giurista risponde

Reato di diffamazione e relativi elementi essenziali È offensiva l’espressione ‘pezzente’ proferita nel corso di un’udienza di un processo civile in presenza degli avvocati dell’offeso?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

Difettano gli elementi essenziali del reato di diffamazione quando non è ravvisabile indicatore alcuno circa l’idoneità del mero vocabolo, avulso da un quadro d’insieme minimamente esplicativo, a incidere sulla reputazione del destinatario, da intendersi come patrimonio di stima, fiducia e credito accumulato nella società e nell’ambiente in cui quotidianamente vive. – Cass., sez. V, 25 giugno 2024, n. 25026.

Premesso che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività dell’espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, e, in caso di esclusione dell’offensività predetta può pronunziare sentenza di assoluzione dell’imputato; si rammenta che il reato di diffamazione attiene alla tutela del bene giuridico della reputazione intesa in senso oggettivo come la considerazione personale di cui ognuno può pretendere di godere nella società civile.

Il principio di offensività, di rango costituzionale, costituisce, dunque, il criterio interpretativo-applicativo per il giudice nella verifica della riconducibilità di un determinato comportamento al paradigma di una norma incriminatrice al fine di circoscrivere la punibilità ai casi in cui esso presenti concreta efficacia o potenzialità lesiva (così come precisato dalla Corte costituzionale con sent. 211/2022 e 225/2008). L’applicazione di tale principio, in tema di diffamazione, richiede che la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento; elemento non sussistente nel caso di specie, ove la parola “pezzente” risulta pronunciata isolatamente, in modo improvviso e occasionale e, pertanto, non dà adito ad alcun un effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita della persona offesa e sul riconoscimento della sua dignità nella realtà socio-culturale circostante.

Contributo in tema di “Reato di diffamazione ed elementi essenziali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

ammonimento del questore

Ammonimento del Questore Ammonimento del Questore: misura preventiva applicata in presenza di atti idonei a realizzare i reati di stalking, revenge porn e violenza 

Ammonimento del Questore: cos’è

L’ammonimento è una misura preventiva che viene essere adottata dal Questore. La misura ha l’obiettivo di tutelare la vittima dalle conseguenze derivanti dalla commissione di certi reati.

L’ammonimento entra in gioco infatti quando un soggetto è vittima di reati specifici:

  • atti persecutori o stalking (art. 612 bis c.p.);
  • violenza domestica (una o più condotte gravi di violenza fisica, sessuale, economica e psicologica commesse in presenza di minori all’interno della famiglia, del nucleo famigliare o tra soggetti legati da vincoli affettivi);
  • diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn).

In cosa consiste l’ammonimento?

Dal punto di vista pratico l’ammonimento si traduce in un’intimazione che il Questore rivolge al presunto autore delle condotte illecite. Con l’ammonimento il soggetto  viene intimato a non tenere più condotte violente, minacciose, moleste e intrusive della vita altrui. Il soggetto inoltre viene invitato e indirizzato presso centri specializzati presenti sul territorio per aiutarlo a comprendere il disvalore sociale e penale del suo comportamento.

Disciplina

La disciplina di riferimento per l’istituto dell’ammonimento del Questore è la legge n. 38/2009, che ha contenuto il decreto legge n. 11/2009. Essa ha convertito in legge il decreto legge n. 11/2009 recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto ai reati di violenza sessuale e atti persecutori.

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009, dedicato all’ammonimento del Questore, stabilisce nello specifico che, fino a quando non è proposta querela per il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis del codice penale, la persona offesa (o chi ne ha interesse) può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza esponendo i fatti e chiedendo al Questore di ammonire l’autore della condotta.

La richiesta deve essere suffragata da prove che dimostrino la natura illecita della condotta del soggetto agente.

Il Questore, una volta assunte le necessarie informazioni dagli organi investigativi, sentite le persone informate sui fatti o dopo aver messo a confronto vittima e accusato, se ritiene che l’istanza sia fondata, ammonisce oralmente il soggetto responsabile invitandolo a tenere una condotta più rispettosa delle norme di legge e redigendo apposito verbale. Una copia del verbale viene quindi rilasciata alla vittima che ha richiesto l’ammonimento e una al soggetto ammonito. In questa sede il Questore può anche valutare se è il caso di procedere con provvedimenti in materia di armi e munizioni eventualmente detenuti dal soggetto ammonito.

Reato di stalking: conseguenze dell’ammonimento

L’articolo 8 del decreto n. 11/2009 ai commi 3 e 4 ricollega all’ammonimento del Questore due conseguenze di rilievo:

  • se un soggetto che è già stato ammonito commette il reato di atti persecutori contemplato dall’articolo 612 bis c.p la pena applicata nei suoi confronti è aumentata;
  • quando un soggetto è già stato ammonito dal Questore per il reato di atti persecutori di quell’articolo 612 bis c.p si procede d’ufficio.

Vantaggi dell’ammonimento del Questore

L’ammonimento del Questore presenta tutta una serie di vantaggi importanti per le vittime dei reati per i quali può essere richiesto.

  • Si tratta prima di tutto di una misura preventiva finalizzata ad ammonire il soggetto e a dissuaderlo dal reiterare certe condotte. Il Questore infatti quando ammonisce il soggetto lo informa anche su quali saranno le conseguenze, anche di natura penale a cui andrà incontro, se dovesse persistere nel tenere certi comportamenti.
  • In genere per ottenere l’ammonimento non è necessario attendere molto tempo. In questo modo si offre alla vittima una tutela rapida.
  • Chi si rivolge al Questore per ottenere l’ammonimento non deve sostenere alcuna spesa.
  • Per la presentazione dell’istanza non occorre l’assistenza di un legale.
  • La segnalazione può essere presentata presso uno dei tanti Uffici della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri.
  • La presentazione della segnalazione non avvia un procedimento penale, perché si tratta di una misura nata per agire con gradualità per scongiurare l’escalation di certe condotte.

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giurista risponde

Competenza delitto di lesioni personali dopo la riforma Cartabia Delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta: chi è competente?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

 

Se la competenza per materia per il delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta, dopo le modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, permanga in capo al tribunale ovvero sia stata attribuita dalla stessa norma al giudice di pace.

Appartiene al giudice di pace, dopo l’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la competenza per materia in ordine al delitto di lesione personale nei casi procedibili a querela, anche quando comporti una malattia di durata superiore a venti giorni e fino a quaranta giorni, fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento. – Cass., Sez. Un., 28 marzo 2024, n. 12759.

Nel caso di specie, la Corte d’appello territoriale confermava la sentenza con cui il Tribunale, sul presupposto della sua competenza, aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato per il delitto di cui all’art. 582 c.p., per aver cagionato lesioni personali alla persona offesa, giudicate guaribili in trenta giorni.

Investita del ricorso, la Quinta Sezione della Corte di cassazione ha rimesso gli atti alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto in ordine alla individuazione del giudice competente, relativamente al delitto di lesioni personali comportanti una malattia di durata superiore ai venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, quando il fatto è perseguibile a querela, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Secondo un primo orientamento, il giudice di pace è competente per il delitto di lesioni personali, anche nel caso di malattia di durata superiore a venti giorni e non eccedente i quaranta giorni, sempre che la perseguibilità sia a querela a norma dell’art. 582 c.p. attualmente in vigore.

A fondamento di questo indirizzo, una interpretazione estensiva, o “parzialmente analogica” dell’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 274/2000, coerente con la finalità deflattiva della Riforma e con la persistente vigenza del D.Lgs. 274/2000, istitutivo della competenza penale del giudice di pace.

Secondo un diverso orientamento, fondato sulla interpretazione letterale del combinato disposto del “nuovo” art. 582, comma 2, c.p. e dell’art. 4 D.Lgs. 274/2000, il giudice di pace non ha più alcuna competenza in materia di lesioni personali, poiché le ipotesi perseguibili a querela sono ora previste tutte nel primo comma dell’art. 582 c.p. e dall’art. 4, limite di ogni altro metodo ermeneutico, ivi compreso quello dell’interpretazione estensiva.

La Suprema Corte, dichiarato inammissibile il ricorso, ha ritenuto che nella interpretazione delle citate disposizioni occorra farsi guidare da una interpretazione letterale, limite insuperabile anche qualora si proceda a una interpretazione estensiva, ai sensi degli artt. 12 preleggi e 101, comma 2, Cost. Tuttavia, il rispetto della lettera della legge impone di esaminare la singola disposizione in modo sistematico, per individuare il preciso significato e l’ambito applicativo della stessa, ovvero considerando tutte le norme riferite alla disciplina dell’identica vicenda che si pongano tra loro in rapporti di reciproca interferenza, dal momento che le disposizioni normative non possono mai essere prese in considerazione isolatamente, dovendo sempre essere valutate come componenti di un “insieme” tendenzialmente unitario, in coordinamento con le altre riferite alla disciplina dell’identica vicenda. Per tale ragione, la Suprema Corte afferma che l’art. 4, comma 1, lett. a), D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, va letto in combinato disposto con l’art. 15, comma 1, L. 24 novembre 1999, secondo una interpretazione sistematica, che valorizza il dato testuale risultante dal combinato disposto delle due previsioni normative.

In questa prospettiva, è possibile ritenere che, tra i possibili significati attribuibili al dato testuale del combinato disposto delle due previsioni normative, rientra senz’altro anche quello secondo cui sono devoluti alla competenza del giudice di pace i delitti consumati o tentati di lesione personale, quando la procedibilità per gli stessi sia a querela e fatte salve le ipotesi espressamente escluse dall’ordinamento.

*Contributo in tema di “Delitto di lesioni personali e competenza”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

perdono giudiziale

Perdono giudiziale Il perdono giudiziale è un istituto di diritto penale che riguarda i minori la cui disciplina è contenuta nell’art. 169 c.p.

Perdono giudiziale: cos’è

Il perdono giudiziale è un istituto di diritto penale riservato ai minorenni. Grazie al perdono giudiziale il minore evita il rinvio a giudizio o la pronuncia di condanna se il processo è già stato avviato nei suoi confronti.

Ratio del perdono giudiziale

L’istituto attua in questo modo il contenuto della disposizione dell’articolo 31 della Costituzione. Essa dispone nello specifico che la Repubblica Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.” 

Grazie infatti ai benefici previsti da questo istituto il minore non subisce lo stigma della colpevolezza e le conseguenze negative che possono derivare dall’applicazione di una pena detentiva o pecuniaria. Il processo penale minorile del resto si fonda su obiettivi diversi rispetto a quello ordinario. Il minore, in misura ancora maggiore rispetto all’adulto, deve essere rieducato e reinserito in un contesto sociale positivo.

Perdono giudiziale: come funziona

Per comprendere il funzionamento base del perdono giudiziale è necessario analizzare l’art. 169 c.p, che lo disciplina.

Articolo 169 c.p.: perdono giudiziale per i minori di anni 18

Il comma 1 della norma dispone che: 1.Se, per il reato commesso dal minore degli anni diciotto, la legge stabilisce una pena restrittiva della libertà personale non superiore nel massimo a due anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore nel massimo a cinque euro, anche se congiunta a detta pena, il giudice può astenersi dal pronunciare il rinvio a giudizio, quando, avuto riguardo alle circostanze indicate nell’articolo 133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. 2. Qualora si proceda al giudizio, il giudice può, nella sentenza, per gli stessi motivi, astenersi dal pronunciare condanna.” 

La norma dispone in pratica che il giudice, nel disporre il perdono giudiziale, è tenuto a emettere un provvedimento irrevocabile con cui decide l’estinzione del reato, disponendo di non rinviare a giudizio il minore o astenendosi dal pronunciare la condanna, se il giudizio è stato intrapreso ed è giunto a sentenza.

Elementi di valutazione

Per la concessione del perdono giudiziale però occorre la sussistenza dei seguenti presupposti richiesti dalla norma, ossia:

  • che il reato sia stato commesso da un minore di età;
  • che per quel reato la legge stabilisca una pena restrittiva della liberà personale non inferiore alla durata di due anni o una pena pecuniaria non inferiore a 5 euro, anche congiunta alla precedente.

Un altro presupposto fondamentale che il giudice deve valutare per decidere di concedere o meno il perdono giudiziale sono le circostanze previste dall’articolo 133 c.p da cui desumere la gravità del reato. Tra queste rilevano soprattutto la condotta contemporanea e successiva al reato, i motivi che hanno spinto il minore a delinquere, la presenza di precedenti penali e giudiziari in generali, ma anche l’intensità del dolo e della colpa e la gravità del danno cagionato.Il giudice infatti può concedere il perdono giudiziale, se dalla valutazione di questi elementi presume che il minore non commetterà in futuro ulteriori reati.

Occorre però che il Giudice motivi la sua decisione, sia in caso di rigetto che di concessione della misura. Lo ha specificato nei seguenti termini la Cassazione nella sentenza n. 26025/2022 “perdono giudiziale e sospensione condizionale costituiscono istituti che comportano l’estinzione del reato… la finalità di recupero del minore, coessenziale alla stessa natura del procedimento minorile impone che ogni volta che, anche in corso di causa … possa prospettarsi la presenza dei presupposti applicativi del perdono giudiziale, sussiste in capo al giudice l’onere di esplicitare le ragioni sottese alla concessione o mancata concessione del beneficio.” 

Limiti applicativi

Nel concedere il perdono giudiziale il giudice si scontra inoltre con due limiti, previsti rispettivamente dai commi 3 e 4 dell’art. 169 c.p.

  1. Il primo limite è indicato dal comma 3 dell’ 169 c.p. L’istituto non può essere applicato nei casi previsti dal n. 1, primo capoverso dell’art. 164 c.p ossia se il minore è già stato condannato a pena detentiva per un delitto, anche se è intervenuta la riabilitazione o se il minore è un delinquente o contravventore abituale o professionale.
  2. Il secondo limite invece prevede che il perdono giudiziale non possa essere concesso per più di una volta, salvo eccezioni particolari. 

Effetti e conseguenze eventuali

Il perdono giudiziale determina l’estinzione del reato, ma il minore, fino a 21 anni di età, resta iscritto nel casellario giudiziale. L’intervenuta sentenza di perdono giudiziale non impedisce in ogni caso alla vittima del reato di agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno subito a causa della condotta del minore.

 

Leggi anche quali sono le novità in materia carceraria per minori: Decreto carceri: in vigore la legge di conversione

recidiva

Recidiva: il giudice deve motivare specificamente La Cassazione ricorda che in tema di recidiva è richiesta al giudice una specifica motivazione e in tal caso è escluso il sindacato di legittimità

Recidiva

In materia di recidiva è richiesta al giudice un specifica motivazione. Lo ha ricordato la seconda sezione penale nella sentenza n. 19125/2024 dichiarando inammissibile il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte di appello di Firenze, confermava la sentenza di primo grado che aveva ritenuto un uomo responsabile dei reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 5 comma 9 D.Lgs. n. 231/2007 (ora art. 493-ter cod. pen.) e 110- 482 cod. pen. aggravati da recidiva reiterata.

L’uomo mediante il proprio difensore adisce la Cassazione, lamentando violazione di legge penale in relazione al riconoscimento della recidiva, in quanto la Corte di appello si era limitata ad evidenziare l’esistenza di precedenti penali dell’imputato, specifici e vicini nel tempo, non spiegando in alcun modo per quali ragioni la condotta avrebbe dovuto essere ritenuta di un’offensività tale da dover ritenere la pericolosità del soggetto aumentata in raffronto con i suddetti precedenti penali.

Ricorso inammissibile

Per gli Ermellini il ricorso è inammissibile. Il giudice territoriale infatti ha fornito congrua ed esaustiva motivazione evidenziando che il numero e la specificità dei precedenti del ricorrente non apparivano “una ricaduta occasionale bensì un pervicace percorso criminale intrapreso dall’imputato nel lontano 1985”.

Trattasi, pertanto, di motivazione logica, sulla quale non è ammesso il sindacato di legittimità.

Per cui il ricorso è inammissibile e il ricorrente condannato anche al pagamento di 3mila euro a favore della Cassa delle ammende.

Allegati

giurista risponde

Millantato credito e traffico di influenze illecite Sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito e il reato di traffico di influenze illecite?

Quesito con risposta a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato

 

Non sussiste continuità normativa tra il reato di millantato credito di cui all’art. 346, comma 2, cod. pen. – abrogato dall’art. 1, comma 1, lett. s), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 – e il reato di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346bis c.p., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. t), della L. 3/2019; le condotte, già integranti gli estremi dell’abolito reato di cui all’art. 346, comma 2, c.p., potevano, e tuttora possono, configurare gli estremi del reato di truffa (in passato astrattamente concorrente con quello di millantato credito corruttivo), purché siano formalmente contestati e accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi della relativa diversa fattispecie incriminatrice. – Cass., Sez. Un., 15 maggio 2024, n. 19357.

Il caso da cui scaturisce il rinvio alle Sezioni Unite Penali è quello di un soggetto, detenuto in carcere, il quale convinceva un altro recluso a promettergli del denaro in cambio dell’intermediazione che il primo avrebbe esercitato su di un agente penitenziario, rimasto ignoto, per evitare che l’altro recluso fosse trasferito in altra struttura detentiva, nonostante tale trasferimento non fosse stato programmato dall’amministrazione penitenziaria. Nelle more del giudizio – nel quale inizialmente si procedeva per il delitto ex art. 319quater c.p. – interveniva la L. 3/2019 che introduceva il reato di cui all’art. 346bis c.p., per cui l’imputato veniva condannato dalla Corte d’Appello che riformulava la condanna di primo grado.

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è relativo alla possibilità di ravvisare continuità normativa tra l’abrogata fattispecie di millantato credito (art. 346 c.p.) e la nuova fattispecie di traffico di influenze illecite (art. 346bis c.p.), con particolare riguardo alla punibilità del “venditore di fumo” (ovvero del soggetto che chieda ad un soggetto denaro o altre utilità in cambio della sua intermediazione presso un pubblico ufficiale, quanto tuttavia tale influenza non esista, configurandosi la stessa quale mera occasione per ingannare il privato).

La soluzione positiva si fondava su due ordini di considerazioni. In primo luogo la volontà del legislatore del 2019 sarebbe stata quella di conformarsi agli obblighi di criminalizzazione imposti dalle fonti sovranazionali e, pertanto, l’introduzione dell’art. 346bis c.p. dovrebbe “ampliare” lo spettro delle condotte punibili, certamente non restringerlo. In secondo luogo si sostiene che le condotte che l’art. 346, comma 2, c.p. riconduceva al “pretesto” di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, coinciderebbero con le “relazioni (reali o) asserite” di cui all’art. 346bis c.p.

La soluzione negativa, invece, parte innanzitutto dalla considerazione che, innanzitutto, ci sarebbe diversità strutturale già nei beni tutelati tra il millantato credito di cui all’art. 346, comma 2 c.p. ed il nuovo 346bis c.p.. Infatti se nella prima norma assume una rilevanza centrale la tutela del patrimonio del compratore “circuito” dalla millanteria, la nuova disposizione è incentrata sull’anticipazione della tutela del buon andamento della p.a. che, nel caso del venditore di fumo, non risulterebbe affatto intaccata. A seguire la medesima giurisprudenza ha a più riprese osservato che non può farsi coincidere il “pretesto” del vecchio millantato credito con le “relazioni asserite” del traffico di influenze illecite. La prima espressione, infatti, designa un rapporto che l’intermediario sa inesistente e che viene utilizzato per raggirare il privato “compratore di fumo”; la seconda espressione delinea invece una serie di rapporti dell’intermediario i quali possano far aspirare il privato al favorevole esercizio del patrimonio pubblico, pure se tale risultato non si configuri come sicuro.

Le Sezioni Unite, investite della questione controversa in giurisprudenza, sposano la tesi della discontinuità tra le due fattispecie di reato, precisando quanto segue. Innanzitutto la differenza strutturale tra le due fattispecie emerge anche solo dalla considerazione che, mentre il millantato credito era reato monosoggettivo, il nuovo traffico di influenze illecite, ai sensi del comma 2, è reato necessariamente plurisoggettivo nel quale entrambe le parti vengono sanzionate se c’è la relazione con il pubblico ufficiale. Si riafferma inoltre che, per quanto concerne l’offensività delle condotte di cui all’art. 346bis c.p., ora il bene giuridico tutelato è certamente il solo buon andamento della pubblica amministrazione che, nel caso di un’influenza solo millantata, non sarebbe di certo offeso. Non possono essere dirimenti, in senso contrario, le pur valide obiezioni che valorizzano l’astratta volontà del legislatore di ampliare le ipotesi di reato punibili e non certo di restringerle: sul punto, infatti, per pacifico insegnamento giurisprudenziale si evidenzia che anche l’interpretazione sistematica non può comunque ignorare la formulazione ed il significato letterale delle norme di legge (cfr. Cass., Sez. Un., 19 maggio 1999, n. 11).

Per quanto concerne l’offesa al patrimonio del “compratore di fumo” – che la giurisprudenza prevalente vedeva offeso nel vecchio reato di millantato credito – la Corte si occupa anche della punibilità della condotta del “venditore di fumo” a titolo di truffa. La questione impone di valutare se tra il delitto di truffa e l’abrogata fattispecie di millantato credito (e, in particolare, delle condotte di cui al secondo comma) sussista un rapporto di specialità e, quindi, se possa ravvisarsi un fenomeno di abrogatio sine abolitione. Il rapporto di specialità ex art. 15 c.p., secondo le conclusioni sulle quali si è attestata la giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2017, n. 20664), va investigato alla luce della comparazione della struttura astratta delle fattispecie, non essendo valorizzabili, per un deficit di legalità, i criteri di assorbimento e consunzione.

Nel caso in esame le Sezioni Unite evidenziano come, confrontando la struttura delle due fattispecie, tra esse non possa rinvenirsi un rapporto di specialità unilaterale ma, piuttosto, di specialità bilaterale poiché ognuna presenta elementi specializzanti rispetto all’altra: il pretesto di dover comprare la funzione nel millantato credito, l’ingiusto profitto e l’induzione in errore nella truffa). Tale rapporto di interferenza esclude che tra i due reati possa individuarsi una continuità temporale con “riespansione” della norma generale e, pertanto, la condotta del venditore di fumo sarà punibile purché nel processo sia stato contestato anche quest’ultimo reato e ne siano stati accertati in fatto tutti gli elementi costitutivi.

(*Contributo in tema di “Millantato credito e traffico di influenze illecite”, a cura di Andrea Primavilla, Valentina Russo e Stefania Segato, estratto da Obiettivo Magistrato n. 76 / Luglio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

reato di diffamazione

Il reato di diffamazione Il reato di diffamazione: gli elementi costitutivi e la differenza tra diffamazione, ingiuria e calunnia. In particolare: la diffamazione a mezzo stampa

Quando si può considerare diffamazione?

La diffamazione è l’offesa alla reputazione altrui che si realizza comunicando con altre persone, in assenza della persona offesa.

Il reato di diffamazione è disciplinato dall’art. 595 del codice penale, il quale prevede precisi requisiti e circostanze che devono sussistere affinché la comunicazione offensiva possa comportare la colpevolezza del soggetto agente.

Quali sono i 3 elementi che costituiscono la diffamazione?

Innanzitutto, deve sussistere l’offesa alla persona altrui, attraverso l’utilizzo di parole che abbiano la potenzialità di lederne la reputazione, ossia la considerazione di cui questa gode presso le altre persone.

Inoltre, tali parole devono essere comunicate (non necessariamente a voce, come vedremo) ad almeno due (o più) persone.

Infine, perché si configuri il reato di cui all’art. 595 c.p., l’espressione diffamatoria deve essere comunicata in assenza della persona offesa.

Va evidenziato, inoltre, che, a norma dell’art. 597 c.p., il reato di diffamazione è punibile a querela della persona offesa.

Qual è la differenza tra calunnia e diffamazione?

La circostanza per cui la diffamazione si configura solo se la comunicazione offensiva avviene in assenza della persona offesa occorre a distinguere tale reato dall’ingiuria, che è invece l’offesa ad una persona presente e in grado di percepire direttamente l’espressione pronunciata (l’ingiuria, peraltro, una volta prevista come reato dall’art. 594 c.p., è oggi depenalizzata).

Oltre che dall’ingiuria, la diffamazione va tenuta distinta anche dal reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p., nel quale invece si incolpa un altro soggetto di un reato, sapendo che questi è in realtà innocente.

La diffamazione a mezzo stampa

Un particolare mezzo di comunicazione attraverso cui può essere realizzata la diffamazione è la stampa, o altro mezzo di pubblicità.

In tal caso, la pena è aumentata. In linea generale, infatti, il reato di diffamazione è punito con la reclusione fino ad un anno ed una multa fino a 1.032 euro, mentre la diffamazione a mezzo stampa può comportare la condanna alla reclusione fino a tre anni.

Va anche ricordato che, a norma dell’art. 57 c.p., nel caso di diffamazione a mezzo stampa (così come accade per gli altri reati commessi a mezzo della pubblicazione, come ad es. l’illecita diffusione di particolari notizie relative a un procedimento penale ex art. 685 c.p.), oltre all’autore della pubblicazione, sono puniti anche il direttore o il vicedirettore responsabile che non abbiano esercitato il controllo sul contenuto della pubblicazione stessa, finalizzato ad impedire la commissione del reato.

Un inasprimento della pena prevista dal primo comma dell’art. 595 c.p. è previsto anche quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato (art. 595 c.p., secondo comma) o quando essa sia recata ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario.

Diffamazione: la dimostrazione della verità del fatto

La disciplina codicistica del reato di diffamazione prevede che l’imputato non possa dimostrare, a sua discolpa, la verità del fatto attribuito alla persona offesa (art. 596 c.p.).

Se, però, si tratta di un fatto determinato, l’imputato e la persona offesa possono accordarsi per deferire la decisione ad un giurì d’onore, cioè ad un collegio di esperti iscritti in particolari elenchi tenuti dal Tribunale.

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violazione allontanamento casa familiare

Violazione allontanamento casa familiare e divieto di avvicinamento Le fattispecie di reato relative alla violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 387bis)

Nozione e interesse tutelato

Violazione allontanamento casa familiare e divieto di avvicinamento sono fattispecie che rientrano fra le novità disciplinari introdotte dalla L. 19-7-2019, n. 69 (cd. «Codice rosso»), e oggetto di correttivi ad opera della L. 24-11-2023, n. 168.

In particolare, ai sensi della citata previsione, risponde penalmente chiunque, essendovi legalmente sottoposto, violi gli obblighi o i divieti derivanti dal provvedimento che applica le misure cautelari di cui agli artt. 282bis e 282ter c.p.p. o dall’ordine di cui all’art. 384bis del medesimo codice.

Nell’individuazione dell’interesse tutelato, non può non tenersi conto della circostanza che le misure (l’inosservanza dei cui precetti viene penalmente sanzionata) assicurano una tutela immediata della vittima nei rapporti familiari, realizzando uno schermo di protezione attorno al «soggetto debole».

La genesi e la ratio della disposizione fanno propendere, quindi, per il carattere pluri-offensivo del reato che appare diretto a tutelare sia la corretta esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria a tutela dell’incolumità delle vittime di reato, sia l’incolumità fisica e psichica, in quanto tale, delle persone a salvaguardia delle quali sono state emanate le misure citate.

La disposizione attua, altresì, l’art. 53 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, cosiddetta Convenzione di Istanbul, sottoscritta dall’Italia il 27-9-2012 e ratificata con L. 27-6-2013, n. 77, nel punto in cui dispone che la violazione delle misure dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento e comunicazione con la vittima ad opera del destinatario deve essere sanzionata penalmente o comunque deve dare luogo a «sanzioni legali efficaci, proporzionate e dissuasive».

Elemento oggettivo

Trattasi di figura criminosa diretta semplicemente a far conseguire sanzioni penali alla violazione degli obblighi o dei divieti derivanti dal provvedimento che applica le seguenti misure cautelari:

Allontanamento dalla casa familiare (art. 282bis c.p.p.)

La norma (anch’essa, come le altre richiamate dalla fattispecie, fatta oggetto di correttivi dal legislatore del 2023) prevede, fra l’altro, che con il provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prescriva all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare, ovvero di non farvi rientro, e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. Il giudice, qualora sussistano esigenze di tutela dell’incolumità della persona offesa o dei suoi prossimi congiunti, può inoltre prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale ultimo caso il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni. Il giudice, su richiesta del pubblico ministero, può altresì ingiungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano prive di mezzi adeguati. Qualora si proceda per taluno dei gravi delitti puntualmente elencati dalla norma, la misura può essere disposta, fra l’altro, con la prescrizione di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, dalla casa familiare e da altri luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. Anche in tale caso, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni. Con lo stesso provvedimento che dispone l’allontanamento, il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo previste dalla norma. Qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi;

Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282ter c.p.p.)

Viene, fra l’altro, previsto che con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento, il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o dalla persona offesa, disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275bis c.p.p. (trattasi di mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, di cui il giudice abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria). Con lo stesso provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prevede l’applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione delle modalità di controllo previste dall’art. 275bis. Qualora l’organo delegato per l’esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l’applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi. Qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva ovvero di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o da tali persone, disponendo l’applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall’art. 275bis c.p.p.;

Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare (art. 384bis c.p.p.)

Prevede, fra l’altro, la norma che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria abbiano facoltà di disporre, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica, l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza dei delitti indicati per richiamo dalla previsione, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate, ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa. La norma dispone, altresì, che, fermo restando quanto disposto dalla disciplina del fermo, anche fuori dei casi di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei gravi delitti puntualmente elencati dalla norma, o di altro delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave e attuale pericolo la vita o l’integrità fisica della persona offesa e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice.

I correttivi della legge 168/2023

Su tale impianto disciplinare, come anticipato in precedenza, ha inciso la L. 24-11-2023, n. 168, recante «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica». I correttivi affiancano ad un incremento della risposta sanzionatoria edittale massima (peraltro di soli sei mesi), una estensione dei margini di applicabilità della previsione, attraverso l’introduzione di un inedito comma 2, per effetto del quale la medesima sanzione viene disposta a carico di chi elude l’ordine di protezione previsto dall’art. 342ter, comma 1, c.c., ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

È opportuno precisare che l’ordine di protezione previsto dall’art. 342ter, comma 1, c.c. riguarda gli abusi familiari, la cui disciplina è confluita nell’art. 473bis.70 c.p.c., alla cui lettera si rinvia.

Elemento soggettivo

Si ritiene sufficiente il dolo generico, consistente nella consapevole e volontaria violazione delle prescrizioni imposte, a prescindere dalle concrete finalità perseguite dal reo nel violarle.

Pena ed istituti processuali

Per effetto dei correttivi all’impianto sanzionatorio, dovuti alla L. 168/2023, la pena è, per tutte le configurazioni del delitto, la reclusione da sei mesi a tre anni e sei mesi (la parte in corsivo è stata inserita dal legislatore del 2023). L’arresto in flagranza è obbligatorio, mentre il fermo non è consentito. Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale monocratico.

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Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento La Cassazione conferma la misura degli arresti domiciliari al marito che non rispetta il divieto di avvicinamento anche se la moglie lo segue di propria volontà

Arresti domiciliari

Domiciliari per il marito che non rispetta il divieto di avvicinamento anche se la moglie lo segue di propria volontà perché sono ancora legati sentimentalmente. Così la prima sezione penale della Cassazione nella sentenza n. 25002/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il tribunale di Caltanissetta con funzione di riesame rigettava la richiesta dell’imputato avverso l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, in relazione al reato di cui all’art. 75, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 2011 perché, essendo sottoposto alla misura della Sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune per la durata di due anni, con l’ulteriore prescrizione del divieto di avvicinarsi a oltre i duecento metri alla moglie, in ogni luogo in questa si trovi, violava la misura, accompagnandosi alla predetta.

L’indagato ricorre in Cassazione contestando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, tenuto conto che la coniuge lo avrebbe avvicinato volontariamente, stante il perdurare del rapporto sentimentale tra i due, con il fine di aiutare perché affetto da patologia oncologica documentata.

La decisione

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile sotto plurimi aspetti.

Intanto premettono i giudici, “in sede di riesame, non risultano contestati i gravi indizi di colpevolezza ma solo l’inadeguatezza della misura cautelare applicata con l’ordinanza genetica (ove il Tribunale chiarisce che il riesame proposto non specificava i motivi e che, all’udienza camerale, il difensore si era limitato a sottolineare l’inadeguatezza della misura cautelare applicata in considerazione della condotta della moglie). Con il ricorso, invece, se ne contesta la sussistenza”.
Orbene, sottolinea la S.C., “secondo la giurisprudenza di legittimità cui il Collegio aderisce, non è ammissibile prospettare, in sede di ricorso per cassazione avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale con funzione di riesame, questioni non devolute in ordine ai gravi indizi di colpevolezza (Sez. 3, n. 41786 del 26/10/2021, Gabbianelli, Rv. 282460 – 02)”.
In ogni caso, proseguono da piazza Cavour, “la motivazione sulla sussistenza dei gravi indizi dell’ordinanza impugnata non è manifestamente illogica ma, anzi, esauriente e completa”. Il Tribunale, peraltro, esamina la deduzione circa il presunto carattere volontario della condotta della persona offesa, ne registra la presenza nell’occasione accertata nel palazzo di giustizia e in altra precedente occasione quando questa è stata trovata a bordo di un ciclomotore condotto da indagato. “L’ordinanza, con ragionamento non affetto da illogicità manifesta – concludono -, prende in considerazione lo stato di fatto, valuta le dinamiche interne alla coppia, descrivendole come non ancora sufficientemente delineate, alla stregua delle indagini svolte, quanto ai rapporti di forza tra le parti e, soprattutto, evidenzia che lo stesso indagato aveva ammesso di non aver mai rispettato la misura in atto, manifestando espresso e totale disinteresse rispetto all’osservanza degli obblighi impostigli”. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso.

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traffico influenze illecite

Traffico influenze illecite Traffico di influenze illecite: come cambia l’articolo 326 bis c.p. in virtù della Riforma Nordio in vigore dal 25 agosto 2024

Traffico influenze illecite: com’era e com’è ora

Il reato di traffico di influenze illecite, disciplinato dall’articolo 346 bis c.p., è stato modificato di recente dalla Legge Nordio, in vigore da domenica 25 agosto 2024.

Vediamo com’era formulato l’articolo 346 bis del codice penale e come è cambiato dopo l’entrata in vigore del testo di legge che ne ha rinnovato il contenuto.

Traffico influenze illecite: art. 346 bis c.p. fino al 24 agosto 2024

L’art. 346 bis c.p nella versione vigente fino al 24 agosto 2024 punisce chiunque, al di fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione per l’esercizio della funzione, per atto contrario ai doveri d’ufficio, in atti giudiziari e in quelli contemplati dall’articolo 322 bis c.p, sfruttando o vantando relazioni esistenti o affermate con un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti contemplati dall’articolo 322 bis c.p fa dare o promettere indebitamente a se stesso o ad altri denaro o altre utilità come corrispettivo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti di cui all’articolo 322 bis c.p.

Il reato si configura anche quando il denaro o altra utilità venga erogato per remunerare il pubblico ufficiale o gli altri soggetti indicati in relazione all’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri.

La pena

La pena prevista in questi casi è della reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi.

La stessa pena è prevista nei confronti di chi indebitamente dà o promette denaro o altre utilità.

Nel caso in cui il soggetto che indebitamente fa dare o promettere per sé o altri denaro o altre utilità rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio la pena è aumentata.

Sono previsti aumenti di pena anche nei seguenti casi:

  • se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie;
  • se i fatti sono commessi per remunerare il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio o uno dei soggetti indicati nell’articolo 322 bis c.p in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio oppure in relazione all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.

Le pene sono invece diminuite in presenza di fatti di particolare tenuità.

La ratio del reato di traffico di influenze illecite

La norma si pone l’obiettivo di tutelare la pubblica amministrazione dal traffico illecito diretto o indiretto delle pubbliche funzioni.

Il traffico di influenze illecite è un reato di pericolo perché anticipa fortemente la tutela. Esso si consuma infatti nel momento in cui si da il denaro o si accetta la promessa della remunerazione per corrompere poi il funzionario pubblico.

Traffico influenze illecite: le novità della legge Nordio

Il reato di traffico di influenze illecito è stato inserito nel codice penale dalla legge Severino n. 120/2012. La legge n. 3/2019, meglio nota come “spazza corrotti” ha modificato il testo dell’articolo 346 bis c.p. In entrambi i casi il testo presentava un contenuto fortemente repressivo.

La legge Nordio, nel modificare il testo dell’articolo 346 bis c.p ha invece limitato le fattispecie ai casi più gravi, tenuto conto delle osservazioni della dottrina e delle evoluzioni giurisprudenziali.

Art. 346 bis c.p: cosa cambia

La legge conserva l’ipotesi della mediazione ed elimina quella della millanteria. In pratica affinché si configuri il reato è necessario l’utilizzo effettivo delle relazioni tra il mediatore e il pubblico ufficiale, le stesse non dovranno quindi essere solo vantate. Le stesse dovranno essere reali, non solo affermate.

L’utilità alternativa al denaro che il faccendiere promette deve avere natura economica. Sono esclusi altri tipi di vantaggi.

L’atto di farsi dare o promettere denaro o altro può avere due finalità:

  • remunerare il PU per le sue funzioni;
  • realizzare un’altra mediazione illecita.

Elevato infine a un anno e sei mesi il minimo edittale della pena.

Il testo dell’articolo 346 bis c.p. dal 25 agosto 2024

Chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319 e 319-ter e nei reati di corruzione di cui all’articolo 322-bis, utilizzando intenzionalmente allo scopo relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a se’ o ad altri, denaro o altra utilità economica, per remunerare un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita, e’ punito con la pena della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni e sei mesi. 

Ai fini di cui al primo comma, per altra mediazione illecita si intende la mediazione per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito. 

La stessa pena si applica a chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità economica.

La pena e’ aumentata se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a se’ o ad altri, denaro o altra utilità economica riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio o una delle qualifiche di cui all’articolo 322-bis. 

La pena e’ altresì aumentata se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio”. 

 

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