congedo parentale

Congedo parentale: la guida Congedo parentale: cos'è, normativa, a chi spetta, durata, indennità, come si chiede, a ore, autonomi e gestione separata, contributi

Cos’è il congedo parentale

Il congedo parentale, conosciuto anche come “astensione facoltativa“, in base alle definizione contenuta dall’articolo 2 del Dlgs n. 151/2001 è un diritto riconosciuto a lavoratrici e lavoratori dipendenti, che permette di prendersi cura dei figli nei primi anni di vita. Si tratta di un istituto centrale nella tutela della genitorialità e nella promozione dell’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa.

Il congedo parentale è un periodo di astensione dal lavoro che i genitori possono richiedere nei primi dodici anni di vita del figlio (oppure entro dodici anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento). A differenza del congedo di maternità e paternità obbligatori, il congedo parentale è un diritto facoltativo che può essere fruito in modo frazionato o continuativo, su richiesta.

A chi spetta

Il congedo parentale spetta a entrambi i genitori, naturali o adottivi, che siano lavoratori:

  • dipendenti del settore pubblico o privato, a tempo determinato o indeterminato;
  • iscritti alla gestione separata INPS, con requisiti specifici, tra i quali la non titolarità di pensione e la non iscrizione ad altre forme di previdenza obbligatorie;
  • autonomi con precise limitazioni.

Durata del congedo parentale

Secondo l’articolo 32 D.lgs. n. 151/2001, che disciplina nello specifico il congedo parentale “Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.”

Entro i limiti stabiliti, il diritto di astenersi dal lavoro per congedo parentale spetta a:

  • Madri lavoratrici: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, dopo aver terminato il periodo di congedo di maternità;
  • Padri lavoratori: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, a partire dalla nascita del figlio. Questo periodo può essere esteso a sette mesi nel caso specificato al comma 2, ossia nel caso in cui il lavoratore eserciti il diritto di astensione dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato per un periodo non inferiore a 3 mesi. In questo caso il limite complessivo dei congedi parentali è di 11 mesi.
  • Genitori singoli o con affidamento esclusivo: nel caso in cui vi sia un solo genitore, oppure un genitore al quale sia stato affidato il figlio in via esclusiva ai sensi dell’articolo 337-quater del Codice Civile, il congedo può durare per un periodo continuativo o frazionato non superiore a undici mesi. In quest’ultimo caso, l’altro genitore perde il diritto al congedo non ancora utilizzato. A tal fine, una copia del provvedimento di affidamento viene trasmessa all’INPS dal pubblico ministero.

Indennità e pagamento del congedo parentale

La retribuzione durante il congedo parentale è regolata dall’art. 34 del D.lgs. 151/2001 e varia in base all’età del figlio e alla durata della fruizione.

La norma stabilisce che, per i periodi di congedo parentale e fino al dodicesimo anno di vita del figlio a ogni genitore spetta:

  • per tre mesi, non trasferibili, un’indennità del 30% della retribuzione, che può essere elevata, in alternativa tra i genitori, per due mesi complessivi fino al sesto anno di vita del bambino nella misura dell’80% della retribuzione;
  • e per la durata massima di un altro mese fino al sesto anno di vita del bambino, all’80% della retribuzione.
  • In alternativa tra loro i genitori hanno diritto anche a un periodo ulteriore di congedo di 3 mesi al massimo. Per questi mesi l’indennità è del 30% della retribuzione.
  • Se il genitore è uno solo lo stesso ha diritto a un’indennità del 30% della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi.
  • In caso di affidamento esclusivo a un solo genitore a questo spetta in via esclusiva l’indennità che spetterebbe alla coppia.

Come richiedere il congedo parentale

La richiesta deve essere presentata:

  1. al datore di lavoro con un preavviso di almeno 5 giorni (salvo casi di urgenza);
  2. all’INPS tramite i seguenti canali:
    • portale INPS con SPID, CIE o CNS;
    • contact center INPS;
    • patronato o intermediario abilitato.

Congedo parentale a ore

È possibile, previo accordo con il datore di lavoro, usufruire del congedo anche in forma orizzontale (ad ore). Questo permette una maggiore flessibilità per conciliare il lavoro con la genitorialità.

Lavoratori autonomi e iscritti alla gestione separata

Anche i lavoratori autonomi e gli iscritti alla gestione separata INPS possono fruire del congedo parentale, ma a condizioni più limitate.

I genitori che siano lavoratori autonomi hanno diritto a un congedo parentale massimo di tre mesi per ogni figlio, che possono utilizzare nel primo anno di vita del figlio o entro un anno dall’ingresso del minore adottato o in affido. Il congedo spetta però se il lavoratore autonomo abbia provveduto a versare i contributi relativi al mese che precede il congedo e a condizione che lo stesso si astenga effettivamente dal lavoro.

I lavoratori iscritti alla gestione separata hanno diritto al congedo parentale, a determinate condizioni, entro i primi dodici mesi di vita del bambino (dalla nascita o dall’ingresso del minore adottato o in affidamento). Ogni genitore ha diritto a 3 mesi di congedo indennizzato, che non può trasferire all’altro genitore. I genitori hanno diritto inoltre a altri tre mesi di congedo indennizzati in alternativa per un periodo complessivo di 9 mesi.

Congedo parentale e contribuzione figurativa

I periodi di congedo parentale sono coperti da contribuzione figurativa, ai fini pensionistici, solo per i periodi indennizzati. I periodi non retribuiti non generano contribuzione utile alla pensione, salvo il riscatto volontario.

 

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detrazione per figli a carico

Figlio maggiorenne: il genitore affidatario mantiene la detrazione La Cassazione conferma: la detrazione per figli a carico resta invariata al raggiungimento della maggiore età, senza bisogno di un nuovo accordo tra genitori separati

Detrazione per figli a carico maggiorenni

Detrazione per figli a carico: con l’ordinanza n. 15224/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha stabilito un principio rilevante per le famiglie separate: il genitore affidatario può continuare a beneficiare della detrazione fiscale per i figli a carico anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età del figlio, nella stessa misura prevista durante la minore età, senza necessità di stipulare un nuovo accordo con l’altro genitore.

Cartella esattoriale per detrazione “non condivisa”

Una madre, affidataria esclusiva dei figli, aveva fruito per intero della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi, anche dopo che i figli avevano raggiunto la maggiore età. L’Agenzia delle Entrate le aveva contestato la mancata ripartizione del beneficio con l’ex coniuge, notificandole una cartella esattoriale da oltre mille euro.

La Commissione Tributaria Provinciale le aveva dato ragione, ma in appello la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato il verdetto, affermando che – con la maggiore età dei figli – era necessario un nuovo accordo tra gli ex coniugi per regolare le detrazioni. La madre ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

Nessuna norma impone un nuovo accordo

La Corte ha accolto il ricorso, censurando la tesi dell’Agenzia delle Entrate e della CTR. I giudici hanno chiarito che non esiste alcuna disposizione di legge che richieda un accordo tra genitori separati per continuare a fruire della detrazione al compimento della maggiore età del figlio.

Anzi, la Cassazione ha richiamato la prassi amministrativa della stessa Agenzia delle Entrate, la quale – con la circolare n. 15/E del 2007 e la successiva n. 34/E del 2008 – aveva già affermato che, in assenza di un diverso accordo, le detrazioni restano ripartite come in precedenza.

Detrazione per figli a carico: il principio della Cassazione

La Suprema Corte ha enunciato con chiarezza il seguente principio di diritto: “La detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”.

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casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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bonus latte artificiale

Bonus latte artificiale  Bonus latte artificiale: cos’è, normativa, a chi spetta, requisiti reddituali e soggettivi, importo e come fare domanda

Cos’è il bonus latte artificiale

Il bonus latte artificiale è un contributo economico previsto per supportare le famiglie nell’acquisto di formule per lattanti in caso di accertata impossibilità dell’allattamento materno. Si tratta di una misura sanitaria e sociale introdotta per garantire pari opportunità di nutrizione ai neonati nei primi mesi di vita, nel rispetto delle linee guida pediatriche.

La normativa di riferimento

Il bonus è stato istituito con l’art. 1, comma 456 della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Legge di Bilancio 2020) e successivamente regolamentato con il Decreto del Ministero della Salute del 31 agosto 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 266 del 8 novembre 2021. L’erogazione del beneficio è subordinata all’individuazione delle risorse disponibili e all’attivazione delle procedure a livello regionale o aziendale (ASL).

A chi spetta il bonus latte artificiale

Il bonus può essere richiesto esclusivamente da madri:

  • residenti in Italia;
  • con indicazione medica di impossibilità all’allattamento al seno per motivi patologici (ad esempio infezioni croniche, terapie farmacologiche incompatibili, ipogalattia severa documentata, interventi chirurgici, patologie metaboliche o infettive, ecc.);
  • con un ISEE minorenni in corso di validità non superiore a 30.000 euro annui.

È importante evidenziare che il beneficio è rivolto a supportare l’alimentazione dei bambini nei primi sei mesi di vita, periodo ritenuto fondamentale per lo sviluppo neonatale.

Importo del contributo

L’importo massimo riconosciuto è di € 400 annui, da riproporzionarsi in base al numero di mesi in cui l’allattamento al seno è impossibile.

L’importo viene concesso una tantum, in relazione al periodo di impossibilità all’allattamento certificato dal medico specialista o dal pediatra di libera scelta.

Modalità di richiesta

Le modalità operative per ottenere il bonus latte artificiale variano leggermente da Regione a Regione. In generale, la domanda va presentata alla propria ASL di appartenenza, entro i primi sei mesi dalla nascita, allegando:

  1. il certificato medico attestante l’impossibilità di allattare per patologia, rilasciato da uno specialista del Servizio Sanitario Nazionale o da un pediatra;
  2. la certificazione ISEE in corso di validità;
  3. il documento di identità della madre richiedente;
  4. il codice fiscale del bambino;
  5. le ricevute fiscali o scontrini parlanti comprovanti l’acquisto del latte artificiale.

La richiesta può essere presentata in modalità cartacea o telematica, secondo le indicazioni fornite dalla ASL o Regione di appartenenza (come ASL Pescara, Regione Puglia, Regione Lazio ecc.).

Modalità di erogazione del bonus latte artificiale

L’ASL competente provvede a verificare la documentazione e ad autorizzare l’erogazione del contributo tramite:

  • rimborso delle spese già sostenute, su presentazione delle ricevute;
  • in alcuni casi, voucher o contributi diretti da utilizzare presso farmacie o punti vendita convenzionati.

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spese straordinarie

Reato non pagare le spese straordinarie per i figli Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare

Violazione obblighi di assistenza familiare

Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570-bis c.p.). La norma incriminatrice non si limita infatti all’assegno, ma include tutti gli “obblighi di natura economica in materia di affido dei figli”. Questo comprende sia le spese per i bisogni ordinari dei figli, ma prevedibili e ricorrenti, che quelle imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili per il loro interesse. Queste spese, come l’assegno, sono fondamentali per il mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, garantendo il loro benessere. L’inadempimento quindi, se provato, è penalmente rilevante. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza  n. 19715/2025.

Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Un uomo viene condannato alla pena della reclusione di due anni per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 bis c.p. L’imputato non ha infatti adempiuto all’obbligo di corrispondere alla ex moglie l’assegno per il mantenimento dei figli e il 50% delle spese straordinarie.

Mancato pagamento delle spese straordinarie 

Nell’impugnare la sentenza l’imputato con il terzo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione della legge penale. A suo dire il mancato pagamento delle spese straordinarie non integra il reato di cui è stato ritenuto responsabile. L’articolo 570 bis c.p. non si riferirebbe infatti alla violazione degli obblighi economici diversi da quelli relativi alla separazione dei coniugi e all’affido condiviso dei figli.

Spese straordinarie: principi civilistici

La Cassazione annulla senza rinvio la sentenza perché il reato è prescritto e respinge il terzo motivo relativo alle spese straordinarie. Questo il ragionamento della Corte.

Nel caso specifico, l’imputato è stato chiamato a rispondere del mancato pagamento delle spese straordinarie, pattuite al 50% con i provvedimenti di separazione e divorzio. Trattasi nello specifico di importi significativi, in gran parte legati a spese mediche, sanitarie o scolastiche.

Per la difesa il mancato versamento queste spese non costituisce reato, specialmente nel periodo in cui l’assegno di mantenimento e quello divorzile sono stati regolarmente corrisposti. Questa argomentazione difensiva però per gli Ermellini non è fondata.

Spese straordinarie imprevedibili e imponderabili

La Cassazione ricorda che la giurisprudenza civile ha sottolineato l’importanza delle spese straordinarie, dato che la normativa positiva non le definisce in modo esplicito. La giurisprudenza di legittimità ha inquadrato in particolare le spese straordinarie nel contesto del concorso negli oneri relativi all’educazione, istruzione e mantenimento della prole.

La stessa ha stabilito in particolare che le spese “straordinarie” sono quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, non rientrano nell’ordinaria gestione della vita dei figli. L’inclusione forfettaria di queste spese nell’assegno di mantenimento potrebbe, infatti, violare i principi di proporzionalità e adeguatezza del mantenimento, a discapito della prole (Cassazione n. 1562/2020).

Ai fini giuridici, è stata operata infatti una distinzione tra:

  • esborsi per bisogni ordinari che consistono nelle spese certe e prevedibili, che integrano l’assegno di mantenimento e sono azionabili in base al titolo originario (es. sentenza), con un calcolo puramente aritmetico;
  • spese imprevedibili e rilevanti che sono invece quelle che, per il loro ammontare e per l’imprevedibilità, richiedono un’autonoma azione di accertamento, rispettando l’adeguatezza alle esigenze del figlio e la proporzionalità del contributo del genitore (Cassazione n. 379/2021).

La Cassazione ricorda inoltre che il genitore collocatario non è obbligato a concordare preventivamente ogni spesa straordinaria, ma solo le “decisioni di maggiore interesse” (art. 337-ter c.c.). Negli altri casi, l’altro genitore è tenuto al rimborso, salvo validi motivi di dissenso (Cassazione n. 15240/2018).

Mancato pagamento spese straordinarie reato

Questi principi civilistici sulle spese straordinarie risultano applicabili anche in sede penale. Pertanto, il reato di cui all’art. 570-bis c.p. è integrato anche dal mancato pagamento delle spese straordinarie, sia quelle certe e prevedibili che integrano l’assegno, sia quelle imprevedibili ma indispensabili per l’interesse dei figli, purché previste da un titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi. L’art. 570-bis c.p. fa riferimento del resto non solo all’assegno, ma in generale agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, nei quali rientrano anche le spese straordinarie, essenziali per garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli come previsto dall’art. 147 c.c.

 

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cittadinanza italiana per matrimonio

Cittadinanza italiana per matrimonio Cittadinanza italiana per matrimonio: normativa, chi può chiederla e quali requisiti occorrono, tempi, procedura e rigetto dell'istanza

Cittadinanza italiana per matrimonio: acquisto

L’acquisizione della cittadinanza italiana per matrimonio è una delle modalità previste dalla legge per diventare cittadini italiani. Si tratta di una procedura amministrativa regolata dall’articolo 5 della Legge 5 febbraio 1992, n. 91, che consente al coniuge di un cittadino italiano di ottenere la cittadinanza a determinate condizioni di residenza, convivenza e regolarità giuridica.

Normativa di riferimento

La cittadinanza per matrimonio è disciplinata da:

  • Art. 5 della Legge n. 91/1992 (“Nuove norme sulla cittadinanza”);
  • Regolamento di attuazione DPR n. 572/1993;
  • Modifiche introdotte dal D.L. n. 113/2018 (Decreto Salvini), convertito in L. n. 132/2018;
  • Circolari ministeriali e aggiornamenti disponibili sul sito del Ministero dell’Interno.

Questa forma di acquisizione è facoltativa e subordinata alla presentazione di un’apposita istanza da parte dell’interessato, che deve dimostrare il possesso dei requisiti richiesti.

Chi può richiederla

Può richiedere la cittadinanza italiana per matrimonio:

  • il coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano (anche naturalizzato), se il matrimonio è regolarmente trascritto nei registri di stato civile italiano;
  • il coniuge legalmente residente in Italia o all’estero.

Requisiti per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

I principali requisiti per presentare l’istanza sono:

  1. Durata del matrimonio:
    • se i coniugi risiedono in Italia, è necessario che siano trascorsi almeno 2 anni dalla celebrazione del matrimonio;
    • se risiedono all’estero, il termine è di 3 anni;
    • questi termini sono dimezzati ( 1 anno o 18 mesi) in presenza di figli nati o adottati dalla coppia.
  1. Residenza legale o iscrizione AIRE:
    • il richiedente deve essere regolarmente residente in Italia.
  1. Validità del matrimonio:
    • il vincolo matrimoniale deve essere ancora in essere al momento del giuramento;
    • non deve essere intervenuta la separazione legale, l’annullamento o il divorzio.
  1. Assenza di condanne penali gravi e di pericoli per la sicurezza della Repubblica.
  2. Conoscenza della lingua italiana
    • A partire dal 4 dicembre 2018, il richiedente deve dimostrare una conoscenza della lingua italiana almeno di livello B1, mediante certificazione rilasciata da enti riconosciuti (es. Università per Stranieri di Perugia o Siena, Dante Alighieri, CILS).

Presentazione dell’istanza

L’istanza deve essere presentata online tramite il portale del Ministero dell’Interno (ALI – https://portaleservizi.dlci.interno.it);

Va corredata da documentazione anagrafica, penale, certificato di conoscenza linguistica, versamento del contributo di 250,00 euro e marca da bollo di 16,00 euro.

Tempi per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

La normativa prevede che il procedimento si concluda entro 24 mesi, prorogabili fino a 36 mesi nei casi più complessi, come stabilito dall’art. 9-ter della L. 91/1992 per le domande presentate dopo il 21 dicembre del 2020. l conteggio parte dalla data di completa ricezione della documentazione, non da quella di invio della domanda.

Tuttavia, nella prassi, i tempi possono risultare variabili, soprattutto in base alla Prefettura competente, alla completezza dell’istanza e all’eventuale necessità di integrazione documentale.

Fasi della procedura:

  1. presentazione dell’istanza online sul portale ALI;
  2. verifica dei documenti da parte della Prefettura (se residente in Italia) o del Consolato (se all’estero);
  3. istruttoria ministeriale e verifica dei requisiti;
  4. decreto di concessione della cittadinanza;
  5. giuramento di fedeltà alla Repubblica, da effettuare entro 6 mesi dalla notifica del decreto presso il Comune di residenza o l’autorità consolare.

Cause di rigetto della domanda

L’istanza può essere rigettata nei seguenti casi:

  • intervenuta separazione o scioglimento del matrimonio;
  • presenza di condanne penali rilevanti;
  • documentazione incompleta o falsa;
  • mancata conoscenza certificata della lingua italiana;
  • motivi di sicurezza dello Stato (parere negativo dei servizi di intelligence).

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moglie tradita

Risarcimento di 10.000 euro per la moglie tradita Moglie tradita: spetta il risarcimento del danno non patrimoniale di 10.000 euro per le umiliazioni e le mortificazioni

Risarcimento del danno per la moglie tradita

Alla moglie tradita, umiliata e mortificata a causa del tradimento del marito con una allieva della scuola di danza, che gestivano insieme, spetta un risarcimento del danno di 10.000 euro, quantificato in via equitativa. Lo ha deciso il Tribunale di Treviso nella sentenza n. 201/2025.

Moglie tradita: domanda di separazione con addebito

Una donna agisce in giudizio, vantando una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti del suo ex marito. La coppia, sposatasi il 25 agosto 2007, dopo anni di frequentazione, condivideva una passione comune per la danza che li ha portati a fondare insieme una società sportiva di successo. Nel periodo tra settembre e novembre 2011 però, la donna scopre, visionando il cellulare del marito, che questi intratteneva una relazione extraconiugale con un’allieva della loro scuola di ballo. Circostanza ammessa dal marito nel momento in cui la moglie rinviene un biglietto inequivocabile scritto dall’amante. Nonostante le rassicurazioni del marito e il tentativo di salvare il matrimonio, la relazione extraconiugale prosegue anche nei primi mesi del 2012. A questo punto la moglie decide di abbandonare la casa coniugale nell’ottobre 2012 e avviare un giudizio di separazione con addebito.

Richiesta risarcitoria della moglie tradita

La sentenza di separazione, pubblicata il 19 febbraio 2019, riconosce la colpa in capo al marito, ma dichiara inammissibile la domanda risarcitoria in quella sede. La donna si rivolge quindi al Tribunale per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, proponendo una liquidazione basata sulle tabelle milanesi in tema di danno da perdita del vincolo parentale o di diffamazione, da applicare per analogia.

Nessun risarcimento in assenza di danno

Il marito, costituitosi in causa, contesta la domanda risarcitoria. Per l’uomo la violazione del dovere di fedeltà non è sufficiente a giustificare un risarcimento del danno aquiliano. Occorre piuttosto che la lesione riguardi un diritto costituzionalmente garantito e che l’afflizione superi la soglia della normale tollerabilità. Tali presupposti però non sono ravvisabili nel caso di specie. Le parti hanno infatti alternato periodi di separazione di fatto. La moglie inoltre, già nel 2013, ha instaurato una relazione e una convivenza con un socio finanziatore della sua nuova attività imprenditoriale nel settore della danza. Circostanza questa che escluderebbe la violazione di un diritto alla salute. La moglie ha infatti dimostrato di saper riorganizzare sia la propria vita sentimentale che lavorativa. L’uomo nega inoltre che la sua condotta possa aver violato i diritti soggettivi della moglie come l’onore e la dignità personale, perché la relazione non è stata condotta in modo pubblico o ostentato. Per quanto riguarda il quantum del risarcimento infine, l’uomo ritiene del tutto sproporzionati i parametri scelti dall’attrice e non applicabili per analogia al loro caso.

Risarcimento danni non patrimoniali

Il Tribunale, istruita la causa, si pronuncia in favore della moglie sul diritto al risarcimento.

Il Giudice richiama a tale fine l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità per la quale la violazione del dovere di fedeltà coniugale può dar luogo a risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 c.c. Occorre però che l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto (salute, onore, dignità personale).

Nel caso specifico, il Tribunale ritiene integrati tali presupposti. Il tradimento, peraltro reiterato anche dopo le rassicurazioni dell’uomo di voler interrompere la relazione, si è verificato in un momento in cui la coppia aveva consolidato una solida progettualità, non solo attraverso la società di danza, ma anche con il comune desiderio di avere un figlio, come emerso dalla sentenza separativa.

Moglie tradita, umiliata e mortificata

Il Tribunale evidenzia come le modalità del tradimento abbiano provocato umiliazione e mortificazione alla donna. La relazione extraconiugale è infatti maturata nell’ambiente lavorativo della scuola di danza, con un’allieva verso cui l’uomo mostrava attenzioni particolari, notate dagli altri allievi e che hanno favorito il “vociferare nel corridoio” e il “malevolo pettegolezzo”. Le voci sulla relazione hanno circolato inoltre, non solo tra gli allievi, ma anche tra insegnanti di altre scuole. Un episodio significativo si è poi verificato durante una competizione all’estero. In questa occasione l’uomo è stato sorpreso in atteggiamenti intimi con l’allieva in presenza di altri allievi. Fatto questo che ha alimentato ulteriormente il chiacchiericcio.

Queste condotte, ritenute dal Tribunale superiori alla normale tollerabilità, hanno generato “strepitus”, curiosità e maldicenza di terzi. Questi fatti hanno ferito indubbiamente l’onore, il decoro, la stima professionale, la riservatezza e la privacy della donna, che ha vissuto momenti di depressione, tristezza e umiliazione, con innegabile pregiudizio morale.

Risarcimento del danno di 10.000 euro

Il Tribunale respinge però i parametri risarcitori proposti dall’attrice. Va infatti esclusa l’equiparazione del tradimento alla lesione del vincolo parentale o alla diffamazione a mezzo stampa, data la diversità dei presupposti costitutivi.

Il criterio risarcitorio da adottare è quello equitativo, ai sensi dell’articolo 1226 c.c, tenuto conto che:

  • il discredito subito dalla donna va circoscritto all’ambito lavorativo;
  • la lesione dei diritti soggettivi non le ha impedito di instaurare una nuova relazione sentimentale e di fondare una nuova scuola di danza con il compagno finanziatore;
  • il patimento e la tristezza sono durati circa due mesi.

Alla luce di tutti questi aspetti il Tribunale quantifica in € 10.000,00 il risarcimento dovuto alla moglie tradita.

 

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guida senza patente

Guida senza patente: multa al genitore che non vigila sul figlio Cassazione: genitore multato (con sanzione da oltre 5mila euro) per omessa vigilanza sul figlio minorenne che guida una moto senza patente

Guida senza patente

Guida senza patente: con l’ordinanza n. 14000/2025, la Seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio chiave in materia di responsabilità genitoriale per illecito amministrativo: quando un minore guida un motociclo senza patente, il genitore può essere sanzionato per culpa in vigilando, a meno che non dimostri di aver fatto tutto quanto possibile per impedire la condotta.

Minorenne alla guida di una moto senza patente

Il caso trae origine da un ricorso proposto da un genitore, destinatario di una sanzione amministrativa da 5.110 euro per la violazione dell’art. 116, commi 15 e 17, del Codice della Strada. Il verbale era stato elevato dalla Polizia Stradale di Lecce, dopo aver accertato che il figlio minorenne aveva condotto una Honda 150 cc pur essendo privo di patente, mai conseguita.

Secondo gli agenti, il genitore, pur non autorizzando esplicitamente il comportamento del figlio, non avrebbe esercitato una vigilanza adeguata, incorrendo così nella responsabilità diretta prevista dall’articolo 2 della legge n. 689/1981.

Il percorso giudiziario

La contestazione è stata inizialmente respinta dal Giudice di Pace di Lecce (sentenza n. 2772/2020) e successivamente confermata dal Tribunale, che ha ribadito come il genitore fosse tenuto a impedire materialmente al minore di mettere in atto la condotta illecita. Non è sufficiente, infatti, una vigilanza astratta o generica: è richiesta una condotta attiva e preventiva, volta ad evitare ogni rischio di infrazione.

Cassazione: responsabilità salvo prova contraria

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14000 del 2025, ha confermato integralmente le decisioni di merito, specificando che la responsabilità genitoriale per le sanzioni pecuniarie comminate ai figli minorenni è presunta, personale e diretta, e può essere esclusa solo se si fornisce una prova rigorosa dell’impossibilità di impedire l’evento.

In altre parole, il genitore può evitare la multa solo se dimostra, con elementi concreti, di avere:

  • esercitato un controllo continuo e adeguato sul figlio;

  • adottato tutte le misure ragionevoli per impedirgli l’uso del veicolo;

  • non avuto in alcun modo la possibilità concreta di impedire l’infrazione.

Nel caso di specie, tali requisiti non risultavano soddisfatti, e la multa è stata ritenuta legittima.

Culpa in vigilando

La decisione si fonda su un principio consolidato: in caso di illeciti stradali commessi da minorenni, i genitori rispondono non come meri garanti astratti, ma in quanto obbligati a una vigilanza attiva e continua, soprattutto in situazioni ad alto rischio come l’utilizzo di veicoli a motore. La culpa in vigilando, in ambito amministrativo, comporta dunque una responsabilità autonoma, che può derivare anche da comportamenti omissivi.

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addebito della separazione

Addebito della separazione al marito che disprezza  la moglie Addebito della separazione al marito che quotidianamente e in presenza di terze persone dimostra disprezzo nei confronti della moglie

Marito sprezzante: addebito della separazione

Sull’addebito della separazione al marito della coppia separata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 12799/2025 dichiara di condividere le conclusioni dei giudici di merito. Dalle prove emerse nel giudizio di primo e di secondo grado è emerso infatti che la fine del matrimonio è attribuibile solo al marito. Costui, anche in presenza di terzi, ha infatti sempre palesato il proprio disprezzo nei confronti della moglie.

Addebito della separazione: marito autoritario

Il Tribunale di Milano  pronuncia la separazione personale di due coniugi, addebitandola al marito. Il marito appella la decisione, contestando l’addebito a suo carico.

Marito responsabile della fine del matrimonio

La Corte d’Appello di Milano però conferma la decisione di primo grado su questo punto. Per l’autorità giudiziaria la condotta dell’uomo verso la moglie è stata sempre autoritaria e quotidianamente sprezzante. È proprio questo comportamento ad aver compromesso irrimediabilmente l’unione matrimoniale. La testimonianza della cognata ha confermato questa tesi, confermando il continuo disprezzo del marito nei confronti della coniuge. La Corte ha anche evidenziato che il marito ha costretto la figlia e il suo compagno a lasciare un appartamento di sua proprietà dopo un litigio con la moglie. Ragione per la quale la donna ha abbandonato la casa coniugale per trasferirsi altrove. Per la Corte è quindi indubbio che la responsabilità della fine del matrimonio sia da attribuire interamente all’uomo. Il marito però non accetta queste conclusioni e per questo ricorre in Cassazione.

Contestazioni all’addebito della separazione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 151 c.c., la nullità della sentenza per mancata pronuncia su una specifica domanda, l’assenza dei presupposti per l’addebito a suo carico, l’errata lettura e valutazione delle dichiarazioni testimoniali e dei documenti e la mancata pronuncia sulla domanda di addebito formulata nei confronti della moglie.

Omessa pronuncia su addebito separazione alla moglie

Il ricorrente lamenta in particolare che la sentenza avrebbe omesso di pronunciarsi sulla sua domanda di addebito contro la moglie. Detta richiesta tra l’altro, ampiamente argomentata e supportata da documentazione (anche medica), avrebbe offerto una valutazione delle dichiarazioni testimoniali non coerente, ritenendo attendibile, nonostante le contraddizioni, la testimonianza della figlia, rancorosa nei confronti del padre per la questione dell’appartamento. Sottolinea anche l’omessa valutazione di altre testimonianze. Si duole infine della mancata risposta alla sua domanda di addebito, fondata sul rifiuto della moglie di accompagnarlo a un intervento chirurgico, sugli insulti e le invettive a lui rivolte, e sulla violenza fisica perpetrata dalla moglie dopo il suo intervento al cuore.

Abbandono del tetto coniugale della moglie

L’uomo evidenzia inoltre che la moglie aveva appoggiato la figlia nella disputa sull’appartamento, assumendo un contegno offensivo, allontanandolo dal letto coniugale e abbandonandolo a sé stesso. Afferma infine di essere stato vittima di aggressione fisica e verbale da parte della moglie nonostante fosse convalescente da un intervento di bypass coronarico, circostanza che lo aveva costretto a recarsi al Pronto Soccorso.

Provate le continue condotte sprezzanti

La Corte di Cassazione nel pronunciarsi sul motivo incentrato sulla contestazione dell’addebito della separazione, lo dichiara inammissibile. Per gli Ermellini, in relazione all’addebito della separazione a carico della moglie, il ricorrente si è limitato a fornire una diversa valutazione degli esiti istruttori, il che non è sindacabile in sede di legittimità, essendo il giudizio sui fatti riservato al giudice di merito. La denuncia dell’omessa pronuncia sulla domanda di addebito da parte della Corte d’Appello non supera la soglia di ammissibilità. Il ricorrente non ha precisato il contenuto esatto della domanda formulata in primo grado e in appello.

Addebito della separazione: marito unico responsabile

In ogni caso, la Corte d’Appello ha ritenuto la responsabilità esclusiva del marito per la fine dell’unione, rigettando implicitamente la domanda di addebito formulata dal marito. Per questo non si configura vizio di omessa pronuncia. Per il resto, il motivo si risolve in censure di merito, inammissibili in sede di legittimità. Del resto, la valutazione delle prove e l’esame dei documenti sono attività riservate al giudice di merito, le cui conclusioni non sono sindacabili in Cassazione se adeguatamente motivate. La Corte ha ritenuto provate le condotte quotidianamente disprezzanti del marito nei confronti della moglie, sufficienti ad addebitare la separazione, il ricorrente invece ha semplicemente contrapposto una sua diversa valutazione.

 

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pma e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: ok della Consulta La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere il figlio nato in Italia da PMA effettuata all’estero, tutelando l’identità e i diritti del minore

PMA e madre intenzionale

PMA e madre intenzionale: con la sentenza n. 68 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004, nella parte in cui non consente alla madre intenzionale – ossia alla donna che ha prestato preventivo consenso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) effettuata all’estero insieme alla madre biologica – di essere riconosciuta come genitore del minore nato in Italia.

Tutela interesse del minore e responsabilità genitoriale

Secondo la Corte, il mancato riconoscimento legale della genitorialità della madre intenzionale, nel caso di PMA praticata all’estero nel rispetto delle normative locali, viola diversi principi costituzionali, in particolare:

  • Art. 2 Cost., per la lesione del diritto all’identità personale del minore e alla certezza del proprio stato giuridico sin dalla nascita;

  • Art. 3 Cost., per l’irragionevolezza della discriminazione rispetto ad altri nati da PMA e l’assenza di un controinteresse costituzionalmente rilevante;

  • Art. 30 Cost., per la lesione dei diritti del figlio ad essere riconosciuto e tutelato nei confronti di entrambi i genitori che hanno condiviso il progetto genitoriale.

La Consulta ha chiarito che la questione non attiene alle condizioni di accesso alla PMA in Italia, ma alla conseguenza giuridica derivante dal consenso consapevole prestato dalla coppia al ricorso a tecniche riproduttive fuori dal territorio nazionale.

L’interesse del minore come criterio guida

La Corte ha fondato la propria pronuncia su due capisaldi:

  1. L’impegno genitoriale condiviso che deriva dalla scelta comune di ricorrere alla PMA;

  2. La centralità dell’interesse del minore a veder riconosciuti i propri diritti nei confronti di entrambi i genitori, inclusa la madre intenzionale, a partire dalla nascita.

La negazione di tale riconoscimento, ha aggiunto la Corte, compromette il pieno esercizio del diritto del minore a essere educato, istruito e assistito moralmente da entrambi i genitori e a mantenere rapporti significativi anche con gli altri componenti delle rispettive famiglie d’origine.