedibile ascrivibile come caso fortuito. Prova, la sola, che spezza il nesso giuridico tra il danno e la cosa che pur materialmente sono tra loro connessi.

L’inattesa condotta da parte di una persona sensata o l’avverarsi di comportamenti mai verificatisi prima può far venir meno il nesso causale tra la cosa e il danno verificatosi. Infatti, la condotta colposa del danneggiato deve risultare imprevedibile e non prevenibile al fine di far degradare la cosa da cui si origina l’infortunio a mera occasione del verificarsi.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 31 ottobre 2017, n. 25837; Cass. 24 giugno 2020, n. 26524;
Cass. 16 febbraio 2021, n. 4035
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Immobile indivisibile e istanza del condividente Nell’applicazione dell’art. 720 c.c., l’inclusione dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente presuppone l’espressa e specifica istanza del condividente interessato?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

L’espressa e specifica istanza del condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non abbia fatto esplicita richiesta al riguardo (benché titolare della maggior quota).

Accertata la non comoda divisibilità di uno più immobili ereditari (da intendersi in relazione alla struttura del bene e al numero dei condividenti, e rilevante anche per uno solo di essi), l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può aver luogo ove questi non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo di base vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni – cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisce comunione fra gruppi di condividenti – allorché non vi sia il consenso di costoro. – Cass. VI, 15 dicembre 2022 n. 36736.

La vicenda scaturisce dalla decisione assunta dal giudice di prime cure – e confermata in appello –, di sciogliere la comunione ereditaria sub iudice assegnando all’attore (il coniuge superstite) determinati beni, e altri beni congiuntamente ai convenuti (i fratelli del de cuius), gravandoli altresì del pagamento di un conguaglio. Il Tribunale assumeva tale decisione tenuto conto della non comoda divisibilità dei beni – ostativa ad una omogenea distribuzione di essi tra i coeredi –, che avrebbe imposto l’applicazione dell’art. 720 c.c., con l’attribuzione congiunta a più condividenti. Nello specifico il Tribunale, tenuto conto della richiesta di attribuzione di determinati beni da parte dell’attore, le dava seguito, assegnando i restanti beni congiuntamente ai convenuti.

I ricorrenti in Cassazione lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 720 c.c., per l’essersi disposta l’assegnazione congiuntamente ad essi, in assenza di una richiesta in tal senso e data la non comoda divisibilità dei beni.

Segnatamente, l’art. 720 c.c. descrive un meccanismo per cui, a fronte della presenza nell’eredità di beni immobili non comodamente divisibili (o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o igiene) e della impossibilità di procedere alla divisione dell’intera sostanza senza il loro frazionamento, detti immobili devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto la quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se manca la disponibilità in tal senso, in estremo subordine si dà luogo a vendita all’incanto. Nel caso in esame, i ricorrenti (convenuti in primo grado), non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione a fronte della valutazione di non comoda divisibilità, ma solo la disponibilità ad aderire alle proposte conciliative dell’attore, e purché non fossero gravati del pagamento di conguagli. Non avendo avuto seguito le menzionate proposte, il giudice – ritengono i ricorrenti – avrebbe dovuto attivare il meccanismo residuale della vendita dei beni non oggetto di richiesta, piuttosto che procedere come avvenuto. La Suprema Corte condivide tali doglianze, osservando preliminarmente come, nell’ambito della comunione ereditaria, il diritto di ciascun erede alla quota in natura (art. 718 c.c.) non sia quello a una porzione di ciascun bene, bensì a una porzione formata in modo da riprodurre quanto più è possibile la composizione qualitativa della massa (art. 727, comma 1, c.c.): ciò significa che la divisione deve avvenire non dividendo, ma distribuendo in porzioni i singoli beni, secondo un criterio di proporzione quantitativa e qualitativa. Ciò posto in via di principio, è comune che tale regola non possa applicarsi a pieno in relazione agli immobili, essendo gli stessi o numericamente insufficienti o qualitativamente troppo eterogenei: in questi casi, la divisione va effettuata in primis frazionandoli o, se non comodamente divisibili, tramite il meccanismo ex art. 720 c.c. In tale terreno, come evidenziato, può darsi una preferenza – a discrezione del giudice – per il titolare della maggior quota o di altro coerede, ma ciò solo se vi sono richieste di attribuzione: in caso contrario, deve darsi luogo alla vendita, giacché i poteri discrezionali del giudice non si estendono all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente (anche titolare della maggior quota). Similmente, deve escludersi che possa includersi l’immobile ereditario non comodamente divisibile nella porzione di più coeredi in assenza della loro richiesta congiunta di attribuzione, essendo in linea di principio vietato il menzionato raggruppamento parziale delle porzioni, se manca il consenso dei soggetti interessati.

Rispetto al caso in esame, quindi, la Suprema Corte procede a cassare con rinvio la decisione della Corte d’appello: a fronte della richiesta del solo attore originario di attribuzione di alcuni beni indivisibili, infatti, il giudice di merito non avrebbe potuto attribuire i restanti beni d’ufficio agli altri condividenti né individualmente né congiuntamente, ma avrebbe dovuto disporre la loro vendita.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 29 ottobre 1992, n. 11769; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20250
giurista risponde

Illecito civile violazioni doveri verso i figli La violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole integra un illecito civile?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

La violazione dei diritti di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile, là dove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti: viene in rilievo un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, liquidabile anche in via equitativa. – Cass. I, 28 novembre 2022, n. 34950.

Nel caso di specie, il ricorrente, nato a seguito di un rapporto sessuale non protetto e riconosciuto dal padre svariati solo decenni dopo, aveva promosso azione risarcitoria per il danno sofferto dall’assenza di una relazione parentale con il genitore. La Corte d’appello aveva respinto la domanda risarcitoria, non essendosi provato che questi avrebbe beneficiato di migliori condizioni di vita in virtù di un più celere riconoscimento.

Nela decisione in esame la Suprema Corte ha riformato la sentenza della Corte d’appello, in quanto la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole non trova sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, e ben può integrare gli estremi dell’illecito civile, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti. L’illecito intrafamiliare, infatti, può produrre anche un danno non patrimoniale lato sensu psicologico/esistenziale, ovvero che investe direttamente la progressiva formazione della personalità del danneggiato, condizionando così pure lo sviluppo delle sue capacità di comprensione e di autodifesa. Questo illecito può quindi dar luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., esercitabile anche nell’ambito dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità qualora l’inadempimento del genitore abbia causato un complessivo disagio materiale e morale per il figlio e da tale disagio siano derivate una serie di ulteriori conseguenze pregiudizievoli (di carattere patrimoniale, oltre che non patrimoniale), tra cui l’impossibilità di affermarsi in maniera socialmente più soddisfacente e di svolgere degli studi, che possono aver precluso le possibilità di realizzazione professionale, con rilievo anche economico. In tale situazione, ove sussista la prova del danno morale e mancando la ragionevole possibilità di dimostrare la sua precisa entità, è certamente consentita la liquidazione di esso in via equitativa.

Il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti di un figlio naturale integra la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole, e determina la lesione dei diritti nascenti dal rapporto di filiazione che trovano negli artt. 2 e 30 Cost. (e nelle norme di matrice internazionale recepite dal nostro ordinamento) un elevato grado di riconoscimento e tutela, sicché tale condotta è suscettibile di integrare gli estremi dell’illecito civile e legittima l’esercizio, ai sensi dell’art. 2059 c.c., di un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali sofferti dalla prole.

Si osserva altresì, ai fini del decorso del termine di prescrizione, che l’illecito endofamiliare commesso in violazione dei doveri genitoriali verso la prole può essere sia istantaneo (ove ricorra una singola condotta inadempiente dell’agente, che si esaurisce prima o nel momento stesso della produzione del danno) che permanente (se detta condotta perdura oltre tale momento e continua a cagionare il danno per tutto il corso della sua reiterazione, poiché il genitore si estranea completamente per un periodo significativo dalla vita dei figli).

La Corte di appello, limitandosi a raffrontare le possibili condizioni di vita e deducendo la mancanza di prova in ordine al preteso pregiudizio subito, ha del tutto omesso di considerare che il figlio, dalla nascita a tutta l’età matura, è stato privato della figura genitoriale paterna sia nella vita strettamente familiare che nel contesto sociale di appartenenza (costituito – circostanza non irrilevante – da un piccolo centro urbano). Invece, essa avrebbe dovuto accertare se e quali siano stati gli effetti causati da detta assenza sullo sviluppo fisiopsichico del ricorrente, mentre si è soffermata solo su profili di tipo sostanzialmente economico. Di conseguenza, la Suprema Corte ha cassato la decisione con rinvio.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. 10 aprile 2012, n. 5652; Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079;
Cass. 27 maggio 2019, n. 14382; Cass. 10 giugno 2020, n. 11097;
Cass. 6 ottobre 2021, n. 27139; Cass. 16 dicembre 2021, n. 40335;
Cass. 12 maggio 2022, n. 15148
giurista risponde

Danno parentale e tabelle milanesi Ai fini della liquidazione del danno parentale, il giudice può applicare le nuove tabelle milanesi per la liquidazione del danno non patrimoniale?

Quesito con risposta a cura di Umberto De Rasis ed Eliana Esposito

 

Sono legittime e vanno, dunque, applicate dal Giudice di merito le ultime tabelle milanesi sul danno parentale, rielaborate e rese pubbliche nel mese di giugno del corrente anno, in quanto l’assegnazione dei punti è stata ripartita in funzione dei cinque parametri corrispondenti all’età della vittima primaria e della vittima secondaria, della convivenza tra le due, della sopravvivenza di altri congiunti e della qualità intensità della specifica relazione affettiva perduta. – Cass. III, 16 dicembre 2022, n. 37009.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’adozione di parametri per la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale pronunciandosi su un ricorso proposto dagli eredi di una donna defunta a seguito di trasfusioni con sangue infetto.

Al riguardo, occorre riferire che in un recente passato la giurisprudenza si è interrogata sulla esaustività delle tabelle milanesi a risarcire il danno da lesione del rapporto parentale.

Secondo un primo indirizzo, prevalente, nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 21 aprile 2021, n. 10579, 29 settembre 2021, n. 26300, Cass. 23 giugno 2022, n. 20292), infatti, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l’indicazione dei relativi punteggi), con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella.

Secondo questa impostazione, infatti, rispetto a questa particolare tipologia di danno non patrimoniale il sistema tabellare a punti è l’unico capace di raggiungere lo scopo per la quale è stato concepito: l’uniformità e la prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza. Ne deriva – per la Cassazione – la sostanziale inapplicabilità della tabella di Milano che non valuta il danno parentale con la tecnica del punto variabile (utilizzata per il danno biologico) ma si limita a individuare alcune forbici di valore per categorie di congiunti, che non consente di pervenire a quella uniformità delle decisioni predicata da Cass. 12408/2011.

Alle sollecitazioni provenienti dalla Suprema Corte, ha risposto l’Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che il 29 giugno 2022 ha adeguato le tabelle milanesi alle modalità di liquidazione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale secondo i criteri del sistema a punti.

La Suprema Corte nella pronuncia in esame, infine, ha riconosciuto queste nuove tabelle coerenti con i principi di equità, uniformità e prevedibilità enunciati nel proprio precedente del 2021, n. 10579.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. III, 21 aprile 2021, n. 10579
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Piano paesaggistico e pianificazione territoriale Il piano paesaggistico prevale rispetto agli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistici?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

La Corte costituzionale ribadisce il principio della prevalenza del piano paesaggistico sui piani urbanistici e, in sua applicazione, accoglie, in parte qua, una questione di legittimità costituzionale – sollevata dal Consiglio di Stato – avente ad oggetto una norma di legge regionale (nella specie, si trattava di una disposizione inserita nella legge sul c.d. piano casa della Regione Puglia) che abilitava i Comuni ad individuare ambiti territoriali o immobili, pur se ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico istituito dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), sui quali consentire la realizzazione di interventi edilizi straordinari. – Corte cost. 27 luglio 2022, n. 192

Con sentenza non definitiva del 14 maggio 2021 (R.G. 147/2021), il Consiglio di Stato, Sezione IV, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge della Regione Puglia 30 luglio 2009, n. 14 (“Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale”), nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione disposta dall’art. 1 della legge della Regione Puglia 24 marzo 2021, n. 3, recante: “Modifica all’articolo 6 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e disposizioni in materia di prezzario regionale delle opere pubbliche”.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe l’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in relazione all’art. 145, comma 3, del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), poiché consentirebbe di porre in essere gli interventi straordinari previsti dalla stessa legge reg. Puglia 14/ 2009 (d’ora in avanti, anche: Piano casa per la Puglia) in deroga alla disciplina dettata dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR) della Puglia, così violando il principio di prevalenza della pianificazione paesaggistica sugli strumenti urbanistici.

Prodromica all’esame della questione è la ricostruzione del panorama normativo in cui essa si colloca.

La legge reg. Puglia 14/2009 ha dato attuazione al cd. Piano casa, in relazione a quanto stabilito nell’intesa raggiunta in sede di Conferenza unificata il 1° aprile 2009, sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia attraverso l’attività edilizia, in applicazione dell’art. 11 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), convertito, con modificazioni, nella L. 6 agosto 2008, n. 133.

Per ciò che interessa in questa sede, con la legge regionale in parola si prevede la possibilità di operare interventi straordinari di ampliamento (art. 3) e di demolizione e ricostruzione (art. 4); interventi che vengono, peraltro, sottoposti ad una serie di limiti, fra i quali quello sancito dall’art. 6, comma 1, lett. f), della stessa legge, che non li ammette «su immobili ubicati in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 136 e 142» cod. beni culturali.

Tale previsione configurava, in origine, un limite assoluto, escludendo in radice l’applicabilità del Piano casa per la Puglia a tale tipologia di immobili. Per mitigare, tuttavia, il rigore della preclusione, con l’art. 4 della legge della Regione Puglia 5 dicembre 2016, n. 37, recante “Modifiche alla legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) e alla legge regionale 15 novembre 2007, n. 33 (Recupero dei sottotetti, dei porticati, di locali seminterrati esistenti e di aree pubbliche non autorizzate)”, è stata inserita all’art. 6, comma 2, della legge reg. Puglia 14/2009 la lett. c-bis), oggi censurata, che permette ai Comuni di individuare, con deliberazione motivata del consiglio comunale, “ambiti territoriali nonché […] immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi del Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale n. 176 del 2015, nei quali consentire, secondo gli indirizzi e le direttive del PPTR, gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Come ricorda lo stesso giudice a quo, l’art. 6, comma 2, lett. c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009 è stato abrogato dall’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021. Con tale abrogazione si è dato seguito ai rilievi provenienti dal Ministero per i beni e le attività culturali (oggi Ministero della cultura) sulla necessità di superare tale disciplina, in quanto lesiva della potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela paesaggistica.

Da ultimo, è opportuno ricordare che il legislatore pugliese è nuovamente intervenuto in materia, reintroducendocon l’art. 3 della legge della Regione Puglia 30 novembre 2021, n. 39, recante “Modifiche alla legge regionale 31 maggio 1980, n. 56 (Tutela ed uso del territorio), disposizioni in materia urbanistica, modifica alla legge regionale 27 luglio 2001, n. 20 (Norme generali di governo e uso del territorio), modifica alla legge regionale 6 agosto 2021, n. 25 (Modifiche alla legge regionale 11 febbraio 1999, n. 11 “Disciplina delle strutture ricettive ex artt. 5, 6 e 10 della legge 17 maggio 1983, n. 217 delle attività turistiche ad uso pubblico gestite in regime di concessione e delle associazioni senza scopo di lucro” e disposizioni varie) e disposizioni in materia derivazione acque sotterranee” – un regime derogatorio del generale divieto posto dall’art. 6, comma 1, lett. f), della legge reg. Puglia 14/2009, analogo a quello previsto dalla censurata lettera c-bis) ma maggiormente articolato nei presupposti.

Con il citato art. 3 si prevede, infatti, che, “[a]i sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamenti in materia edilizia), così come interpretato con circolare del 2 dicembre 2020 dei Ministeri delle Infrastrutture, Trasporti e Pubblica Amministrazione e con parere del Consiglio superiore dei Lavori pubblici dell’8 luglio 2021, sono consentiti, previa deliberazione del Consiglio comunale, gli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 della legge regionale 30 luglio 2009, n. 14 (Misure straordinarie e urgenti a sostegno dell’attività edilizia e per il miglioramento della qualità del patrimonio edilizio residenziale) in aree individuate dal Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR), approvato con deliberazione della Giunta regionale 16 febbraio 2015, n. 176 ed elaborato attraverso co-pianificazione Stato-Regione unilateralmente inderogabile, alle condizioni che l’intervento sia conforme alle prescrizioni, indirizzi, misure di salvaguardia e direttive dello stesso PPTR e che siano acquisiti nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni competenti alla tutela paesaggistica”.

Ciò premesso, la questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Come si è già ricordato, il giudice a quo ritiene l’art. 6, comma 2, lettera c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, costituzionalmente illegittimo, poiché prevedrebbe la derogabilità delle prescrizioni dei piani paesaggistici e, in particolare, di quelle contenute nel PPTR Puglia, risultando così incompatibile con l’art. 145, comma 3, cod. beni culturali, e, quindi, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Il citato art. 145, dedicato al “[c]oordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione”, nel precisare, al comma 3, che le disposizioni dei piani paesaggistici sono, comunque sia, prevalenti su quelle contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, esprime il cosiddetto principio di prevalenza delle prime sulle seconde.

Come questa Corte ha rilevato in più occasioni, mediante tale principio, il codice dei beni culturali ha inteso garantire l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, valore imprescindibile e pertanto non derogabile dal legislatore regionale, in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme di tutela, conservazione e trasformazione del territorio. In forza di tale principio, al legislatore regionale è impedito di adottare, sia normative che deroghino o contrastino con norme di tutela paesaggistica che pongono obblighi o divieti, cioè con previsioni di tutela in senso stretto (fra le molte, sentenze nn. 261, 141 e 74 del 2021, e 86/2019), sia normative che, pur non contrastando con (o derogando a) previsioni di tutela in senso stretto, pongano alla disciplina paesaggistica limiti o condizioni (sent. 74/2021), che, per mere esigenze urbanistiche, escludano o ostacolino il pieno esplicarsi della tutela paesaggistica.

In altri termini, “i rapporti tra le prescrizioni del piano paesaggistico e le prescrizioni di carattere urbanistico ed edilizio” sono definiti “secondo un modello di prevalenza delle prime, non alterabile ad opera della legislazione regionale” (sent. 11/2016; in senso analogo, sentenze nn. 45 e 24 del 2022, nn. 124 e 74 del 2021).

La disposizione censurata contrasta con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico su tutti gli altri strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, violando, così, il parametro interposto evocato dal rimettente.

La legge reg. Puglia 14/2009 disciplina ipotesi (straordinarie) di demolizione, ricostruzione e ampliamento, ossia interventi che, quando pure non risultino espressamente vietati, sono sottoposti a limiti e condizioni, talvolta stringenti, dal PPTR, e in specie dalle prescrizioni specifiche di quest’ultimo.

In tale contesto, la disposizione censurata, nel prevedere che detti interventi possano interessare ambiti e immobili sottoposti a vincolo paesaggistico, non fa alcuna menzione del necessario rispetto anche delle richiamate prescrizioni specifiche del PPTR, ossia di quelle prescrizioni che impongono precisi obblighi o divieti inerenti all’utilizzo e – per ciò che qui rileva – alla trasformazione dei beni paesaggistici (norme, queste ultime, mediante le quali si esplica la funzione precettiva del Piano).

Posto il carattere confliggente della normativa censurata con la disciplina paesaggistica, l’omesso richiamo al generale rispetto delle prescrizioni specifiche del PPTR non può essere inteso alla stregua di un mero silenzio della legge, colmabile – come sostenuto dalla parte – in via interpretativa, nel senso che la relativa disciplina sia implicitamente applicabile, bensì come una deroga, o meglio come la facoltà per i Comuni e i privati, rispettivamente, di consentire e porre in essere tali interventi non osservando il contenuto precettivo del PPTR.

La conclusione è avvalorata, a contrario, dalla circostanza che la norma censurata si limita a richiedere il rispetto dei soli «indirizzi» e «direttive» del PPTR: previsione che non vale a escludere il rilevato contrasto con il principio di prevalenza del Piano paesaggistico, proprio perché il rinvio è circoscritto alla parte programmatica del Piano, a traverso la quale quest’ultimo non detta specifiche regole sull’utilizzo e sulla trasformazione dei beni paesaggistici, ma pone gli obiettivi di qualità della pianificazione.

Parimente inidonea a garantire la prevalenza del Piano paesaggistico sugli strumenti urbanistici è la generica previsione, contenuta sempre nella disposizione censurata, in base alla quale gli interventi in questione debbono essere realizzati “utilizzando per le finiture, materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi.

Una simile previsione non vale certamente ad assicurare l’osservanza delle prescrizioni del PPTR, e rende anzi evidente il carattere derogatorio della norma in esame rispetto a queste ultime. Il PPTR, laddove ammette interventi sui beni paesaggistici, può contemplare una ben più ampia e dettagliata serie di regole sulla loro trasformazione: basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alle regole sul colore degli edifici, all’obbligo di rimuovere, nell’effettuazione degli interventi, gli elementi artificiali, ovvero, infine, al divieto di compromettere i coni visivi.

Come ha già ricordato questa Corte, «la normativa sul Piano casa, pur nella riconosciuta finalità di agevolazione dell’attività edilizia, non può far venir meno la natura cogente e inderogabile delle previsioni del codice dei beni culturali e del paesaggio, adottate dal legislatore statale nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”» (sent. 261/2021; in senso analogo, sent. 86/2019).

Anche per tale ragione il PPTR deve essere messo al riparo dalla pluralità e dalla parcellizzazione degli interventi delle amministrazioni locali, che possono mettere in discussione la complessiva ed unitaria efficacia del Piano paesaggistico (fra le varie, sent. nn. 261 e 74 del 2021, e 11/2016).

Al fine di rimuovere il vulnus costituzionale denunciato, non è peraltro necessario eliminare in toto la norma censurata (operazione che ripristinerebbe, nella sua originaria assolutezza, il divieto di interventi straordinari sugli immobili ricompresi in aree soggette a vincolo paesaggistico), ma è sufficiente introdurre in essa, con pronuncia a carattere additivo, la previsione inerente all’esigenza di rispetto (anche) delle prescrizioni del PPTR.

L’art. 6, comma 2, lettera c-bis), della legge reg. Puglia 14/2009, nel testo in vigore anteriormente all’abrogazione ad opera dell’art. 1 della legge reg. Puglia 3/2021, va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che gli interventi edilizi disciplinati dalla stessa legge regionale debbano essere realizzati anche nel rispetto delle specifiche prescrizioni del PPTR.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost., 2 marzo 2022, n. 45; Id., 29 dicembre 2021, n. 261;
Id., 13 dicembre 2021, n. 241; Id., 21 aprile 2021, n. 74;
Id., 18 novembre 2020, n. 240
giurista risponde

Occupazione sine titulo: danno in re ipsa? È configurabile un danno in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile, al proprietario spetta, in conseguenza della perdita della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento – diretto o indiretto – sulla cosa, il risarcimento sia del danno da perdita subita (liquidato dal giudice, ove non dimostrabile nel suo preciso ammontare, con valutazione equitativa, anche mediante il parametro del canone locativo di mercato) che del danno da mancato guadagno (corrispondente a quanto lo stesso avrebbe ottenuto se avesse concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato ovvero lo avesse venduto ad un prezzo più conveniente di quello di mercato). – Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2022, n. 114.

Con la pronuncia in rassegna le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel comporre un contrasto interno tra sezioni semplici, hanno fatto luce sulla questione della configurabilità di un danno c.d. in re ipsa nell’ipotesi di occupazione sine titulo di un immobile chiarendo che il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento è rappresentato dalla concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto mediante concessione del godimento ad altri dietro corrispettivo) che è andata perduta e, al contempo, specificando quali siano i criteri da seguire per la liquidazione del relativo danno, nella duplice componente della perdita subita e del mancato guadagno.

La Corte, nel formulare i principi di cui in massima, dopo aver riassunto gli opposti orientamenti formatisi in seno alla II e alla III Sezione civile, ha osservato quanto segue: a) la questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione del contenuto del diritto di proprietà su un bene immobile in conseguenza dell’occupazione dello stesso sine titulo da parte di un terzo, in quanto integrante essa stessa un danno risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche risarcitoria; b) a tale quesito deve darsi una risposta positiva nei termini emersi nella linea evolutiva seguita dalla giurisprudenza della II Sezione civile, secondo cui la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato; c) detto esito interpretativo, per quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in conseguenza di un fatto illecito. In particolare la linea da perseguire è quella del punto di mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione civile, e, al fine di salvaguardare tale punto di mediazione, l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta la distinzione fra le due forme di tutela; d) la distinzione fra azione reale e azione risarcitoria è, infatti, il riflesso processuale di quella sostanziale fra regole di proprietà (property rules) e regole di responsabilità (liability rules) sicché la tutela reale è orientata al futuro e mira al ripristino dell’ordine formale violato mediante l’accertamento dello stato di diritto e la rimozione dello stato di fatto contrario al diritto soggettivo (a parte la tutela inibitoria come negli artt. 844 e 1171 c.c.), nel mentre l’azione risarcitoria è orientata al passato e costituisce il rimedio per la perdita subita a causa della violazione del diritto costituendo la misura riparatoria per la concreta lesione del bene della vita verificatasi in conseguenza della condotta abusiva dei terzi; in altri termini, mentre la tutela reale costituisce il rimedio per l’alterazione dell’ordinamento formale, la tutela risarcitoria è compensativa del bene della vita perduto, secondo le modalità del danno emergente se la perdita patrimoniale (o non patrimoniale) è in uscita, del lucro cessante se la perdita è in entrata; e) la distinzione fra le due forme di tutela (reale e risarcitoria) comporta che il fatto costitutivo dell’azione risarcitoria non possa coincidere senza residui con quello dell’azione di rivendicazione ma debba contenere l’ulteriore elemento costitutivo del danno risarcibile; ciò significa tenere ferma la distinzione, espressione della teoria causale del danno, fra causalità materiale e causalità giuridica; in proposito va rilevato che: e1) la distinzione fra causalità materiale e causalità giuridica è un’acquisizione risalente della giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576; Id., 11 novembre 2008, n. 26972, pronunce che, muovendo entrambe dall’ipotesi del danno non patrimoniale, hanno differenziato nell’ambito dell’illecito aquiliano la causalità materiale, rilevante ai fini dell’imputazione del danno evento – dommage o damnum – ad una determinata condotta secondo i criteri di responsabilità previsti dalla disciplina del fatto illecito, e la causalità giuridica, di cui sono espressione gli artt. 1223 e 2056 c.c., la quale, in funzione di selezione delle conseguenze dannose risarcibili, attiene al nesso eziologico fra il danno evento ed il c.d. danno conseguenza – préjudice o praeiudicium –, costituente l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria); ed invero, già prima delle appena richiamate pronunce delle sezioni unite, vi erano stati, nella medesima direzione, altri arresti delle sezioni semplici (cfr. Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619; Id., 24 ottobre 2003, n. 16004; Id., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, tutte rese in materia di danno non patrimoniale) e della giurisprudenza costituzionale (secondo la linea evolutiva che va da Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184 a Corte cost. 27 ottobre 1994, n. 372 e da cui è emersa la distinzione fra danno evento e danno conseguenza, da ultimo ripresa da Corte cost. 15 settembre 2022, n. 205); e2) la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione ha, altresì, chiarito che “se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria” (Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit.), così temperando l’originario rigorismo della tesi della causalità giuridica presente nella dottrina che la introdusse (ad avviso della quale la fattispecie della responsabilità risarcitoria si perfeziona con la verificazione del fatto, comprensivo dell’azione e dell’evento, mentre la causalità giuridica interviene solo in funzione selettiva del danno risarcibile all’esito di una responsabilità già accertata; visione che resta nell’alveo della prospettiva pan-penalistica dell’atto antigiuridico – non iure, nel senso di comportamento non giustificato dal diritto – mentre il punto di vista della moderna responsabilità civile, improntata al principio di solidarietà ex art. 2 Cost. è quello dell’allocazione del danno contra ius – “ingiusto” – secondo la qualifica dell’art. 2043 c.c.); al rigorismo dell’originaria tesi dottrinale va obiettato che in assenza delle conseguenze previste dall’art. 1223 c.c. non vi è alcuna responsabilità risarcitoria da accertare perché non vi è danno da risarcire; ciò in quanto la fattispecie del fatto illecito si perfeziona con il danno conseguenza sicché la perdita subita e il mancato guadagno (art. 1223 c.c.) non sono un posterius rispetto al danno ingiusto, ma sono i criteri di determinazione di quest’ultimo, secondo la lettera dell’art. 2056 c.c. con la conseguenza che, da un lato, il “danno” di cui fa menzione la seconda parte dell’art. 2043 c.c. non è altra cosa dal “danno ingiusto” di cui si parla nella prima parte e, dall’altro, se non c’è danno conseguenza non c’è danno ingiusto; e3) causalità materiale e causalità giuridica non sono, così, le fasi di una successione cronologica, ma sono i due diversi punti di vista in sede logico-analitica dell’unitario fenomeno del danno ingiusto (di “profili diversi” dell’unico danno già discorreva Cass. civ. S.U. 11 gennaio 2008, cit., punto n. 5.1), il quale non è identificabile se non alla luce di questa dualità di nessi causali, l’uno informato al criterio della regolarità causale, l’altro a quello della conseguenzialità immediata e diretta; cagionato l’evento di danno, la fattispecie del fatto illecito è, infatti, integrata con la realizzazione delle conseguenze pregiudizievoli, senza che fra evento e conseguenza vi sia un distacco temporale sicché la distinzione in parola è logica, non cronologica; f) così precisati i termini della distinzione fra evento di danno e danno conseguenza, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno, e chiarita la necessità dell’elemento costitutivo ulteriore nella causa petendi della domanda risarcitoria rispetto a quella della domanda di rivendicazione, occorre definire più specificatamente il danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà; in proposito deve rilevarsi che: f1) la circostanza che la violazione dell’ordine giuridico sia suscettibile di tutela non solo reale, ma anche risarcitoria, trova riscontro nel fatto che il diritto soggettivo appartiene al novero delle situazioni giuridiche mezzo, nelle quali il potere giuridico di cui è investito il soggetto rappresenta lo strumento, a sua disposizione, per la soddisfazione dell’interesse ad un determinato bene della vita; f2) la violazione del diritto può così comportare la lesione dell’interesse al bene della vita, che di quel diritto costituisce il substrato materiale e l’elemento teleologico, e configurare dunque l’illecito aquiliano; g) ai fini della definizione del danno risarcibile da violazione dell’ordine giuridico, deve muoversi dalla distinzione fra la lesione del bene costituente l’oggetto del diritto di proprietà e la lesione del contenuto stesso del diritto; in particolare: g1) quando l’azione dannosa attinge sulla base del nesso di causalità materiale il bene, l’evento di danno è rappresentato dalla lesione del diritto per il pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà, ma affinché un danno risarcibile vi sia, perfezionandosi così la fattispecie del danno ingiusto, è necessario che al profilo dell’ingiustizia, garantito dalla violazione del diritto, si associ quello del danno conseguenza, e perciò la perdita subita e/o il mancato guadagno che, sulla base del nesso di causalità giuridica, siano conseguenza immediata e diretta dell’evento dannoso (come accade, ad esempio, nel caso del danno da c.d. “fermo tecnico di veicolo incidentato”, per il quale è richiesta la prova della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo su cui si vedano Cass. civ., sez. III, 14 ottobre 2015, n. 20620 e le altre conformi fino alla recente Cass. civ., sez. III, 19 settembre 2022, n. 27389); g2) quando l’azione lesiva attinge invece il contenuto del diritto di proprietà (“il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”), ciò che viene in primo luogo in rilievo è la violazione dell’ordine giuridico e l’ordinamento appresta lo strumento di ripristino dell’ordine formale violato, ossia la tutela reale di reintegrazione del diritto leso; questa tutela può eventualmente concorrere con la misura restitutoria del bene, di cui è pure espressione la fattispecie di cui all’art. 1148 c.c., la quale disciplina con riferimento ai frutti naturali separati e ai frutti civili maturati le conseguenze della restituzione della cosa da parte del possessore (nella specie di mala fede o comunque nello stato soggettivo di cui all’art. 1147, comma 2, c.c.) convenuto dal proprietario in sede di rivendicazione; sia la cosa (art. 810 c.c.), che i frutti (art. 820 c.c.), appartengono alla disciplina dei beni e perciò restano nell’alveo dell’azione di rivendicazione sotto il profilo degli effetti restitutori; h) la domanda risarcitoria presuppone che l’azione lesiva del contenuto del diritto di proprietà sia valutabile non solo come violazione dell’ordine formale, ma anche come evento di danno; in quest’ultimo caso il nesso di causalità materiale si stabilisce fra l’occupazione senza titolo dell’immobile e direttamente la lesione del diritto di proprietà, senza passare per l’intermediazione del pregiudizio cagionato alla cosa oggetto del diritto di proprietà sicché l’evento di danno riguarda non la cosa, ma proprio il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa ed il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione, cagionata dall’occupazione abusiva, del “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”; il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire; i) saldando il danno suscettibile di risarcimento alla concreta possibilità di godimento persa, per un verso si rende risarcibile il contenuto del diritto violato, in ossequio alla teoria normativa del danno, per l’altro si riconduce la violazione giuridica a una specifica perdita subita, in ossequio alla teoria causale; più segnatamente: i1) il riferimento alla specifica circostanza di godimento perso stabilisce la discontinuità fra il fatto costitutivo dell’azione di rivendicazione e quello dell’azione risarcitoria, preservando la distinzione fra la tutela reale e quella risarcitoria; diversamente si avrebbe l’inaccettabile conseguenza non del danno punitivo, come pure affermato dalla giurisprudenza della terza sezione civile, ma del danno irrefutabile che non ammette prova contraria; i2) affinché si abbia un danno punitivo è necessario un quid ulteriore che colleghi la riparazione della perdita subita alla riprorevolezza della condotta del danneggiante, con un’amplificazione della componente riparatoria in misura proporzionale al grado della colpa o all’intensità del dolo del danneggiante (mediante il cumulo di compensatory damage e punitive damage), e tale non può dirsi che sia l’esito della tesi del danno in re ipsa; i3) viceversa, se la causa petendi dell’azione risarcitoria viene fatta coincidere senza residui con quella dell’azione risarcitoria (rectius reale n.d.r.), il risarcimento spetterebbe sempre a fronte della denuncia della compressione del diritto di godere della cosa quale astratta posizione riconosciuta dall’ordinamento, senza che si dia possibilità della prova contraria; j) non è, invece, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di godimento persa nell’ipotesi dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di fattispecie retta da criteri del tutto differenti rispetto alla comune occupazione abusiva (sui connotati specifici dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione si vedano: Cons. Stato, Ad. Plen., 9 aprile 2021, n. 6; Id., 20 gennaio 2020, nn. 2 e n. 4; Id., 18 febbraio 2020, n. 5); in particolare: j1) l’art. 42bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, prevede che, in caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e di successivo provvedimento di acquisizione, sia corrisposto al proprietario un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene; l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37 del medesimo D.P.R. 327/2001, per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore del bene come appena determinato; j2) anche nel caso di mancanza di formale acquisizione ai sensi dell’art. 42bis del D.P.R. 327/2001, o di procedimento non conclusosi con un valido ed efficace decreto di esproprio o con un accordo di cessione, è configurabile per la giurisprudenza un danno per il mancato godimento del fondo illegittimamente occupato, abitualmente determinato in via equitativa in favore del privato, ove non sia fornita la prova di un danno maggiore, in base al criterio degli interessi legali per ogni anno di occupazione sulla somma corrispondente all’indennità di espropriazione o sul prezzo di cessione volontaria del bene (fra le tante Cass. civ., sez. I, ord. 20 novembre 2018, n. 29990); j3) la determinazione legislativa in via forfettaria dell’indennizzo, senza esigere dal proprietario l’allegazione della mancata possibilità di godimento nel periodo di occupazione senza titolo, salva la possibilità per entrambe le parti del giudizio di dimostrare la diversa entità del danno in concreto (in melius o in pejus rispetto a quel limite – per il proprietario ad esempio la perdita di occasioni particolari di profitto), costituisce una valutazione legale tipica di pregiudizio e di relativa compensazione; si tratta di una valutazione, come anche quella del diritto vivente appena richiamato, tipizzata di pregiudizio al bene della vita, il cui presupposto di fatto è l’esplicazione del rapporto fra privato e pubblica amministrazione, istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere, secondo modalità ablatorie non rispettose della legge; ciò in quanto, come spiega Cass. civ. S.U., 20 luglio 2021, n. 20691, “nella materia espropriativa l’agire amministrativo è cadenzato da atti formali che sono, di per sé, evocativi di conseguenze pregiudizievoli per il privato, apprezzabili secondo l’id quod plerumque accidit, nel caso in cui la pubblica amministrazione non eserciti il potere autoritativo nei tempi e modi previsti dalla legge”; k) nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è, al contrario, richiesta l’allegazione della concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa; ciò significa che: k1) il non uso, il quale è pure una caratteristica del contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento; ciò in quanto, se è pur vero che a fondamento dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà vi è la circostanza che fra le facoltà riconosciute al proprietario vi è anche quella del non uso, l’inerzia resta una manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, mentre il danno conseguenza riguarda il pregiudizio al bene della vita che, mediante la violazione del diritto, si sia verificato; k2) alla reintegrazione formale del diritto violato, anche nella sua esplicazione di non uso, provvede la tutela reale e non quella risarcitoria; l) la perdita subita attiene al godimento, diretto o indiretto mediante il corrispettivo del godimento concesso ad altri, e non alla vendita (per la quale, corrispondendo il relativo danno alla differenza fra il prezzo di mercato e quello maggiore che si sarebbe potuto ricavare dall’atto dispositivo mancato, non può che parlarsi di mancato guadagno); con riguardo alla perdita subita attinente al godimento va precisato che: l) l’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito; 2) al cospetto di tale allegazione il convenuto ha l’onere di opporre che giammai il proprietario avrebbe esercitato il diritto di godimento; 3) la contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c.; 4) in presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici; 5) nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa; 6) sia nel caso di godimento diretto che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa; m) se, invece, la domanda risarcitoria ha ad oggetto il mancato guadagno causato dall’occupazione abusiva, l’onere di allegazione riguarda gli specifici pregiudizi, fra i quali si possono identificare non solo le occasioni perse di vendita a un prezzo più conveniente rispetto a quello di mercato, ma anche le mancate locazioni a un canone superiore a quello di mercato (una volta che si quantifichi equitativamente il godimento perduto con il canone locativo di mercato, il corrispettivo di una locazione ai correnti valori di mercato rientra, come si è visto, nelle perdite subite); nel dettaglio: m1) ove insorga controversia in relazione al fatto costitutivo del lucro cessante allegato, l’onus probandi anche in questo caso può naturalmente essere assolto mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o le presunzioni semplici; m2) per ogni altro aspetto può rinviarsi alla costante giurisprudenza in materia di maggior danno ai sensi dell’art. 1591 c.c. (fra le tante Cass. civ., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 2552; Id., 26 novembre 2007, n. 24614; Id., 13 luglio 2005, n. 14753; Id., 23 maggio 2002, n. 7546); n) sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. civ, sez. VI, ord. 31 agosto 2020, n. 18074; Cass. civ., sez. lav. 4 gennaio 2019, n. 87; Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2016, n. 14652; Id., 13 febbraio 2013, n. 3576); in particolare: n1) poiché non si compie l’effetto di cui all’art. 115, comma 1, c.p.c., per i fatti ignoti al danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno; n2) sul piano pratico ne consegue la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115, comma 1, c.p.c., in relazione alle controversie aventi ad oggetto la perdita subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il mancato guadagno; n3) ciò vale a chiarire la portata eminentemente pratica delle nozioni di “danno normale” e “danno presunto” emerse nella recente giurisprudenza della seconda sezione civile, le quali rinviano, nelle controversie relative alla perdita subita, a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. civ., sez. II, ord. 22 aprile 2022, n. 12865; Id., 20 gennaio 2022, n. 4936;
Cass. civ., sez. VI, ord. 7 gennaio 2021, n. 39
giurista risponde

Proroghe concessioni sale bingo È legittima secondo l’ordinamento comunitario la disciplina nazionale in materia di proroghe delle concessioni per la gestione delle sale bingo?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Rimessione alla Corte di Giustizia U.E. – Cons. Stato, sez. VII, ord. 21 novembre 2022, nn. 10261, 10263, 10264.

Con le ordinanze gemelle nn. 10261, 10263 dello scorso 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di Giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali.

  1. Se la direttiva 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, nonché i principi generali desumibili dal Trattato, e segnatamente gli artt. 15, 16, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea e gli artt. 8, 49, 56, 12, 145 e 151 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, debbano essere interpretati nel senso che essi trovano applicazione a fronte di concessioni di gestione del gioco del Bingo le quali siano state affidate con procedura selettiva nell’anno 2000, siano scadute e poi siano state reiteratamente prorogate nell’efficacia con disposizioni legislative entrate in vigore successivamente all’entrata in vigore della direttiva ed alla scadenza del suo termine di recepimento;
  2. nel caso in cui al primo quesito sia fornita risposta affermativa, se la direttiva 2014/23/UE osta ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  3. se la direttiva 89/665/CE, quale modificata dalla direttiva 2014/23/UE, osta ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  4. se, in ogni caso, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme legislative interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali da privare l’Amministrazione del potere discrezionale di avviare, su istanza degli interessati, un procedimento amministrativo volto a modificare le condizioni di esercizio delle concessioni, con o senza indizione di nuova procedura di aggiudicazione a seconda che si qualifichi o meno modifica sostanziale la rinegoziazione dell’equilibrio convenzionale, nei casi in cui si verifichino eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  5. se gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino ad una interpretazione o applicazione di norme nazionali interne, o prassi applicative sulla base delle norme stesse, tali che il legislatore o l’Amministrazione pubblica possano condizionare la partecipazione alla procedura per la riattribuzione delle concessioni di gioco all’adesione del concessionario al regime di proroga tecnica, anche nell’ipotesi in cui sia esclusa la possibilità di rinegoziare le condizioni di esercizio della concessione al fine di ricondurle in equilibrio, in conseguenza di eventi non imputabili alle parti, imprevisti ed imprevedibili, che incidono in modo significativo sulle condizioni normali di rischio operativo, finché perdurino tali condizioni e per il tempo necessario per eventualmente ripristinare le condizioni originarie di esercizio delle concessioni;
  6. se, più in generale, gli artt. 49 e 56 del TFUE e i principi di certezza ed effettività della tutela giuridica, nonché il principio del legittimo affidamento ostino a una normativa nazionale (quale quella che rileva nella controversia principale), la quale prevede a carico dei gestori delle sale Bingo il pagamento di un oneroso canone di proroga tecnica su base mensile non previsto negli originari atti di concessione, di ammontare identico per tutte le tipologie di operatori e modificato di tempo in tempo dal legislatore senza alcuna dimostrata relazione con le caratteristiche e l’andamento del singolo rapporto concessorio.

 

Con successiva ordinanza n. 10264, depositata sempre in data 21 novembre 2022, la VII Sezione del Consiglio di Stato ha, poi, rimesso alla Corte di Giustizia ulteriore questione “se la direttiva 2014/23/UE, ove ritenuta applicabile e, in ogni caso, i principi generali desumibili dagli artt. 26, 49, 56 e 63 del TFUE come interpretati e applicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, con particolare riguardo al divieto di discriminazioni, al canone di proporzionalità ed alla tutela della concorrenza e della libera circolazione dei servizi e dei capitali, ostino all’applicazione di norme nazionali per cui il legislatore nazionale o l’amministrazione pubblica possano, durante la cd “proroga tecnica” più volte rinnovata nell’ultimo decennio nel settore delle concessioni di gioco, incidere unilateralmente sui rapporti in corso, introducendo l’obbligo di pagamento di canoni concessori, originariamente non dovuti, ed aumentando, successivamente a più riprese i medesimi canoni, sempre determinati in misura fissa per tutti i concessionari a prescindere dal fatturato, apponendo anche ulteriori vincoli all’attività dei concessionari come il divieto di trasferimento dei locali e subordinando la partecipazione alla futura procedura per la riattribuzione delle concessioni all’adesione degli operatori alla proroga medesima”.

giurista risponde

Impugnazione acquisizione bene patrimonio del comune Il creditore ipotecario è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione del bene del debitore al patrimonio del comune?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Il creditore ipotecario (al pari di qualsiasi creditore – anche chirografario – che trascriva pignoramento immobiliare) deve ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo all’intera serie di provvedimenti contemplati dall’art. 31 TU edilizia. – TAR Napoli, Sez. II, 29 novembre 2022, n. 7453.

Con la sentenza dello scorso 29 novembre, n. 7453, la II Sezione del TAR Napoli ha posto l’attenzione sulla legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare l’ordinanza di acquisizione del bene del debitore al patrimonio del Comune.

Al riguardo la Corte ha statuito che il creditore ipotecario non è legittimato ad impugnare l’ordinanza di acquisizione avente ad oggetto beni insistenti sul fondo di proprietà del debitore, atteso che l’azione produrrebbe effetti giuridici nella sfera di un altro soggetto, e che – nel giudizio amministrativo – l’esercizio dell’azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi.

È noto, infatti, che la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e prostula l’esistenza di un interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto; altrimenti l’impugnativa verrebbe degradata al rango di azine popolare a tutela dell’oggettiva legittimità dell’azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa.

Inoltre, perché un interesse possa essere tutelabile con un’azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall’interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell’azione amministrativa, ed anche la lesione da cui discende l’interesse all’impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incida in maniera immediata sull’interesse legittimo della parte ricorrente, di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un’azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strutturalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l’esercizio nell’ambito del giudizio amministrativo dell’azione non può essere delegato fuori da un’espressa previsione di legge, né surrogato dall’azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi.

I Giudici condividono la posizione già sostenuta dal TAR Valle D’Aosta, Sez. Unica, 12 ottobre 2018, n. 48, secondo cui: “È certamente ammissibile per il creditore ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario, laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo da parte del creditore pignorante non può ritenersi ammissibile perché chiaramente avente natura surrogatoria e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere con la demolizione”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    TAR Valle D’Aosta, Sez. Unica, 12 ottobre 2018, n. 48
Difformi:      TAR Piemonte, sez. II, 27 giugno 2018, n. 791
giurista risponde

Sindacato giudiziale e legittimazione processuale associazioni Qual è l’ubi consistam della legittimazione processuale delle associazioni collettive? E in che termini si estende il sindacato giudiziale sui provvedimenti amministrativi espressione di potere discrezionale tecnico?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

La legittimazione processuale delle organizzazioni collettive si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo. Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Il sindacato giudiziario sui provvedimenti amministrativi espressione di discrezionalità tecnica non può spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti. – TAR Firenze, sez. II, 14 novembre 2022, n. 1303.

Con la pronuncia n. 1303 dello scorso 14 novembre, il TAR Firenze ha affermato che non sussiste il difetto di giurisdizione allorché si faccia valere non un diritto soggettivo alla tutela della salute, bensì il loro interesse legittimo al corretto esercizio del potere da parte delle Amministrazioni intimate nella fattispecie in esame.

La contestazione non cade su un agire amministrativo direttamente impattante su un diritto soggettivo asseritamente leso, ma afferisce all’esercizio di attribuzioni pubblicistiche, a fronte delle quali la posizione dedotta in giudizio è quella dell’interesse legittimo.

Nel caso di specie, l’azione amministrativa si è svolta attraverso un procedimento, con spendita di discrezionalità, culminante in provvedimenti, conformativi e non meramente accertativi di una situazione fattuale, essendo essi creatori del fatto e non dichiarativi della sua esistenza, ai fini della produzione delle conseguenze legislativamente previste. Nel dettaglio, nella fattispecie in contestazione si controverte della legittimità o meno del decreto regionale di autorizzazione ambientale nonché del permesso di costruire rilasciati in favore della società controinteressata ed impugnati da un’associazione ambientalista).

In punto di legittimazione processuale delle organizzazioni collettive, poi, la Corte rileva che essa si fonda su un processo di differenziazione dell’interesse diffuso mediante l’attribuzione della sua titolarità ad un ente collettivo.

Questo avviene attraverso un riconoscimento legislativo espresso ovvero alla stregua di una previsione legislativa implicita (cd. doppio binario), la quale postula la ricorrenza dei seguenti requisiti cumulativi, sintomatici della concreta rappresentatività: i) l’ente persegua il soddisfacimento dell’interesse ambientale che sia stabilito dallo statuto; ii) l’ente presenti un’organizzazione stabilmente finalizzata a tutelare tale interesse; iii) l’interesse diffuso abbia connotati di sostanziale “omogeneità” tra i soggetti che compongono la “comunità, attraverso l’incidenza su una certa area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso.

Occorre, altresì, che l’attività del comitato si sia protratta nel tempo e che, quindi, il comitato non nasca in funzione dell’impugnativa di singoli atti e provvedimenti.

Infine, con riguardo al sindacato giudiziale in merito ai provvedimenti amministrativi espressivi di un potere discrezionale tecnico, i Giudici fiorentini, richiamando la pacifica giurisprudenza sul punto, sostengono che: “In presenza di provvedimenti espressivi di discrezionalità tecnica, che, per definizione, non implicano, una comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi secondari, bensì l’applicazione di scienze tecniche al caso concreto, il controllo giudiziario si estende anche all’attendibilità delle operazioni effettuate”. La valutazione riguarda sia il profilo della correttezza del criterio tecnico individuato dall’amministrazione sia quello della correttezza del procedimento seguito per la sua applicazione e si giustifica sulla base della distinzione tra la “opinabilità”, che caratterizza le valutazioni tecniche, e la “opportunità” che connota invece le scelte di merito.

La valutazione effettuata dall’Amministrazione, quindi, non può essere sostituita da quella del giudice.

Il sindacato giudiziario non può infatti spingersi fino ad individuare, tra quelle egualmente opinabili, la soluzione adatta al caso concreto e deve limitarsi a valutare gli apprezzamenti dell’amministrazione sotto i profili dell’illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità o travisamento dei fatti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2022, n. 7799;
Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4522;
Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2022, n. 2269;
Cons. Stato, sez. IV, 1° marzo 2022, n. 1445;
Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2022, n. 530;
TAR Firenze, sez. II, 23 marzo 2022, n. 372;
TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 5 luglio 2021, n. 208;
TAR Liguria, sez. II, 10 febbraio 2017, n. 95;
TAR Bari, sez. I, 29 settembre 2011, n. 1665
giurista risponde

Sindacato giudiziale nell’anomalia dell’offerta Come si esprime il sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta?

Quesito con risposta a cura di Giusy Casamassima

 

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile. Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico. – TAR Napoli, sez. I, 1° dicembre 2022, n. 7510.

Con la decisione dello scorso 1° dicembre, la I Sezione del TAR Napoli si è – ancora una volta – interrogata in merito al sindacato giudiziale in materia di anomalia dell’offerta, statuendo che nel giudizio di anomalia dell’offerta, il momento comparativo non può fondarsi sulla sola circostanza che i preventivi richiesti ad altri fornitori per i medesimi prodotti prevedano prezzi più elevati di quelli ottenuti dalla controinteressata.

La determinazione del prezzo dei materiali è anche il risultato di peculiari rapporti commerciali tra il fornitore e il cliente, il quale è in grado di spuntare condizioni particolarmente favorevoli non replicabili con altri imprenditori.

Ciò che rileva in sede di gara è solo l’attendibilità del prezzo, tale da rendere l’offerta proposta certa e affidabile; aspetto che alla luce delle verifiche della Commissione, non può essere messa in discussione.

Questo si giustifica in ragione della peculiare natura del giudizio di anomalia, il quale è espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile, come tale, solo in caso di manifesta erroneità, irragionevolezza, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti, ed ha carattere globale e sintetico, sicché la sua impugnazione non può essere improntata alla “caccia all’errore” su singole voci di costo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    TAR Milano, sez. I, 6 giugno 2022, n. 558;
TAR Napoli, sez. IV, 26 aprile 2022, n. 2835