Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno e Umberto De Rasis
L’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della L. 40/2004, viola, da un lato, gli artt. 13, comma 1, e 32, comma 2, della Costituzione e dall’altro, gli artt. 2, 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «quanto meno nella parte in cui non prevede, successivamente alla fecondazione dell’ovulo, un termine per la revoca del consenso». – Corte cost. 24 luglio 2023, n. 161.
Nel caso di specie la Corte Costituzionale è stata chiamata a valutare la legittimità dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo L. 40/2004 che nel disciplinare il consenso informato della coppia all’accesso alla pratica di procreazione medicalmente assistita, ne prevede la revoca fino al momento della fecondazione dell’ovulo.
La questione trae origine dalle sentenze della Corte Costituzionale (Corte cost. 8 maggio 2009, n. 151 e Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96) che avrebbero fatto venir meno il sostanziale divieto di crioconservazione, sicché la norma sull’irrevocabilità del consenso si troverebbe oggi ad operare in un contesto radicalmente diverso, in cui il trasferimento in utero dell’embrione potrebbe intervenire non più necessariamente «nell’immediatezza della formazione dell’embrione» (formulazione ancora contenuta all’art. 14, comma 3, L. 40/2004) ma anche «a distanza di anni» e, quindi, in una situazione profondamente mutata.
Poiché l’art. 5, comma 1, della L. 40/2004 permette di accedere alla PMA «solo a coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», nell’ipotesi in cui «venga meno il progetto di coppia prima del trasferimento dell’impianto», dovrebbe ritenersi sempre possibile la revoca del consenso.
Secondo il giudice rimettente la norma censurata contrasterebbe da un lato, con il diritto all’autodeterminazione in ordine alla decisione di non diventare genitore (artt. 2 e 117 Cost., con quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU) e dall’altro, con gli artt. 3 e 13 Cost. poiché, consentendo che la donna chieda l’impianto malgrado il sopravvenuto dissenso dell’uomo, la suddetta disciplina normativa irragionevolmente lo costringerebbe «a diventare genitore contro la sua volontà», determinando anche una disparità di trattamento tra i genitori intenzionali, potendo, infatti, la donna sempre rifiutare il trasferimento in utero dell’embrione formatosi a seguito della fecondazione, che non potrebbe esserle imposto in quanto lesivo della sua integrità psicofisica.
La norma sospettata si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 32, comma 2, Cost., giacché assoggetterebbe l’uomo a un trattamento sanitario obbligatorio.
La questione relativa alla violazione del principio di uguaglianza viene ritenuto infondata.
La situazione in cui versa la donna è, infatti, profondamente diversa da quella dell’uomo: come ha correttamente rilevato l’Avvocatura generale dello Stato, dopo la fecondazione solo lei resta esposta «all’azione medica», che può sempre «legittimamente rifiutarsi di subire», data l’«ovvia incoercibilità del trattamento», al quale si contrappone la tutela dell’integrità psico-fisica.
Proprio tale eterogeneità di situazioni conduce a escludere la prospettata violazione del principio di eguaglianza: secondo il costante orientamento di questa Corte, si è in presenza di una violazione dell’art. 3 Cost. solo «qualora situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili».
Infondate sono anche le censure relative agli artt. 2 e 3 Cost.
Va innanzitutto precisato che l’autodeterminazione dell’uomo matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione, come introdotta dalla giurisprudenza costituzionale, e anche a questa eventualità presta, quindi, il suo consenso.
Inoltre, va precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della L. 40/2004 ha una portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di figlio che comporta un’assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione.
Va poi considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti, in primo luogo attinenti alla donna. Essa, infatti, è sottoposta a impegnativi cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie, anche gravi; al prelievo dell’ovocita, nel caso di fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo; ad ulteriori trattamenti farmacologici e analisi; nonché interventi medici, successivi alla fecondazione.
L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla fecondazione.
Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna ha portato questa Corte a ritenere «insindacabile» la «scelta politico-legislativa» di lasciarla «unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza», senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito, precisando «che tale scelta non può considerarsi irrazionale in quanto è coerente al disegno dell’intera normativa e, in particolare, all’incidenza, se non esclusiva sicuramente prevalente, dello stato gravidico sulla salute sia fisica che psichica della donna»
Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione: la PMA, infatti, «mira a favorire la vita» (Corte cost. 9 aprile 2014, n. 162), volendo assistere la procreazione – cioè, la nuova nascita – e non la (sola) fecondazione, per cui non è precluso che la relativa disciplina possa privilegiare, anche nella sopraggiunta crisi della coppia.
Tale conclusione non è d’altro canto preclusa dal rilievo dell’indubbio interesse del nato grazie alla PMA a una stabile relazione con il padre, che si potrebbe ritenere ostacolata dalla sopravvenuta separazione dei genitori. Altro è la dissolubilità del legame tra i genitori, altro è l’indissolubilità del vincolo di filiazione, che è comunque assicurata, nella L. 40/2004, dai ricordati artt. 8 e 9.
Del resto, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un contesto familiare non conflittuale non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale talmente determinante da far preferire la non vita.
Infine, per ciò che concerne la violazione dell’art. 8 CEDE, la Corte Costituzionale richiama la stessa giurisprudenza della Corte Edu intervenuta a vagliare la compatibilità convenzionale del diritto inglese il quale, contrariamente a quello italiano, riconosce la revocabilità del consenso dell’uomo fino all’impianto dell’embrione nell’utero. In tal caso la Corte Edu, rilevando l’assenza di un comune consenso europeo sul punto ha rimarcato l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nel risolvere un dilemma a fronte del quale qualsiasi soluzione adottata dalle autorità nazionali avrebbe come conseguenza la totale vanificazione degli interessi dell’una o dell’altra parte, concludendo per l’insussistenza di motivi per ritenere che la soluzione adottata dal legislatore inglese avesse superato il margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU.
In conclusione, la previsione dell’irrevocabilità del consenso stabilita dalla norma censurata mantiene un non insufficiente grado di coerenza anche nel nuovo contesto ordinamentale risultante dagli interventi di questa Corte.