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Dirigenti sanitari SSN: intramoenia illegittima La Consulta ha bocciato la legge della Regione Liguria che consentiva ai dirigenti sanitari in rapporto di lavoro esclusivo con il SSN di svolgere attività intramoenia

Intramoenia dei dirigenti sanitari Ssn

Incostituzionali le norme della regione Liguria che consentono ai dirigenti sanitari in regime di rapporto di lavoro esclusivo con il SSN di svolgere attività intramoenia presso le strutture private accreditate. Lo ha stabilito la Consulta, con la sentenza n. 153-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 47, comma 1, della legge della Regione Liguria 28 dicembre 2023, n. 20, nella parte in cui consente, in via transitoria e fino al 2025, alle «strutture private accreditate, anche parzialmente, con il Servizio sanitario regionale, di avvalersi dell’operato di dirigenti sanitari dipendenti dal Servizio sanitario nazionale che abbiano optato per il regime di attività libero professionale intramuraria» (ALPI).

Contrasto con la tutela della salute

La Corte ha affermato che la citata previsione si pone in contrasto con un principio fondamentale in materia di tutela della salute, vincolante per tutte le Regioni, che vieta ai medici che abbiano optato per il rapporto di lavoro esclusivo con il SSN e ai quali è dunque consentito svolgere attività libero professionale solo intramoenia, di svolgere l’ALPI presso strutture sanitarie private accreditate.

Anche allorquando, infatti, è stata transitoriamente introdotta, in considerazione della carenza degli spazi disponibili, la possibilità di un’ALPI “allargata” e si è consentito al direttore generale di assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall’azienda spazi sostitutivi, includendovi anche gli studi professionali privati, è stata sempre ribadita l’espressa esclusione delle strutture sanitarie private accreditate.

Divieto mira a garantire efficienza del servizio sanitario pubblico

Con tale divieto, stabilito dall’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007 e ripetutamente affermato dal legislatore statale negli anni, il legislatore «ha inteso garantire la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico», evitando che «potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da parte del medico dipendente di attività professionale presso strutture» accreditate, con il «pericolo di incrinamento della funzione ausiliaria» della rete sanitaria pubblica, che queste ultime svolgono.

Diverso esito hanno trovato, invece, le censure di incostituzionalità rivolte al comma 2 dello stesso art. 47 della legge della Regione Liguria n. 20 del 2023, là dove consente, «[i]n via transitoria» e comunque solo «fino all’anno 2025», alle aziende sanitarie, enti e istituti del SSR di acquisire dai propri sanitari prestazioni in regime di ALPI «[a]l fine di ridurre le liste di attesa» e ovviare alla carenza di organico (prestazioni aggiuntive o integrative).

La disposizione regionale impugnata è, infatti, ha concluso la Corte, in linea con la normativa statale, ad eccezione della previsione della possibilità che le prestazioni acquistate dall’azienda sanitaria dai propri dirigenti sanitari in regime di ALPI siano effettuate presso strutture sanitarie accreditate.

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Tutti gli enti devono contribuire alle finanze pubbliche La Consulta dichiara non fondate le questioni di legittimità sollevate dalla regione autonoma Valle d'Aosta: anche i comuni valdostani devono contribuire alle finanze pubbliche

Enti territoriali contributo finanze pubbliche

Anche i comuni valdostani devono contribuire alle finanze pubbliche così come gli altri enti territoriali. Lo ha affermato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 145-2024 dichiarando la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Regione autonoma Valle D’Aosta, dell’art. 6-ter, comma 4, del decreto-legge n. 132 del 2023, che ha modificato il comma 853 dell’art. 1 della legge n. 178 del 2020 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023). Il suddetto comma 853, insieme ai precedenti commi da 850 a 852, impone a tutti gli enti territoriali italiani (regioni, province, città metropolitane e comuni), compresi quindi i comuni valdostani, di versare un contributo a favore delle finanze statali in considerazione delle esigenze di contenimento della spesa pubblica e della necessità di rispettare gli obblighi imposti dall’Unione europea.

“Nessun ente territoriale, dunque – ha affermato la Consulta – può sottrarsi ai propri doveri finanziari nei confronti dello Stato, perché ciò significherebbe aggravare il peso del contributo per gli altri enti”.

La qlc

La Valle d’Aosta lamentava di dover pagare illegittimamente due volte il contributo, una in quanto regione e un’altra in qualità di rappresentante dei comuni valdostani, sostenendo che i comuni non dovessero pagare in quanto gli stessi sarebbero, da un punto di vista finanziario, un’unica entità insieme alla Valle D’Aosta e lamentava, altresì, l’assenza della procedura dell’accordo con lo Stato per determinare l’entità del contributo dovuto.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha però ritenuto che la Regione Valle d’Aosta è semplicemente il soggetto che per legge ha il compito di eseguire e ricevere i pagamenti nei confronti dello Stato per conto dei comuni valdostani, senza che questi ultimi possano essere considerati un tutt’uno con la Regione, “cosicché è vero che quest’ultima paga due volte, ma in entrambi i casi correttamente, perché paga quanto da lei dovuto in qualità di regione e quanto dovuto dai propri comuni, dai quali poi potrà farsi rimborsare”. Neppure è violato il principio pattizio “perché lo Stato può imporre anche alle regioni a statuto speciale, quale è la Valle d’Aosta, contributi per il risanamento della finanza pubblica, quantificandone l’importo complessivo e rimettendo agli accordi tra gli enti territoriali e lo Stato solo i criteri di ripartizione del contributo per determinare l’importo dovuto da ciascun ente”.

 

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Gratuito patrocinio stranieri anche senza codice fiscale italiano La Cassazione chiarisce che per l'ammissione al beneficio presentata da cittadino straniero non è necessario il codice fiscale italiano

Gratuito patrocinio stranieri

Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio per uno straniero non è necessario munirsi di un codice fiscale italiano. Il chiarimento arriva dalla quarta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 30047-2024) che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno contro l’ordinanza del tribunale di Roma che aveva rigettato l’opposizione avverso il diniego dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in quanto l’uomo non aveva indicato nella relativa istanza il codice fiscale italiano ma quello di cui era titolare nello stato di residenza (Romania) e la propria residenza all’estero.

A dire del tribunale, infatti, il cittadino rumeno avrebbe dovuto, in quanto cittadino dell’Unione Europea, richiedere il codice fiscale ad un ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate. Precisava, inoltre, il giudice che l’ordinanza della Corte Costituzionale n.144 del 2004, invocata dal ricorrente regolava il caso di stranieri presenti irregolarmente nel territorio dello Stato ovvero il caso in cui, per ragioni oggettive, l’interessato non possa provvedere alla indicazione del codice fiscale.

Il ricorso

Avverso il suddetto provvedimento l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione denunciando violazione della legge penale, in relazione all’art. 79 del DPR n. 115/2002, come interpretato dalla decisione della Corte Costituzionale n.144 del 2004, secondo cui il cittadino straniero non residente nel territorio italiano può presentare l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato allegando il proprio domicilio all’estero. Le conclusioni assunte dal Tribunale con l’ordinanza impugnata erano contrarie, quindi, ai principi fondamentali posti a tutela del diritto di difesa, richiamato dalla Consulta nella decisione citata.

Gratuito patrocinio e codice fiscale

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato.

L’art. 79 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), premettono i giudici, prevede, “a pena di inammissibilità della domanda di ammissione al patrocinio dei non abbienti, l’indicazione del codice fiscale. In sede di disciplina dei casi in cui è obbligatoria l’indicazione del codice fiscale, il testo dell’art. 6, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 (Disposizioni relative all’anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti), prevede espressamente che «l’obbligo di indicazione del numero di codice fiscale dei soggetti non residenti nel territorio dello Stato, cui tale codice non risulti attribuito, si intende adempiuto con la sola indicazione dei dati di cui all’art. 4» – dello stesso d.P.R. – «con l’eccezione del domicilio fiscale, in luogo del quale va indicato il domicilio o sede legale all’estero.). Il citato art. 4, primo comma, lettera a), del d.P.R. n. 605 del 1973 richiede, ai fini dell’attribuzione del numero di codice fiscale delle persone fisiche, esclusivamente i seguenti dati: cognome, nome, luogo e data di nascita, sesso e domicilio fiscale”.
Il ricorrente ha dedotto che, al momento del deposito dell’istanza, era presente da soli 40 giorni sul territorio italiano e che dunque, al momento della presentazione della richiesta di ammissione del patrocinio a spese dello Stato, non aveva la titolarità di un codice fiscale italiano, ma del codice fiscale del paese di residenza ( la Romania), che aveva indicato nel ricorso unitamente al proprio domicilio nello stato di residenza.
Per cui, alla stregua della normativa sopra indicata, chiariscono dalla S.C., “agli effetti dell’ammissibilità dell’istanza diretta ad ottenere il beneficio in questione, nulla appare escludere la possibilità che lo straniero non residente ni Italia, pure se residente in un paese UE, in luogo dell’indicazione del codice fiscale, fornisca i dati di cui all’art. 4 citato, oltre al proprio domicilio all’estero. Dalle norme in questione, infatti, non si ricava alcun onere, per il cittadino straniero non residente, di munirsi di un codice fiscale italiano al fine di avanzare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, fermo restando l’obbligo, di cui all’art 76 del DPR 115 del 2002, di allegazione alla istanza del reddito prodotto come risultante dalla ultima dichiarazione presentata nel paese di residenza”.

La sentenza della Corte Costituzionale

Né la lettura della ordinanza n.144 del 2004 della Corte Costituzionale, rincarano da piazza Cavour, “porta alle conclusioni cui è pervenuto il Tribunale di Roma. In quella sede – infatti – il giudice delle leggi, decidendo sulla legittimità costituzionale dell’art. 79 DPR 115/ 2002 se interpretato nel senso di richiedere, a pena di inammissibilità, anche per il cittadino extracomunitario li codice fiscale, ha rilevato che la lettura congiunta dell’art. 6 e dell’art. 4 del DPR n. 605 del 1973 consentiva di ritenere sufficiente, per il cittadino straniero irregolare, la sola indicazione del domicilio nel paese estero”. Dall’ordinanza citata non si ricava però, come si ritiene nel provvedimento impugnato, che il presupposto di applicazione dell’art. 4 DPR n. 605 del 2002 sia il fatto che l’istante si trovi nella impossibilità di richiedere la titolarità del codice fiscale italiano.

La decisione

Da qui l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Presidente del Tribunale di Roma per nuovo esame.

 

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rettificazione sesso terzo genere

Rettificazione di sesso: sul “terzo genere” serve legge La Consulta dichiara inammissibili le questioni sul "terzo genere" mentre è irragionevole l'autorizzazione all'intervento chirurgico se la transizione è già compiuta

Rettificazione di sesso e genere non binario

Sulla rettificazione di sesso e il “terzo genere” serve l’intervento del legislatore. Con la sentenza n. 143-2024, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso.

La Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).

Serve intervento del legislatore

Infatti, «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria».

La sentenza sottolinea al riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) informa, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).

La Corte rileva tuttavia che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».

«Tali considerazioni» – conclude la Corte – «unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».

Autorizzazione al trattamento chirurgico

La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.

Il giudice delle leggi ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologicocomportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».

In tali casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto «non corrisponde più alla ratio legis».

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Payback dispositivi medici: meccanismo corretto La Cofrte Costituzionale si è pronunciata con due sentenze sul "payback" per i dispositivi medici legittimando da un lato il meccanismo e bocciando dall'altro la rinuncia al contenzioso

Payback dispositivi medici: l’intervento della Consulta

Payback per i dispositivi medici, il meccanismo è corretto ma va bocciata la condizione della rinuncia al contenzioso. Questo, in sostanza, quanto affermato dalla Consulta che si è pronunciata, con due sentenze sul payback per i dispositivi medici. Le due sentenze della Corte Costituzionale, infatti, la n. 139-2024 e la n. 140-2024, hanno ad oggetto il meccanismo del payback, regolato da diverse norme di legge.

Payback: la disciplina

La disciplina principale è contenuta nell’art. 9-ter del decreto legge n. 78 del 2015. Le disposizioni di questo articolo stabiliscono un tetto alla spesa regionale per i dispositivi medici. Se la regione supera il tetto, le imprese che forniscono i dispositivi ai Servizi sanitari regionali sono tenute a contribuire parzialmente al ripiano dello sforamento. Per gli anni dal 2015 al 2018 è espressamente prevista la procedura di determinazione dell’ammontare del ripiano a carico delle singole imprese (comma 9-bis, inserito nel 2022 nell’art. 9-ter menzionato).

Vi sono poi le norme contenute nell’art. 8 del decreto legge n. 34 del 2023. Queste disposizioni hanno istituito un fondo statale da assegnare pro-quotaalle regioni che nel menzionato periodo abbiano superato il tetto di spesa. Esse hanno inoltre consentito alle imprese fornitrici dei dispositivi di versare solo il 48 per cento della rispettiva quota di ripiano, a condizione che rinunciassero a contestare in giudizio i provvedimenti relativi all’obbligo di pagamento.

La sentenza n. 139/2024

La Corte si è occupata dapprima, su ricorso della Regione Campania, delle disposizioni del 2023 e, con sentenza n. 139, le ha dichiarate incostituzionali nella parte in cui condizionavano la riduzione dell’onere a carico delle imprese alla rinuncia, da parte delle stesse, al contenzioso.

La conseguenza è che a tutte le imprese fornitrici è ora riconosciuta la riduzione dei rispettivi pagamenti al 48 per cento.

La sentenza n. 140/2024

Con la successiva sentenza n. 140/2024, invece, la Corte, su rimessione del TAR Lazio, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9-ter del decreto legge n. 78 del 2015, quanto al periodo 2015-2018.

La Corte ha precisato che, in relazione a tale periodo, il legislatore ha dettato una disciplina apposita per il ripiano dello sforamento dei tetti di spesa, e le regioni, con propri provvedimenti, hanno richiesto alle imprese le somme da esse dovute.

La sentenza ha rilevato che il payback presenta di per sé diverse criticità, ma non risulta irragionevole in riferimento all’art. 41 Cost., quanto al periodo 2015- 2018. Esso, infatti, pone a carico delle imprese per tale arco temporale un contributo solidaristico, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico-finanziaria di grave difficoltà.

Payback non sproporzionato

Il meccanismo non risulta neppure sproporzionato, alla luce della significativa riduzione al 48 per cento dell’importo originariamente posto a carico delle imprese, riduzione ora riconosciuta incondizionatamente a tutte le aziende in virtù della citata sentenza n. 139 Inoltre, la Corte ha osservato che la disposizione censurata non contrasta con la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. per l’imposizione di prestazioni patrimoniali.

Infine, la sentenza 140 ha precisato che la disposizione censurata non ha natura retroattiva, in quanto il comma 9-bis dell’art. 9-ter, introdotto nel 2022, si è limitato a rendere operativo l’obbligo di ripiano a carico delle imprese fornitrici, senza influire, in modo costituzionalmente insostenibile, sull’affidamento che le parti private riponevano nel mantenimento del prezzo di vendita dei dispositivi medici.

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Fondo TPL: legittimi i criteri di riparto tra regioni Fondo TPL: la Corte Costituzionale ritiene legittimi i criteri di riparto fra le regioni adottati in attesa della definizione di standard

Fondo TPL: criteri di riparto

Fondo TPL: sono legittimi i criteri di riparto tra le regioni. Così la Corte costituzionale, con la sentenza n. 133-2024, ha respinto le censure di illegittimità costituzionale promosse da tre Regioni (Piemonte, Veneto e Campania) nei confronti dell’art. 17, comma 1, del decreto-legge n. 104 del 2023, convertito nella legge n. 136 del 2023.

Tale disposizione è intervenuta a modificare ulteriormente i criteri di riparto fra le Regioni delle risorse del “Fondo per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario” (Fondo TPL), che erano stati introdotti dal decreto-legge n. 176 del 2022, convertito nella legge n. 6 del 2023, per superare il sistema incentrato sulla valorizzazione della spesa in precedenza sostenuta dalle singole Regioni per l’erogazione dei servizi in questione (cosiddetta “spesa storica”).

Il decreto legge 176/2022

A tal fine, nel decreto-legge n. 176 del 2022 si era disposto che le risorse stanziate dallo Stato sarebbero state assegnate alle Regioni, per una quota pari al 50 per cento, sulla base dei “costi standard” e, per la restante quota, sulla base dei “livelli adeguati dei servizi di trasporto pubblico locale e regionale” (LAS), che avrebbero dovuto essere definiti con decreto interministeriale, previa intesa con Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata.

La mancata adozione di tale decreto interministeriale “aveva reso urgente l’assunzione di un criterio correttivo del precedente sistema e, a tale scopo, la norma impugnata ha previsto: a) una applicazione immediata, ma solo parziale, del criterio del ‘costo standard’, computato però considerando il complesso dei servizi di trasporto pubblico locale erogati sul territorio di ciascuna Regione (costo standard totale); b) un regime transitorio volto a garantire, data la mancata adozione dei LAS, un’assegnazione di risorse non inferiore a quella risultante dalla ripartizione del fondo per l’anno 2020 (c.d. ‘clausola di garanzia’)”.

Le qlc

Le Regioni ricorrenti censurano le intervenute modifiche dei criteri di riparto in quanto le discriminerebbero nel finanziamento del servizio TPL, privilegiando quelle regioni che maggiormente sovvenzionano con risorse proprie i servizi di trasporto pubblico locale, con l’effetto di impedire alle prime, menomate nella loro autonomia finanziaria, l’erogazione di tutte le prestazioni da esse deliberate, in un ambito affidato alla competenza legislativa residuale regionale.

Sarebbero perciò violati, si legge, “gli artt. 117, 118 e 119, nonché, per i conseguenti gravi disagi per l’utenza e per l’impossibilità di offrire adeguata copertura alla spesa a suo tempo deliberata, gli artt. 97 e 81 della Costituzione”.

La decisione

La Corte costituzionale ha ritenuto non fondate tutte le censure. L’evoluzione della normativa – ancora non “a regime” in attesa della definizione dei LAS – e la successione dei criteri di riparto del Fondo rende non evidente la lesione prospettata dalle Regioni ricorrenti che, infatti, non hanno fornito documentazione di alcun genere comprovante l’impossibilità dello svolgimento delle funzioni per effetto della disposizione statale impugnata. Tuttavia, “quanto al finanziamento dei servizi di trasporto pubblico locale – la Corte ha auspicato che – si porti al più presto a conclusione il complesso iter di transizione ai costi e fabbisogni standard, prefigurato già dalla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale”.

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jobs act intervento consulta

Jobs Act: nuovo intervento della Consulta La Corte Costituzionale amplia la nuova tutela reintegratoria attenuata ritenendola applicabile anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo e a quello disciplinare

Jobs Act: tutela reintegratoria attenuata

Sul Jobs Act si registra un nuovo intervento della Consulta con due sentenze depositate in data odierna. “La tutela reintegratoria attenuta si applica anche al licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di insussistenza del fatto materiale ed al licenziamento disciplinare intimato per un fatto punito dalla contrattazione collettiva solo con una sanzione conservativa”.

La sentenza n. 128/2024

Così, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 128-2024 di oggi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage).

La sentenza n. 129/2024

Riguardo alla stessa disposizione, il giudice della leggi (con sentenza n. 129-2024) ha ritenuto non fondata la questione, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice. Ossia “deve ammettersi la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda che specifiche inadempienze del lavoratore, pur disciplinarmente rilevanti, siano passibili solo di sanzioni conservative”.

La qlc

Quanto alla prima pronuncia, la Sezione lavoro del Tribunale di Ravenna aveva censurato, sotto diversi profili, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 per il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo nella parte in cui esclude la tutela reintegratoria nell’ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto, a differenza di quanto previsto per il licenziamento disciplinare fondato su di un fatto contestato insussistente.

La Corte ha accolto le questioni sollevate in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 4 e 35 Cost. rilevando che, seppure la ragione d’impresa posta a fondamento del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non risulti sindacabile nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente”, sicché la radicale irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale prevista dalla norma censurata determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Discrezionalità del legislatore limitata

La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento non si estende, infatti, fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su un “fatto insussistente”, lo qualifichi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare.

Precisa, infine, la Corte che il vizio di illegittimità costituzionale, invece, non si riproduce qualora il fatto materiale, allegato come ragione d’impresa, sussiste sì, ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda. Ne consegue che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata deve tener fuori la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente da come la valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore è stata tenuta fuori dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente.

Quindi, la violazione dell’obbligo di repêchage attiverà la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015.

Mancato riconoscimento tutela reintegratoria

Quanto alla seconda sentenza, la Sezione lavoro del Tribunale di Catania aveva censurato il mancato riconoscimento ad opera della stessa norma della tutela reintegratoria quando, per l’inadempienza del lavoratore contestata dal datore di lavoro, che si riveli “sussistente”, sia la stessa contrattazione collettiva a prevedere una sanzione conservativa. La Corte, pur ritenendo complessivamente infondate le questioni sollevate in riferimento a plurimi parametri, ha fornito una interpretazione adeguatrice della disposizione censurata orientata alla conformità all’art. 39 Cost.

Premesso che la natura “disciplinare” del recesso datoriale comporta l’applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l’inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto, la Corte ha ribadito la valutazione di adeguatezza e sufficiente dissuasività dell’apparato complessivo di tutela nei confronti del licenziamento illegittimo contenuto nel d.lgs. n. 23 del 2015, come novellato dal d.l. n. 87 del 2018 ed emendato dalle sue precedenti pronunce, anche in riferimento alle ipotesi in cui il licenziamento disciplinare risulti “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore per le quali è prevista la tutela indennitaria. Quanto, però, alla prospettata violazione dell’art. 39, la Corte ha affermato che la disposizione censurata deve essere letta nel senso che il riferimento alla proporzionalità del licenziamento ha sì una portata ampia, tale da comprendere le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento come clausola generale ed elastica, ma non concerne anche le ipotesi in cui il fatto contestato sia in radice inidoneo, per espressa pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, le quali vanno invece equiparate a quelle dell’«insussistenza del fatto materiale».

La mancata previsione della reintegra quando il fatto contestato sia punito con una sanzione solo conservativa dalla contrattazione collettiva andrebbe ad incrinare il tradizionale ruolo di quest’ultima nella disciplina del rapporto. In conclusione, all’esito di queste due pronunce, vi è simmetria tra licenziamento disciplinare e licenziamento per ragione di impresa, tracciata dalla Corte sulla linea del “fatto materiale insussistente”.

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riscatto laurea pensione

Riscatto laurea: non può essere “neutralizzato” La Corte Costituzionale afferma che il riscatto degli anni di laurea non può essere neutralizzato per passare nel computo della pensione dal retributivo al misto

Riscatto laurea e computo pensione

No alla neutralizzazione del riscatto degli anni di laurea ai fini del computo della pensione. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 112-2024, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 13, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (c.d. Riforma Dini del sistema pensionistico) e dell’art. 1, comma 707, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015), sollevata dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro.

La questione di legittimità costituzionale

Il tribunale capitolino riteneva tali disposizioni contrastanti con gli artt. 3 e 38 della Costituzione, nella parte in cui “non è previsto il diritto alla neutralizzazione dei contributi versati in seguito al riscatto volontario degli anni di laurea, quando ciò sia necessario per uscire dal sistema retributivo di computo della pensione, applicabile all’interessato proprio in virtù del riscatto, e accedere al sistema misto, rivelatosi più conveniente al momento del pensionamento”.

Principio di neutralizzazione

Secondo la Corte, per attivare il principio di neutralizzazione non basta che tali contributi, normalmente versati in esordio dell’attività lavorativa, siano ininfluenti rispetto alla maturazione del diritto alla pensione. Tale principio può operare, infatti, soltanto all’interno del sistema retributivo al fine di escludere dalla base pensionabile i contributi che siano non solo aggiuntivi al perfezionamento del requisito minimo contributivo, ma anche correlati all’ultimo scorcio della vita lavorativa e corrispondenti a retribuzioni che, in quanto inferiori a quelle percepite in precedenza, possano incidere in senso riduttivo sulla pensione virtualmente già acquisita.

La decisione

Nel caso in esame, invece, la neutralizzazione non è stata invocata per «elidere gli effetti nocivi che la contribuzione da riscatto ha determinato nell’ambito del sistema retributivo», bensì per «“fuoriuscire” da quel sistema, rivelatosi (contrariamente alle aspettative) meno conveniente» e al quale l’interessato aveva avuto accesso esercitando, liberamente, la facoltà di riscattare un periodo non coperto da contribuzione obbligatoria.

Per la Corte, in sostanza, non è possibile “scegliere” il sistema di computo del trattamento pensionistico in base a una valutazione effettuata solo nel momento del pensionamento, in quanto ciò si porrebbe in contrasto con il principio di certezza del diritto che deve pur sempre presidiare il sistema previdenziale. Tanto più, precisa ancora la Corte, che la funzione del riscatto degli anni di laurea si esaurisce nell’incremento dell’anzianità contributiva.

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Responsabilità del revisore: l’intervento della Consulta Per la Consulta, non è incostituzionale far decorrere dal deposito della relazione bilancio la prescrizione del risarcimento del danno della società che ha conferito l'incarico

Responsabilità del revisore

“Nella disciplina delle azioni di responsabilità nei confronti dei revisori legali dei conti, non è manifestamente irragionevole far decorrere, dalla data di deposito della relazione sul bilancio, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno che può far valere la società che ha conferito l’incarico”. È quanto si legge nella sentenza n. 115-2024, depositata oggi dalla Corte Costituzionale che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità, sollevate dal Tribunale di Milano sull’articolo 15, comma 3, del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, sul presupposto che l’ambito applicativo della disposizione si intenda riferito alla sola azione risarcitoria della società.

Ampio margine di discrezionalità del legislatore

“Il legislatore ha un ampio margine di discrezionalità nel disciplinare la decorrenza della prescrizione – ha ricordato il giudice delle leggi – e, nel caso delle azioni risarcitorie, deve contemperare l’interesse del danneggiato a far valere il proprio diritto al risarcimento con le esigenze di certezza del diritto e di tutela dell’interesse del danneggiante a non doversi difendere a distanza di molto tempo da richieste di danni”.

Il caso dei revisori legali

Nel caso dei revisori legali, “il bilanciamento realizzato dalla norma censurata non – è – manifestamente irragionevole quando l’azione risarcitoria è fatta valere dalla stessa società che ha conferito l’incarico”. In siffatta ipotesi, da un lato, infatti, ha osservato la Consulta, “il revisore è esposto a una responsabilità solidale con gli amministratori”, dall’altro, “sin dal deposito di una relazione inesatta o scorretta, il suo inadempimento produce un danno alla società che ha conferito l’incarico, la quale può già far valere una pretesa risarcitoria”.

“Quel medesimo termine – invece – non può valere per soci e terzi, i quali, fintantoché l’affidamento ingenerato dalla relazione erronea o scorretta non abbia determinato un concreto sviamento della loro autonomia negoziale, non subiscono danni”. Ad essi, dunque, ha concluso la Corte, dovrà “applicarsi la regola generale dell’art. 2947 c.c., che fa decorrere la prescrizione dal fatto illecito produttivo di danni”.

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