esame avvocato

Esame avvocato L’esame avvocato si compone di fase scritta e orale e ha ad oggetto sia materie di diritto sostanziale che di diritto processuale

Esame avvocato cos’è e come funziona

L’esame avvocato è la prova necessaria ai laureati in giurisprudenza per conseguire l’abilitazione all’esercizio della professione forense.

Per parteciparvi, occorre prima aver terminato il periodo di tirocinio prescritto dalla legge presso studi legali e uffici giudiziari.

Come si svolge l’esame avvocato 2024

La disciplina dell’esame di avvocato è stata, negli anni recenti, oggetto di discussioni e modifiche, originate dal periodo emergenziale del 2020.

Quest’anno, la prova scritta dell’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato si è svolta a dicembre, con la redazione di pareri in ambito di diritto civile e diritto penale e la redazione di un atto di diritto civile, penale o amministrativo.

Il tasso degli elaborati considerati idonei al superamento della prova scritta è stato del 55%, un dato definito “confortante” dal presidente della commissione centrale dell’esame.

La prova orale si svolge a partire dal mese di maggio 2024 ed è disciplinata sul modello dell’orale “rafforzato” proprio del periodo emergenziale, modalità di cui è caldeggiata, da parte di alcune associazioni di categoria, la riproposizione anche per l’anno a venire.

Le tre fasi della prova orale dell’esame avvocato

La prova orale dell’esame avvocato si compone di tre fasi, da svolgersi senza soluzione di continuità in un’unica seduta. La durata complessiva della prova per il candidato dev’essere al massimo pari a circa un’ora e mezzo.

La prova orale comincia con la somministrazione al candidato di un caso pratico da discutere davanti ai commissari d’esame. Attraverso la soluzione proposta dal candidato, è possibile valutare le sue conoscenze di diritto sostanziale e processuale, nella materia che quest’ultimo ha scelto prima dello svolgimento dell’esame, tra diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo.

La seconda fase consiste nel classico esame, attraverso le domande della commissione, delle conoscenze e delle capacità di esposizione da parte del candidato. Oggetto delle domande sono le materie scelte tra diritto civile, penale (anche negli aspetti processuali) e amministrativo.

Infine, al candidato dell’esame avvocato vengono sottoposti dei quesiti riguardanti l’ordinamento forense e la deontologia della professione.

L’esame è superato nel momento in cui il candidato ottenga nella prova orale un voto di almeno 105 punti, con un minimo di 18 punti in ciascuna materia (non viene, cioè, ammessa la compensazione dei punteggi per le materie in cui il candidato non ottenga almeno 18 punti).

Criteri di valutazione candidati all’esame di abilitazione avvocato

Attraverso una circolare ministeriale, sono stati chiariti anche i criteri di valutazione dell’esame avvocato, che devono essere quelli della chiarezza espositiva e della logicità dei ragionamenti, oltre alla dimostrazione da parte del candidato della concreta capacità di soluzione delle questioni giuridiche e del possesso di un’idonea conoscenza della teoria relativa agli istituti giuridici oggetto di esame.

Vengono, inoltre, ritenuti oggetto di valutazione anche la capacità di operare collegamenti interdisciplinari in occasione dell’esposizione dei vari argomenti, oltre alla necessaria capacità di sintesi.

Cassa Forense

Cassa Forense Cassa Forense: natura e funzioni dell’ente previdenziale e assistenziale degli avvocati e obbligatorietà dell’iscrizione. La contribuzione e le relative sanzioni

Natura giuridica di Cassa Forense e vigilanza ministeriale

La Cassa Forense è l’organismo che ha la funzione di provvedere alla previdenza e all’assistenza degli avvocati iscritti all’albo.

Istituita nel 1952, ha natura di fondazione di diritto privato ed è sottoposta, per espressa previsione dello Statuto (art. 33) alla vigilanza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero della giustizia.

Funzioni della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense

Cassa Forense, che ha sede a Roma, gode di autonomia regolamentare e gestionale e, nello specifico, persegue i seguenti scopi istituzionali (art. 2 dello Statuto):

  • assicurare agli avvocati che hanno esercitato la professione con carattere di continuità ed ai loro superstiti un trattamento previdenziale;
  • erogare assistenza a favore degli iscritti e dei loro congiunti, nonché degli altri aventi titolo in base a leggi, regolamenti e Statuto;
  • gestire forme di previdenza integrativa e complementare nell’ambito della normativa vigente.

Obbligatorietà dell’iscrizione a Cassa Forense

Quanto agli iscritti, l’art. 6 dello Statuto di Cassa Forense prevede che siano obbligatoriamente iscritti alla Cassa gli avvocati iscritti in almeno un albo professionale. Possono, inoltre, iscriversi alla Cassa i praticanti iscritti nel relativo registro.

L’obbligatorietà dell’iscrizione degli avvocati alla Cassa è prevista dalla Legge professionale forense (legge n. 247 del 31 dicembre 2012), il cui art. 21 prevede espressamente che “l’iscrizione agli albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.”

L’iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense cessa d’ufficio nei seguenti casi:

  • cancellazione dell’avvocato da tutti gli albi professionali;
  • cessazione dell’iscrizione del praticante avvocato dal relativo registro;
  • negli altri casi previsti dai regolamenti (anche a domanda dell’interessato).

È importante evidenziare che, per gli iscritti alla cassa, non è ammessa l’iscrizione ad alcuna altra forma di previdenza, se non su base volontaria e comunque non alternativa alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.

Cassa Forense: il Modello 5 e le sanzioni

Dall’iscrizione alla Cassa discende, per i professionisti forensi, l’obbligo di versare i contributi previsti dai regolamenti vigenti.

In particolare, gli avvocati sono tenuti annualmente al versamento dei contributi minimi obbligatori, che sono dovuti indipendentemente dall’entità del proprio reddito professionale. Tali contributi sono il contributo minimo soggettivo, il contributo integrativo e il contributo di maternità.

Gli avvocati sono inoltre tenuti all’invio, entro il 30 settembre di ogni anno, del cosiddetto Modello 5, una comunicazione telematica obbligatoria con cui il professionista rende noto alla Cassa il reddito netto professionale dichiarato ai fini Irpef ed il volume d’affari dichiarato a fini IVA.

Con il Modello 5, l’avvocato procede, altresì, all’autoliquidazione degli eventuali contributi dovuti, da versarsi in unica soluzione entro il 31 luglio, o in due rate dello stesso importo, entro il 31 luglio ed entro il 31 dicembre di ogni anno. Contestualmente all’invio del Modello 5, il software predisposto da Cassa Forense calcola automaticamente gli eventuali contributi in autoliquidazione dovuti in eccedenza rispetto ai contributi minimi obbligatori.

Gli avvocati iscritti alla Cassa possono, inoltre, versare somme a titolo di contribuzione modulare volontaria, che permettono al professionista di costituire una quota di pensione aggiuntiva a quella di base. La contribuzione modulare volontaria può consistere in un versamento annuale facoltativo, dall’ 1 al 10% del reddito professionale Irpef dichiarato.

Il Regolamento di Cassa Forense prevede, infine, un articolato sistema sanzionatorio, che viene applicato in caso di mancato o ritardato adempimento degli obblighi previdenziali, sia dichiarativi sia contributivi, e che comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie e disciplinari.

avvocati monocommittenti

Avvocati monocommittenti Gli avvocati monocommittenti svolgono la propria attività esclusivamente in favore di un unico soggetto: il dibattito sulla compatibilità con la legge professionale

La monocommittenza nella professione forense

Il tema dell’attività lavorativa svolta dagli avvocati monocommittenti è, in questi mesi, al centro del dibattito giuridico e politico, poiché è sempre più avvertita l’urgenza di offrire un adeguato inquadramento normativo a tale figura.

Attualmente, infatti, da un lato si considera l’attività dell’avvocato monocommittente – cioè, il professionista forense che fornisce la totalità delle sue prestazioni ad unico soggetto – come non rispettosa dei principi deontologici di libertà, autonomia e indipendenza.

Dall’altro, tali avvocati, che di solito instaurano questo genere di rapporto nell’ambito di uno studio legale strutturato, sono sprovvisti delle tutele garantite dall’ordinamento ai lavoratori subordinati, pur esercitando un tipo di attività per molti versi simile a quella svolta da questi ultimi.

Le proposte di legge sulla monocommittenza degli avvocati

Sono ormai diversi anni che la formalizzazione della figura degli avvocati monocommittenti è all’ordine del giorno sull’agenda politico-legislativa, senza, però, che finora si sia raggiunto un risultato concreto.

È un fatto assodato, però, che sia gli enti esponenziali degli interessi del ceto forense, sia la classe politica si siano ormai resi conto che la regolarizzazione di tale modalità di svolgimento dell’attività forense rappresenta un’urgenza improcrastinabile.

Sul tavolo, infatti, c’è innanzitutto la necessità di fornire le indispensabili tutele normative a questa categoria di lavoratori che si stima superi ormai le 20.000 unità all’interno del nostro territorio nazionale.

Tale dato è ricavato dalle dichiarazioni dei redditi ricevute da Cassa Forense, dalla cui analisi si evince che una percentuale tra il 5 e il 10% di chi esercita la professione di avvocato in Italia ha dichiarato di percepire la totalità o la quasi totalità del proprio reddito dall’avvocato titolare dello studio presso cui operano.

Avvocati monocommittenti: l’esigenza di tutele lavorative

Uno dei nodi principali della questione è rappresentato dal divieto di svolgere lavoro subordinato imposto dalla normativa sulla disciplina dell’ordinamento forense, a tutela dell’indipendenza dell’avvocato (cfr. art. 2 della l. n. 247 del 2012).

Già nel 2020, una proposta di legge si proponeva di offrire una soluzione alla questione in oggetto, prevedendo che all’avvocato monocommittente fosse riconosciuto un compenso congruo e proporzionato da corrispondersi periodicamente, a fronte di un’attività non considerabile come subordinata, ma comunque contrattualmente disciplinata nei suoi aspetti principali, a cominciare dall’indicazione della durata del rapporto. La proposta  prevedeva, inoltre, specifiche disposizioni in tema di contributi previdenziali a carico, almeno parzialmente, del titolare dello studio e di tutele del lavoratore in caso di gravidanza e infortuni.

L’abolizione del divieto di svolgimento di lavoro subordinato da parte dell’avvocato presso uno studio di un diverso professionista è stata al centro anche della proposta di legge n. 735 nel 2022.

Il Ministro Nordio sulla monocommittenza forense

Il tema è stato poi ripreso ancor più di recente, ed anche Cassa Forense ha rappresentato l’urgenza della questione, sollecitando il Parlamento sull’esigenza di una disciplina in tema di monocommittenza in ambito forense.

Da ultimo, sul tema si è registrata l’apertura da parte del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il quale ha riconosciuto che “si avverte la necessità di regolamentare la monocommittenza”, pur nel pieno rispetto dei principi di libertà, autonomia e indipendenza che devono caratterizzare la figura dell’avvocato nello svolgimento della sua attività.

Sulla stessa linea si è espresso il Consiglio Nazionale Forense, evidenziando che la regolamentazione dell’attività degli avvocati monocommittenti deve inserirsi in una riscrittura generale della legge professionale che riguardi ogni forma di aggregazione professionale come le società tra avvocati.

appello tardivo

Appello tardivo L’impugnazione incidentale può essere proposta anche quando sia decorso il termine per proporre quella principale. I capi della sentenza impugnabili con l’appello tardivo

Cosa sono le impugnazioni incidentali tardive

L’appello tardivo è disciplinato dall’art. 334 c.p.c., in base al quale le impugnazioni incidentali possono essere proposte dalle parti contro le quali è stata proposta impugnazione (oltre che dai litisconsorti necessari) anche quando sia decorso il termine per proporre l’impugnazione principale (di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.), o quando sia stata fatta acquiescenza alla sentenza.

Per comprendere la ragione che ha reso opportuna la previsione dell’istituto dell’appello tardivo nel nostro ordinamento, occorre tenere presente che il legislatore mira a scoraggiare l’impugnazione delle sentenze, al fine di diminuire il numero di contenziosi che affollano le aule di tribunale.

Consentendo l’impugnazione incidentale tardiva, si dà modo alla parte, che non sia particolarmente determinata ad impugnare un capo della sentenza a lei sfavorevole, a lasciar decorrere il termine senza attivarsi. Se poi questa riceve, oltre tale termine, la notificazione dell’altrui impugnazione principale, è rimessa in termini per impugnare a sua volta la sentenza con impugnazione incidentale tardiva.

I capi della sentenza impugnabili in via incidentale

L’istituto dell’appello incidentale si inserisce, peraltro, nel contesto di una normativa che salvaguarda l’unitarietà del processo di impugnazione, dal momento che l’art. 333 c.p.c. prevede espressamente che le parti alle quali sia stata notificata l’impugnazione della sentenza possono a loro volta impugnarla solo in via incidentale, nello stesso processo. In altre parole, non è possibile dar vita a distinti processi impugnatori, con distinte impugnazioni principali.

In generale, la principale distinzione riguardo alle impugnazioni incidentali, è quella tra impugnazioni incidentali adesive, cioè connesse ai medesimi capi impugnati dal ricorrente principale, e impugnazioni incidentali autonome, cioè rivolte contro capi della sentenza diversi e autonomi da quelli considerati nell’impugnazione principale.

Ebbene, nel caso dell’appello tardivo, è importante annotare l’andamento non sempre costante della giurisprudenza della Corte di Cassazione, riguardo alla questione se l’impugnazione incidentale tardiva debba necessariamente, o meno, riguardare ( o dipendere da) gli stessi capi della sentenza impugnati in via principale.

Appello tardivo: le sentenze della Cassazione a Sezioni Unite

Al riguardo, riportiamo una recente pronuncia che, da ultimo, ha evidenziato che l’appello tardivo può anche riguardare un capo della sentenza diverso e completamente slegato da quelli impugnati dal ricorrente principale (si pensi all’appellante incidentale, vincitore in primo grado, che impugna in via tardiva la pronuncia sulle spese compensate).

Secondo la Cassazione, infatti, “la statuizione della sentenza che provvede sulle spese di giudizio costituisce un capo autonomo della decisione, ma tale autonomia non comporta l’inammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva volta a contestarlo” (Cass. civ., sez. II, sent. n. 33015 del 28 novembre 2023).

Nello statuire ciò, la Suprema Corte ha espressamente dissentito da alcune sue precedenti pronunce, come la sentenza Cass. n. 4845/2020, secondo cui, invece, la statuizione della sentenza che provvede sulle spese di giudizio, costituendo capo autonomo, doveva essere impugnata in via autonoma e non con impugnazione incidentale tardiva.

A sostegno di tale decisione, la sentenza Cass. n. 33015/2023 ha richiamato l’autorevole orientamento delle Sezioni Unite: “L’autonomia del capo della sentenza impugnata non comporta l’inammissibilità dell’appello incidentale tardivo: secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte, “l’art. 334 c.p.c., che consente alla parte, contro cui è stata proposta impugnazione, di esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire gli effetti dello spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, e, pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello investito dall’impugnazione principale” (così Cass. SS.UU., n. 4640/1989; il principio è stato riaffermato dalle sezioni unite con la pronuncia n. 652/1998; per una recente conferma v. Cass. n. 26139/2022)”.

art. 572 c.p.

Art. 572 c.p. giurisprudenza Una breve rassegna di sentenze della Corte di Cassazione sul reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art. 572 del codice penale

Il reato di maltrattamenti in famiglia nella giurisprudenza

L’art. 572 del codice penale punisce i maltrattamenti in famiglia, prevedendo la pena della reclusione per chiunque maltratti una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione o cura.

Il tema è spesso oggetto di controversie nelle aule dei tribunali, ed è proprio la giurisprudenza sull’art. 572 c.p. ad aiutarci a delimitare i contorni della disciplina penalistica di questo reato.

In questa breve rassegna, quindi, analizzeremo alcune delle più recenti sentenze della Cassazione sui maltrattamenti in famiglia.

Le più recenti sentenze della Cassazione sull’art. 572 c.p.

La giurisprudenza della Cassazione penale ci aiuta, innanzitutto, a delineare i caratteri fondamentali del reato di maltrattamenti in famiglia, individuato dalla Suprema Corte come una “fattispecie necessariamente abituale, che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo” (cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 24375/16).

Al riguardo, gli Ermellini hanno specificato anche che tale serie di fatti è integrata da comportamenti che, “isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sofferenze fisiche e morali” (Cass. pen., sez. III, n. 16543/17).

Maltrattamenti in famiglia, l’elemento soggettivo del reato

Quanto all’elemento soggettivo del reato, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “il delitto previsto dall’art. 572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza” (Cass. pen., sez. VI, n. 10901/17).

Dal punto di vista della persona offesa, invece, è stato rilevato che “in tema di maltrattamenti in famiglia, a fronte di condotte abitualmente vessatorie, che siano concretamente idonee a cagionare sofferenze, privazioni ed umiliazioni, il reato non è escluso per effetto della maggiore capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, non essendo elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice la riduzione della vittima a succube dell’agente” (Cass. pen., sez. VI, n. 809/22).

Cassazione: il concetto di convivenza di cui all’art. 572 c.p.

Un aspetto importante della disciplina del reato in oggetto riguarda il concetto di convivenza, richiamato dal testo della norma. A tal proposito, è stato chiarito che, “ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, il concetto di “convivenza”, in ossequio al divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, va inteso nell’accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo” (Cass. pen, Sez. VI, n. 38336/22).

La realtà dei fatti dimostra spesso che le condotte che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia si manifestano nel contesto di convivenze di coppia che tendono a concludersi. In questo senso, è importante evidenziare il costante orientamento della Cassazione a considerare come maltrattamenti in famiglia anche le condotte che proseguono dopo la separazione, prevedendo che alle stesse venga applicata la disciplina prevista dall’art. 572 c.p. e non quella, meno punitiva, prevista dall’art. 612-bis c.p. in tema di atti persecutori, cioè di stalking.

Secondo la Suprema Corte, infatti, “integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza” (Cass. pen., sez. VI, n. 45400/22).

Art. 2697 c.c.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza sull’onere della prova La ripartizione dell’onere della prova è disciplinata dall’art. 2697 c.c. ma la Cassazione ne ha definito meglio i contorni. In particolare: il principio di vicinanza della prova

L’onere della prova nell’art. 2697 c.c.

L’art. 2697 c.c. disciplina l’onere della prova, disponendo che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, o eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui tale eccezione si fonda.

Nel corso del tempo, la giurisprudenza in tema di onere della prova ha definito meglio i contorni della corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., come vedremo in questa breve rassegna di sentenze della Corte di Cassazione.

Le Sezioni Unite sull’onere della prova

Da un lato, quindi, la regola generale prevede che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti costitutivi, mentre chi tale diritto contesta deve dare dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi dello stesso; dall’altro lato, la giurisprudenza sull’art. 2697 c.c. ha talvolta reso tale regola meno rigorosa.

Viene in mente, innanzitutto, il c.d. principio di vicinanza della prova, secondo cui l’onere della prova riguardo a un determinato fatto dovrebbe ricadere sul soggetto che ha la disponibilità degli elementi probatori che occorrono alla sua dimostrazione.

Secondo tale principio, più volte invocato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è stato chiarito, ad esempio, che in tema di inadempimento contrattuale o di inesatto adempimento, per il creditore sia sufficiente dimostrare la fonte del proprio credito e limitarsi ad allegare l’inadempimento da parte del debitore; su quest’ultimo, invece, ricadrà l’onere della prova dell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, quale fatto estintivo del diritto vantato dal creditore (cfr. Cass., SS.UU., n. 13533/2001).

Cassazione e principio di vicinanza della prova

Il principio di prossimità della prova ha trovato mitigazione nella stessa giurisprudenza di Cassazione sull’art. 2697 c.c., che ha specificato che tale principio rappresenta un’eccezionale deroga al canonico regime della ripartizione dell’onere della prova, e pertanto non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti, ad esempio in ambito bancario, ma esige l’impossibilità dell’acquisizione simmetrica della prova (quindi tale principio non può trovare applicazione quando il cliente sia in possesso di una copia del contratto bancario) (cfr. Cass. n. 6511/2016 e n. 17923/2016).

Un altro rilevante ambito in cui è importante individuare il soggetto su cui ricade l’onere della prova è la garanzia per vizi nella compravendita.

In tal caso, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 11748/2019, sottolineando il carattere garantistico di tale obbligazione, hanno chiarito che l’esistenza dei vizi della cosa deve essere dimostrata dal compratore, in quanto soggetto che ha la disponibilità del bene.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza: valore probatorio della fattura

Su un diverso piano, una recente pronuncia della Corte di Cassazione definisce, invece, i contorni dell’onere della prova quando questo sia assolto attraverso la produzione in giudizio di una fattura.

La Suprema Corte ha, infatti, contraddetto la pronuncia di un tribunale che aveva ritenuto che l’onere probatorio a cui il creditore istante era tenuto non potesse ritenersi convenientemente assolto attraverso la produzione delle fatture, dato che le stesse costituivano una documentazione predisposta dalla stessa parte ricorrente.

Al riguardo, gli Ermellini hanno rilevato che, consistendo la fattura commerciale in una dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito,  è vero che, quando tale rapporto sia contestato fra le parti, la fattura non può costituire un valido elemento di prova delle prestazioni eseguite, potendo al massimo costituire un mero indizio.

“Tuttavia” – evidenzia il provvedimento – “nel  caso in cui non vi sia contestazione fra le parti rispetto al rapporto in essere fra loro, la fattura può costituire un valido elemento di prova quanto alle prestazioni eseguite, specie nell’ipotesi in cui il debitore abbia accettato, senza contestazioni, le fatture stesse nel corso dell’esecuzione del rapporto (Cass., ord. n. 949 del 10 gennaio 2024).

regolamento condominiale

Regolamento condominiale contrattuale nullo Il regolamento condominiale può essere deliberato a maggioranza o all’unanimità. In quest’ultimo caso si parla di regolamento contrattuale: i casi di nullità

Cos’è il regolamento condominiale

Il regolamento condominiale è il complesso di norme con cui i condomini intendono disciplinare la pacifica convivenza all’interno dell’edificio.

Al suo interno possono rinvenirsi regole che riguardano i più disparati aspetti della vita in condominio, come la pulizia dei locali comuni, la gestione delle spese, l’individuazione di fasce orarie in cui evitare attività rumorose etc.

Come vedremo tra breve, vi sono alcuni limiti alla libertà dei condomini di decidere il contenuto del regolamento condominiale. Prima di esaminarli, però, è opportuno premettere che il regolamento condominiale può essere di due tipi: assembleare o contrattuale.

Regolamento assembleare e regolamento contrattuale

Un valido regolamento condominiale può essere approvato con una deliberazione assembleare adottata con il voto della maggioranza dei presenti alla riunione.

In particolare, per l’approvazione del regolamento condominiale assembleare è necessario un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio (cfr. art. 1336 secondo comma del codice civile, richiamato dall’art. 1338 c.c. terzo comma).

Quando, invece, il regolamento è approvato all’unanimità da tutti i condomini, si parla di regolamento condominiale contrattuale.

L’unanimità può essere raggiunta in due modi diversi: o con una deliberazione assembleare adottata con il voto favorevole di tutti i condomini (e con tutti i condomini presenti) oppure con l’approvazione del regolamento all’atto dell’acquisto dell’immobile dal costruttore. Quest’ultima ipotesi si verifica quando il costruttore predispone egli stesso il regolamento condominiale: l’unanimità viene raggiunta attraverso i diversi acquisti delle unità immobiliari da parte dei proprietari.

Il contenuto del regolamento approvato all’unanimità

Il regolamento condominiale contrattuale può avere un contenuto più ampio rispetto a quello assembleare. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo limitare il libero godimento della proprietà esclusiva di ciascun condomino, né prevedere un criterio di riparto delle spese condominiali diverso da quello previsto dalle tabelle millesimali.

Invece, il regolamento approvato all’unanimità può prevedere limiti relativi alla proprietà esclusiva di ciascun condomino (ad esempio, vietando la possibilità di destinare le unità immobiliari all’esercizio di determinate attività professionali) o prevedere un riparto differente delle spese.

Entrambi i tipi di regolamento, però, devono rispettare il limite previsto dal quarto comma dell’art. 1338 c.c., che individua alcune norme del codice civile alle quali in nessun caso il regolamento condominiale può derogare.

Regolamento condominiale contrattuale nullo e impugnazione

In base a quanto appena esaminato, si è in presenza di regolamento condominiale nullo ogni qual volta le clausole di un regolamento approvato solo con la maggioranza di cui sopra si è detto deroghino ai criteri di ripartizione millesimale delle spese o dispongano una limitazione del libero godimento della proprietà esclusiva del singolo condomino.

Il regolamento condominiale nullo può essere impugnato davanti al tribunale per richiederne l’annullamento.

A tal riguardo, va notato che, se si tratta di regolamento approvato all’unanimità (quindi di regolamento contrattuale), la nullità di una clausola in esso contenuta va contestata in giudizio a tutti gli altri condomini (in qualità di controparti del contratto) e non invece nei confronti dell’amministratore del condominio, che resta parte terza rispetto al regolamento contrattuale.

Quanto appena detto è confermato da autorevole giurisprudenza: cfr., tra tante, Cass. Civ., VI sez., ord. n. 6656/2021, secondo cui “il regolamento di condominio cosiddetto “contrattuale”, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, allora, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l’azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell’amministratore), il quale è carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario”.

nullità notifica decreto ingiuntivo

Nullità della notifica del decreto ingiuntivo La nullità della notifica del decreto ingiuntivo va fatta valere in sede di opposizione al decreto. Differenze tra nullità e inesistenza della notifica

Il termine per la notifica del decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 641 c.p.c. dev’essere notificato unitamente al ricorso (entrambi gli atti in forma di copia autentica) al debitore entro il termine di sessanta giorni a pena di inefficacia dello stesso (art. 644 c.p.c.).

L’eventuale nullità della notifica del decreto ingiuntivo può essere fatta valere dal debitore con l’opposizione al decreto ex art. 645 c.p.c. o con l’opposizione tardiva di cui all’art. 650, fornendo la dimostrazione che non si è avuta la tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo in conseguenza della nullità della notifica.

Inesistenza e nullità della notifica del decreto ingiuntivo

È importante distinguere tra nullità della notifica del decreto ingiuntivo e inesistenza della stessa. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il destinatario dell’atto può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto stesso.

In particolare, l’inesistenza della notifica si ha quando il vizio della notifica sia talmente grave da privarla dei suoi caratteri essenziali (ad esempio, quando sia compiuta da soggetto non legittimato, oppure in caso di mancanza totale della notifica), mentre in tutti gli altri casi (ad esempio, consegna in un luogo diverso da quelli individuati dalla legge, ma comunque ricollegabile alla persona del destinatario) si deve parlare di nullità.

Solo in caso di inesistenza della notifica il soggetto interessato può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto, ex art. 188 disp. att. c.p.c. In caso contrario, la nullità dev’essere fatta valere solo in sede di opposizione.

Infatti, le cause di nullità della notifica integrano ipotesi in cui l’attività posta in essere dal creditore, pur irregolare, vale come manifestazione dell’intenzione di quest’ultimo di far valere il decreto ingiuntivo precedentemente ottenuto dal giudice, a differenza di quanto succede in caso di inesistenza della notifica.

Nullità della notifica ed effetto sanante della costituzione

Altro aspetto da evidenziare è che la nullità della notifica del decreto ingiuntivo non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi (di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.), potendo essere rilevata solo davanti al giudice competente per l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 o per l’opposizione tardiva ex art. 650.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sé l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione, “con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa” (v. Cass., sez. VI Civ., ord. n. 29729/19).

richiesta di riesame

Richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. La richiesta di riesame è un rimedio a disposizione dell’imputato e del suo difensore per impugnare l’ordinanza con cui sia stata disposta una misura cautelare

Misure cautelari e richiesta di riesame

Le misure cautelari si sostanziano in limitazioni di carattere personale o reale, che vengono disposte dal giudice con ordinanza, in presenza di gravi indizi di colpevolezza o di pericolo di compromissione delle indagini.

Le misure cautelari personali si dividono in misure coercitive (come, ad esempio, il divieto di espatrio, l’obbligo di dimora o gli arresti domiciliari) e misure interdittive (ad es., la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o il divieto temporaneo di esercitare una professione).

Le misure cautelari reali, invece, sono il sequestro conservativo (previsto a garanzia del pagamento delle spese del processo) e il sequestro preventivo di cose pertinenti al reato.

Contro l’ordinanza che dispone una misura cautelare (limitatamente a determinati tipi, come vedremo tra breve), l’imputato e il suo difensore possono fare richiesta di riesame. Al pubblico ministero, invece, residua la possibilità di proporre appello contro la decisione del giudice relativa all’applicazione della misura cautelare (a condizione che si tratti di misura di carattere personale, cfr. art. 310 c.p.p., primo comma).

Richiesta di riesame e appello: differenze

Il riesame, quindi, rappresenta un rimedio più rapido, e per ciò stesso più efficace, rispetto all’appello, a disposizione dell’imputato.

La richiesta di riesame prevista dall’art. 309 c.p.p. può essere proposta solo contro misure cautelari personali a carattere coercitivo.

La richiesta va proposta entro dieci giorni dall’esecuzione o notificazione del provvedimento, presso la cancelleria del tribunale di competenza.

È importante notare che, in base al comma sesto dell’articolo citato, l’indicazione dei motivi in base ai quali si propone la richiesta è solo facoltativa, a differenza di quanto avviene quando si propone appello contro l’ordinanza in materia di misure cautelari, ipotesi nella quale l’indicazione dei motivi è invece obbligatoria, a pena di inammissibilità.

Con la richiesta di riesame, inoltre, l’imputato può anche chiedere di comparire personalmente davanti al giudice competente.

La decisione sulla richiesta di riesame

Il tribunale decide sulla richiesta di riesame in composizione collegiale, entro dieci giorni dalla ricezione della stessa e con procedimento svolto in camera di consiglio, a cui può partecipare il pubblico ministero che aveva richiesto l’applicazione della misura.

Il collegio non è vincolato alle motivazioni contenute nell’ordinanza impugnata, né ai motivi indicati dall’imputato nella richiesta di riesame. Ciò significa che la misura può anche essere confermata per motivi diversi da quelli originari, o annullata per motivi diversi da quelli indicati dall’imputato.

La decisione del collegio può essere di tre tipi: conferma del provvedimento, riforma o annullamento.

Il mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 309 c.p.p. comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, che non può essere rinnovata salve eccezionali esigenze cautelari.

Riesame delle misure cautelari reali

La disciplina della richiesta di riesame si completa con la previsione dell’art. 324 c.p.p., che prevede la possibilità di avanzare analoga richiesta in caso di applicazione di misure cautelari reali.

In particolare, il procedimento previsto da tale articolo si applica in caso di richiesta di riesame contro l’ordinanza che dispone il sequestro conservativo (art. 318), che può essere avanzata da chiunque ne abbia interesse, e contro l’ordinanza che dispone il sequestro preventivo (art. 322), che può essere proposta dall’imputato, dal suo difensore, dalla persona alla quale le cose sono state sequestrate o da quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.

In entrambi i casi, la richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento.

nullità avviso accertamento

Nullità dell’avviso di accertamento La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dal mancato rispetto dei requisiti di forma e di sostanza che l’atto dell’ente impositore deve avere

Avviso di accertamento, quando è nullo

L’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate avvisa il contribuente di aver rideterminato l’imposta dovuta e di conseguenza ingiunge a questi di versare una determinata somma a titolo di tributo e di pagare la corrispondente sanzione e gli interessi maturati.

Dal 2011, l’avviso di accertamento è un atto direttamente esecutivo e perciò ha valore di titolo esecutivo: ciò vuol dire che, se il destinatario non ottempera al pagamento ivi indicato nei termini stabiliti dalla legge, l’ente impositore può avviare la conseguente azione esecutiva, senza necessità di eseguire ulteriori comunicazioni (non è quindi necessaria la notifica di una cartella esattoriale).

L’atto in esame deve rispondere a determinati requisiti previsti dalla legge, la cui mancanza può comportare la nullità dell’avviso di accertamento stesso. In tal caso, il contribuente ha la possibilità di impugnare l’avviso davanti agli organi di giustizia tributaria per farne dichiarare l’annullamento.

I rimedi per la nullità dell’avviso di accertamento

Per far valere i vizi dell’avviso di accertamento, il contribuente ha a disposizione diversi rimedi.

Oltre ad esperire il ricorso davanti alle Commissioni Tributarie, infatti, il destinatario dell’atto ha facoltà di richiedere l’annullamento dell’atto in autotutela, indirizzando tale richiesta allo stesso ente impositore, con l’indicazione delle relative motivazioni.

Inoltre, con una proposta di accertamento in adesione, da svolgersi in contraddittorio, egli ha la possibilità di ottenere uno sconto sulle sanzioni previste. Altre vie percorribili sono il reclamo, la mediazione e la conciliazione giudiziale.

Avviso di accertamento requisiti

Tra i dati che l’avviso di accertamento deve necessariamente contenere a pena di nullità, vi è innanzitutto l’indicazione degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e dell’imposta liquidata, oltre all’intimazione a pagare entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto.

Inoltre, il contribuente deve essere messo in condizioni di conoscere non solo quale sia l’organo giurisdizionale presso cui presentare l’eventuale ricorso, ma anche quale sia l’ufficio presso cui poter ottenere informazioni, nonché il funzionario responsabile del procedimento amministrativo che ha portato all’adozione dell’atto.

Nullità avviso accertamento giurisprudenza

La nullità dell’avviso di accertamento può derivare dalle più disparate difformità dell’atto rispetto ai requisiti di legge.

Ad esempio, une recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. sez. V trib., ord. n. 13620/2023) ha focalizzato l’attenzione sulla necessità che l’avviso di accertamento sia motivato per garantire il diritto di difesa del contribuente, chiarendo, in particolare, che “l’avviso di accertamento non può essere supportato da motivazione contraddittoria, poiché in tal caso esso non consente al contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa; e ha specificato che tale vizio si configura anche laddove vengano indicate ragioni concorrenti ma contraddistinte da assoluta eterogeneità e, come tali, inidonee a fungere da complessivo presupposto della pretese“.

Quando poi, l’accertamento derivi da una precedente ispezione presso gli uffici del contribuente, l’ente deve necessariamente attivare il contraddittorio preventivo col contribuente, che ha a disposizione sessanta giorni per presentare le proprie osservazioni, di cui l’ente deve necessariamente tener conto. Se manca l’attivazione di tale fase, l’atto è inficiato da nullità (cfr. Cass., ord. n. 2135/2021). La nullità dell’avviso di accertamento, inoltre, è stata dichiarata anche in casi in cui l’Agenzia delle Entrate non ha, più semplicemente, dato prova dell’avvenuto invio dell’invito al contradittorio (cfr. CTP Prato, sent. n. 212/2019).

In una diversa ipotesi, l’avviso di accertamento è stato annullato perché era stato firmato digitalmente dal funzionario incaricato, ma poi recapitato solo via posta cartacea (cfr. sent. n. 3848/26/2019 – Comm. Trib. Reg. Campania).

Importante è anche il rispetto dei limiti di competenza, nei casi in cui l’atto venga firmato da un funzionario con delega di firma: con ordinanza numero 32386/2022, la Corte di Cassazione ha dichiarato nullo l’avviso firmato dal funzionario avente una delega di firma per avvisi relativi a importi inferiori rispetto all’importo dell’atto da lui firmato.