bullismo e cyberbullismo

Bullismo e cyberbullismo: cosa prevede il decreto attuativo Bullismo e cyberbullismo: il Consiglio dei Ministri ha approvato, in via preliminare, un decreto legislativo che rafforza il 114

Bullismo e cyberbullismo: il decreto approvato

Il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legislativo per rafforzare la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo, in attuazione della legge n. 70/2024, con cui si pone quindi in una linea di continuità.

Bullismo e cyberbullismo: emergenza infanzia

Il nuovo decreto potenzia il servizio telefonico “emergenza infanzia 114”, estendendone l’operatività anche a questi fenomeni per tutelare i minori. Il 114, attivo 24 ore al giorno 7 giorni su 7, offrirà una prima assistenza psicologica e giuridica, oltreché una consulenza psicopedagogica e segnalerà i casi gravi alle autorità. L’app del 114 includerà anche la geolocalizzazione (previa acquisizione del consenso) e un servizio di messaggistica istantanea. Il tutto ovviamente nel rispetto della privacy. I dati anonimi sui fenomeni del bullismo e del cyberbullismo nelle scuole, raccolti dal 114, saranno trasmessi annualmente al Ministero dell’Istruzione e del Merito per programmare azioni di sensibilizzazione. Il sito web del 114 garantirà inoltre un’ ampia accessibilità ai servizi.

Indagini statistiche su bullismo e cyberbullismo

L’ISTAT condurrà rilevazioni biennali su questi fenomeni giovanili la fine di identificarne le caratteristiche, i soggetti a rischio, i fattori e le conseguenze psicologiche che producono. La Presidenza del Consiglio dei Ministri invierà alle Camere un rapporto di sintesi con i risultati ISTAT e lo stato di attuazione delle misure nelle scuole secondarie.

Più responsabilità genitoriale

Il decreto aggiorna inoltre le comunicazioni dei fornitori di servizi online, richiamando però sul punto anche la responsabilità genitoriale prevista dall’ articolo 2048 del codice civile per i danni causati dai figli minori nel mondo online.

Campagne su uso responsabile della rete

La Presidenza del Consiglio promuoverà campagne informative sull’uso consapevole della rete e sui suoi rischi. Il Ministero dell’Istruzione e le scuole promuoveranno infine la conoscenza del numero 114, strumento fondamentale per esternare il disagio e chiedere aiuto.

 

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tenuità del fatto e iscrizione

Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale: la Cassazione chiarisce la rilevanza ai fini dell’abitualità

Particolare tenuità del fatto

Tenuità del fatto e iscrizione nel casellario giudiziale: con la sentenza n. 16666/2025, depositata il 6 maggio, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha affrontato un nodo interpretativo rilevante in materia di particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., chiarendo che l’iscrizione del provvedimento di archiviazione per tenuità rileva esclusivamente ai fini dell’accertamento dell’abitualità del comportamento dell’imputato, e non ha altre conseguenze penali pregiudizievoli.

Il fatto oggetto del giudizio

Nel caso in esame, l’imputato era stato precedentemente destinatario di un provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto, disposto ex art. 131-bis c.p. In un successivo procedimento penale, tale precedente era stato valorizzato per escludere la tenuità di un nuovo episodio, in quanto considerato elemento ostativo sotto il profilo dell’abitualità del comportamento, elemento preclusivo all’applicazione del medesimo istituto.

La difesa aveva eccepito l’illegittimità della valutazione, sostenendo che l’iscrizione del provvedimento di archiviazione non avrebbe dovuto produrre alcun effetto nel nuovo procedimento.

Tenuità del fatto e iscrizione: il principio della S.C.

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio secondo cui: “L’iscrizione nel casellario giudiziale del provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. è rilevante esclusivamente ai fini della valutazione dell’abitualità del comportamento dell’imputato e non produce altri effetti negativi in termini di recidiva o di giudizio di colpevolezza”.

Tale orientamento si pone in linea con il tenore letterale dell’art. 131-bis, il quale prevede l’esclusione della non punibilità quando l’autore abbia commesso più reati della stessa indole, ovvero più condotte che denotino una tendenza delittuosa, anche se in precedenza giudicate di particolare tenuità.

Allegati

guida senza patente

Tenuità del fatto: esclusa per la guida senza patente Guida senza patente e particolare tenuità del fatto: la Cassazione esclude l'applicabilità dell’art. 131-bis c.p.

Guida senza patente e tenuità del fatto

Con la sentenza n. 16367/2025, la quarta sezione penale della Cassazione ha chiarito che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) non può essere applicata alla contravvenzione di guida senza patente, anche laddove il fatto risulti oggettivamente di minima offensività.

Il fatto

La vicenda trae origine dalla condanna inflitta dal Giudice di pace di Sassari per il reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, del Codice della strada. L’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, lamentando l’omessa valutazione da parte del giudice di merito della possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p., sostenendo la lieve entità del fatto e l’assenza di pericolo concreto.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha ribadito che la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione nel caso di guida senza patente, trattandosi di una contravvenzione che, per natura e struttura normativa, è incompatibile con l’istituto previsto dall’art. 131-bis c.p.

La motivazione: perché l’art. 131-bis c.p. non si applica

La Corte ha valorizzato il carattere formale e di pericolo astratto della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, C.d.S. La norma incrimina la condotta indipendentemente dalla concreta idoneità a mettere in pericolo la sicurezza stradale, essendo diretta a tutelare un interesse pubblico rilevante: la certezza che chi guida veicoli a motore sia munito di adeguata abilitazione tecnica.

Secondo la motivazione della sentenza, l’elemento tipico della contravvenzione non consente una valutazione in termini di offensività concreta, in quanto l’illecito è fondato su una violazione amministrativa ad elevata disvalore sociale, che si presume per legge.

Di conseguenza, anche in presenza di condotte isolate e prive di danno effettivo, non è possibile ritenere il fatto di particolare tenuità, in quanto la normativa esclude un giudizio discrezionale sulla gravità concreta del reato.

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pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale Pubblico ufficiale: chi è, normativa, tipologie e differenze rispetto all’incaricato di pubblico servizio

Chi è il pubblico ufficiale

La figura del pubblico ufficiale riveste un ruolo centrale nel diritto penale e amministrativo italiano. Si tratta infatti di quei soggetti che, nell’esercizio delle loro funzioni, rappresentano direttamente la Pubblica Amministrazione, esercitando poteri autoritativi o certificativi. Capire chi è il pubblico ufficiale e quali sono le sue responsabilità è fondamentale per interpretare correttamente molte norme del nostro ordinamento.

Normativa di riferimento

La definizione giuridica di pubblico ufficiale è contenuta nell’articolo 357 del Codice Penale, che dispone:

“1. Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. 2. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.”

La norma specifica che la pubblica funzione implica l’esercizio di poteri autoritativi o certificativi, cioè la capacità di incidere direttamente nella sfera giuridica dei soggetti privati, manifestando la volontà della Pubblica Amministrazione.

Tipologie di pubblici ufficiali

In base all’attività svolta, i pubblici ufficiali possono essere suddivisi in varie categorie:

  • pubblici ufficiali legislativi: parlamentari, consiglieri regionali e comunali;
  • pubblici ufficiali giudiziari: magistrati, cancellieri, ufficiali giudiziari;
  • pubblici ufficiali amministrativi: sindaci, assessori, dirigenti pubblici, ufficiali di stato civile;
  • agenti di polizia giudiziaria: carabinieri, poliziotti, guardie di finanza, limitatamente a specifiche funzioni.

Anche i notai, nella redazione degli atti notarili, agiscono in qualità di pubblici ufficiali, attribuendo fede privilegiata ai documenti redatti.

Funzioni e poteri del pubblico ufficiale

Il pubblico ufficiale esercita:

  • poteri autoritativi, cioè può adottare provvedimenti che incidono unilateralmente sulle situazioni giuridiche dei privati (es. ordinanze, sanzioni);
  • poteri certificativi, ovvero può redigere atti pubblici che fanno piena prova fino a querela di falso (es. registrazione di nascite o decessi, verbalizzazioni ufficiali).

In virtù di questi poteri, il pubblico ufficiale gode di una particolare tutela penale, ma al contempo è soggetto a responsabilità aggravate in caso di reati contro la Pubblica Amministrazione.

Differenze tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio

Sebbene entrambe le figure collaborino con la Pubblica Amministrazione, vi sono differenze sostanziali:

Criterio

Pubblico ufficiale

Incaricato di pubblico servizio

Definizione

Soggetto che esercita pubbliche funzioni con poteri autoritativi o certificativi

Soggetto che svolge un’attività di pubblico interesse senza poteri autoritativi né certificativi

Funzione

Autoritativa e certificativa

Esecutiva o strumentale

Esempi

Sindaco, carabiniere, cancelliere, ufficiale di stato civile

Addetto a società di trasporti pubblici, personale sanitario convenzionato

Reati applicabili

Reati contro la Pubblica Amministrazione, inclusi quelli che presuppongono l’esercizio di pubblici poteri

Reati compatibili con l’assenza di pubblici poteri

Il pubblico ufficiale, dunque, ha una funzione più pregnante e rilevante dal punto di vista giuridico rispetto all’incaricato di pubblico servizio, proprio perché rappresenta in maniera diretta la volontà della Pubblica Amministrazione.

Responsabilità penale del pubblico ufficiale

I pubblici ufficiali sono destinatari di una disciplina penale speciale che riguarda i reati contro la Pubblica Amministrazione, tra cui:

  • Peculato (art. 314 c.p.).
  • Corruzione propria (art. 319 c.p.).
  • Concussione (art. 317 c.p.).
  • Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
  • Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479 c.p.).

La qualità di pubblico ufficiale è una condizione soggettiva che aggrava la responsabilità penale e comporta conseguenze particolarmente rilevanti.

Giurisprudenza

Cassazione n. 11341/2022:  i consiglieri regionali, in quanto membri del gruppo partitico di riferimento, sono da considerarsi pubblici ufficiali per tutte le attività connesse all’esercizio della funzione legislativa pubblica all’interno dell’assemblea regionale. Questa qualifica si estende alle iniziative intraprese tramite il gruppo consiliare, in quanto espressione della loro partecipazione alla funzione legislativa. In sostanza, l’esercizio del mandato di consigliere regionale e l’operare attraverso il gruppo di appartenenza nell’ambito dell’attività legislativa regionale attribuiscono la qualifica di pubblico ufficiale.

Cassazione n. 5550/2022:  Per stabilire se una persona sia un pubblico ufficiale, non conta se lavora per un ente pubblico o privato, né che tipo di contratto abbia. L’elemento decisivo è il tipo di attività che svolge concretamente. Anche un privato può essere considerato pubblico ufficiale se la sua attività è di natura pubblica. Allo stesso modo, è incaricato di pubblico servizio chiunque svolga un servizio pubblico, indipendentemente dal fatto che sia un dipendente pubblico o meno. In sostanza, ciò che definisce la qualifica è la natura pubblica del servizio svolto, non la forma giuridica del datore di lavoro o del rapporto lavorativo.

Cassazione n. 17972/2019: riveste la qualifica di pubblico ufficiale il soggetto che, pur in forza di un contratto privatistico di collaborazione coordinata e continuativa per un incarico di consulenza e supporto alla direzione sanitaria regionale, partecipa alla formazione della volontà dell’ente e all’attuazione dei suoi obiettivi istituzionali. Ciò si verifica anche quando l’attività svolta ha una rilevanza interna al procedimento amministrativo. In sintesi, la natura pubblica della funzione esercitata prevale sulla forma privatistica del rapporto di lavoro, qualora l’attività del soggetto contribuisca concretamente alle decisioni e alle finalità dell’amministrazione.

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giurista risponde

Riduzione o mantenimento in schiavitù Quando rileva la situazione di necessità della vittima ai fini della punibilità del delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

In tema di riduzione o mantenimento in schiavitù, presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente è la situazione di necessità da porsi in relazione non con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto; la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo adatta a condizionarne la volontà personale, coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cassazione, sez. III, 21 gennaio 2025, n. 2450).

La Corte di Assise ha dichiarato colpevoli tre imputati delle condotte rispettivamente loro ascritte di riduzione in schiavitù, di tentata alienazione della persona offesa, di tentata estorsione, di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e di cessione di sostanze stupefacenti. In sede di appello, la Corte di Assiste d’appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado oggetto di gravame, assolvendo uno degli imputati dal delitto di tentata alienazione perché il fatto non sussiste, rideterminando la pena, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle contestate aggravanti, riducendo altresì la pena nei confronti di altro imputato, ferma restando l’acclarata responsabilità penale di costoro.

Avverso la predetta sentenza è stato proposto ricorso in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi di ricorso presentati dagli imputati per il tramite dei loro difensori, l’insussistenza del delitto di riduzione in schiavitù posto che, secondo le argomentazioni del ricorrente, non sarebbe riscontrabile la mancanza di libertà di movimento da parte della persona offesa, l’impossibilità di comunicare con terze persone, la sottrazione del passaporto e la privazione dei mezzi di sussistenza, come formalmente contestato.

In merito al motivo di censura oggetto di interesse, la Suprema Corte, nel dichiarare il ricorso non fondato, ha analizzato la struttura nonché i presupposti del reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù di cui all’art. 600 c.p. Il delitto in parola è un reato a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario – implicando così la reificazione della vittima ed ex se lo sfruttamento – ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa in relazione alla quale è richiesta la prova dell’imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o comunque il compimento di attività illecite).

In particolare, la condizione personale della vittima del delitto di cui all’art. 600 c.p. qualificabile come “servitù” è caratterizzata da uno stato di soggezione continuativa, provocato e mantenuto con una delle modalità indicate al comma 2, ossia mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento della situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha l’autorità sulla persona, che si sostanza nel costringere o indurre la persona stessa a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

Pertanto, ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in stato di schiavitù o di servitù di una persona in stato di soggezione continuativa è richiesto, oltre la prova dell’imposizione alla persona offesa di prestazioni integranti una delle predette forme di sfruttamento di cui al comma 1 dell’art. 600 c.p., preliminarmente la dimostrazione che il soggetto agente ha ridotto o mantenuto la persona sfruttata in servitù tramite una delle modalità alternative indicate al comma 2.

Orbene, come espresso dalla Suprema Corte, il reato di riduzione in schiavitù non richiede la totale privazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione delle persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione richiesto dalla norma incriminatrice (Cass. 21 maggio 2020, n. 15662). Di conseguenza, la soggezione continuativa non viene meno in presenza di una limitata autonomia della vittima che non intacchi il contenuto essenziale della posizione di supremazia del soggetto attivo del reato.

Inoltre, i giudici di legittimità si sono espressi riguardo la “situazione di necessità” in cui deve versare la vittima ritenendo che costituisca presupposto della condotta approfittatrice del soggetto agente che essa non deve porsi in relazione con lo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., quanto piuttosto con la nozione di bisogno delineata in tema di usura aggravata (art. 644, comma 5, n. 3 c.p.) e allo stato di bisogno utilizzato nella rescissione del contratto (art. 1418 c.c.); la predetta condizione deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale del soggetto passivo, adatta a condizionarne la volontà personale coincidendo con la definizione di “posizione di vulnerabilità” nell’ambito della disciplina europea individuata nella decisione quadro dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla tratta di esseri umani (Cass. 25 gennaio 2007, n. 2841).

Pertanto, si ha approfittamento della situazione di vulnerabilità della persona offesa anche quando l’autore del reato, conscio della condizione di debolezza fisica, psichica o esistenziale della persona offesa, se ne sia subdolamente avvalso per accedere alla sua sfera interiore, manipolandone la capacità critica e le tensioni emotive e per tale via inducendola in uno stato di remissività così da ridurla a mezzo per soddisfare più agevolmente il proprio proposito di sfruttamento sul piano lavorativo ovvero imponendo obblighi di facere.

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, la Suprema Corte ha ritenuto che l’imputata si sia avvalsa della condizione oggettiva di vulnerabilità e inferiorità psichica della persona offesa, costringendola a prostituirsi, a lavorare fino a tarda notte e a consegnarle i proventi dell’attività di meretricio.

Alla luce delle argomentazioni esposte, la Suprema Corte ha, quindi, dichiarato l’infondatezza dei ricorsi presentati, rigettandoli e condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

(*Contributo in tema di “Riduzione o mantenimento in schiavitù”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

abuso d'ufficio

Abuso d’ufficio: l’abrogazione non è incostituzionale La Consulta all'esito dell'udienza pubblica ha ritenuto che l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio non è incostituzionale

Abrogazione reato di abuso d’ufficio

Non è incostituzionale l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio. All’esito dell’udienza pubblica svoltasi il 7 maggio 2025, la Consulta ha esaminato in camera di consiglio le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di cassazione, sull’abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale ad opera della legge numero 114 del 2024.

Convenzione di Merida

La Corte, si legge nel comunicato stampa ufficiale, ha ritenuto ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).

Nel merito, la Corte ha dichiarato infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso di ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale.

La motivazione della sentenza sarà pubblicata nelle prossime settimane.

 

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favoreggiamento

Non è favoreggiamento accompagnare la collega a prostituirsi Per la Cassazione non è integrato il reato di favoreggiamento della prostituzione se la condotta è occasionale

Reato di favoreggiamento della prostituzione

La sentenza n. 16535/2025 della terza sezione penale della Cassazione ha affrontato il tema del favoreggiamento della prostituzione, stabilendo che l’accompagnamento occasionale di una prostituta da parte di una collega sul luogo di esercizio non costituisce reato. 

Il caso esaminato

Nel caso in esame, una donna è stata accusata di favoreggiamento della prostituzione per aver accompagnato in auto una collega sul luogo dove quest’ultima esercitava l’attività. La donna adiva il Palazzaccio sostenendo di aver agito per “spirito di colleganza”. La Corte ha ritenuto che tale condotta, se isolata e priva di elementi che indichino un’organizzazione o un supporto sistematico all’attività di prostituzione, non integra il reato previsto dall’art. 3, n. 8, della legge n. 75/1958. 

La motivazione della Corte

La Corte ha sottolineato che per configurare il reato di favoreggiamento della prostituzione è necessario che l’azione dell’agente sia idonea a facilitare in modo concreto e consapevole l’esercizio dell’attività di prostituzione altrui. Nel caso specifico, l’accompagnamento occasionale non è stato ritenuto sufficiente a integrare tale fattispecie criminosa. 

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reato di evasione

Reato di evasione: sì all’attenuante per chi si costituisce La Cassazione considera indifferenti modalità di tempo e luogo di costituzione, richiedendo la norma la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione

Reato di evasione

Con la sentenza n. 15265/2025, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha chiarito un aspetto delicato in tema di reato di evasione (art. 385 c.p.) e applicazione della circostanza attenuante dell’avvenuta costituzione.

Il caso: reato di evasione e costituzione

L’imputato, per il tramite del proprio difensore, impugnava la sentenza della Corte d’appello di Napoli che, confermando la decisione di primo grado, lo aveva condannato, ritenuta la contestata recidiva, a un anno e 8 mesi di reclusione in ordine al delitto di evasione ex art. 385 cod. pen. Riteneva la corte territoriale che non vi fossero i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. né per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui al quarto comma di cui all’art. 335 cod. pen., atteso che la presentazione presso la Caserma dei Carabinieri fosse condotta strumentale del ricorrente.

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale l’imputato denuncia vizi di motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche attraverso argomentazioni prive di un apparato logico; esclusione dei presupposti per riconoscere la citata circostanza attenuante, nonostante il ricorrente si fosse presentato presso la Caserma dei Carabinieri per costituirsi; violazione dell’art. 131-bis cod. pen. laddove la Corte non aveva apprezzato la sua buona condotta e la non abitualità a delinquere.

Attenuante art. 385, 4° comma, c.p.

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato limitatamente all’attenuante di cui all’art. 385. quarto comma, cod. pen. mentre sono infondati gli altri di fronte alla “significativa biografia criminale – del soggetto – all’assenza di resipiscenza e alla non episodicità del delitto di evasione”.

Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al quarto comma dell’art. 385 c.p., invece, affermano dal Palazzaccio, “costituisce ormai solido principio di diritto quello secondo cui, per poter ritenere sussistenti i presupposti per il riconoscimento della circostanza in parola, è sufficiente che la costituzione in carcere ovvero presso gli organi preposti alla vigilanza del rispetto delle prescrizioni inerenti agli arresti domiciliari, o che abbiano l’obbligo di tradurre l’evaso in carcere, sia volontaria e non conseguente alla coazione fisica delle forze dell’ordine, senza che assumano rilevanza la spontaneità del comportamento o l’assenza di influenze esterne, atteso che scopo della previsione è il tempestivo ripristino dello stato costrittivo, senza dispendio di energie da parte delle forze dell’ordine (Sez. 6, n. 29935 del 13/03/2022, Muggeri, Rv. 283721)”.

Costituzione presso ufficio polizia giudiziaria

“Una volta che sia stata esclusa l’incidenza sulla citata attenuante e della spontaneità della costituzione in carcere o presso chi ha l’obbligo di tradurlo o dei motivi – anche di natura egoistica – che spingono l’evaso ad interrompere la situazione antigiuridica autonomamente creata, come invece previsto dal codice penale, deve ritenersi che sono indifferenti le modalità di tempo e luogo di costituzione – aggiungono dalla S.C. – richiedendo la norma esclusivamente una condotta, anche dettata da esigenze contingenti ed utilitaristiche, che renda palese la volontà di recedere dalla condotta che ha dato origine all’evasione; viene in tal senso esaltata la natura oggettiva dell’attenuante per la cui integrazione è sufficiente sia posta in essere una condotta coincidente con il dettato della norma”.

Ciò anche alla luce dei plurimi principi di diritto espressi dalla S.C., spiegano i giudici, “specie laddove hanno ritenuto di equiparare la costituzione in carcere alla costituzione presso un ufficio appartenente alla polizia giudiziaria che ha l’obbligo di condurre l’evaso in carcere, deve rilevarsi come la motivazione della sentenza che ha escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della citata attenuante confligga con il significato assegnato alla citata disposizione”.

La decisione

Nel caso di specie, la Corte di appello, pur dando atto della natura oggettiva della circostanza attenuante ex art. 385, quarto comma, c.p., erroneamente finisce per assegnare rilevanza a profili di natura soggettiva, allontanandosi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale sopra richiamato che reputa irrilevante la motivazione che spinge l’evaso a costituirsi.

Per cui, la sentenza impugnata va annullata, limitatamente alla sussistenza dell’attenuante de qua, con rinvio alla Corte di appello “che dovrà attenersi, nel fornire risposta circa la sussistenza o meno dei presupposti per il riconoscimento dell’invocata attenuante, al principio di diritto sopra richiamato”.

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giurista risponde

Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia Nel calcolo della pena per un delitto di omicidio tentato posto in essere in un contesto di maltrattamenti in famiglia deve applicarsi il cumulo temperato previsto dall’art. 81 c.p., oppure la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale deve ritenersi assorbita – ai sensi dell’art. 84 c.p. – dall’aggravante specifica prevista per il delitto di omicidio tentato?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia

 

Nel calcolo della pena per il reato di tentato omicidio aggravato ex art. 576, comma 1, n. 5, c.p., la condotta di maltrattamenti antecedente e contestuale è assorbita nella circostanza aggravante del tentato omicidio, rendendo non configurabile il concorso materiale tra tali reati (Cass., sez. I, 20 gennaio 2025, n. 2210 – Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia).

Il punctum dolens sottoposto al vaglio del Supremo Collegio è la riconducibilità o meno del caso in esame all’istituto del reato complesso, ex art. 84 c.p., se sia applicabile l’art. 15 c.p., ovvero se sia applicabile, invece, il criterio di temperamento di cui all’art. 81 c.p.

La disciplina del reato complesso è ispirata ai principi di specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione e si contrappone al principio della specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p.. Pertanto, per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici è opportuno svolgere una disamina sulla struttura normativa del reato complesso.

Tuttavia, preliminarmente, si ritiene di dover, comunque, escludere l’applicabilità dell’art. 15 c.p. al caso di specie posto che le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 23 febbraio 2019, n. 2664) hanno ritenuto applicabile detto articolo soltanto qualora fra le norme evocate sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed i maltrattamenti in famiglia attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare le due fattispecie, rectius il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 572 c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.

Ciò premesso è, dunque, opportuno analizzare l’art. 84 c.p.; dal tenore letterale dello stesso risulta ictu oculi che la figura in esame presenti più forme di manifestazione. Focalizzandosi, però, su quanto attiene alla soluzione del quesito si può affermare che il profilo problematico è l’inclusione o meno del caso di specie nel genus del reato complesso in senso lato. Nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, una definibile come: “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose; mentre l’altra definibile come: “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge. Per cui da un punto di vista meramente formale risulta ictu oculi la sussumibilità del caso di specie risulta in questa seconda categoria, posto che il delitto di maltrattamenti in famiglia – autonomamente punito dall’art. 572 c.p. – è espressamente previsto come aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576, comma 5 c.p.. A queste considerazioni di natura testuale debbono essere aggiunge delle considerazioni di natura sostanziale che confermano l’applicabilità dell’art. 84 c.p. Invero, qualora il delitto di omicidio (o tentato omicidio come nel caso di specie) avvenga in un contesto di maltrattamenti risulta evidente l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti delittuosi. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento Legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta ex art. 572 c.p., è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale i maltrattamenti e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono, altresì, in una prospettiva finalistica unitaria.

La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati. Tale interpretazione, peraltro trova l’avvallo della giurisprudenza di legittimità nella sua massima composizione (Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2021, n. 38402) la quale mutatis mutandis ha affrontato la tematica oggetto della presente sentenza in relazione al delitto di atti persecutori ex art. 612bis c.p. e l’aggravante di cui all’art. 576, comma 5.1 c.p. concludendo anche in questo caso in senso favorevole all’applicazione dell’art. 84 c.p.

La riconducibilità del caso in esame alla disciplina del reato complesso implica l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio, previsti negli articoli precedenti, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 c.p. rientra il concorso formale di reati ex art. 81, comma 1 c.p., per la quale è previsto il cumulo giuridico. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria in quanto “assorbe” le pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che sia applicabile il principio di consunzione tra la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. e il delitto di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 5 c.p. Pertanto, il Supremo Collegio annullava senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di maltrattamenti in famiglia rideterminava e la pena inflitta per il delitto di tentato omicidio aggravato.

 

(*Contributo in tema di “Tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia”, a cura di Silvia Mattei e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

Rinuncia alla prescrizione

Rinuncia alla prescrizione: quando è efficace? La Cassazione chiarisce che la rinuncia alla prescrizione del reato acquista efficacia al momento in cui la causa estintiva si verifica

Rinuncia alla prescrizione

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 16496/2025 della quinta sezione penale, ha chiarito che la rinuncia alla prescrizione del reato, effettuata prima della maturazione della stessa, non è invalida ma semplicemente inefficace, producendo i suoi effetti solo al momento in cui la prescrizione si verifica.  

Il caso

Nel caso esaminato, l’imputato veniva condannato in primo grado per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico aggravato ai sensi dell’art. 615-ter comma 2 n. 1 c.p.. In appello, la Corte dichiarava il reato estinto per prescrizione. La questione approdava dunque innanzi al Palazzaccio. L’imputato lamentava che il termine di prescrizione non si era ancora compiuto ed evidenziava l’interesse a rinunciare alla prescrizione al fine di conseguire una sentenza assolutoria nel merito, atteso che la declaratoria di estinzione del reato non era ostativa all’avvio del procedimento disciplinare nei suoi confronti.

La decisione della Cassazione

Per la S.C. il ricorso è infondato e va rigettato. Nondimeno, evidenziano da piazza Cavour, “l’imputato ha avuto ampia possibilità di rinunziare alla prescrizione prima della pronunzia della Corte territoriale, dovendosi ribadire in tal senso che tale rinunzia, qualora effettuata prima che la prescrizione sia maturata, non è invalida, ma soltanto inefficace, in quanto produce i suoi effetti al verificarsi della causa estintiva del reato (ex multis Sez. 3, n. 3758 del 20/10/2021)”.

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