interesse legittimo

Interesse legittimo Interesse legittimo: definizione, differenze rispetto al diritto soggettivo e  riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo

Interesse legittimo: definizione

L’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva di vantaggio. Esso consiste nella pretesa che un privato vanta nei confronti della  pubblica amministrazione affinché questa eserciti il suo potere nel rispetto della legge. Mediante questa pretesa il cittadino può incidere sul corretto esercizio del potere della PA e realizzare l’interesse al bene della vita oggetto di un determinato provvedimento amministrativo.

L’interesse legittimo vantato dal singolo si scontra però e inevitabilmente con l’interesse pubblico di cui è portatrice la PA. La pubblica amministrazione infatti, con i suoi provvedimenti, può sia ampliare la sfera giuridica del singolo che restringerla.

Interessi legittimi: tipologie

Questa la ragione per la quale l’ordinamento contempla due tipi di interessi legittimi. Gli interessi legittimi pretensivi sono quelli che il soggetto vanta nei confronti della PA affinché questa adotti un certo provvedimento. Gli interessi legittimi oppositivi invece riconoscono al singolo il diritto di opporsi agli atti amministrativi che possono pregiudicare la sua sfera giuridica.

Diritto soggettivo

Nei confronti della PA il cittadino non vanta però solo interessi legittimi, ma anche diritti soggettivi. Il diritto soggettivo è un’altra posizione giuridica di vantaggio che l’ordinamento riconosce a un soggetto in relazione a un determinato bene, compresa la sua tutela giuridica.

Interesse legittimo e diritto soggettivo: differenze

L’elemento distintivo del diritto soggettivo rispetto all’interesse legittimo è rappresentato dalla assolutezza del primo rispetto al secondo, che gode per questo motivo di una tutela piena e diretta.  L’interesse legittimo è invece collegato all’esercizio del potere amministrativo e si caratterizza per la differenziazione e la qualificazione. Per differenziazione si intende la posizione del soggetto rispetto alla generalità dei consociati. La qualificazione invece deriva dal fatto che la norma sull’esercizio del potere della PA per perseguire il pubblico interesse deve necessariamente considerare anche l’interesse del singolo che è collegato a quello pubblico.

Giudice ordinario e Giudice Amministrativo

La distinzione analizzata tra interesse legittimo e diritto soggettivo è necessaria ai fini del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giuridico amministrativo.

Sul riparto di giurisdizione leggi anche Riparto giurisdizione controversie finanziamenti pubblici

Interesse legittimo e giurisdizione nella Costituzione

Dalla lettura degli articoli 24, 103 e 113 della Costituzione emerge infatti che il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo è conseguenza della distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo.

L’articolo 24 riconosce a tutti i cittadini di agire in giudizio per tutelare i propri diritti soggettivi e interessi legittimi. L’articolo 103 precisa invece che la giurisdizione amministrativa per la tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi in determinate materie spetta per legge al Consiglio di Stato e agli altri organi della giustizia amministrativa.

L’articolo 113 infine riconosce la tutela contro gli atti della PA per la tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi.

Tipologie di giurisdizione del GA

Per quanto riguarda nello specifico la giurisdizione del Giudice amministrativo, essa si distingue in tre diverse tipologie.

  • Giurisdizione generale di legittimità: riguarda le controversie che hanno ad oggetto gli atti, i provvedimenti e le omissioni della PA.
  • Giurisdizione esclusiva: è quella che riguarda le materie previste specificamente dalla legge ed elencate nell’articolo 133 del Codice del processo amministrativo.
  • Giurisdizione di merito: in questi casi il giudice si sostituisce alla Pubblica Amministrazione, ma ha poteri più ampi.

Giudice amministrativo: competenza

Il Giudice amministrativo si occupa delle materie in cui ha la competenza esclusiva indicate dall’art. 133 del Codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104/2010). Esso è competente anche nelle controversie che riguardano il risarcimento del danno derivante dalla commissione di un danno ingiusto causato dalla inosservanza colposa o dolosa del termine in cui dovrebbe concludersi il procedimento amministrativo.

Il Giudice amministrativo è competente inoltre nella tutela dei diritti soggettivi, ma solo in relazione a particolari materie indicate dalla legge che riguardano “l‘esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”. 

convivente di fatto familiare

Il convivente di fatto è un familiare La disciplina dell'impresa familiare si applica dunque anche al convivente di fatto. Illegittimi gli artt. 230bis e 230-ter c.c.

Convivente di fatto e impresa familiare

Il convivente di fatto è un familiare perciò si applica la disciplina dell’impresa di famiglia. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale (sentenza n. 148/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».

Inoltre, in via consequenziale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

Conviventi di fatto: la legge e la giurisprudenza

Per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, di tale legge – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».

Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione – nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari».

La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

L’impresa familiare

“Rimangono – osserva ancora la Corte – le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni”.

Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, “nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

La decisione

Nel sottolineare che “la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare” la Consulta ha quindi ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

“All’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione”.

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capacità giuridica

La capacità giuridica Definizione e profili storici della disciplina della capacità giuridica. In particolare: la tutela del concepito e le differenze con la capacità di agire

Capacità giuridica, definizione

La capacità giuridica è l’attitudine di una persona ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici.

Tale istituto, tanto essenziale nei suoi caratteri quanto fondamentale nell’ambito di un ordinamento giuridico, è disciplinato dall’art. 1 del codice civile, che stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

Profili storici della disciplina della capacità giuridica

L’importanza di una disciplina espressa riguardo all’istituto in parola si coglie più compiutamente attraverso un confronto con la disciplina prevista in altri periodi storici, quando era contemplata la possibilità di limitare o privare della capacità giuridica (c.d. morte civile) taluni soggetti per motivi politici o razziali.

È ciò che avvenne, ad esempio, in Italia durante il regime fascista, e un importante riflesso ne è l’attuale testo dell’art. 22 della Costituzione, il quale espressamente dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Acquisto e perdita della capacità giuridica: l’art. 1 del codice civile

Come si è detto, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, con ciò intendendosi il momento del distacco del feto dal grembo materno.

Ciò significa che il nascituro non è considerato, nel nostro ordinamento, soggetto di diritto, sebbene sia comunque oggetto di tutela da parte della legge.

La capacità giuridica del concepito

Infatti, ad esempio, il concepito (e a dire il vero anche il non-concepito, se si intenda il figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del de cuius) può succedere per testamento e ricevere per donazione.

I diritti del nascituro, però, sono subordinati all’evento della nascita, come prevede il secondo comma dell’art. 1 del codice civile.

Perdita della capacità giuridica

Analogamente, la capacità giuridica di un soggetto termina con la sua morte naturale. Per vero, anche la dichiarazione (con sentenza) di morte presunta, ex art. 58 c.c., determina la perdita della capacità giuridica del soggetto, con contestuale apertura della relativa successione.

Capacità delle persone giuridiche

Oltre che appannaggio delle persone fisiche, la capacità giuridica è configurabile anche in capo alle persone giuridiche, sebbene ciò non postuli il possesso da parte di queste ultime di alcuni diritti propri delle persone fisiche (si pensi a quelli afferenti al diritto familiare).

Le persone giuridiche sono titolari, peraltro, di alcuni rilevanti diritti, quali quello al nome (o alla denominazione) e all’immagine.

Differenza tra capacità giuridica e capacità di agire

Sul tema in oggetto, è importante distinguere tra loro i concetti, ben differenti, di capacità giuridica e capacità di agire.

Se la capacità giuridica, come si è detto, attiene alla generica attitudine alla titolarità di diritti e obblighi giuridici, la capacità di agire indica, invece, la possibilità di porre in atto atti giuridici, e quindi di divenire volontariamente titolare di diritti o di obbligarsi verso terzi.

A differenza della capacità giuridica, la capacità d’agire non si acquista con la nascita ma, come disposto dall’art. 2 cod. civ., si consegue, come regola generale, alla maggiore età, attualmente fissata al compimento dei 18 anni.

In alcuni casi, peraltro, l’ordinamento prevede che determinati atti giuridici possano essere posti in atto anche dal minore (vedi le norme in tema di matrimonio e riconoscimento del figlio da parte del minore emancipato), e che in altri casi la capacità di agire possa essere limitata, anche a tutela del soggetto stesso (interdizione o inabilitazione).

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edilizia pubblica incostituzionale residenza

Edilizia pubblica: incostituzionale chiedere la residenza La Corte Costituzionale ha bocciato la legge del Piemonte che richiedeva per ottenere un'abitazione di edilizia pubblica il requisito della residenza nel territorio regionale

Alloggio di edilizia pubblica e residenza

E’ incostituzionale richiedere la residenza o l’attività lavorativa pregressa e protratta nel territorio regionale al fine di ottenere un’abitazione di edilizia pubblica. “Non c’è alcuna ragionevole correlazione – infatti – fra l’esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza o attività lavorativa nel territorio regionale”. Lo ha ribadito la Corte costituzionale con la sentenza n. 147-2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 3, comma 1, lettera b), della legge della Regione Piemonte 17 febbraio 2010, n. 3.

Ostacolo al diritto all’abitazione

La Corte ha sottolineato come “il requisito della pregressa e protratta residenza sul territorio regionale, così come quello della pregressa e protratta attività lavorativa, pone un ostacolo al soddisfacimento del diritto all’abitazione che deve invece fondarsi sulla situazione di bisogno o di disagio, rispetto alla quale la durata della permanenza pregressa nel territorio regionale non presenta alcun collegamento logico”.

Si tratta, infatti, di requisiti che, “proprio perché sganciati da ogni valutazione su tale stato di bisogno, sono incompatibili con il concetto stesso di servizio sociale, inteso quale servizio destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli”. Né “valgono a indicare una prospettiva di radicamento sul territorio regionale”.

Incostituzionale sotto un triplice profilo

Il giudice delle leggi ha pertanto riscontrato che la legge piemontese viola l’art. 3 Cost. sotto un triplice profilo: “per intrinseca irragionevolezza, perché prevede requisiti del tutto non correlati con la funzione propria dell’edilizia sociale; perché determina una ingiustificata diversità di trattamento tra persone che si trovano nelle medesime condizioni di fragilità; e perché tradisce il dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

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Referendum: come si usa la piattaforma per la raccolta firme digitali Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 25 luglio il Dpcm 18 luglio 2024 che prevede l’attivazione della nuova piattaforma digitale per la raccolta delle firme per il referendum. Ecco come funziona

Referendum: piattaforma digitale raccolta firme

È stato pubblicato il 25 luglio in Gazzetta ufficiale il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm del 18 luglio 2024) che prevede l’attivazione della nuova piattaforma digitale dedicata alla raccolta delle firme per i referendum. Ne dà notizia il ministero della Giustizia sul proprio sito Gnewsonline.

La piattaforma è concepita per agevolare la sottoscrizione digitale dei referendum abrogativi o costituzionali, e delle iniziative legislative di natura popolare.

Con questa nuova iniziativa progettuale, curata dal Dipartimento per l’Innovazione Tecnologica della giustizia tramite la Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati, il Ministero della Giustizia “ribadisce il proprio impegno nel promuovere strumenti innovativi volti a facilitare la partecipazione attiva dei cittadini e garantire processi democratici più accessibili e trasparenti”.

Come funziona il sistema

Il sistema, che ha ottenuto il parere del Garante per la protezione dei dati personali, è utilizzabile dai promotori di proposte referendarie e dagli uffici della Corte di Cassazione e delle Camere, per gestire tutte le fasi del processo di raccolta delle firme dei sostenitori in formato digitale. Il sistema effettua poi la verifica della presenza e validità delle firme, mediante interoperabilità con il sistema dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR), presso le anagrafi dei comuni ove sono residenti i cittadini firmatari delle proposte.

“La piattaforma rappresenta un’innovazione cruciale per la partecipazione politica in Italia e pone il Ministero e il nostro Paese all’avanguardia nell’uso delle tecnologie digitali a supporto della democrazia”, ha dichiarato il Ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Operatività piattaforma dal 25 luglio 2024

Ex art. 1 del decreto, l’operatività della piattaforma per la raccolta digitale delle sottoscrizioni in materia di referendum e di proposte di legge di iniziativa popolare è attestata a partire dalla data di entrata in vigore del Dpcm, ossia dal 25 luglio stesso.

Per cui, le firme degli elettori a sostegno delle proposte referendarie ex art. 75 e 138 Costituzione e dei progetti di legge ex art. 71, 2° comma, Cost., saranno raccolte in forma digitale.

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Come si utilizza la piattaforma

Il ministero ha pubblicato un utile vademecum sull’utilizzo della piattaforma , la quale è accessibile dall’area privata con la propria identità digitale (Spid, Cie, Cns o eIDAS), effettuando la scelta preliminare tra “cittadini” e “comitati promotori” e potendo così sostenere e gestire una o più proposte referendarie.

Una volta completata l’autenticazione, con un semplice click si può sostenere un’iniziativa tra quelle disponibili. Al termine, è possibile scaricare l’attestato di sottoscrizione.

La piattaforma consente anche di promuovere un referendum abrogativo, costituzionale o una legge di iniziativa popolare. Il sistema garantisce una procedura guidata intuitiva e strumenti utili, come la sezione che permette di visualizzare il numero di firme raccolte a livello territoriale per la specifica iniziativa.

Alla scadenza della raccolta firme si potrà scaricare un attestato, emesso dal ministero della Giustizia, di messa a disposizione dei dati e delle sottoscrizioni del quesito all’Ufficio referendum della Corte di cassazione.

Nell’homepage della piattaforma, sezione “Elenco iniziative”, sono presenti le proposte referendarie attive e quelle già chiuse, con dettagli sul quesito, i firmatari e i promotori dell’iniziativa. Per tutti coloro che si sono autenticati, é disponibile sulla Hp, in calce, una form per la richiesta di assistenza.

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espropriazione pubblica utilità

Espropriazione per pubblica utilità Il procedimento di espropriazione per pubblica utilità e le sue fasi: il vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità, l’indennità e il decreto di esproprio

Cosa si intende con espropriazione?

L’espropriazione per pubblica utilità è una procedura che le pubbliche amministrazioni possono mettere in atto quando, in base agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, ritengano che una determinata area debba essere asservita alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità o che un determinato immobile debba essere destinato ad una funzione di pubblica utilità.

L’espropriazione per pubblica utilità nella Costituzione

L’espropriazione si pone, quindi, come un limite al diritto di proprietà, nel senso che pur corrispondendo quest’ultimo ad un potere illimitato di godimento e disposizione sul bene in capo al proprietario, tale diritto/potere è destinato a recedere di fronte al superiore interesse pubblico.

Questo è esattamente il concetto espresso dall’art. 42 della Costituzione, che al terzo comma dispone, appunto, che la proprietà privata, nelle ipotesi previste dalla legge, può essere espropriata per cause di interesse generale e che, in tali casi, al proprietario spetta un indennizzo.

Quanto dura il vincolo di esproprio?

Ovviamente, per evitare abusi, discriminazioni e disparità di trattamento, l’intero procedimento di espropriazione per pubblica utilità è disciplinato nel dettaglio dalla legge e trova, oggi, compiuta regolamentazione nel DPR n. 327 del 2001, c.d. Testo Unico sugli espropri.

In base alla normativa in vigore, il primo passaggio fondamentale del procedimento di espropriazione è l’apposizione del vincolo su un determinato bene. La scelta del bene, o dei beni, su cui apporre tale vincolo discende direttamente dall’approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, come il Piano di Governo del Territorio o il Piano Regolatore.

Il vincolo ha una durata di cinque anni, anche se la legge prevede che possa essere reiterato nel caso in cui non abbia avuto seguito entro tale termine. In tale ipotesi, però, al proprietario va riconosciuta un’indennità commisurata al danno prodotto. Ciò è conseguenza del fatto che, per il fatto dell’apposizione del vincolo, il bene subisce un chiaro deprezzamento, e la reiterazione del vincolo non fa altro che prolungare tale situazione.

Entro i cinque anni dall’apposizione, pertanto, deve normalmente intervenire il successivo provvedimento dell’Autorità procedente, che consiste nella dichiarazione di pubblica utilità. In caso contrario, e in mancanza di reiterazione, il vincolo decade.

La dichiarazione di pubblica utilità

La dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione del progetto definitivo di un’opera (si pensi ad una strada) e si concreta nella destinazione alla pubblica utilità dell’area su cui tale opera dovrà insistere.

Tale dichiarazione viene resa pubblica dall’Ente procedente (ad esempio sugli albi, o in apposite sezioni del sito web istituzionale) e può essere oggetto di osservazioni da parte di eventuali controinteressati, le quali vengono esaminate dall’amministrazione nell’ambito di un’istruttoria di cui viene dato conto nel provvedimento finale.

Tale provvedimento può prevedere la trasformazione fisica dell’immobile (nel classico caso di costruzione di una nuova opera) o nella semplice destinazione ad uso pubblico di un immobile privato preesistente.

In ogni caso, il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità viene notificato ai proprietari delle aree interessate, in vista del conseguente provvedimento di esproprio, che deve essere adottato entro cinque anni, salvo proroga di massimo due anni.

Quanto viene pagato un esproprio?

Prima dell’adozione del decreto di esproprio, cioè del provvedimento con cui si conclude il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, è necessario che l’amministrazione procedente determini l’indennità di esproprio.

Tale emolumento rappresenta l’indennizzo al proprietario, la cui corresponsione è prevista, come detto, dall’art. 42 della nostra Costituzione.

L’indennità provvisoria è comunicata al destinatario, che può accettare l’importo o avanzare le proprie osservazioni in merito. Successivamente, l’Ente, sentiti i tecnici incaricati, determina l’indennità di esproprio definitiva, commisurata al valore venale del bene.

Dopo il pagamento dell’indennità, viene stipulato con il privato l’atto di cessione e adottato il decreto di esproprio, con la conseguente presa di possesso da parte dell’Amministrazione procedente e l’avvio dei lavori, ove previsti.

stop obbligo vaccinale minori

Stop all’obbligo vaccinale Un emendamento al decreto liste d'attesa elimina l'obbligo vaccinale per i minori d'età fino a 16 anni per determinate malattie

Decreto liste d’attesa: l’emendamento sull’obbligo vaccinale

Durante la fase di conversione del decreto legge del 7 giugno 2024 n. 73, finalizzato a ridurre la durata delle liste di attesa, dall’ordine del giorno del 3 luglio 2024 della decima Commissione permanente che si occupa anche della materia sanitaria, a pag. 58, emerge un emendamento sulla abolizione dell’obbligo vaccinale presentato dal senatore legista Claudio Borghi.

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L’obbligo vaccinale viola l’art. 32 della Costituzione

Con l’emendamento 3.0.7 il senatore modifica l’articolo 1 e sopprime il comma 3 dell’articolo 3 e il comma 5 dell’articolo 3 bis del decreto legge n. 73 del 7 giugno 2017, convertito con modifiche dalla legge n. 119/2017.

La proposta di modifica tiene conto della situazione attuale degli obblighi vaccinali come regolamentata nel nostro paese rispetto al panorama normativo nazionale e internazionale.

L’obbligo vaccinale contemplato dal nostro ordinamento si porrebbe in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione per quanto riguarda il tema dei trattamenti sanitari obbligatori.

L’emendamento proposto vuole bilanciare i vari interessi in gioco e meritevoli di tutela che emergono dalla legge sui vaccini come il diritto allo studio, all’inclusione sociale, alla salute e all’uguaglianza.

Come cambia il decreto n. 73/2017 sulla prevenzione vaccinale

In base alla proposta di emendamento il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1del decreto legge n. 73/2017, che al primo comma elenca gli obblighi vaccinali obbligatori e gratuiti previsti in base agli obblighi assunti in sede europea e internazionale potrebbe assumere il seguente tenore letterale:

“Agli stessi fini di cui al comma 1, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati sono altresì  gratuite e raccomandate (e non più obbligatorie), in base alle specifiche indicazioni del Calendario vaccinale nazionale relativo a ciascuna coorte di nascita, le vaccinazioni di seguito indicate:

  1. anti-morbillo;
  2. anti-rosolia;
  3. anti-parotite;
  4. anti-varicella.”

Il secondo periodo del comma 2 invece potrebbe prevedere che:“Conseguentemente il soggetto immunizzato adempie all’obbligo vaccinale di cui al presente articolo, (soppressa la frase: “di norma e comunque nei limiti delle disponibilità del Servizio sanitario nazionale”), con vaccini in formulazione monocomponente o combinata in cui sia assente l’antigene per la malattia infettiva per la quale sussiste immunizzazione.” 

Al comma 3 al termine “pediatra di libera scelta” verrebbe aggiunto il termine “o dal medico specialista”: “Salvo quanto disposto dal comma 2, le vaccinazioni di cui al comma 1 (e al comma 1-bis) possono essere omesse o differite solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta o dal medico specialista.

Gli obblighi soppressi

Sarebbero infine soppressi:

  • il comma 3 dall’articolo 3 che così recita: “Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la presentazione della documentazione di cui al comma 1 costituisce requisito di accesso. Per gli altri gradi di istruzione (e per i centri di formazione professionale regionale), la presentazione della documentazione di cui al comma 1 non costituisce requisito di accesso alla scuola o ( al centro ovvero agli esami);
  • Il comma 5 dall’articolo 3 bis che dispone: Per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, ivi incluse quelle private non paritarie, la mancata presentazione della documentazione di cui al comma 3 nei termini previsti comporta la decadenza dall’iscrizione. Per gli altri gradi di istruzione e per i centri di formazione professionale regionale, la mancata presentazione della documentazione dì cui al comma 3 nei termini previsti non determina la decadenza dall’iscrizione né impedisce la partecipazione agli esami.”

In pratica la mancata presentazione della documentazione comprovante l’adempimento degli obblighi vaccinali:

  • non sarebbe più requisito di accesso alle scuole ai servizi e alle scuole dell’infanzia;
  • non comporterebbe più la decadenza dall’iscrizione per i servizi educativi per l’infanzia e le scuole dell’infanzia, incluse quelle private non paritarie.
giurista risponde

Divieto del questore uso cellulare Può il questore vietare il possesso e l’utilizzo del telefono cellulare, in quanto “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, ai soggetti di cui all’art. 3, comma 4, D.Lgs. 159/2011?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

L’art. 3, comma 4, cod. antimafia va dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 15 Cost., nella parte in cui – sul presupposto che il telefono cellulare rientra tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente – consente al questore di vietarne, in tutto o in parte, il possesso e l’utilizzo. – Corte cost. 12 gennaio 2023, n. 2.

Nel caso di specie, il Tribunale ordinario di Sassari ha dubitato, in riferimento agli artt. 3 e 15 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, D.Lgs. 159/2011, nella parte in cui prevede che il questore, nell’adottare la misura di prevenzione dell’avviso orale rafforzato nei confronti di persone definitivamente condannate per delitti non colposi, possa vietare loro di possedere o utilizzare “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente”, e perciò anche telefoni cellulari. Il possesso di questi ultimi, infatti, è oggi necessario per esercitare la libertà di comunicazione, che può essere limitata solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, locuzione in cui non può essere compreso il questore. Inoltre, risulta violato il principio di eguaglianza poiché i soggetti destinatari di tale divieto sono trattati in modo ingiustamente deteriore rispetto ai soggetti menzionati dall’art. 4, D.Lgs. 159/2011, rispetto ai quali l’autorità giudiziaria può inibire la frequentazione di specifiche categorie di persone (ma non impedire ogni relazione sociale) e può vietare l’accesso a determinati luoghi d’incontro (ma non a tutti), sebbene la pericolosità degli stessi sia superiore rispetto alle persone indicate dall’art. 3, comma 4 dello stesso Decreto.

Analoga q.l.c. è stata sollevata dalla Corte di cassazione, sez. V penale, aggiungendo la ritenuta violazione dell’art. 21 Cost., che tutela la libertà di espressione anche nella sua dimensione passiva di libertà di ricevere informazioni, e dell’art. 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU, poiché il rispetto della vita privata e la libertà di espressione transitano anche attraverso la possibilità di accedere a internet.

La Corte costituzionale, premessa una ricostruzione del quadro normativo, ricostruisce il significato dell’espressione “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente” aderendo all’orientamento di quella consolidata giurisprudenza di legittimità per cui il telefono cellulare rientra a pieno titolo nella predetta nozione. In questo senso depone il criterio testuale, che eliminerebbe ogni incertezza sull’intenzione del legislatore derivante dall’analisi dei lavori preparatori, nonché il significato strettamente tecnico dell’espressione “apparato di comunicazione radiotrasmittente”, ossia qualsiasi apparecchio in grado di inviare onde radio e di trasmetterle, o a un altro apparato analogo, o a un impianto in grado di riceverle (così anche Cass. 2 aprile 2021, n. 127793; Cass. Sez. Un. 2 maggio 2014, n. 9560).

Ne discende la fondatezza della q.l.c. relativa alla violazione dell’art. 15 Cost., in quanto la misura limitativa non è disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, bensì, direttamente, dall’autorità amministrativa, cui è attribuito perciò un potere autonomo e discrezionale, senza la necessità di successiva comunicazione all’autorità giudiziaria. L’art. 3, comma 4, cod. antimafia viene dunque dichiarato costituzionalmente illegittimo e restano conseguentemente assorbite le qq.ll.cc. relative alla violazione degli artt. 3, 21 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 10 CEDU.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 2 aprile 2021, n. 127793; Cass., sez. I, 14 ottobre 2020, n. 28551;
Cass., sez. I, 17 giugno 2019, n. 26628; Cass., sez. I, 7 gennaio 2019, n. 314;
Cass., sez. I, 3 luglio 2014, n. 28796; Cass., sez. VII, 7 gennaio 2019, n. 294;
Cass. Sez. Un. 2 maggio 2014, n. 9560; Cass., sez. fer., 1 ottobre 2009, n. 38514
caso Siri Consulta

Caso Siri: l’intervento della Consulta La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal tribunale di Roma nel "caso Siri"

Il caso Siri

La deliberazione del 9 marzo 2022, con cui il Senato della Repubblica ha negato l’autorizzazione richiesta dal Tribunale di Roma all’utilizzo delle intercettazioni riguardanti Armando Siri, senatore all’epoca dei fatti, è stata annullata, perché adottata in contrasto con l’art. 68, terzo comma, della Costituzione. All’origine del conflitto, deciso con la sentenza n. 117/2024 depositata il 2 luglio 2024, dalla Corte Costituzionale, vi era la richiesta del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma di utilizzare in giudizio otto intercettazioni, captate sull’utenza di un soggetto non parlamentare, che hanno coinvolto l’allora senatore Siri.

Tali intercettazioni sono state effettuate, nell’ambito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo a carico di alcuni imprenditori attivi nel settore delle energie rinnovabili, in un momento antecedente all’emersione di indizi di reità a carico del medesimo senatore, per un’ipotesi di corruzione.

Il Senato, in particolare, rileva la Corte, aveva ritenuto: “a) che, per le prime due captazioni (effettuate il 15 maggio 2018), non sussistesse il requisito della “necessità probatoria” richiesta, per l’autorizzazione successiva all’utilizzo delle intercettazioni, dall’art. 6 della legge n. 120 del 2004; b) che le restanti sei (effettuate tra il 17 maggio e il 6 agosto 2018) dovessero essere qualificate come ‘indirette’, perché l’autorità inquirente, potendo prevedere – dopo i primi contatti – le future interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale, avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva prevista dall’art. 4 della medesima legge”.

Diniego del Senato

Nell’accogliere il ricorso, la Corte costituzionale ha stabilito, innanzi tutto, che il diniego del Senato in merito alla sussistenza della necessità probatoria in relazione alle intercettazioni captate il 15 maggio 2018 «ha menomato le attribuzioni del Giudice ricorrente, in quanto ha preteso di valutare autonomamente le condotte ascritte al parlamentare, anziché operare un vaglio, nei termini richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte, sulle motivazioni addotte a sostegno della richiesta di autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni».

Quanto, poi, alla prevedibilità delle interlocuzioni tra il senatore Siri e l’imputato principale successive al 15 maggio 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto delle autorità inquirenti fosse, in questo caso, del tutto occasionale, non sussistendo «alcuno degli elementi sintomatici che inducono a ritenere che il reale obiettivo delle autorità preposte alle indagini fosse quello di accedere indirettamente alle comunicazioni» in questione; ciò tanto più, ha precisato la Corte, ove si consideri che il mutamento della direzione degli atti di indagine si sarebbe avuto solo in un momento successivo a quello in cui le intercettazioni – di cui è stata richiesta l’utilizzazione in giudizio – sono state effettuate, vale a dire al momento dell’iscrizione del senatore Siri nel registro degli indagati (avvenuta nel settembre 2018).

Conflitto di attribuzioni

Di conseguenza, la Corte ha ritenuto sussistente la menomazione delle attribuzioni del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, in relazione al non corretto esercizio, da parte del Senato della Repubblica, del potere a questi assegnato dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in relazione alla qualificazione delle intercettazioni successive al 15 maggio come aventi natura indiretta. La Corte ha, tuttavia, stabilito che, limitatamente a tali captazioni, la richiesta di autorizzazione avanzata dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma necessiti ora di una nuova valutazione, da parte del Senato della Repubblica, in ordine alla «sussistenza dei presupposti ai quali l’utilizzazione delle intercettazioni effettuate in un diverso procedimento è condizionata, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della medesima legge».

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Autonomia differenziata: cosa prevede la nuova legge In Gazzetta Ufficiale la nuova legge sull'autonomia differenziata delle Regioni ordinarie, in vigore dal 13 luglio 2024

Legge autonomia differenziata: in vigore dal 13 luglio

Nella mattinata di mercoledì 19 giugno 2024 la Camera ha dato l’ok definitivo al disegno di legge sull’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario A.C. 1665 che assorbe il testo del disegno di legge S.615. Il testo ha ricevuto 172 voti a favore, 99 contrari e 1 solo astenuto.

La nuova legge n. 86/2024, inerente le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione”, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale per entrare in vigore il 13 luglio 2024.

Il testo attua l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, definendo i principi generali per il riconoscimento alle regioni ordinarie di particolari forme di autonomia e le procedure necessarie per l’approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni ordinarie. 

Finalità autonomia differenziata

Il testo della nuova legge, all’articolo uno definisce le finalità dell’intervento legislativo:

  • rimozione delle discriminazioni e delle disuguaglianze nell’accesso ai servizi essenziali;
  • rispetto dell’unità giuridica, economica, sociale e territoriale;
  • attuazione del decentramento amministrativo;
  • semplificazione e accelerazione delle procedure;
  • distribuzione delle competenze per assicurare il rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione, e adeguatezza previsti dall’articolo 118 della Costituzione;
  • attuazione del principio di solidarietà contemplato dagli articoli 2 e 5 della Costituzione.

Per quanto riguarda l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia relative ai diritti civili e sociali, il disegno prevede che la stessa è consentita, ma solo dopo la determinazione di livelli essenziali delle prestazioni (art. 117 comma 1 Costituzione).

Detti livelli rappresentano un limite inviolabile per attuare i diritti sociali e civili su tutto il territorio e per garantire le prestazioni fondamentali.

LEP (livelli essenziali delle prestazioni)

Come anticipato, l’attribuzione di funzioni ulteriori alle Regioni Ordinarie è subordinata all’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni. La definizione di questi livelli è fondamentale per procedere alle intese Stato – Regioni al fine di attuare l’autonomia differenziata. La definizione dei LEP spetterà al governo entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore del provvedimento.

La legge individua anche le materie o comunque gli ambiti delle materie che potranno essere attribuiti alle Regioni Ordinarie. In relazione a queste materie verranno emanati appositi decreti legislativi per la determinazione dei LEP. Sempre tramite lo strumento del decreto legislativo dovranno essere determinate le procedure e le modalità per il monitoraggio della effettiva erogazione dei LEP.

Con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri è previsto inoltre l’aggiornamento periodico dei livelli essenziali delle prestazioni alla luce dei necessari adeguamenti tecnici richiesti dal cambiamento socioeconomico e tecnologico.

Trasferimento delle funzioni: principi

Il trasferimento delle funzioni nelle materie relative ai LEP potrà avvenire solo dopo la determinazioni dei livelli essenziali, dei costi e dei fabbisogni, il tutto nei limiti delle risorse disponibili previste dalla legge di bilancio.

Per il trasferimento invece di materie diverse da quelle che si riferiscono ai LEP si dovrà tenere conto delle risorse previste a legislazione vigente.

In base a quanto previsto dall’articolo 118 della Costituzione le funzioni trasferite alle Regioni potranno essere attribuite ai Comuni, alle Province, e alle Città metropolitane della Regione stessa.

Commissione paritetica

Il testo prevede anche l’istituzione di una Commissione Paritetica Stato-Regioni e autonomie locali per individuare beni e risorse per l’esercizio delle condizioni particolari di autonomia. Nell’ambito dell’intesa Stato-Regioni verranno sanciti i criteri per la determinazione dei beni e delle risorse necessarie e le modalità di finanziamento.

La Commissione svolgerà anche funzioni di monitoraggio. Ogni anno dovrà procedere alla valutazione degli oneri che derivano dall’esercizio delle nuove funzioni per ogni Regione interessata. La Corte dei Conti invece dovrà riferire ogni anno alle Camere l’esito dei controlli relativi alla congruità degli oneri finanziari rispetto agli obiettivi di finanza pubblica e di equilibrio di bilancio.

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