reclamo Fornero

Reclamo Fornero: disciplina e svolgimento del giudizio d’appello Il reclamo Fornero si traduce nell’impugnazione davanti alla Corte di Appello della sentenza emessa al termine del primo grado del rito Fornero

Reclamo Fornero: riferimento normativo

Il reclamo Fornero è previsto e disciplinato dalla legge n. 92/2012, contenente le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”.

La legge Fornero n. 92/2012 disciplina infatti anche un rito particolare, previsto per impugnare i licenziamenti dei lavoratori che vengono disposti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, legge n. 300 del 20 maggio 1970.

Del reclamo, che rappresenta una parte eventuale del rito Fornero, si occupano nello specifico i commi 58, 59 e 60 e 61 dell’articolo 1 della legge 92/2012.

L’analisi del reclamo Fornero si rende necessaria anche se la riforma Cartabia ha abrogato l’intero rito. La procedura infatti è rimasta vigente, in via transitoria, per tutte le cause che sono state introdotte fino al 28 febbraio 2023, purché rientranti ovviamente nella casistica di questo rito particolare, nato per rendere più rapidi i procedimenti giudiziari in materia di licenziamento.

Come si presenta il reclamo alla Corte di Appello

Inquadrato normativamente il reclamo Fornero occorre comprendere come si presenta e come si svolge l’intero giudizio di impugnazione.

Per farlo occorre partire dal comma 58 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, il quale dispone che, contro la sentenza che ha deciso sul ricorso con cui è stato impugnato il licenziamento, è possibile proporre reclamo davanti alla Corte di Appello.

Dal punto di vista formale e procedurale il reclamo deve essere proposto con ricorso, da depositare a pena di decadenza nel termine di 30 giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione del provvedimento.

In questa fase non è possibile chiedere che vengano ammessi nuovi mezzi di prova o che vengano prodotti nuovi documenti. Ci sono però due casi in cui questa regola subisce eccezioni:

  • se il collegio ritiene che le nuove prove siano indispensabili per la decisione finale;
  • se la parte che ne richiede l’ammissione dimostri di non averli prodotti per colpa a lui non imputabile.

Svolgimento del giudizio di reclamo

Depositato il ricorso, l’autorità giudiziale deve provvedere a fissare l’udienza di discussione nei 60 giorni e assegnare all’opposto il termine per costituirsi fino a 10 giorni prima dell’udienza.

Il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza devono essere comunicati dall’apponente all’opposto almeno 30 giorni prima del termine fissato per la sua costituzione.

L’opposto si deve costituire in cancelleria depositando una memoria difensiva e se vuole chiamare un terzo in causa lo deve dichiarare in questo atto a pena di decadenza.

Nel corso della prima udienza il giudice, in presenza di gravi motivi, può sospendere l’efficacia della sentenza impugnata. In questa sede inoltre, sentite le parti, procede all’istruzione senza formalità e decide con sentenza, con cui può accogliere o rigettare il reclamo Fornero.

La sentenza motivata viene quindi depositata in cancelleria nel termine di 10 giorni dall’udienza di discussione. Se la sentenza non viene comunicata o notificata si applica l’art. 327 c.p.c il quale sancisce che “indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 non possono proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.”

La sentenza emessa al termine del reclamo può essere impugnata in sede di Cassazione nel termine di 60 giorni dalla comunicazione della stessa o dalla sua notificazione, se anteriore.

La Corte di Appello resta competente per la richiesta di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, che vi provvede come in sede di reclamo.

lavoro part-time

Lavoro part-time: la discriminazione penalizza le donne In tema di discriminazione del lavoro a tempo parziale, la Cassazione non condivide l’interpretazione secondo cui vi sia automatismo tra riduzione orario di lavoro e dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche

Impiego part-time e progressione di carriera

Nella causa promossa da una lavoratrice part- time è stato esaminato l’impatto del lavoro con orario ridotto rispetto a possibili progressioni di carriera. In particolare, l’impiegata aveva lamentato che, essendo ella all’epoca della selezione interna, impiegata con un contratto part-time, nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione economica le era stato attribuito un punteggio ridotto in proporzione al minor numero di ore di lavoro svolte rispetto ai colleghi con pari anzianità ma impiegati a tempo pieno.

La circostanza sopra rappresentata, a detta della ricorrente, l’aveva sfavorita rispetto al collega controinteressato che l’impiegata aveva intimano nel contenzioso in esame.

Avverso la decisione del Giudice di secondo grado, la parte datoriale aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La discriminazione del lavoro a tempo parziale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. Cass-4313-2024, ha rigettato il ricorso proposto dalla datrice di lavoro, condannando la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i fatti di causa, ha affrontato il tema della discriminazione del lavoro a tempo parziale.

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha ritenuto di non condividere “l’affermazione della ricorrente secondo cui la ridotta valutazione di tale tipo di lavoro nel computo dell’anzianità di servizio rilevante ai fini della progressione economica sarebbe imposta dallo stesso art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000”. Invero, ha proseguito la Corte “quella disposizione riguarda soltanto la retribuzione del lavoratore a tempo parziale, che ovviamente non può essere uguale, ma deve essere proporzionata, a quella a tempo pieno” e non anche l’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Poste le suddette premesse, la Corte ha dunque espressamente affermato che nessun automatismo può esservi tra la riduzione dell’orario lavorativo e la riduzione dell’anzianità di servizio ai fini della progressione di carriera.

Pertanto ciò che occorre verificare è se “in base alle circostanze del caso concreto (…), il rapporto proporzionale tra anzianità riconosciuta e ore di presenza al lavoro abbia un fondamento razionale oppure non rappresenti, piuttosto, una discriminazione in danno del lavoratore a tempo parziale”.

La discriminazione indiretta di genere

La Corte d’appello aveva altresì accolto la contestazione della lavoratrice che aveva messo in rilievo come la suddetta discriminazione connessa al lavoro part-time andava essenzialmente a ledere le donne, così determinando una discriminazione indiretta di genere.

Anche tale aspetto ha formato oggetto di ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha ritenuto la censura non fondata. Posta l’infondatezza del motivo di ricorso, la Corte ha comunque dedicato una parte della propria decisione al fenomeno della discriminazione indiretta di genere nella vicenda in esame.

Nel caso sottoposto al vaglio di legittimità, il Giudice di merito, svolta una valutazione statistica in ordine all’elevato numero di donne impiegate presso la parte datoriale e alla maggiore frequenza tra le stesse della scelta del tempo parziale rispetto ai colleghi uomini, aveva concluso che “svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali (..) significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini”. Invero, la preponderante scelta da parte delle donne del lavoro a tempo parziale è da ritenersi connessa, secondo il giudice, al “notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impiego in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.

 

 

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