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Permessi premio: incostituzionale negarli a chi ha commesso reati in carcere La Corte Costituzionale si pronuncia su presunzione di innocenza e rieducazione della pena in materia di permessi premio

Permessi premio: l’intervento della Consulta

È incostituzionale la preclusione biennale alla concessione di permessi premio a un detenuto che sia stato imputato o condannato per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 24/2025, con la quale è stata ritenuta fondata una questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto.

La questione di legittimità costituzionale

Un detenuto, in carcere dal 2017, aveva chiesto di essere ammesso a un permesso premio. La sua richiesta era però inammissibile, perché l’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario vietava, per due anni, di concedere permessi premio a detenuti che siano stati condannati o siano imputati per un reato commesso durante l’esecuzione della pena.

Nel caso concreto, il richiedente era stato rinviato a giudizio per avere tentato, un anno prima, di introdurre droga nel carcere per un altro detenuto.

Il magistrato di sorveglianza ha tuttavia rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la preclusione stabilita dalla legge incompatibile, tra l’altro, con la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena.

Funzione rieducativa della pena

La Consulta ha anzitutto osservato che un’analoga questione era stata ritenuta non fondata in una sentenza del 1997, che peraltro aveva invitato il legislatore a modificare la norma per renderla più conforme alla funzione rieducativa della pena.

Rilevato che il tendenziale rispetto dei precedenti costituisce una condizione essenziale dell’autorevolezza delle proprie decisioni, la Corte ha tuttavia rammentato come ci possano essere “ragioni cogenti” che rendano non più sostenibili le decisioni precedentemente adottate, ad esempio quando esse non siano più coerenti con il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee.

In questo caso, una preclusione che si fondi sulla sola circostanza che il richiedente sia “imputato” per un reato appare, oggi, incompatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il diritto dell’Unione europea e con la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale in materia.

Presunzione di non colpevolezza

Gli effetti della presunzione di non colpevolezza non si esauriscono, come ancora si riteneva alcuni decenni fa, all’interno del procedimento penale relativo alla responsabilità per il reato addebitato all’imputato, ma implicano un generale divieto di considerare l’imputato colpevole del fatto anche in qualsiasi altro procedimento giudiziario, sino a che il reato non sia definitivamente accertato.

Conseguentemente, una norma che vieta in via assoluta al magistrato di sorveglianza di concedere un permesso premio, per il solo fatto che il richiedente sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero, “agli effetti pratici (…) vincola il giudice a ‘presumere colpevole’ l’imputato”. Una disposizione così concepita, ha concluso la Corte, “sottrae al magistrato di sorveglianza ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto (…), con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza”.

Automatismo preclusivo incompatibile

La Corte ha inoltre affermato che l’automatismo preclusivo stabilito dalla norma è ormai divenuto incompatibile con i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, in base ai quali il giudice della sorveglianza deve essere sempre libero di compiere una valutazione individualizzata sui progressi effettivamente compiuti dal condannato nel suo percorso penitenziario, nonché sulla sua residua pericolosità sociale. Anche nell’ipotesi, dunque, in cui il richiedente sia stato condannato in via definitiva per un reato commesso durante l’esecuzione della pena, il rispetto del principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della Costituzione esige che il magistrato di sorveglianza resti sempre “libero di valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa”.

cittadinanza allo straniero

Cittadinanza allo straniero che non conosce l’italiano La Consulta ha ritenuto incostituzionale la norma che in materia di cittadinanza allo straniero non esclude chi è oggettivamente impedito ad imparare l'italiano

Cittadinanza allo straniero

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 25/2025 ha affermato che vìola il principio di uguaglianza la norma che subordina l’acquisto della cittadinanza allo straniero – per matrimonio o naturalizzazione – alla conoscenza dell’italiano a livello intermedio per qualunque soggetto, senza eccettuare chi versi in condizioni di oggettiva e documentata impossibilità di acquisirla in ragione di una disabilità.

Legge 91/1992

E’ stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 «nella parte in cui non esonera dalla prova della conoscenza della lingua italiana il richiedente [la cittadinanza] affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico derivanti dall’età, da patologie o da disabilità, attestate mediante certificazione rilasciata dalla struttura sanitaria pubblica».

Eguaglianza formale e sostanziale

Secondo la Consulta, è violato, anzitutto, il principio di eguaglianza formale per trattamento uguale – ingiustificato e irragionevole – di situazioni diverse. Infatti, con l’imposizione generalizzata del requisito linguistico, il legislatore non ha tenuto conto della condizione di coloro che, in ragione di determinate menomazioni, versano in situazione oggettivamente diversa dalla generalità dei richiedenti la cittadinanza.

Ancora, la disciplina uniforme dettata dall’art. 9.1 offende il principio di eguaglianza nella sua declinazione sostanziale perché frappone, anzi che rimuovere, un ostacolo all’acquisto dello status di cittadino per tale specifica categoria di persone vulnerabili e dà luogo ad una loro discriminazione indiretta.

Il requisito della prova

Infine, la Consulta ha ritenuto che la norma sia irragionevole perché contraria al principio «ad impossibilia nemo tenetur»: il requisito della prova della conoscenza della lingua a livello intermedio si rivela, infatti, una condizione inesigibile per quegli stranieri che siano oggettivamente impediti ad apprenderla in ragione di una disabilità.

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Decreto Caivano: prova semplificata secondo il favor minoris La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della disposizione del Decreto Caivano nella parte in cui indica il Gip per la prova minorile semplificata

Decreto Caivano: l’intervento della Consulta

Decreto Caivano: la prova minorile “semplificata” va decisa dal giudice collegiale e interpretata secondo il “favor minoris”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 23/2025, decidendo le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 27-bis del d.P.R. numero 448 del 1988, inserito dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del decreto-legge numero 123 del 2023, convertito nella legge numero 159 del 2023 (“decreto Caivano”), sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento.

Prova minorile semplificata

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 della disposizione censurata, per violazione dell’articolo 31, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», anziché «giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)».

Infatti, quale istituto di protezione della gioventù, rammenta la Corte, anche la prova minorile “semplificata”, introdotta dalla norma censurata, richiede la composizione pedagogicamente qualificata dell’organo giudicante, quindi un collegio integrato dagli esperti educatori, così come è previsto per la messa alla prova minorile ordinaria.

Favor minoris

Le ulteriori questioni sono state dichiarate non fondate «nei sensi di cui in motivazione», essendo possibile attribuire alla norma un significato adeguato al “favor minoris”, nel senso che:

– il programma rieducativo non può essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili, che seguono poi il minore durante lo svolgimento della prova e rimettono al giudice la relazione conclusiva;

– la proposta del pm di accesso alla prova “semplificata” è atto di esercizio dell’azione penale, quindi può intervenire solo quando sia sufficientemente definito, oltre al fatto-reato, anche il quadro esistenziale del minore;

– nell’applicazione dell’istituto, giudice e PM possono avvalersi dei mezzi conoscitivi di cui agli articoli 6 e 9 del d.P.R. 448/1988, non ostando la clausola di invarianza finanziaria, inserita dal “decreto Caivano” per forme atipiche di impegno dei servizi;

– il termine di sessanta giorni fissato dalla norma censurata per il deposito del programma rieducativo non è perentorio, sicché, qualora per giustificate ragioni non riesca a rispettarlo, la difesa del minore può ottenerne una proroga;

– come per il progetto di intervento nella prova minorile ordinaria, neppure nella prova “semplificata” è precluso al giudice integrare o modificare il programma rieducativo, purché consulti le parti e i servizi minorili;

– oltre ad attività di lavoro, la prova “semplificata” può avere ad oggetto anche attività di carattere socio-relazionale, e gli stessi eventuali impegni lavorativi non devono compromettere i percorsi scolastico-educativi in atto.

La decisione

«In virtù della pronuncia sostitutiva sulla composizione del giudice e dei descritti adeguamenti interpretativi» – si legge, infine, in sentenza – «la norma censurata si sottrae alla richiesta di ablazione radicale, anche in ragione del fatto che il nuovo istituto, per come modificato in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, non preclude ulteriori percorsi procedimentali, incluso quello della messa alla prova ordinaria».

abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti: le sanzioni valgono per tutti La Corte Costituzionale ha stabilito che anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato per gli abusi edilizi sopravvenuti

Abusi edilizi sopravvenuti

Anche le autonomie speciali devono attenersi al regime sanzionatorio dettato dall’art. 38 del TU Edilizia per gli abusi edilizi sopravvenuti. Lo ha affermato la Consulta che, con la sentenza n. 22/2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 10, della legge della Provincia di Bolzano 10 gennaio 2022, numero 1 (Disposizioni collegate alla legge di stabilità provinciale per l’anno 2022), per violazione degli articoli 4 e 8 dello statuto speciale, in quanto in contrasto con le norme fondamentali di riforma economico sociale, quali sono gli articoli 36 e 38 del d.P.R. 6 giugno 2001, numero 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).

Il regime sanzionatorio della fiscalizzazione dell’abuso

La Corte Costituzionale ha per la prima volta riconosciuto che, al pari dell’articolo 36 del Testo unico edilizia, anche l’articolo 38, nel prevedere un peculiare regime sanzionatorio (fiscalizzazione dell’abuso) per i cosiddetti “abusi edilizi sopravvenuti” (ossia realizzati in conformità a un titolo abilitativo in seguito annullato), mira a proteggere interessi di primaria importanza e di segno complessivamente unitario (in quanto correlati al governo del territorio e alla tutela del paesaggio e dell’ambiente), con conseguente necessità di attuazione uniforme a livello nazionale che non può subire differenziazioni regionali.

Le sanzioni valgono anche per le autonomie speciali

Nella sentenza si afferma, in particolare, “che le specifiche condizioni richieste dall’articolo 38 (impossibilità di procedere alla rimozione dei vizi procedurali e impossibilità tecnica di procedere alla restituzione in pristino), per consentire il pagamento di una sanzione pecuniaria pari al valore venale dell’opera abusiva in luogo della demolizione, costituiscono elementi determinanti del punto di equilibrio tra opposti interessi, individuato dal legislatore statale al fine di un ordinato governo del territorio”.

Pertanto, ha concluso il giudice delle leggi, alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome non è dato introdurre ulteriori criteri di valutazione dell’impossibilità di ripristino, né della determinazione del “prezzo” da pagare per evitare la demolizione di un immobile; né, infine, graduare la sanzione in funzione della gravità del danno urbanistico arrecato dalla trasformazione del territorio.

esenzione ici

Esenzione ICI immobili della chiesa a “uso misto” La Consulta boccia la questione di legittimità costituzionale sull'esenzione ICI degli immobili ecclesiastici a "uso misto"

Esenzioni ICI immobili chiesa

E’ inammissibile la qlc sull’esenzione ICI degli immobili della chiesa a “uso misto”. Lo ha sancito la Consulta, con la sentenza n. 20/2025, dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo numero 504 del 1992 sollevata dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte.

La qlc

Il giudice a quo aveva censurato la norma – con riferimento al regime ICI, quindi per le annualità anteriori al 2012 – sul presupposto che essa, riguardo agli immobili ecclesiastici a “uso misto” (in parte religioso e in parte commerciale), ma unitariamente accatastati, non avrebbe consentito, ai fini dell’esenzione d’imposta, lo «scorporo delle superfici», in base alla loro effettiva destinazione.

Tale omissione, determinando la tassazione anche delle porzioni immobiliari destinate ad attività di culto, avrebbe comportato la violazione dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 7, terzo comma, dell’Accordo del 18 febbraio 1984 di revisione del Concordato lateranense, quest’ultimo escludendo ogni imposizione tributaria per le attività religiose degli enti ecclesiastici.

La decisione della Consulta

La Corte costituzionale ha giudicato inadeguata la ricostruzione del quadro normativo operata dal rimettente e inesatta l’individuazione del parametro dallo stesso effettuata. Sotto il profilo ricostruttivo, il giudice a quo ha attribuito alla norma pattizia del 1984 una portata esonerativa immediata, come se essa si riferisse alle attività religiose in sé, mentre tale norma si limita a equiparare, per gli effetti tributari, l’attività di culto-religione a quella di beneficenza-istruzione. Inoltre, il rimettente non ha tenuto conto dell’incidenza del diritto UE, viceversa determinante nello sviluppo della normativa interna sulla tassazione immobiliare degli enti non commerciali. Infine, non ha chiarito se il fabbricato di causa fosse all’epoca frazionabile, sì da consentire lo «scorporo delle superfici».

legittimo il "raffreddamento"

Legittimo il “raffreddamento” della rivalutazione delle pensioni Per la Corte Costituzionale è legittimo il "raffreddamento" della rivalutazione automatica delle pensioni introdotto dalla legge di bilancio per il 2023

Rivalutazione automatica pensioni e raffreddamento

Legittimo il “raffreddamento” della rivalutazione automatica delle pensioni introdotto dalla legge di bilancio per il 2023. La legge, infatti, nell’introdurre misure di “raffreddamento” della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a quattro volte il minimo INPS, non ha leso i principi di ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza posti a garanzia dei trattamenti pensionistici. E’ quanto ha deciso la Corte costituzionale, con la sentenza n. 19/2025, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcune sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti.

Legittimo il “raffreddamento”

Secondo la Corte, il meccanismo legislativo non è irragionevole perché salvaguarda integralmente le pensioni di più modesta entità e, per un periodo limitato, riduce progressivamente la percentuale di indicizzazione di tutte le altre al crescere degli importi dei trattamenti, in ragione della maggiore resistenza delle pensioni più elevate rispetto agli effetti dell’inflazione.

“Le scelte del legislatore – afferma il giudice delle leggi – risultano coerenti con le finalità di politica economica, chiaramente emergenti dai lavori preparatori e legittimamente perseguite, volte a contrastare anche gli effetti di una improvvisa spinta inflazionistica incidente soprattutto sulle classi sociali meno abbienti. Delle perdite subite dalle pensioni non integralmente rivalutate, del resto, il legislatore potrà tenere conto in caso di eventuali future manovre sull’indicizzazione dei medesimi trattamenti”.

ausiliari del giudice

Ausiliari del giudice: incostituzionale la riduzione degli onorari Nel caso dei compensi agli ausiliari del giudice, la riduzione per le vacazioni successive alla prima è contraria alla Costituzione

Compensi ausiliari del giudice: la Consulta

In materia di onorari degli ausiliari del giudice, nel caso di compensi a tempo per l’attività prestata, il sistema di calcolo basato sulla vacazione, unità di misura pari a due ore di impegno del professionista, non può distinguere tra la prima vacazione e quelle successive. La riduzione per le vacazioni successive alla prima è contraria alla Costituzione. È quanto ha deciso la Consulta con la sentenza n. 16 del 2025, depositata ieri, con la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 4, secondo comma, della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), nella parte in cui, per le vacazioni successive alla prima, dispone la liquidazione di un onorario inferiore a quello stabilito per la prima vacazione.

La qlc

La questione era stata sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, che aveva censurato la norma perché l’entità «irrisoria» degli attuali onorari darebbe luogo ad un assetto normativo che sacrifica il diritto all’adeguata remunerazione del professionista e lede la garanzia dell’equo processo, non assicurando a tal fine la qualità minima della prestazione dell’ausiliare.

Normativa manifestamente irragionevole

Per la Corte la previsione normativa in oggetto è manifestamente irragionevole, in quanto impone una diversificazione dei compensi legati al susseguirsi delle vacazioni, peraltro già scarsamente remunerate, in un quadro di ormai sistematica omissione dell’onere di adeguamento periodico dei compensi.

Lo “scarto significativo” tra la prima vacazione e le successive – osserva il giudice delle leggi – accentua l’assoluta sproporzione tra l’entità del compenso da riconoscersi all’ausiliare e il valore della sua prestazione, pur nel legittimo scopo perseguito di contenimento dei costi del processo.

Istituto della vacazione e previsione tabellare

La Corte ha sottolineato che l’istituto della vacazione in realtà non è più normato, nella novellata disciplina degli onorari a tempo, di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, ormai interamente affidata, insieme a quella degli onorari fissi e variabili, alla previsione tabellare.

Il giudice rimettente aveva censurato anche l’articolo 50, comma 3, del citato D.P.R. nella parte in cui prevede che le tabelle relative agli onorari a tempo individuino il compenso del professionista. La Corte ha dichiarato inammissibile tale questione per irrilevanza nel procedimento principale, rilevando che tale disposizione, pur formalmente in vigore, disciplinerà in concreto la materia solo a seguito dell’adozione del regolamento ministeriale introduttivo del nuovo sistema tabellare, di cui al comma 1 dello stesso articolo 50, adozione non ancora intervenuta.

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Corte Costituzionale: ok a cinque referendum La Corte Costituzionale ha depositato le sentenze 11-15 che sanciscono l'ammissibilità di cinque quesiti referendari

Ok a 5 referendum

Via libera della Corte costituzionale a 5 referendum in materia di cittadinanza, Jobs Act, indennità licenziamenti illegittimi, contratti di lavoro a termine e responsabilità dell’imprenditore committente. Unico no al referendum sull’autonomia differenziata che, con la sentenza n. 10/2025 è stato dichiarato inammissibile.

Referendum cittadinanza

La richiesta referendaria in materia di cittadinanza ritenuta ammissibile è diretta ad abrogare, congiuntamente, l’intero articolo 9, comma 1, lettera f), della legge numero 91 del 1992 e, limitatamente ad alcune parole, l’articolo 9, comma 1, lettera b).

La combinazione delle due diverse abrogazioni avrebbe quale esito che tutti gli stranieri maggiorenni con cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea potrebbero presentare richiesta di concessione della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza legale in Italia.

La Corte Costituzionale ha affermato, con la sentenza n. 11/2025, che il quesito è omogeneo, chiaro e univoco. “All’elettore, infatti, è proposta una scelta facilmente intellegibile in ordine agli anni di residenza nel territorio della Repubblica necessari, per il maggiorenne cittadino di uno Stato non appartenente all’UE, per poter presentare domanda di concessione della cittadinanza italiana: dieci, come attualmente previsto, o cinque, come eventualmente disporrebbe la legge in caso di approvazione del referendum abrogativo”.

La richiesta referendaria non contraddice neppure la natura abrogativa del referendum, che la Corte Costituzionale ha costantemente ritenuto non può essere utilizzato per costruire, attraverso il quesito, nuove norme non ricavabili dall’ordinamento. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la nuova regola non sarebbe del tutto estranea al contesto normativo di riferimento. In caso di approvazione del referendum abrogativo, infatti, verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di atto discrezionale di “alta amministrazione” del provvedimento di concessione della cittadinanza.

Referendum Jobs Act

È ammissibile la richiesta di referendum sull’abrogazione del decreto delegato attuativo del Jobs Act n. 23/2015 in tema di licenziamenti illegittimi. La Corte costituzionale con la sentenza numero 12 del 2025 ha precisato: la «circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità» del licenziamento, perché per alcune di queste (e in particolare nel caso del licenziamento intimato al lavoratore assente per malattia o infortunio, oppure intimato per disabilità fisica o psichica a un lavoratore che non versava in realtà in tale condizione) «si avrebbe, invece, un arretramento di tutela», non inficia la chiarezza, l’omogeneità e l’univocità della richiesta di referendum. Il quesito referendario chiama, infatti, il corpo elettorale «a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria». Questa è ravvisabile, ha evidenziato la Consulta, «nel profilo teleologico sotteso al quesito referendario, mirante all’abrogazione di un corpus organico di norme e funzionale alla reductio ad unum, senza più la divisione tra prima e dopo la data del 7 marzo 2015, della disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, con la riespansione della disciplina pregressa, valevole per tutti i dipendenti», a prescindere dalla data della loro assunzione. Rimane, pertanto, salvaguardato, ha concluso la Corte, «un nesso di coerenza tra il mezzo e il fine referendario», ciò che esclude che si sia in presenza di «un uso artificioso del referendum abrogativo».

Referendum indennità da licenziamento illegittimo

Ammissibile, inoltre, il referendum sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo.

Con la sentenza n. 13/2025, la Consulta ha dichiarato l’ammissibilità del referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 8 della legge numero 604 del 1966, limitatamente alle parole che stabiliscono una misura massima (pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) per la liquidazione dell’indennità da licenziamento illegittimo.

In motivazione, la Corte ha precisato che la norma oggetto del quesito referendario trova oggi applicazione, a seguito delle modifiche intervenute nella legislazione in materia, nei confronti dei soli lavoratori assunti alle dipendenze delle cosiddette “piccole imprese” (ossia, presso datori di lavoro che non raggiungono la soglia dimensionale indicata dall’articolo 18, ottavo comma, dello Statuto dei lavoratori) prima del 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23 del 2015, attuativo della legge sul Jobs act.

A parere della Corte, il quesito in esame non incontra i limiti di cui all’articolo 75 della Costituzione e risponde ai requisiti di chiarezza, univocità e omogeneità, in quanto pone una chiara alternativa all’elettore: mantenere l’attuale misura massima dell’indennità, ovvero rimuoverla per consentire al giudice di quantificare, senza più tale ostacolo, un ristoro equo con congruo effetto deterrente.

Referendum contratti di lavoro a termine

Con la sentenza n. 14/2025, la Corte Costituzionale ha altresì dichiarato ammissibile la richiesta di referendum abrogativo denominata «Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi».

Il quesito referendario riguarda l’abrogazione di alcune previsioni (articoli 19, commi 1, 1-bis e 4, e 21, comma 01, del decreto legislativo numero 81 del 2015) che attualmente consentono la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato (e anche la loro proroga e/o il rinnovo) fino a un anno senza dover fornire alcuna giustificazione, e, per quelli di durata superiore, sulla base di una giustificazione individuata dalle parti, anche se non prevista né dalla legge, né dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi a livello nazionale. Le norme oggetto del quesito non rientrano fra le leggi per cui la Costituzione, all’articolo 75, esclude che si possa richiedere referendum abrogativo. Il quesito, inoltre, soddisfa tutti i requisiti (di chiarezza, omogeneità, univocità) richiesti per consentire all’elettore di esercitare una scelta libera e consapevole. Esso, infatti, è formulato nei termini di un’alternativa secca: da un lato, abrogare le disposizioni vigenti, con conseguente estensione ai rapporti di lavoro di durata infrannuale dell’obbligo di giustificazione dell’apposizione del termine oggi sussistente per la stipulazione di contratti di lavoro di durata superiore all’anno e il necessario riferimento, per tutti i contratti a termine, alle sole cause giustificative previste dalla legge o dai contratti collettivi; dall’altro, conservare la normativa vigente, che, all’opposto, ne liberalizza l’impiego.

Referendum responsabilità imprenditore committente

Infine, con la sentenza numero 15/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, numero 81, limitatamente alle parole «Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.», dichiarata conforme a legge dall’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Cassazione, con ordinanza del 12 dicembre 2024.

La Corte ha osservato che la norma oggetto del quesito non interferisce con le materie per le quali l’articolo 75, secondo comma, della Costituzione preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo.

Il quesito rispetta i requisiti di chiarezza e semplicità, essenziali per garantire il popolo nell’esercizio del suo potere sovrano.

Dalla formulazione del quesito si evince in modo inequivocabile la finalità di rafforzare la responsabilità dell’imprenditore committente. “Il quesito tende a un esito lineare e pone al corpo elettorale un’alternativa netta: «il mantenimento dell’attuale assetto della responsabilità solidale, contraddistinto da deroghe significative, o l’integrale riespansione di tale responsabilità, senza alcuna eccezione per i danni prodotti dai rischi tipici delle attività delle imprese appaltatrici e subappaltatrici»”. È dunque garantita, conclude la Consulta, “quella scelta chiara e consapevole, che il giudizio di ammissibilità demandato alla Corte costituzionale è chiamato a salvaguardare”.

autonomia differenziata

Autonomia differenziata: referendum inammissibile La Corte Costituzionale ha depositato la sentenza di inammissibilità sul referendum abrogativo della legge sull'autonomia differenziata

Inammissibile referendum autonomia differenziata

La Corte costituzionale si è pronunciata sull’ammissibilità del referendum abrogativo della “Legge 26 giugno 2024, n. 86”, relativo all’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. La richiesta riguardava l’abrogazione totale delle disposizioni previste dalla legge.

La decisione della Corte costituzionale

In camera di consiglio, la Corte ha stabilito l’inammissibilità del quesito referendario. L’Ufficio comunicazione e stampa aveva reso noto di recente che tale giudizio è stato emesso in relazione alla legge n. 86 del 2024, già oggetto della sentenza n. 192 dello stesso anno.

Ora, con la sentenza n. 10/2025, la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni di inammissibilità della richiesta di referendum per l’abrogazione della legge numero 86 del 2024, contenente disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni ordinarie ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

Motivi dell’inammissibilità

La Corte ha osservato che la sentenza n. 192/2024 ha profondamente inciso sull’architettura essenziale della predetta legge, dichiarando l’illegittimità costituzionale di molteplici disposizioni della stessa legge e l’illegittimità consequenziale di altre disposizioni, fornendo anche l’interpretazione costituzionalmente orientata di ulteriori disposizioni.

In particolare, la Consulta ha sottolineato che la sentenza in parola ha comportato “il trasversale ridimensionamento dell’oggetto dei possibili trasferimenti alle regioni (solo specifiche funzioni e non già materie), nonché la paralisi dell’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti diritti civili o sociali”.

Ne discende che attualmente non c’è modo di determinare i LEP.

Quesito “oscuro”

La conseguenza è che risulta obiettivamente oscuro l’oggetto del quesito, che originariamente riguardava la legge numero 86 e ora riguarda quel che resta della stessa legge a seguito delle numerose e complesse modifiche apportate dalla sentenza numero 192.

“Ciò pregiudica – per il giudice delle leggi – la possibilità di una scelta libera e consapevole da parte dell’elettore, che la Costituzione garantisce.

Il quesito è inoltre “privo di chiarezza quanto alla sua finalità. La rilevata oscurità dell’oggetto del quesito porta con sé un’insuperabile incertezza sulla stessa finalità obiettiva del referendum. Con il rischio che esso si risolva in altro: nel far esercitare un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato”.

La consultazione referendaria – ha concluso la Corte – “verrebbe ad avere una portata che trascende quel che i Costituenti ritennero fondamentale, cioè l’uso corretto – e ragionevole – di questo importante strumento di democrazia. Se si ammettesse la richiesta in esame, si avrebbe una radicale polarizzazione identitaria sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale”.

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Sequestro del coniuge: ok alla procedibilità d’ufficio Per la Consulta non è in contrasto con la Costituzione la procedibilità d'ufficio del sequestro di persona in danno del coniuge

Sequestro del coniuge e procedibilità del reato

Sequestro del coniuge: non è manifestamente irragionevole, né viola le indicazioni della legge delega, la scelta della “riforma Cartabia” di mantenere la procedibilità d’ufficio del sequestro di persona, quando sia commesso in danno del proprio coniuge. E’ quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 9/2025, ritenendo non fondata la questione sollevata dal Gup del Tribunale di Grosseto.

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Il giudice doveva decidere della responsabilità di un uomo che aveva aggredito la propria moglie, dalla quale si era separato di fatto da qualche mese, e il nuovo compagno di lei. Per la ricostruzione del pm, l’imputato avrebbe puntato una pistola contro di loro, costringendoli a entrare nella casa del nuovo compagno. Qui avrebbe chiuso la porta alle proprie spalle, minacciando entrambi di morte e colpendoli alla testa con il proprio casco. La donna e il compagno avevano rimesso la querela presentata contro l’imputato, che nel frattempo aveva risarcito loro i danni.

Tuttavia, la remissione della querela non aveva prodotto effetto, tra l’altro, rispetto al reato di sequestro di persona commesso in danno della moglie dell’imputato. Mentre, infatti, il decreto legislativo n. 150 del 2022 (riforma Cartabia) ha reso in via generale il sequestro di persona procedibile a querela di parte, la procedibilità d’ufficio è stata mantenuta in una serie di ipotesi aggravate, tra cui quella di specie.

Il GUP di Grosseto aveva, quindi, chiesto che tale disciplina fosse dichiarata incostituzionale. Secondo il giudice, le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2022 a subordinare la punibilità del sequestro di persona alla querela della persona offesa varrebbero a maggior ragione nell’ipotesi in cui autore e vittima siano uniti in matrimonio. E ciò anche a garanzia del valore dell’unità familiare, riconosciuto come tale dall’articolo 29 Cost.

La decisione della Consulta

La Corte non ha condiviso questa prospettazione. La Consulta ha sottolineato che il legislatore ha mantenuto il regime di procedibilità d’ufficio di alcune ipotesi aggravate di sequestro di persona in cui vi siano particolari esigenze di tutela della vittima nelle relazioni familiari. Nell’ambito di queste relazioni esiste un concreto rischio che i soggetti più vulnerabili siano esposti a pressioni indebite, affinché non presentino querela o la rimettano.

Proprio per tale ragione, ha affermato la Corte, “la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013, vieta agli Stati che ne sono parte di subordinare alla querela della parte i procedimenti penali per i reati di violenza fisica contro questa tipologia di persone offese”. E stabilisce “che il processo penale debba continuare anche quando la vittima ritiri la propria denuncia”.

“L’interesse alla conservazione dell’unità del nucleo familiare – ha concluso il giudice delle leggi – non può prevalere rispetto alla necessità di tutelare i diritti fondamentali delle singole persone che ne fanno parte”.