continuazione tra reati

Continuazione tra reati: la Cassazione chiarisce il concetto di disegno criminoso La Cassazione ha stabilito che la continuazione tra reati richiede un programma criminoso unitario previamente ideato, e non si identifica con uno stile di vita incline al reato

Continuazione tra reati

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29855/2025, è intervenuta sul tema della continuazione tra reati e, in particolare, sull’interpretazione del requisito dell’identità del disegno criminoso previsto dall’articolo 81, comma 2, del Codice penale.

Il Supremo Collegio ha precisato che non è sufficiente la mera reiterazione di condotte illecite per riconoscere la continuazione, ma occorre la prova di un programma criminoso unitario, previamente concepito e voluto dall’autore.

I fatti

Il procedimento riguardava un imputato condannato per una serie di reati commessi in un arco temporale relativamente breve. La difesa aveva invocato l’applicazione del vincolo della continuazione, sostenendo che le condotte fossero espressione di un medesimo disegno criminoso.

I giudici di merito avevano negato la sussistenza della continuazione, rilevando che i reati erano stati commessi in circostanze eterogenee e non riconducibili a un piano unitario. La questione è stata quindi sottoposta al vaglio della Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha ribadito che:

  • l’identità del disegno criminoso implica un programma di condotte illecite previamente ideato e voluto, volto alla realizzazione di più reati;

  • non è sufficiente dimostrare che l’autore abbia una personalità o uno stile di vita incline a delinquere;

  • la continuazione non può essere riconosciuta quando le singole condotte siano frutto di decisioni autonome e indipendenti, assunte di volta in volta senza un progetto unitario.

In tal senso, la Cassazione ha confermato l’orientamento restrittivo volto a circoscrivere l’applicazione dell’istituto.

Il quadro normativo

L’articolo 81, comma 2, cp disciplina la continuazione, stabilendo che chi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso commette più violazioni della legge penale soggiace alla pena prevista per la violazione più grave, aumentata.

La ratio dell’istituto è di natura sia sanzionatoria (attenuare il cumulo delle pene per più reati) sia ricostruttiva (valutare l’unitarietà del disegno criminoso come elemento soggettivo che lega le diverse condotte). Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria richiede una rigorosa verifica dell’esistenza del programma criminoso unitario.

Allegati

giurista risponde

Dichiarazioni false del testimone e causa di non punibilità Si applica la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. al testimone che rende dichiarazioni false per sottrarsi al pericolo di essere incriminato per il reato di calunnia precedentemente commesso?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

La scriminante di cui all’art. 384 c.p. è applicabile anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore, suoi o di un suo congiunto, sia stata volontariamente prodotta dal soggetto autore del reato di falsa testimonianza, in virtù del principio immanente al sistema “nemo tenetur se detergere” (causa di non punibilità).

Pertanto, non è punibile, ai sensi dell’art. 384 c.p., il testimone che, per evitare una possibile incriminazione per calunnia, confermi in giudizio le dichiarazioni accusatorie precedentemente rese, anche se false. – Cass. pen., sez. VI, 15 aprile 2025, n. 14843.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la possibilità di applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, c.p., al testimone che, nel corso del processo, confermi le precedenti dichiarazioni accusatorie al fine di sottrarsi al pericolo di incriminazione per il reato di calunnia già commesso.

Per una migliore comprensione della questione, appare opportuno premettere la ricostruzione dei fatti.

In sintesi, un soggetto aveva sporto denuncia nei confronti di due persone per violazione di domicilio e interferenze nella vita privata, indicando il ricorrente quale testimone. Quest’ultimo, nel corso delle sommarie informazioni testimoniali, aveva confermato le accuse. A seguito di tali dichiarazioni, i due denunciati avevano querelato il testimone per calunnia.

Durante il processo penale a carico dei due soggetti, il ricorrente – pur avvisato della facoltà di non rispondere in quanto indagato per calunnia – confermava la medesima versione dei fatti. Il procedimento si concludeva con l’assoluzione degli imputati e la trasmissione degli atti al PM per procedere nei confronti del ricorrente per falsa testimonianza.

Nel processo instaurato a suo carico, il giudice di primo grado applicava la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 2, c.p., rilevando che, essendo stato avvisato della facoltà di non rispondere, il teste non era tenuto a deporre su fatti concernenti la propria responsabilità penale.

Di contrario avviso la Corte d’Appello, che escludeva l’applicabilità dell’esimente, osservando che il ricorrente – pur libero di non rispondere – avendo scelto di testimoniare, era vincolato all’obbligo di dire la verità.

Avverso tale decisione, l’imputato ricorreva in Cassazione, eccependo la violazione di legge per errata qualificazione giuridica della sua posizione (non di testimone assistito) e per l’ingiustificata esclusione della scriminante. Egli sosteneva di essersi limitato a reiterare le dichiarazioni precedenti per evitare la condanna per calunnia, richiamando il principio “nemo tenetur se detegere”.

La Suprema Corte, nella decisione in commento, ha accolto il ricorso, annullando senza rinvio la sentenza d’appello.

In via preliminare, i giudici di legittimità hanno chiarito che l’imputato non era un testimone assistito nel processo a carico degli autori del reato ai danni del denunciante, ma un testimone ordinario, vertendo la sua chiamata a testimoniare su un fatto storico diverso da quello del reato per cui si procedeva nei suoi confronti.

La qualifica di testimone assistito, con conseguente avviso della facoltà di non rispondere, era stata erroneamente attribuita dal Tribunale, inficiando tutto l’impianto giuridico della valutazione della sua deposizione.

In tale veste di testimone ordinario, l’imputato era tenuto per legge a deporre e a dire la verità rispetto ai fatti che sono stati oggetto della denuncia di violazione di domicilio e di illecita interferenza della vita privata. Pertanto, non poteva trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dall’articolo 384, comma 2 c.p. poichè questa si riferisce esclusivamente ai casi in cui il dichiarante non ha l’obbligo di rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rendere testimonianza.

Invero, la Corte ha specificato che il comma 1 della causa di non punibilità in esame si riferisce ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi e che sarebbe altrimenti costretto ad autoaccusarsi. Mentre il comma 2 si riferisce ai casi del testimone prossimo congiunto dell’imputato o, più in generale, di coloro che non avrebbero dovuto essere assunti come testimoni o che, avendo la facoltà di non rispondere, non siano stati avvertiti di detta facoltà prima di rispondere.

Tuttavia, la Corte ha ritenuto che, pur esclusa l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 c.p., il comportamento dell’imputato rientrava nell’ambito della causa di non punibilità prevista dal comma 1 dello stesso articolo, poiché la sua condotta processuale era finalizzata a sottrarsi alla responsabilità penale per una precedente calunnia.

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno valorizzato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 384, comma 1, c.p. è applicabile, in virtù del principio “nemo tenetur se detegere”, anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore sia stata autoindotta.

In tale ottica, la falsa testimonianza resa dal ricorrente è stata dunque ritenuta scriminata, in quanto funzionale a evitare una condanna per calunnia.

 

(*Contributo in tema di “Dichiarazioni false del testimone e causa di non punibilità”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

estorsione

Minacce di maleficio? È estorsione, non truffa La Cassazione chiarisce che chi minaccia un maleficio commette estorsione se il male prospettato dipende dalla sua volontà

Estorsione e truffa aggravata: come si distinguono

Con la sentenza n. 23947 del 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio chiaro: la minaccia di un maleficio, anche se formulata da un sedicente mago, integra il reato di estorsione e non quello di truffa aggravata. Il discrimine sta nel rapporto di causalità tra la volontà dell’agente e il male paventato.

Secondo la Cassazione, l’estorsione si perfeziona quando l’agente prospetta un male che può determinare o far cessare a suo piacimento, inducendo la vittima a fare o non fare qualcosa.
Diversamente, la truffa aggravata (art. 640 n. 2 c.p.) si configura quando il pericolo rappresentato non dipende dall’agente, ma è un rischio reale o immaginario che la vittima può evitare soltanto attraverso l’azione suggerita dal truffatore.

Il caso del sedicente mago

Nel giudizio esaminato dalla Suprema Corte, l’imputato aveva minacciato di far ricorrere un mago per infliggere un maleficio alla persona offesa.
La difesa sosteneva che si trattasse di una truffa aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario, e che quindi la condotta non potesse essere qualificata come estorsione.

La Cassazione ha rigettato questa impostazione. Infatti, il presunto maleficio non era una circostanza estranea alla volontà dell’imputato, ma un’azione che lo stesso poteva decidere di fare o meno. Di conseguenza, la minaccia costituiva una forma di coercizione.

La differenza decisiva: la disponibilità del male prospettato

Il Collegio ha sottolineato che il punto chiave sta nella disponibilità del male minacciato.
Quando l’evento dannoso dipende, anche indirettamente, dalla volontà dell’agente, si integra il reato di estorsione. In altre parole, chi prospetta un male che può effettivamente provocare esercita un potere coercitivo sulla vittima.

Viceversa, se il pericolo prospettato non è riconducibile all’imputato, ma viene utilizzato come strumento di inganno per indurre un comportamento, la condotta si configura come truffa aggravata.

Il principio di diritto affermato

La Cassazione ha ribadito che: “La minaccia di un maleficio, anche mediato da terze persone, integra il reato di estorsione quando il male prospettato è suscettibile di essere attuato dall’agente direttamente o indirettamente, in base alla propria volontà.”

Pertanto, il timore ingenerato nella parte offesa discendeva dal potere del ricorrente di decidere se avvalersi o meno del presunto mago.

antiriciclaggio

Antiriciclaggio Terzo settore Antiriciclaggio Terzo settore: obblighi estesi anche agli enti no profit dal Dl Economia n. 95/2025 convertito dalla legge 118/2025

Antiriciclaggio cos’è

Prima di entrare nell’argomento dell’antiriciclaggio Terzo settore ricordiamo che l’antiriciclaggio in generale può essere definito come l’insieme delle attività e delle procedure che le istituzioni finanziarie e altri soggetti regolamentati attuano per prevenire e contrastare il riciclaggio di denaro sporco. Il riciclaggio mira infatti a nascondere l’origine illecita dei fondi, l’antiriciclaggio agisce in senso opposto. Il suo scopo principale infatti  consiste nel rendere l’operato dei criminali non redditizio e rischioso, rendendo impossibile la trasformazione del “denaro sporco” in “denaro pulito” nel sistema economico. L’antiriciclaggio è quindi il sistema di protezione del mondo finanziario, progettato per agire come una barriera contro il denaro proveniente da attività criminali, garantendo l’integrità e la legalità dell’economia globale.

Dl Economia: antiriciclaggio Terzo settore

Il Decreto Legge n. 95/2025, meglio noto come “Decreto Economia”, così come convertito dalla legge n. 118/2025 segna al riguardo un cambiamento epocale per gli Enti del Terzo settore.

Gli ETS infatti vengono formalmente inclusi tra i soggetti vigilati nella lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Questa novità, in linea con le direttive europee e le raccomandazioni internazionali del Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale, risponde all’esigenza di evitare che il no profit venga usato come canale per operazioni illecite. Il decreto riconosce un ruolo centrale al Comitato di Sicurezza Finanziaria (CSF). Esso diventa infatti il punto di contatto per le richieste internazionali e per il coordinamento delle iniziative di monitoraggio.

Obblighi operativi e documentali: più trasparenza e solidità

Anche gli ETS sono quindi tenuti a rispettare una serie di obblighi operativi e documentali che devono essere proporzionati alla dimensione dell’ente e che comportano responsabilità dirette per gli amministratori, con possibili sanzioni amministrative e penali in caso di mancata conformità.

L’adeguamento a queste nuove regole è sicuramente una sfida, ma anche un’opportunità per gli ETS. La maggiore trasparenza può rafforzare la loro credibilità, facilitare l’accesso a fondi pubblici e privati e proteggerli da infiltrazioni. A tale fine, gli enti possono adottare modelli organizzativi interni (es: manuali antiriciclaggio e sistemi di gestione del rischio) e affidarsi a consulenti specializzati. Investire nella conformità normativa significa infatti evitare sanzioni e garantire la solidità futura dell’organizzazione.

 

Leggi anche: Antiriciclaggio: al via il “grande fratello” europeo

giurista risponde

Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale È legittima la comminazione obbligatoria della pena accessoria della sospensione della responsabilità genitoriale a seguito di condanna per il delitto di maltrattamenti commesso in presenza ovvero a danno di minori con abuso della responsabilità genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi

 

Viene dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34, comma 2 c.p. nella parte in cui prevede che la condanna per il delitto ex art. 572, comma 2, c.p., commesso, in presenza o a danno di minori, con abuso della responsabilità genitoriale, comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporla. – Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55 (sospensione della responsabilità genitoriale).

Il Tribunale di Siena sollevava questione di legittimità del reato succitato in quanto chiamato a giudicare sulla responsabilità penale di due genitori per il reato di maltrattamenti in famiglia «perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ponevano in essere abitualmente, con finalità educative, condotte violente ed aggressive nei confronti dei figli minori conviventi». Una volta riconosciuta quest’ultima, lo stesso riteneva ultronea nell’an e nel quantum l’applicazione della pena accessoria della sospensione dalla responsabilità genitoriale. La motivazione risiedeva nel lungo lasso temporale intercorso tra i fatti e il procedimento, nel corso del quale vi era stata una ricomposizione del nucleo familiare. In particolare, il giudice remittente contestava tanto l’obbligatorietà della sanzione conseguentemente alla pena per maltrattamenti quanto il suo lasso temporale (il doppio rispetto alla pena per maltrattamenti).

L’excursus del giudice di merito partiva da un richiamo alla precedente sentenza della Consulta 222/2018; essa descriveva la discrezionalità del giudice nel determinare la pena in concreto, in quanto naturale prosecuzione dei principi costituzionali. Applicando tali principi, il giudice a quo evidenziava come in questo caso le risposte sanzionatorie rischino di rivelarsi manifestatamente sproporzionate rispetto a casi meno gravi [1] e, di conseguenza, incompatibili con il principio di individualizzazione della pena ex artt. 3 e 27 Cost. Al contempo, viene richiamata l’ulteriore sent. 102/2020 con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della pena accessoria obbligatoria della sospensione con riferimento al reato di sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574bis, comma 3 c.p.).

I Giudici della Consulta illustravano preliminarmente l’inammissibilità del primo motivo di doglianza, il quale era stato parametrato alla Convenzione dei Diritti del fanciullo. Quest’ultima veniva, infatti, evocata come riferimento immediato e non come norma interposta ai sensi dell’art. 117 Cost.

L’iter argomentativo proseguiva suddividendo la valutazione del quesito in due filoni: da una parte, la valutazione dell’automatica applicazione della pena accessoria della sospensione (con riferimento agli artt. 2, 3 e 30 Cost.) e, dall’altra, la valutazione sul quantum.

Tre le sentenze della Corte costituzionale che si annoverano sul tema per motivare il primo quesito. Punto di partenza è costituito dalla sent. 31/2012. Con tale pronuncia la Corte si è espressa sul reato di alterazione di stato, in base al combinato disposto degli artt. 569 e 567, comma 2 c.p. In particolare, si evidenziava come ad essere coinvolto fosse l’interesse del figlio minorea vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione” (Corte cost. 31/2012). Il concetto è stato poi rimarcato dalla successiva sent. 7/2013, dichiarante l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p. e concluso con la sent. 102/2020 sull’illegittimità del delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero.

In particolare, l’interesse del minore ex artt. 30 Cost. e 147 c.c. è inevitabilmente coinvolto dalla decisione del Giudice della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Lo stesso si manifesta nell’obbligo dei genitori di assicurare ai figli un completo percorso educativo che garantisca loro benessere, salute e crescita fisica e spirituali, sulla base delle condizioni socioeconomiche dei genitori. Solo il venir meno di tali obblighi, pertanto, giustifica la decadenza del genitore dal suo ruolo e sempre e unicamente per salvaguardare le esigenze educative e affettive del minore. In virtù del complesso equilibrio di diritti e doveri così delineato, “è irragionevole precludere «al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l’interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell’episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell’interesse»” (Corte cost. 22 aprile 2025, n. 55). La commissione del reato da parte del genitore, infatti, può costituire un indice delle mancanze provocate e non una irragionevole presunzione assoluta di inidoneità al ruolo. Diversamente, anche il minore si ritroverebbe ad essere direttamente colpito dalla sanzione e dalla conseguente perdita di diritti, poteri e obblighi che il genitore possiede nei suoi riguardi. Inoltre, tale circostanza risulta irragionevole anche alla luce del momento di comminazione, ossia con il passaggio in giudicato della sentenza che spesso viene in essere molto dopo lo svolgimento dei fatti, con il rischio di interrompere percorsi di riparazione del rapporto affettivo, così come avvenuto nel caso di specie. A conclusione, la Corte indicava come assorbite le questioni ex artt. 27 e 29 Cost. e invitava il legislatore a meglio delineare la competenza in materia di decadenza dalla responsabilità genitoriale tra il giudice per i minorenni o ordinario.

A conclusione, la Corte dichiarava l’inammissibilità della questione inerente al quantum della pena per contraddittorietà della motivazione a quo.

[1] La «rigidità applicativa» che esse richiedono, infatti, determinerebbe risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso «rispetto ai fatti commessi con abuso di responsabilità genitoriale meno gravi», non consentirebbe di tenere in considerazione l’interesse del minore alla preservazione del nucleo familiare e si rivelerebbe distonica rispetto al principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, con violazione degli artt. 3 e 27 Cost.

 

(*Contributo in tema di “Maltrattamenti in presenza o a danno di minori e sospensione della responsabilità genitoriale”, a cura di Daniela Cazzetta e Alessandra Fantauzzi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 86 / Giugno 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

esposto

Esposto Esposto: cos'è, normativa, contenuto e presentazione, l'esposto anonimo, differenze con denuncia e querela e fac simile

Cos’è l’esposto?

L’esposto è una comunicazione formale che un cittadino o un soggetto presenta alle forze di polizia, alla pubblica amministrazione o ad altre autorità competenti per segnalare fatti che potrebbero configurare reati o violazioni della legge. A differenza della denuncia, non ha lo scopo di avviare un’azione penale, ma di informare le autorità competenti circa il possibile verificarsi di un illecito, lasciando alla polizia o al pubblico ministero il compito di valutare e decidere se procedere.

Il termine “esposto” si distingue da “denuncia” e “querela” per la finalità informativa e non accusatoria. Non implica necessariamente una richiesta di punizione o risarcimento da parte di chi lo presenta, ma solo l’informazione su un fatto che si ritiene meriti un approfondimento.

Normativa 

L’esposto non ha una disciplina autonoma nel Codice Penale italiano, ma è regolato dalle leggi generali che disciplinano il diritto alla segnalazione delle condotte illecite. La sua presentazione e gestione sono regolamentate da leggi sulla pubblica sicurezza e sull’amministrazione della giustizia.  L’articolo 1 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (Regio Decreto n. 773/1931) prevede infatti che l’autorità di pubblica sicurezza, mediante i suoi ufficiali, interviene, a richiesta dei cittadini, per risolvere bonariamente gli eventuali dissidi tra privati.

Come e a chi si presenta un esposto

Questa comunicazione può essere presentata a qualsiasi autorità competente che abbia la possibilità di intervenire su quanto segnalato. In particolare, le autorità a cui si può presentare un esposto includono:

  • Forze di polizia (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza) per reati o comportamenti che potrebbero violare la legge.
  • Pubblica amministrazione per segnalare disfunzioni, abusi o irregolarità nell’ambito di procedimenti amministrativi o attività pubbliche.
  • Autorità giudiziaria quando si ritiene che sia necessario un intervento da parte della magistratura.

La comunicazione può essere effettuata in diversi modi:

  • In forma scritta: attraverso una lettera indirizzata alla polizia o all’autorità competente.
  • Di persona: rivolgendosi direttamente agli uffici competenti (ad esempio, una stazione di polizia) dove verrà redatto l’esposto in presenza.
  • Online: in alcune regioni e comuni, è possibile inviare l’esposto tramite portali online istituzionali.

Contenuto 

L’esposto deve seguire una struttura chiara e precisa, che consenta alle autorità competenti di comprendere rapidamente la segnalazione e agire di conseguenza. Di seguito sono riportati gli elementi principali che un esposto deve contenere:

  1. Intestazione: indicazione dell’autorità destinataria (ad esempio, “Alla Polizia di Stato – Commissariato di [nome città]”).
  2. Dati del denunciante: nome, cognome, indirizzo e, se possibile, un recapito telefonico del soggetto che presenta l’esposto.
  3. Descrizione del fatto: una narrazione chiara e concisa dei fatti, indicando in modo preciso il comportamento illecito o sospetto.
  4. Eventuali prove o indizi: se disponibili, devono essere allegati documenti o prove che possano supportare la segnalazione (fotografie, testimonianze, rapporti di perizia, ecc.).
  5. Data e firma: data in cui l’esposto viene redatto e firma del denunciante.

L’esposto anonimo

Un esposto può essere anche anonimo, cioè presentato senza fornire il proprio nome. Questo perchè può risultare meno efficace, poiché le autorità potrebbero avere difficoltà ad approfondire la segnalazione senza conoscere chi l’ha presentata. Se poi l’esposto riguarda un fatto grave, la mancanza di dati identificativi potrebbe ridurre l’efficacia delle attività. La legge tuttavia non impedisce la presentazione di esposti anonimi e in alcuni casi, l’esposto anonimo può anche costituire una forma di protezione per chi teme ritorsioni.

Sul tema si segnala la sentenza del Tar Lazio n. 10268/2018 in cui sottolinea l’importanza istruttoria dell’esposto, anche se presentato in forma anonima. Il Tar ha precisato infatti che una segnalazione fatta da qualcuno che non si è identificato (un “informatore segreto”) può far partire un’indagine. Se la segnalazione descrive i fatti in modo preciso e dettagliato e sembra credibile, le autorità devono verificare di persona quello che è stato detto. L’esposto anonimo può quindi spingere le autorità a fare dei controlli per capire se quello che è stato segnalato è vero.

Differenze tra esposto, denuncia e querela

È importante chiarire le differenze tra esposto, denuncia e querela, poiché, sebbene possano sembrare simili, hanno finalità e implicazioni giuridiche differenti.

  • Esposto: è una segnalazione di un illecito o di un comportamento sospetto, ma senza un intento accusatorio o di perseguire il colpevole. L’esposto ha una funzione puramente informativa.
  • Denuncia: la denuncia è un atto con il quale il cittadino informa le autorità competenti di un reato che ha subito o che ha visto commettere, e che richiede un’azione da parte dell’autorità giudiziaria. La denuncia può essere fatta anche da chi non è direttamente coinvolto nel reato.
  • Querela: la querela è una denuncia formale che viene fatta da una persona che ha subito un reato e che vuole che l’autore venga perseguito. La querela è necessaria per procedere per reati che non sono perseguibili d’ufficio, come ad esempio i reati di lesioni personali, diffamazione, etc.

Differenze chiave

Caratteristica

Esposto

Denuncia

Querela

Scopo

Segnalare un fatto illecito

Iniziare un’indagine su un reato

Richiedere l’azione penale per un reato

Accusa diretta

No

Risultato

Segnalazione all’autorità competente

Avvio di un procedimento penale

Azione legale contro il colpevole

Autore

Chiunque

Chiunque, anche non parte lesa

Solo parte lesa

Fac-simile  

Ecco un esempio di come dovrebbe essere strutturato un esposto:

Alla Polizia di Stato
[Indirizzo del Commissariato]

Oggetto: Esposto per segnalazione di comportamento sospetto.

Io sottoscritto/a [nome e cognome], nato/a a [città], il [data di nascita], residente a [indirizzo], telefono [numero],
espongo quanto segue:

Il giorno [data], ho assistito a un comportamento sospetto da parte di una persona che si trovava in [descrizione del luogo]. La persona in questione [descrizione del comportamento], il che mi ha fatto sospettare che potesse trattarsi di un reato, in particolare [tipo di reato sospettato]. Al momento del fatto, ho notato [eventuali dettagli aggiuntivi].

Allego [eventuali prove o testimonianze].

Chiedo che le autorità competenti possano verificare i fatti segnalati.

Data, [firma del denunciante]

comportamenti vietati in spiaggia

Comportamenti vietati in spiaggia: quali sono e cosa comportano Comportamenti vietati in spiaggia: quando le condotte maleducate configurano veri e propri illeciti penali e amministrativi

Comportamenti vietati in spiaggia

Quando si va in vacanza ci si rilassa e spesso ci si dimentica che  ci sono dei comportamenti vietati in spiaggia. Anche in questi posti ci sono delle regole precise da rispettare per non rischiare di incorrere in reati o illeciti amministrativi, con conseguenti multe e pene di vario tipo. Facciamo qualche esempio per chiarire.

Condotte che integrano illeciti penali

Quando si decide si andare in spiaggia è perché si vuole stare tranquilli, prendere il sole, fare due chiacchiere e magari schiacciare un pisolino. Programma impossibile da realizzare se la musica di qualche vicino di ombrellone è troppo alta o se i ragazzi che giocano in spiaggia a racchettoni o a palla sono decisamente troppo rumorosi.

E’ necessario ricordare che l’articolo 659 del codice penale punisce chi, con rumori forti o schiamazzi, o usando in modo eccessivo strumenti musicali, clacson, o non impedendo che i suoi animali facciano baccano, disturba le persone che stanno riposando. La pena prevista è l’arresto fino a tre mesi o una multa fino a 309 euro.

L’accensione di un barbecue o di falò sulla spiaggia per trascorrere serate romantiche può configurare invece il reato di incendio colposo e comportare l’obbligo di dover risarcire i danni cagionati, così come di pagare sanzioni amministrative, se vietato da disposizioni comunali.

Da segnalare anche che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11158/2018 ha sancito che “L’estrazione di sabbia dal lido del mare integra il reato di furto, risultando in proposito irrilevante il volume di sabbia asportato, a meno che non si tratti di quantitativi irrilevanti, come quelli per esempio utilizzati per l’esplicazione di attività ricreative.”

Comportamenti vietati in spiaggia: quando sono illeciti amministrativi?

Chi ama l’abbronzatura integrale può decidere di prendere il sole in topless. In questo caso però è bene sapere che c’è il rischio  di incorrere nell’illecito amministrativo di atti contrari alla pubblica decenza, previsto dall’articolo 726 del codice penale, depenalizzato  dal decreto legislativo n. 8/2016 e punito con una sanzione amministrativa pecuniaria minima di 51 euro fino a un massimo di 309 euro.

Depenalizzato, ma ugualmente grave, anche la condotta di chi compie atti di autoerotismo in spiaggia. In questo caso infatti si configura l’illecito amministrativo di atti osceni in luogo pubblico, previsto dall’articolo 527 del codice penale e punito con una sanzione amministrativa che può arrivare a 30.000 euro e che diventa reato punibile con la reclusione fino a 4 anni se commessa “all’interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e sa da ciò deriva pericolo che essi vi assistano.”

Multe salate possono essere poi previste da provvedimenti degli enti locali, come regolamenti e ordinanze nei seguenti casi:

  • giocare a pallavolo o a pallone al di fuori dalle aree dedicate;
  • condurre il cane in spiaggia in violazione delle ordinanze locali;
  • fumare contravvenendo al divieto imposto dallo stabilimento balneare;
  • lasciare teli, stuoie, sedie a sdraio e oggetti vari in spiaggia anche la notte. In molti comuni questa condotta è sanzionata perché considerata abuso del suolo pubblico;
  • anche occupare la battigia, ossia il tratto di spiaggia vicino al mare, può portare all’applicazione di sanzioni;
  • usare droni in spiaggia per fare riprese può invece comportare la violazione della privacy dei bagnanti;
  • raccogliere conchiglie o sassolini è invece un illecito amministrativo perché si tratta di materiale che fa parte del demanio pubblico;
  • pescare ricci di mare, crostacei e stelle marine può portare invece anche a conseguenze penali, trattandosi di raccolta abusiva.

Lasciare infine sulla spiaggia rifiuti di vario tipo e mozziconi di sigaretta ha  conseguenze amministrative per il privato e penali se a commetterlo è un imprenditore e il rifiuto è collegato all’attività svolta, oltre a rappresentare un gesto di grave inciviltà.

 

Leggi anche: Diritti in spiaggia: cosa c’è da sapere

decreto giustizia estate

Decreto giustizia estate 2025: in vigore dal 9 agosto Decreto Giustizia estate 2025: novità per magistrati, tribunali, professioni pedagogiche e indennizzo legge Pinto

Decreto giustizia estate 2025: in GU

Il Decreto Legge 8 agosto 2025 n. 117, approvato il 4 agosto 2025 dal Consiglio dei Ministri, è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 183 dell’8 agosto 2025 ed è in vigore dal giorno successivo.

Il testo si compone di 11 articoli (di cui il 10 dedicato alle disposizioni finanziarie e l’articolo 11 all’entrata in vigore) che mirano a rendere sempre più efficiente il sistema giudiziario nel rispetto dell’ampio spettro di riforme previste dal PNRR.

Novità per tribunali e magistrati

L’articolo 1 stabilisce misure straordinarie fino al 30 giugno 2026 per affrontare l’arretrato giudiziario in linea con gli obiettivi del PNRR.

In base all’articolo 2 le Corti d’Appello che non raggiungeranno gli obiettivi del PNRR entro il 30 giugno 2025 saranno considerate sedi disagiate.

L’articolo 3 invece prevede che, per accelerare la giustizia civile, il CSM possa disporre applicazioni straordinarie a distanza per un massimo di 500 magistrati, anche fuori ruolo, presso uffici di primo grado specificamente individuati.

I capi degli uffici individuati negli articoli 2 e 3 possono elaborare piani straordinari per raggiungere gli obiettivi del PNRR. L’efficacia di queste misure termina il 30 giugno 2026.

L’articolo 5 prevede per i magistrati che hanno superato il concorso del 2023 un tirocinio di 18 mesi.

Decreto giustizia estate 2025: termini differiti  

L’articolo 6 differisce diversi termini normativi, tra i quali si segnalano:

  • prorogato di un anno il termine per l’attuazione della riforma del processo civile;
  • posticipata al 31 ottobre 2026 la scadenza per la riforma della magistratura onoraria;
  • esteso il termine al 31 marzo 2026 per la presentazione delle domande di iscrizione per alcune categorie professionali pedagogiche.

30 giorni per contestare le conclusioni della CTU in sede civile

L’articolo 7 apportate modifiche all’articolo 445-bis del codice di procedura civile. La principale novità è che il conferimento dell’incarico al consulente sospende il procedimento. Le parti hanno 30 giorni dalla comunicazione del deposito della CTU per contestarne le conclusioni.

Decreto giustizia estate: più personale per la magistratura di sorveglianza

In base alle previsioni dell’articolo 8 l’organico della magistratura ordinaria viene aumentato di 58 unità per rafforzare gli uffici di sorveglianza. Il Ministero della Giustizia può bandire un concorso nel 2025 per assumere questi nuovi magistrati a partire dal 1° luglio 2026.

Modifiche indennizzi Legge Pinto

L’articolo 9 modifica la legge sull’equa riparazione per l’irragionevole durata dei processi (Legge Pinto). La domanda potrà essere presentata anche se il processo è ancora in corso, una volta superato il termine ragionevole. Nuovi termini per la dichiarazione di decadenza del creditore e per il rinnovo di tale dichiarazione da parte della pubblica amministrazione.

Leggi anche l’articolo dedicato al decreto giustizia dello scorso anno

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errore di fatto

Errore di fatto nel diritto penale Errore di fatto nel diritto penale: cos'è, art. 47 c.p, conseguenze, differenze dall’errore di diritto, errore di fatto nel processo

Errore di fatto nel diritto penale: definizione 

L’errore di fatto o sul fatto è una figura giuridica rilevante nel diritto penale italiano, in grado di incidere sulla responsabilità penale dell’agente. Disciplinato dall’art. 47 del Codice Penale, l’errore sul fatto può escludere l’elemento soggettivo del reato, rendendo il comportamento penalmente irrilevante nei casi previsti dalla legge.

Cos’è l’errore di fatto secondo il codice penale

L’art. 47 c.p. stabilisce che l’errore sul fatto esclude la punibilità quando ricade su un elemento essenziale del fatto di reato. Più precisamente, il primo comma della norma prevede che:

“L’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente.”

In altre parole, se l’agente, per un errore, ignora o fraintende un elemento essenziale della fattispecie criminosa (ad esempio: crede che l’oggetto che prende sia suo e non altrui), l’elemento soggettivo del reato non si perfeziona e l’illecito penale non sussiste.

Esempio pratico

Un soggetto prende un ombrello convinto che sia il proprio. In realtà, appartiene a un’altra persona. Se si dimostra che l’errore è effettivo e scusabile, il soggetto non potrà essere punito per furto, poiché manca l’elemento soggettivo del reato.

Differenza tra errore di fatto ed errore di diritto

Nel diritto penale si distinguono categorie di errore, che producono effetti giuridici differenti:

1. Errore di fatto

È l’errore che ricade su una circostanza oggettiva della condotta o della situazione: ad esempio, l’identità di una persona, la proprietà di un bene, la presenza di un elemento del reato. Ha rilievo solo se incide sull’elemento soggettivo del reato (art. 47, comma 1, c.p.).

2. Errore di diritto

È l’errore che ricade su una norma giuridica, ossia sulla convinzione errata circa la liceità o illiceità della propria condotta. È regolato dall’art. 5 c.p., che afferma:

“Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale.”

Tuttavia, come previsto dal comma 3 dell’art 47 “L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato.”

Le conseguenze dell’errore di fatto

Le principali conseguenze dell’errore di fatto nel diritto penale sono:

  • esclusione della punibilità: se l’errore riguarda un elemento essenziale del fatto, il reato non è punibile (art. 47 c.p.).
  • non esclusione della punibilità se l’errore è determinato da colpa: l’errore di fatto determinato da colpa non esclude la punibilità se il reato è perseguibile dalla legge come delitto colposo (art. 47, comma 1, c.p.).

L’errore di fatto nel processo: il ricorso straordinario in Cassazione

L’errore di fatto ha rilevanza anche in sede processuale, in particolare nel ricorso straordinario per Cassazione ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p. Il condannato può infatti chiedere la correzione:

  • dell’errore di fatto commesso dalla Cassazione nei provvedimenti pronunciati dalla stessa, che può essere rilevabile anche d’ufficio entro 90 giorni dalla deliberazione;
  • dell’errore materiale  commesso dalla Corte nei provvedimenti pronunciati dalla stessa, che può essere rilevato anche d’ufficio dalla stessa Cassazione in ogni momento e senza il rispetto di formalità particolari.

Di recente la Cassazione nella sentenza n. 3755/2024 ha chiarito che: l’errore di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p è un errore percettivo che si verifica quando, durante la lettura degli atti processuali, la Corte commette una svista o un equivoco. Questo errore deve influenzare il processo decisionale, portando a una sentenza diversa da quella che sarebbe stata emessa se i fatti fossero stati percepiti correttamente. In pratica, è come se la Corte “vedesse male” ciò che è scritto negli atti, e questo “errore di visione” alteri il risultato finale. Ne consegue che il ricorso straordinario per errore di fatto non è ammissibile se l’errore della  Cassazione è di tipo valutativo. Questo significa che se la Corte ha correttamente compreso i fatti, ma ha formulato un giudizio o una valutazione diversa da quella sperata dalla parte, non si può parlare di un errore percettivo. Il ricorso in conclusione è possibile solo quando l’errore riguarda la percezione oggettiva dei fatti, non la loro interpretazione o valutazione.

 

Leggi anche gli altri articoli di diritto penale 

cubo di rubik

Cubo di Rubik è opera dell’ingegno La Cassazione ribadisce che il cubo di Rubik resta protetto dal diritto d’autore come opera dell’ingegno, anche dopo l’annullamento del marchio 3D da parte della Corte Ue

Cubo di Rubik: la vicenda giudiziaria

La Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 27641/2025, ha confermato la condanna di una donna per violazione della legge sul diritto d’autore (art. 171, comma 1, lett. a), legge n. 633/1941).
L’imputata era stata riconosciuta responsabile della riproduzione e della commercializzazione di 21 cubi di Rubik e oltre 63.000 stickers raffiguranti personaggi Disney.

La difesa aveva sostenuto che, a seguito della decisione della Corte di giustizia europea che aveva escluso la registrazione del marchio tridimensionale del cubo, non vi fosse più alcuna tutela.

La posizione della Cassazione

La Suprema Corte ha respinto l’argomento difensivo, chiarendo che l’impossibilità di registrare il marchio non incide sulla protezione accordata dal diritto d’autore.
Il cubo di Rubik è qualificabile come opera dell’ingegno ai sensi della legge n. 633/1941, la quale tutela la creatività e lo sfruttamento economico delle opere, indipendentemente da formalità legate a marchi o brevetti.

Il Collegio ha richiamato precedenti giurisprudenziali in materia, come:

  • Cass. n. 45735/2016 (magliette con personaggi animati);

  • Cass. n. 17218/2011 (portacellulari con immagini di cartoni animati).

Il rapporto con le decisioni europee

La Cassazione ha giudicato “inconferente” il richiamo della difesa all’annullamento del marchio da parte della Corte Ue.
In linea con questo orientamento, anche il Tribunale Ue (sentenza 9 luglio 2025, C-1170/23, Spin Master v. EUIPO) e il Tribunale di Venezia (ordinanza 30 aprile 2025) hanno riconosciuto che il cubo può essere tutelato come opera di design industriale.

La valutazione sugli stickers Disney

Oltre al cubo di Rubik, la sentenza affronta la questione della riproduzione di stickers raffiguranti personaggi Disney. La Corte ha ritenuto provata la violazione sulla base della testimonianza degli operanti, evidenziando come la riproduzione fosse fedele e idonea a integrare il reato.

Esclusa la tenuità del fatto

La Cassazione ha infine respinto la richiesta di proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Il numero considerevole dei prodotti sequestrati è stato ritenuto sufficiente per escludere tale possibilità.

La sentenza n. 27641/2025 ribadisce un principio fondamentale: la tutela penale del diritto d’autore non dipende dalla registrazione di un marchio o da un brevetto, ma dalla qualificazione dell’opera come frutto della creatività intellettuale.
Il cubo di Rubik, pur privo di marchio tridimensionale registrabile, resta dunque protetto come opera dell’ingegno.

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