addebito separazione

Addebito della separazione: basta una sola violenza La Cassazione afferma che ai fini dell’addebito della separazione personale è principio generale quello secondo cui il giudice deve verificare se siano stati compiuti comportamenti in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio

Violazione dei doveri coniugali e crisi dei coniugi

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12662-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal marito e condannato lo stesso al pagamento delle spese processuali.

Per quanto qui rileva, il ricorrente ha contestato la decisione del Giudice di merito nella parte in cui la separazione personale era stata addebitata al marito in ragione della lesione personale contestata dalla moglie e consistente in un piccolo ematoma sul labbro inferiore.

Sul punto, la Corte ha rilevato che è principio generale quello secondo cui il giudice deve verificare, alla stregua delle risultanze acquisite con l’istruttoria, se siano stati compiuti comportamenti in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ex art 143 c.c., nonché accertare la sussistenza del nesso causale tra questi ultimi ed il verificarsi della situazione d’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Ne consegue, ha riferito il Giudice di legittimità che “la pronunzia di addebito della separazione non solo presuppone la violazione dei doveri coniugali, ma anche il nesso causale in ordine alla determinazione della crisi coniugale”.

La rilevanza dell’unico episodio violento

Ciò posto, la Corte ha precisato che i comportamenti del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge rappresentano, anche quando venga provato un unico episodio violento, “causa determinante dell’intollerabilità della convivenza”.

Invero, il comportamento sopra descritto, spiega la Corte è idoneo “a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte non ha pertanto accolto il ricorso dell’ex marito e ha confermato, per quanto rileva nella presente trattazione, le argomentazioni e gli esiti cui era giunto il Giudice di merito.

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linee guida pma

Procreazione medicalmente assistita (PMA): le linee guida Pubblicate in Gazzetta Ufficiale le linee guida sulle tecniche e sulle procedure di procreazione mediamente assistita

Linee guide PMA 2024

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 107/2024 sono state pubblicate le nuove linee guida sulla legge numero 40/2004 che disciplina la procreazione medicalmente assistita.

Le linee guida contenute nel decreto del Ministero della Salute del 20 marzo 2024 vanno a sostituire quelle emanate nel 2015, stante la necessità di innovare la materia e superare certi limiti, che negli anni sono stati rimossi dai numerosi interventi della Consulta. Nella premessa al decreto vengono infatti menzionate le seguenti pronunce della Corte costituzionale: n. 161 del 24 maggio 2023; n. 84 del 22 marzo 2016; n. 229 del 21 ottobre 2015; n. 96 del 14 maggio 2015; n. 162 del 9 aprile 2014; n. 151 del 1° aprile 2009.

A chi si rivolgono le linee guida

Le linee guida 2024 dettano le regole sulle procedure e sulle tecniche della procreazione medicalmente assistita e sono vincolanti per tutte le strutture autorizzate a svolgere questa pratica medica. Fanno parte integrante delle presenti linee guida anche le indicazioni su procedure e tecniche previste dalla legge numero 40/2004.

Oggetto linee guida PMA

Le linee guide si occupano di diversi aspetti della procreazione mediatamente assistita.

  • Ricorso alle tecniche di PMA solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause di infertilità o sterilità.
  • Gradualità nell’uso delle tecniche per evitare interventi più invasivi, sia tecnicamente che psicologicamente.
  • Consenso informato necessario per sottoporsi alle tecniche.
  • Accertamento dei requisiti per le coppie che richiedono l’accesso alle tecniche.
  • Sperimentazione sugli embrioni aggiornate in base alle sentenze della Corte Costituzionale, inclusa la sentenza n. 229/2015.
  • Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni posti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 151/2009.
  • Tecniche di PMA di tipo eterologo modificate dalla sentenza n. 162/2014, relative alle tecniche con donazione di gameti.
  • PMA per coppie fertili con malattie genetiche dopo la sentenza n. 96/2015.
  • Abolizione del reato di selezione degli embrioni come da sentenza n. 229/2015.
  • Preservazione della fertilità da patologie o terapie che possono compromettere la funzionalità delle gonadi.

Principi di applicazione delle tecniche

Le linee guida definiscono “infertile” la coppia che non riesce a concepire dopo un anno di rapporti sessuali non protetti, mentre “è sterile” l’individuo che presenta una condizione fisica permanente che impedisce il concepimento. Questi termini sono usati come sinonimi all’interno del documento.

Secondo l’art. 4 della legge n. 40/2004, il ricorso alle tecniche di PMA è circoscritto ai casi documentati di sterilità o infertilità inspiegate e accertate. Le tecniche devono essere applicate con gradualità per minimizzare l’invasività e devono basarsi  sul consenso informato.

Il ricorso alle tecniche di PMA è stato ampliato, ora possono accedervi anche le coppie che hanno crioconservato gameti o tessuto gonadico per preservare la fertilità, alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili e alle coppie sierodiscordanti con rischio di infezioni (HIV, HBV, HCV).

Indicazioni procedurali

Il medico ha l’obbligo di verificare  i requisiti previsti dalla legge n. 40/2004 raccogliendo l’autocertificazione dello stato di matrimonio o convivenza della coppia.

Chi richiede un trattamento di PMA deve effettuare gli esami preconcezionali previsti per donna, uomo e coppia, come stabilito dal decreto del 12 gennaio 2017.

Per lo screening delle patologie infettive in tecniche di PMA omologa o con donazione di gameti, si fa riferimento al decreto n. 131 del 23 agosto 2019.

Le coppie positive per HIV, HBV o HCV che desiderano la fecondazione in vitro devono considerare le implicazioni delle loro condizioni sui potenziali figli.

Registrazione e mantenimento dei dati

Ogni coppia deve avere una scheda clinica con i dati anagrafici, anamnestici, clinici, genetici, infettivologici, la diagnosi, il trattamento, le tecniche anestesiologiche, i nominativi degli operatori, il decorso clinico, eventuali complicanze e l’esito del trattamento.

La scheda di laboratorio invece deve contenere i dati anagrafici e le informazioni coerenti con la sezione E/2 dell’Accordo Stato-regioni 2012 e la direttiva 2006/17/CE modificata dal decreto n. 131 del 2019.

Entrambe le schede devono essere conservate dal centro. Una relazione conclusiva, clinica e biologica, destinata al medico curante e all’utente deve includere la procedura eseguita, il monitoraggio endocrino/ecografico, i dati di laboratorio, i farmaci usati durante il prelievo ovocitario, i risultati ottenuti e indicazioni terapeutiche post-procedura.  

PMA: le novità in sintesi

Tirando le fila, le linee guida 2024 hanno introdotto importanti e diversi elementi di novità rispetto a quelle del 2015. Vediamo i più importanti:

  • Le coppie dovranno sostenere il costo di un canone annuo per poter conservare gli embrioni che non vengono utilizzati.
  • Le coppie portatrici di patologie genetiche potranno decidere di non impiantare gli embrioni che presentino dei difetti genetici.
  • La donna potrà chiedere di procedere all’impianto dell’embrione anche se il rapporto con il partner è venuto meno o lo stesso è defunto.
  • Stop inoltre alla revoca del consenso alla P.M.A, presa la decisione non si torna indietro.

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Cognome materno: il no del padre non conta Per il Tar Veneto il dissenso del padre non determina alcun automatico effetto impeditivo all’attribuzione del cognome materno, sussistendo piena uguaglianza tra i genitori e ben potendo i rispettivi cognomi coesistere

Cognome materno al figlio

Nel caso in esame, la madre, esercente la responsabilità genitoriale, aveva impugnato il provvedimento con il quale la Prefettura aveva respinto la sua istanza per il cambio del cognome del figlio, con l’aggiunta del proprio cognome a quello paterno. Tale richiesta traeva origine dall’esigenza, avvertita a seguito dell’attribuzione ad altro figlio, nato dal nuovo matrimonio contratto dalla madre, dei cognomi di entrambi i genitori. Rispetto a tale circostanza si era infatti posta la necessità di formalizzare innanzi alla società, nella cerchia amicale e di fronte alle Istituzioni, il rapporto tra i due fratelli, entrambi figli della ricorrente e con essa conviventi.

Il diniego della Prefettura era stato espresso in ragione dell’opposizione del padre, formulata ai sensi dell’art. 91 del d.P.R. n. 396 del 2000 e tenuto conto della pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza n. 286/2016), con la quale era stato ritenuto ammissibile, in deroga alla regola consuetudinaria dell’automatica attribuzione del cognome paterno, l’attribuzione al figlio del cognome materno in aggiunta a quello paterno, sempreché vi sia una comune volontà in tal senso espressa da entrambi dei genitori.  Ebbene, nel caso di specie, è proprio la comune volontà dei genitori che sarebbe difettata, stante l’opposizione del padre naturale, conducendo dunque il prefetto al diniego della richiesta avanzata dalla madre.

Avverso tale decisione la madre aveva proposto ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto.

Cognome figlio: non è necessario l’accordo dei genitori

Il Tar Veneto, con sentenza n. 661-2024, ha accolto il ricorso proposto dalla madre e, per l’effetto, ha annullamento il provvedimento impugnato con cui era stata rigettata l’istanza della ricorrente.

Il Giudice amministrativo ha anzitutto ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, sottolineando come la richiesta della madre era stata proposta ai sensi dell’art. 89, del d.P.R. n. 396 del 2000, secondo cui “chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto”.

Rispetto alla questione in esame, il Tar ha rilevato come l’originaria procedura di attribuzione del cognome era basata, come rilevato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 61/2006, su un sistema costituente retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affondava le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico e di una tramontata potestà maritale, non più ritenuta coerente con i principi dell’ordinamento. Tale sistema è stato pertanto abbandonato dalla Corte Costituzionale, dapprima, con la citata pronuncia n. 286/2016 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che non consentono ai coniugi di trasmettere, di comune accordo, il cognome materno e, più di recente, con la sentenza n. 131/2022 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre con riferimento ai figli nati dentro e fuori dal matrimonio e a quelli adottivi.

Rispetto a quanto sopra rappresentato, ha spiegato il Tar, “l’equiparazione delle figure genitoriali in sede di attribuzione del cognome alla prole (…) si traduce nella regola secondo cui al figlio sono assegnati i cognomi di entrambi i genitori salvo accordo contrario, così da porre sul medesimo piano giuridico le linee, paterna e materna, della filiazione, in un assetto che le vuole complementari e coesistenti, proprio perché allo stesso modo essenziali nella definizione dell’identità dell’individuo”.

Dissenso del padre: nessun effetto impeditivo

Alla stregua delle suddette considerazioni, nonché della lettura costituzionalmente orientata di cui si è dato sopra conto, il Giudice amministrativo ha pertanto rilevato “l’erroneità dell’assunto prefettizio circa l’indispensabilità dell’assenso di entrambi i genitori. Non può infatti essere riconosciuto al dissenso manifestato dal padre alcun automatico effetto impeditivo dell’esame dell’istanza della madre, sussistendo piena uguaglianza e pari dignità morale e giuridica tra entrambi i genitori e ben potendo i rispettivi cognomi coesistere – e ciò anche a prescindere dal riparto nel concreto della responsabilità genitoriale, nel caso di specie attribuita alla sola madre affidataria – in quanto funzionali alla definizione dell’identità del figlio”.

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ANF: guida agli assegni per il nucleo familiare Cos’è l'assegno per il nucleo familiare (ANF), a chi spetta e quali sono i livelli reddituali in vigore da luglio 2024 a giugno 2025

Cos’è l’assegno per il nucleo familiare

L’assegno per il nucleo familiare (ANF) è un contributo economico, che viene riconosciuto ai lavoratori dipendenti del settore privato. L’assegno spetta in base al numero dei soggetti che compongono il nucleo familiare e al reddito del nucleo stesso. Questa la ragione per la quale, una volta ottenuto l’assegno, è necessario comunicare al soggetto obbligato a corrisponderlo qualsiasi variazione nel termine di 30 giorni dal loro verificarsi.

A chi spetta l’assegno per il nucleo familiare

L’assegno per il nucleo familiare è riconosciuto ai lavoratori dipendenti che presentino regolare e specifica domanda. Dal 2005 la domanda per l’ANF può essere presentata al datore di lavoro anche dal coniuge del dipendente al fine di ottenere il pagamento diretto degli importi.

I soggetti che possono fare domanda per l’assegno del nucleo familiare sono:

  • i lavoratori del settore privato;
  • i dipendenti del settore agricolo, esclusi i coltivatori diretti, i coloni, i mezzadri e i piccoli coltivatori diretti;
  • i dipendenti di ditte che hanno cessato l’attività o sono fallite;
  • i soggetti che percepiscono prestazioni economiche previdenziali ricollegabili al lavoro dipendente;
  • i lavoratori in aspettativa sindacale, i marittimi che hanno subito un infortunio e sono stati sbarcati e i dipendenti che si trovano in una condizione di pagamento diretto.

Domanda ANF: come fare

La domanda per l’assegno per il nucleo familiare deve essere presentata annualmente in ragione della variazione del presupposto reddituale.

L’istanza deve essere presentate all’INPS in modalità telematica mediante il servizio dedicato. Non è necessario presentare una nuova domanda se il dipendente che ne ha diritto viene assunto presso un altro datore di lavoro durante il periodo di validità dell’assegno.

La domanda da presentare al datore di lavoro invece richiede l’impiego del modello cartaceo ANF/DIP (SR16). Nei casi previsti dalla legge è necessario allegare il provvedimento di autorizzazione della domanda modello ANF43.

Se la domanda per l’ANF viene presentata da parte di lavoratori di attività cessate o fallite, la stessa va presentata all’INPS in modalità online mediante il servizio dedicato nel rispetto del termine di prescrizione di 5 anni.

La domanda può essere presentata anche con le seguenti modalità:

  • Contact center INPS (803 164 gratuito per le chiamate da rete fissa) 06164164 (a pagamento per le reti mobile);
  • Servizi telematici messi a disposizione dai patronati.

Livelli reddituali ANF 2024 – 2025

Come anticipato, l’importo dell’assegno per il nucleo familiare varia anche in base al reddito del nucleo.

Per l’anno 2024, con la Circolare n. 65-del 15.05.2024 l’INPS ha comunicato l’aggiornamento dei livelli di reddito, rivalutati in base alla variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati e degli importi degli assegni.

A partire dal 1 marzo 2022, in virtù della istituzione dell’assegno unico e universale per i nuclei familiari con figli e orfani, i livelli di reddito che vengono presi in considerazione per il riconoscimento dell’ANF sono solo quelli dei nuclei familiari di cui non fanno parte i figli e che sono quindi formati da coniugi, fratelli, sorelle e nipoti.

La rivalutazione riguarda infatti le seguenti tabelle, contenute nell’Allegato 1 della Circolare-n. 65/2024:

  • 19     nuclei familiari composti esclusivamente da soggetti maggiorenni inabili e diversi dai figli;
  • 20A nuclei familiari con entrambi i coniugi e senza figli;
  • 20B nuclei monoparentali senza figli in cui sia presente almeno un fratello, una sorella o un nipote inabile;
  • 21A nuclei familiari senza figli in cui non siano presenti soggetti inabili;
  • 21B nuclei monoparentali senza figli con almeno un fratello, una sorella o un nipote e in cui non siano presenti componenti inabili;
  • 21C nuclei familiari senza figli che includano almeno un coniuge inabile e nessun altro componente inabile;
  • 21D nuclei monoparentali senza figli, che comprendano almeno un fratello, una sorella, un nipote e in cui il solo soggetto richiedente sia inabile.

Addio assegno di divorzio anche senza convivenza La Cassazione chiarisce che, nella richiesta di revoca dell'assegno in favore dell'ex, il giudice deve valutare l'esistenza o meno di un progetto di vita comune e non la coabitazione in sé

La revisione dell’assegno divorzile

La Corte d’appello di Genova, interpellata in merito ad una richiesta di revisione dell’assegno di divorzio, aveva ritenuto non provata la nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario e aveva dunque ripristinato l’assegno divorzile revocato dal Giudice di prime cure.

Avverso tale decisione l’ex marito, tenuto al versamento dell’assegno, aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La nuova convivenza quale elemento solo indiziario

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 13175-2024, ha accolto il ricorso proposto dall’ex marito e ha cassato il provvedimento impugnato, rinviando la causa alla Corte d’appello competente.

Il Giudice di legittimità, dopo aver ricordato i presupposti normati necessari per procedere alla revisione dell’assegno divorzile, è passato all’esame della questione specifica sottoposta al suo vaglio, vale a dire il valore che in tale sede occorre attribuire all’assenza di coabitazione tra l’ex coniuge beneficiario dell’assegno e il suo nuovo partener.

A tal proposito, la Corte ha ricordato l’insegnamento offerto dalla medesima giurisprudenza di legittimità, la quale, in un caso analogo a quello in esame, aveva affermato che, qualora dell’ex coniuge economicamente più debole abbia instaurato una stabile convivenza di fatto con un terzo, il primo, se ancora privo dei mezzi necessari per far fronte alle proprie necessità, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno divorzile.

Posta tale interpretazione, che impone al giudice di compiere una valutazione caso per caso, la Corte ha pertanto affermato di non condividere la motivazione offerta dal Giudice di merito laddove ha escluso la nuova convivenza in ragione dell’assenza di una stabile coabitazione.

Invero, ha proseguito la Corte ha ricordato che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti (…) e gli eventuali ulteriori argomenti di prova” rilevanti per stabilire la sussistenza o meno della convivenza.

Non conta la coabitazione

In questo senso, ha spiegato la Corte, non è sufficiente rilevare che i partner abbiano due distinte abitazioni per escludere il progetto di vita comune e la relazione stabilmente more uxorio “potendo questo oggi declinarsi in forme assai distanti rispetto al modello di una società statica”.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha pertanto accolto il ricorso proposto, come sopra anticipato.

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assegno divorzio sospensione termini

Assegno di divorzio: scatta la sospensione dei termini Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che nei procedimenti in cui si discute del contributo di mantenimento o dell’assegno divorzile è applicabile la disciplina sulla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale

Esonero dall’assegno di mantenimento

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli aveva escluso che permanesse in capo all’ex marito il dovere di versare l’assegno di mantenimento alla madre in favore delle figlie, laureate e maggiorenni, poiché il venir meno della convivenza delle figlie con la madre aveva costituito una condizione determinativa del venir meno della legittimazione di quest’ultima ad ottenere il versamento dell’assegno di mantenimento della prole da parte del padre.

La sospensione dei termini processuali

Avverso la decisione adottata dal giudice di merito, il padre aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La sezione ordinaria della Corte investita del ricorso, valutata la questione pregiudiziale relativa alla tempestività del mezzo, aveva chiesto l’assegnazione della questione alle Sezioni Unite.

Il tema pregiudiziale prendeva avvio dal fatto che il ricorso era stato proposto diversi mesi dopo rispetto alla data di notifica dello stesso alla controparte, facendo emergere il dubbio interpretativo se “alle liti in materia di mantenimento per i figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti sia applicabile, o meno, la sospensione dei termini processuali prevista dagli artt. 3 della legge n. 742 del 1969 e 92, primo comma, dell’ord. giud.”.

La sezione rimettente ha evidenziato come, la soluzione interpretativa che si intende adottare nel caso di specie è condizionata dal significato da attribuire alla locuzione “cause civili relative ad alimenti” contenuta dalla suddetta norma e relativa agli affari civili da trattare anche durante il periodo feriale, poiché sottratti alla sospensione dei termini.

Il contrasto giurisprudenziale

Invero, sull’argomento è stato registrato un contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte stessa, a seguito di un recente intervento del Giudice di legittimità, il quale ha stabilito che, nelle cause in materia di mantenimento del coniuge debole e dei minori, non è applicabile la sospensione feriale dei termini processuali e che le stesse sarebbero pertanto assimilabili ai contenziosi in materia di alimenti non soggette alle pause processuali obbligatorie.

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, dopo aver ripercorso gli orientamenti giurisprudenziali e la normativa di riferimento ha affermato che “Poiché l’assegno divorzile non si può equiparare all’assegno alimentare, essendo diverse la natura e le finalità proprie dei due tipi di assegno, in nessuna delle controversie concernenti l’assegno divorzile può trovare applicazione l’esclusione dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale prevista dall’articolo 3 della legge n. 742 del 1969, in relazione all’articolo 92, primo comma, dell’ordinamento giudiziario, riguardo alle cause relative agli alimenti”.

Secondo l’opposta interpretazione, invece, la normativa emergenziale, introdotta a seguito della pandemia Covid-19, avrebbe sottratto entrambe le suddette fattispecie alla sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale.

Le Sezioni Unite non hanno tuttavia condiviso tale orientamento in quanto “nell’elenco delle cause alle quali la sospensione non è applicabile non compaiono quelle relative ad alimenti”; quest’ultime, spiega la Corte, sono infatti distinte dalle cause di separazione o di divorzio, le quali certamente rispondono alle necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, ma in un’accezione più ampia da quella sottesa alla prestazione alimentare strettamente intesa.

La decisione delle Sezioni Unite della Cassazione

Rispetto alle differenze sopra evidenziate, la Corte ha dunque ritenuto che la normativa emergenziale, pur facendo riferimento alle “cause relative ai diritti delle persone minorenni, al diritto all’assegno di mantenimento, agli alimenti e all’assegno divorzile”, oltre ad avere natura transitoria era anche destinata a stabilire quali fossero le eccezioni alla generale regola della sospensione processuale durante il periodo feriale, configurandosi in questo senso come una normativa specifica e a termine con l’esclusiva finalità di tutelare la salute pubblica in un particolare momento storico.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 12946-2024, ha dunque dichiarato inammissibile il ricorso e ha rimesso gli atti alla prima sezione civile per l’esame dei singoli motivi.

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congedo parentale 2024

Congedo parentale 2024: le istruzioni INPS L'INPS ha fornito le istruzioni per la fruizione del congedo parentale a seguito delle novità introdotte dalla legge di bilancio 2024

Congedo parentale 2024

Con la circolare n. 57/2024, l’INPS ha fornito le istruzioni per la fruizione del congedo parentale a seguito delle novità introdotte dalla legge di Bilancio 2024.

La manovra infatti (art. 1 comma 179 l. n. 213/2023) ha modificato il comma 1 dell’articolo 34 del D.lgs 26 marzo 2001, n. 151, recante “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, disponendo l’elevazione, dal 30% al 60% della retribuzione, dell’indennità di congedo parentale per un’ulteriore mensilità da fruire entro il sesto anno di vita del figlio (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età). Per il solo anno 2024 l’elevazione dell’indennità di congedo parentale per l’ulteriore mese è pari all’80% della retribuzione (invece del 60%).

La previsione, in alternativa tra i genitori, si applica ai lavoratori dipendenti che terminano il congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023.

La circolare fornisce le istruzioni di carattere amministrativo e operativo per i lavoratori dipendenti del settore privato, mentre per quelli pubblici, “il riconoscimento del diritto al congedo in argomento e l’erogazione del relativo trattamento economico sono a cura dell’Amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro, secondo le indicazioni dalla stessa fornite”.

I destinatari

Ai fini dell’individuazione della platea dei destinatari cui si rivolge la novella normativa in oggetto, osserva l’INPS, “avendo il legislatore modificato il solo articolo 34 del D.lgs n. 151/2001, l’elevazione dell’indennità riguarda esclusivamente i lavoratori dipendenti, restando escluse tutte le altre categorie di lavoratori (lavoratori autonomi di cui al Capo XI del T.U., lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, ecc.)”.

Per cui, se un genitore è lavoratore dipendente e l’altro appartiene ad altra categoria lavorativa, l’ulteriore mese di congedo parentale indennizzato al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) spetta solo al primo.

Elevazione dell’indennità al 60% della retribuzione

La legge di Bilancio 2024 non aggiunge un ulteriore mese di congedo parentale indennizzato ma dispone l’elevazione dell’indennità al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) per un ulteriore mese (rispetto a quello già previsto dalla legge 29 dicembre 2022 n. 197, di seguito legge di Bilancio 2023) dei tre spettanti a ciascun genitore e non trasferibili all’altro.

L’elevazione è riconoscibile a condizione che il mese di congedo parentale sia fruito entro i 6 anni di vita (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età) del minore.

Solo per il 2024, spetta un’indennità all’80% della retribuzione anziché al 60%.

L’elevazione dell’ulteriore mese al 60% della retribuzione (80% per il 2024) si applica anche ai genitori adottivi o affidatari/collocatari e interessa tutte le modalità di fruizione del congedo parentale: intero, frazionato a mesi, a giorni o in modalità oraria.

L’ulteriore mese indennizzato al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) è uno solo per entrambi i genitori e può essere fruito in modalità ripartita tra gli stessi o da uno soltanto di essi.

La fruizione “alternata” tra i genitori, prevista dal novellato articolo 34 del D.lgs n. 151/2001, inoltre, “non preclude la possibilità di fruirne nei medesimi giorni e per lo stesso figlio, come consentito per tutti i periodi di congedo parentale”.

Decorrenza della nuova disposizione

La previsione normativa della legge di Bilancio 2024, chiarisce ancora l’istituto, “interessa esclusivamente i genitori che terminano (anche per un solo giorno) il congedo di maternità o, in alternativa, di paternità successivamente al 31 dicembre 2023”.

Sono, quindi, esclusi tutti i genitori che abbiano concluso la fruizione del congedo di maternità o di paternità al 31 dicembre 2023.

La domanda

La domanda di congedo parentale deve essere presentata esclusivamente in modalità telematica attraverso uno dei consueti canali:

  • il portale istituzionale INPS, se si è in possesso di identità digitale (SPID almeno di livello 2, CIE 3.0 o CNS), utilizzando gli appositi servizi raggiungibili dalla homepage attraverso il percorso “Lavoro” > “Congedi, permessi e certificati”;
  • il Contact center integrato, chiamando il numero verde 803.164 (gratuito da rete fissa) o il numero 06 164.164 (da rete mobile a pagamento, in base alla tariffa applicata dai diversi gestori);
  • gli Istituti di Patronato, utilizzando i servizi offerti dagli stessi.

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Cambio di sesso, tutele unione civile estese fino al matrimonio La Corte Costituzionale ha stabilito che i diritti della coppia dell'unione civile non si estinguono nell'attesa di contrarre matrimonio

Unione civile e cambio di sesso

Nell’ipotesi in cui uno dei componenti di una unione civile proponga domanda di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso, e entrambi intendano proseguire la loro relazione trasformandola in matrimonio, i diritti della coppia non si estinguono nel periodo compreso tra la cessazione del vincolo pregresso e la celebrazione del matrimonio stesso.
E’ quanto ha stabilito la Consulta, con la sentenza 66-2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge sulle unioni civili) nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile senza prevedere, laddove il richiedente la rettificazione e l’altra parte dell’unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione.

La qlc

La questione era stata sollevata dal Tribunale di Torino, nel corso di un giudizio introdotto, per la rettifica di sesso da uno dei componenti di una unione civile. Il giudice a quo aveva ravvisato il contrasto della normativa
censurata, oltre che con l’art. 2, anche con l’art. 3 Cost., lamentando la disparità di trattamento rispetto alla ipotesi, speculare, in cui il percorso di transizione di genere sia attraversato da una coppia in origine eterosessuale, e unita in matrimonio: “in tale ipotesi – si legge nel comunicato stampa ufficiale – l’art. 1, comma 27, della stessa legge n. 76 del 2016 dispone che, ove i coniugi abbiano manifestato personalmente e congiuntamente al giudice, nel corso del giudizio per rettificazione di sesso, la volontà di proseguire la loro relazione dando vita ad una unione civile, alla rettificazione di sesso consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile”.

La decisione

La Corte – si legge nella nota stampa – “ha escluso la violazione dell’art. 3 Cost., sottolineando che, se pure il vincolo derivante dalla unione civile produce effetti molto simili a quelli del matrimonio, si tratta pur sempre di effetti non del tutto coincidenti, e, in parte, di estensione ridotta rispetto al vincolo coniugale, e ricompresa nel più ampio spettro dei diritti ed obblighi da questo originati. La obiettiva eterogeneità delle situazioni a confronto esclude pertanto, la fondatezza del dubbio di contrasto con l’art. 3 Cost.”.
Quanto al sospetto di contrasto della disciplina censurata con l’art. 2 Cost., la Consulta ha anzitutto rilevato che “l’unione civile costituisce una formazione sociale in cui i singoli individui svolgono la propria personalità, ed è
connotata da una natura solidaristica non dissimile da quella propria del matrimonio, in quanto comunione spirituale e materiale di vita, ed esplicazione del diritto fondamentale della persona di vivere liberamente una
condizione di coppia, con i connessi diritti e doveri”.

Ciò posto, la Corte Costituzionale ha rilevato che i componenti dell’unione civile, “ove manifestino la volontà di conservare il rapporto nella diversa forma del matrimonio a seguito dello scioglimento automatico del vincolo pregresso quale effetto della sentenza di rettificazione anagrafica del sesso di uno di essi, vanno comunque incontro, nel tempo necessario alla celebrazione del matrimonio stesso, ad un vuoto di tutela, a causa del venir meno del complessivo regime di diritti e doveri di cui erano titolari in costanza dell’unione civile. Tale mancanza di tutela entra in frizione con il diritto inviolabile della persona alla propria identità, di cui pure il percorso di
sessualità costituisce espressione”.

Non senza considerare, ha aggiunto il giudice delle leggi che, “nel tempo necessario alla ricostituzione della coppia secondo la nuova forma legale, i componenti potrebbero essere colpiti da eventi destinati a precludere in modo irrimediabile la costituzione del nuovo vincolo. Tuttavia, avuto riguardo alle differenze già evidenziate tra unione civile e matrimonio – osserva ancora la Corte – il rimedio a tale situazione non può essere quello di omologare le due situazioni, estendendo al caso di scioglimento della prima l’effetto di automatica trasformazione in matrimonio che l’art. 1, comma 27, della legge n. 76 del 2016 prevede nel caso di passaggio dal secondo alla prima. Il rimedio deve, invece, consistere nella sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo per il tempo necessario affinché le parti celebrino il matrimonio, sempre che esse abbiano manifestato tale volontà davanti al giudice durante il giudizio di rettificazione del sesso, fino alla udienza di precisazione delle conclusioni, analogamente a quanto prevede per i coniugi nell’ipotesi inversa, l’art. 31, comma 4-bis, del
d.lgs. n. 150 del 2011”.
La durata di tale sospensione è stata individuata dalla Consulta “nel termine di 180 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione, termine mutuato dall’art. 99 c.c., che prevede lo stesso termine per la celebrazione del matrimonio, con decorrenza dalle pubblicazioni. Da tale pronuncia consegue che l’ufficiale dello stato civile, ricevuta la comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione del sesso con la dichiarazione del giudice relativa alla sospensione degli effetti dello scioglimento del vincolo, deve procedere alla relativa annotazione”.
Pertanto la Corte ha altresì dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 70-octies, comma 5, del D.P.R. n. 396 del 2000 sull’ordinamento dello stato civile, per la mancata previsione di tale incombenza.

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si conta anche la convivenza Le Sezioni Unite della Cassazione chiariscono che la convivenza prematrimoniale deve essere presa in considerazione nella determinazione dell'assegno divorzile

Convivenza prematrimoniale nell’assegno divorzile

La convivenza prematrimoniale che ha «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio, deve necessariamente essere presa in considerazione nella determinazione dell’assegno divorzile. Così, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 35385-2023, ha accolto il gravame proposto dalla ricorrente in relazione al computo della convivenza prematrimoniale ai fini della determinazione dell’assegno divorzile.

I criteri di determinazione dell’assegno divorzile

A tal proposito, il Giudice di legittimità ha anzitutto compiuto un ampio excursus in ordine ai criteri di determinazione dell’assegno divorzile, ricordando, in particolare, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la storica sentenza n. 18287/2018 con cui era stata superata la distinzione tra “criterio attributivo e criteri determinativo dell’assegno di divorzio, essendosi affermato che il giudice deve accertare l’adeguatezza dei mezzi (…) alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”. La suddetta sentenza, inoltre, aveva introdotto il principio di autoresponsabilità nell’ambito del rapporto coniugale e durante tutta la sua durata, dunque anche nella fase patologica.

La rilevanza della convivenza prematrimoniale

Posto quanto sopra, la Corte è poi passata all’esame del caso di specie, riguardante le contestazioni avanzate da un’ex moglie in ordine alla mancata valutazione, da parte del Giudice di merito, del contributo economico e personale dalla stessa fornito durante la fase prematrimoniale. La ricorrente ha in particolare messo in rilievo come, già durante detto periodo, i futuri coniugi avevano compiuto scelte comuni di organizzazione della vita familiare e di riparto dei rispettivi ruoli.

Rispetto a tale doglianza, le Sezioni Unite hanno ricordato che nel nostro ordinamento sussiste indubbiamente “una differenza (..) tra matrimonio e convivenza, (..) dato che il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre la convivenza di fatto, al contrario, è un modello «familiare non a struttura istituzionale». Tuttavia, convivenza e matrimonio sono comunque modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto”.

Ciò posto, la Corte ha messo in luce come, considerata la crescente diffusione sociale del fenomeno della convivenza, la convivenza prematrimoniale, laddove protrattasi nel tempo ed abbia «consolidato» una divisione dei ruoli domestici capace di creare «scompensi» destinati a proiettarsi sul futuro matrimonio e sul divorzio che dovesse seguire, deve necessariamente essere presa in considerazione anche nella fase patologica del rapporto coniugale e dunque anche ai fini della determinazione dell’assegno divorzile, tenendo conto dei criteri stabiliti dalle Sezioni Unite nel 2018.

Concluso l’esame sulla questione di massima importanza sopra riassunta, il Giudice di legittimità ha enunciato il seguente principio di diritto “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase «di fatto» di quella medesima unione e la fase «giuridica» del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio”.

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incentivo all'esodo

Incentivo all’esodo: non va nell’assegno di divorzio La Cassazione spiega che l'indennità di incentivo all'esodo, con cui è regolata la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, non è assimilata all'indennità di fine rapporto e non è computata nella determinazione dell'assegno divorzile

Spettanze di fine rapporto e assegno divorzile

Nel caso in esame il titolare di assegno divorzile aveva domandato al Giudice di merito la corresponsione di quanto percepito dall’ex coniuge in ragione della cessazione del suo rapporto di lavoro.

All’ex moglie veniva riconosciuta in primo grado una quota del trattamento di fine rapporto percepito dall’ex coniuge. Il Giudice di secondo grado aveva confermato la spettanza di fine rapporto in favore dell’ex moglie ed aveva altresì escluso la richiesta formulata dalla stessa in ordine alla percezione dell’incentivo all’esodo.

A tal ultimo proposito, la Corte di appello di Milano aveva ritenuto doversi escludere che l’incentivo all’esodo rientrasse nell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis legge n. 898 del 1970, in quanto altrimenti si sarebbe finito con l'”attribuire all’ex coniuge una quota di retribuzioni future, non accumulate durante il matrimonio, non collegate quindi alla durata del matrimonio secondo la previsione letterale della norma”.

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione da parte dell’ex moglie.

Contrasto interpretativo sull’incentivo all’esodo nell’assegno divorzile

Con sentenza n. 6229-2024, le Sezioni Unite della Cassazione hanno rigettato il ricorso principale proposto e compensato le spese di lite.

La Cassazione, chiamata a pronunciarsi, per quanto qui rileva, in ordine alla spettanza o meno dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge titolare di assegno divorzile, ha anzitutto dato conto del contrasto interpretativo insorto in ordine alla spettanza dell’ex coniuge all’incentivo all’esodo e delineato nell’ordinanza interlocutoria. A tal riguardo, un primo orientamento sostiene che “le somme corrisposte a (..) titolo (d’incentivo all’esodo) non avrebbero natura liberale né eccezionale, costituendo, piuttosto, reddito di lavoro dipendente (..)”, mentre un contrapposto orientamento ritiene che “l’indennità di cui è menzione nell’art. 12-bis riguarda unicamente quell’indennità, comunque denominata, che, maturando alla cessazione del rapporto di lavoro, è determinata in proporzione della durata del rapporto medesimo e dell’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore: connotazione ― questa ― non presente nell’incentivo all’anticipato collocamento in quiescenza”.

Posto il suddetto contrasto interpretativo, in relazione al quale è stato ritenuto necessario l’intervento delle Sezioni Unite, la Corte ha poi ripercorso la natura e la funzione assistenziale e perequativo-compensativa dell’assegno divorzile, così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità a partire dalla nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite 11 luglio 2018, n. 18287.

Spettanza dell’incentivo all’esodo all’ex coniuge

In ragione della natura e della funzione dell’assegno divorzile, la Cassazione ha evidenziato come la “ratio dell’art. 12-bis della l. n. 898 del 1970 debba individuarsi nel «fine di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato, ovvero di realizzare la ripartizione tra i coniugi di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio, così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune»”.

In relazione all’incentivo all’esodo, la Corte ha rilevato come esso sia estraneo al concetto d’indennità di fine rapporto, invero, ha osservato la Corte, tale indennità “non opera quale retribuzione differita, sicché è da escludere la conseguente necessità di farne partecipe il coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che di tale retribuzione ha già fruito sotto forma di assegno divorzile. In effetti, tale indennità non si raccorda ad entità economiche maturate nel corso del rapporto di lavoro, onde non trova fondamento giustificativo l’apprensione di una quota di essa da parte del coniuge che ha diritto alla percezione dell’assegno di divorzio: l’esigenza di assicurare, in chiave assistenziale e perequativo-compensativa, una ripartizione dei redditi maturati nel corso del matrimonio qui non ricorre, proprio in quanto non si è in presenza di proventi accantonati nel corso della vita coniugale e divenuti esigibili al cessare del rapporto lavorativo; si è piuttosto al cospetto di un’attribuzione patrimoniale discendente da un sopravvenuto accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il prestato consenso all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro (…). In definitiva, la spettanza, al coniuge divorziato, della quota del 40% dell’indennità in questione non ha mai modo di configurarsi”.

Sulla scorta delle suddette ragioni, la Corte di Cassazione ha dunque respinto il ricorso principale.

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