giurista risponde

Mantenimento figli e trattenute stipendio Ai fini della determinazione del reddito da lavoro dipendente funzionale alla determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, occorre prendere in considerazione ogni trattenuta effettuata dal datore di lavoro?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

In tema di assegno divorzile e di contributo al mantenimento del figlio, la determinazione del reddito da lavoro dipendente del soggetto a carico del quale sono richieste quelle prestazioni impone di tenere conto delle ritenute fiscali e contributive operategli in busta paga sulla retribuzione, mentre il rilievo attribuibile, per il medesimo fine, ad altre trattenute ivi eventualmente effettuategli dal datore di lavoro può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso. – Cass., sez. I, 3 marzo 2023, n. 6515.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di un genitore con una retribuzione netta di media di circa 1.500,00 mensili, gravata da pesanti oneri finanziari (in particolare, una cessione di Euro 397,00 e un prestito di Euro 347,00) che è stato condannato dal Tribunale al pagamento, a titolo di contributo per il mantenimento della prole, di Euro 300,00 per il figlio e di Euro 300,00 a titolo di assegno divorzile.

In sede di impugnazione, la Corte d’Appello ha rideterminato in Euro 250,00 sia l’assegno divorzile che il contributo in favore del figlio.

Avverso tale pronuncia la ricorrente ha adito i Giudici della Suprema Corte denunciando, per quanto qui di rilievo, la violazione e falsa applicazione della L. 898/1970, art. 5, comma 6 e dell’art. 316bis c.c. e della Costituzione, artt. 2 e 29.

In particolare, la censura muove dall’assunto che non ogni trattenuta che venga operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente debba essere presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito.

Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe disposto la riduzione dell’assegno valorizzando, sic et simpliciter, in modo indiscriminato, gli oneri finanziari gravanti sullo stipendio di controparte, senza prendere in considerazione le ragioni poste a fondamento dei medesimi.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.

In particolare, ha affermato che non ogni trattenuta che viene operata in busta paga sulla retribuzione di un lavoratore dipendente va presa in considerazione ai fini della determinazione del suo reddito. La Corte opera una distinzione tra le ritenute fiscali e contributive, che certamente vanno prese in considerazione perché la loro applicazione da luogo alla determinazione del reddito disponibile da parte del soggetto, e le altre trattenute eventualmente operate dal datore di lavoro, le quali corrispondono, nella generalità dei casi, a titoli che, a differenza dei primi, non prescindono dalla volontà dell’obbligato e derivano, invece, da suoi atti di disposizione.

Secondo la Corte, il rilievo attribuibile a tali ritenute, in sede di determinazione della condizione economica del coniuge ai fini dell’assegno di separazione, può variare a seconda del loro specifico titolo, dovendosi valutare il grado di necessità del corrispondente esborso.

Nell’accogliere il ricorso, dunque, la Corte rammenta che sarebbe stato necessario, laddove la sentenza impugnata ha proceduto alla riduzione dell’entità dell’assegno, che la Corte avesse verificato da cosa fossero concretamente scaturite le altre trattenute operate in busta paga dal datore di lavoro, evidentemente derivanti, da atti di disposizione di quest’ultimo.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 21 giugno 2012, n. 10380
giurista risponde

Sentenza divorzio effetti accordi a latere Gli accordi intervenuti a latere della separazione sono idonei a produrre effetti dopo la sentenza di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Non è possibile postulare una generalizzata impossibilità, per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, così negando ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 c.c. – Cass. III, 21 febbraio 2023 n. 5353.

La questione oggetto della pronuncia della Suprema Corte trae origine dal caso di una donna che, a seguito del divorzio, ha notificato all’ormai ex marito, un precetto con il quale ha invitato quest’ultimo a pagare una somma ritenuta dovuta in forza di un accordo stipulato tra le parti a latere della pronuncia di separazione.

In particolare, le parti, dopo avere depositato ricorso per la separazione avevano stipulato un accordo, ad integrazione della domanda in punto di mantenimento della prole, mediante il quale il padre si impegnava alla corresponsione di una somma ulteriore.

L’opposizione proposta dal presunto debitore è stata accolta dal giudice di prime cure con decisione confermata anche in appello, sul rilievo che l’accordo intervenuto tra gli ex coniugi, “a latere” del procedimento di separazione consensuale dagli stessi incardinato, fosse stato superato dal divorzio giudiziale, avendo tale provvedimento rideterminato le condizioni economiche previste in sede di separazione.

Avverso tale pronuncia, la creditrice ha presentato ricorso in cassazione basato su due distinti motivi: con il primo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 1322 c.c. In particolare, è stato evidenziato che non fosse possibile “tout court” affermarsi, se non in violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1322 c.c. che le obbligazioni contemplate in tali tipi di accordi, si estinguano automaticamente al momento del divorzio.

Con il secondo motivo, invece, è stata denunciata la falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. poiché, a dire della ricorrente, in applicazione del suddetto articolo, l’accordo doveva interpretarsi nel senso che “la durata dell’obbligazione era (ed è) stabilita per relationem, ossia in riferimento alla sussistenza dell’obbligo di mantenere i figli, a prescindere dal divorzio”.

A parere della ricorrente, infatti, dal momento che, nella specie, la lettera dell’accordo deponeva nel senso di collegare l’obbligo nascente dall’accordo al mantenimento della prole, esso era destinato a permanere anche nella sua natura “integrativa” rispetto a quanto previsto nel ricorso per la separazione consensuale dei coniugi, solo al venir meno di tale obbligo, prescindendo così dalle vicende relative alla cessazione degli effetti del loro mantenimento.

I giudici della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso ma hanno deciso di correggere la motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, c.p.c., ritenendo sussistere un vizio di motivazione su questione di diritto.

In particolare, la Corte ha affermato che la Corte d’Appello, negando a priori ogni valore all’autonomia privata, con violazione dell’art. 1322 così postulando una generalizzata impossibilità per tutti gli accordi intervenuti a latere del procedimento di separazione, di mantenere efficacia anche dopo la sentenza di divorzio, si è sottratta al dovere di esaminare il contenuto della pattuizione sottoposta al suo vaglio.

La Suprema Corte ritiene che siffatta affermazione si ponga in contrasto con il principio secondo cui tanto in caso di separazione consensuale che di divorzio congiunto “i coniugi possono concordare con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare”.

La Suprema Corte, tuttavia, esclude che tale rilievo possa giovare alla ricorrente, ritenendo i motivi di ricorso infondati. In particolare, la Corte specifica che la convenzione stipulata tra le parti nel caso di specie non sia idonea ad integrare un titolo esecutivo giudiziale, non rivestendo la forma dell’atto pubblico né della scrittura privata autenticata.

La Corte aggiunge, infine, che ove si fosse preteso, circostanza nemmeno invocata dalla ricorrente, di attribuire all’accordo efficacia “integrativa” del titolo giudiziale, sarebbe occorso che tale circostanza risultasse dal titolo stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 agosto 2014, n. 18066
giurista risponde

Collocamento figli conviventi more uxorio Quali sono i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di collocamento dei figli dei conviventi more uxorio e di assegnazione della casa familiare?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il Giudice, ai sensi degli artt. 337bis c.c. e seguenti, a fronte dell’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio ed in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo, è tenuto a pronunciarsi sul collocamento dei figli e sull’assegnazione della casa coniugale, non essendo necessario accertare “l’intollerabilità della convivenza”. – Cass., sez. I, 7 marzo 2023, n. 6810.

Lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 337bis, 337ter e seguenti, il genitore non collocatario delle figlie minori ha presentato ricorso avverso la pronuncia della Corte d’Appello con la quale è stato disposto il collocamento prevalente delle figlie presso la madre e l’assegnazione a suo favore della casa familiare.

In particolare, il ricorrente ha censurato la scelta della Corte d’Appello di accogliere la domanda di collocamento delle figlie presso la madre cui ha assegnato la casa familiare ritenendo che la decisione si sia fondata, erroneamente, sull’apodittica affermazione dell’esistenza di una intollerabilità della convivenza, senza considerare che anche se era venuto meno il progetto affettivo della coppia, il comune interesse per la crescita e l’educazione della prole era idoneo a giustificare la scelta del Tribunale, il quale aveva, invece, deciso di non pronunciarsi su tale domanda.

Secondo la Suprema Corte, il ricorso va respinto in quanto in parte inammissibile poiché afferente a circostanza non decisiva (intollerabilità della convivenza) ed in parte infondato.

La Suprema Corte premette che per la famiglia di fatto non trova applicazione l’art. 151, comma 1, c.c. laddove stabilisce che “la separazione può essere chiesta quando si verificano anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole” perché nella convivenza di fatto more uxorio la scelta di coabitare è libera e non consegue ad un obbligo giuridico.

Ciò premesso, secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe correttamente ritenuto che il Tribunale avesse omesso la doverosa pronuncia in merito al collocamento e all’assegnazione, ed avendo preso atto della volontà comune di non proseguire nel progetto di coppia, avrebbe correttamente statuito in merito all’assegnazione della casa familiare ed alla collocazione privilegiata del minore presso al madre.

La Corte, infine, specifica che la pronuncia sul collocamento dei minori e sull’assegnazione della casa coniugale prescinde dalla ricorrenza o meno di una intollerabilità della convivenza, essendo all’uopo sufficiente, per l’adozione dei provvedimenti in esame, l’avvenuta cessazione della convivenza more uxorio in assenza di una volontà comune e concorde dei genitori, già conviventi di fatto, alla prosecuzione della convivenza ad altro titolo.

 

giurista risponde

Copertura assicurativa per fatto del terzo La copertura assicurativa è esclusa se la responsabilità dell’assicurato sorge dal fatto del terzo ex art. 1228 cc.?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Un’interpretazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile, in virtù della quale la copertura è esclusa se la responsabilità dell’assicurato dovesse sorgere dal fatto del terzo ex articolo 1228 c.c., non è coerente con lo scopo del contratto, a meno che quest’ultimo non contenga un’espressa clausola di esclusione della copertura in caso di responsabilità dell’assicurato “per fatto altrui” di cui all’art. 1228 c.c. – Cass., sez. III, 7 marzo 2023, n. 6727.

Nel 1997 la Banca Nazionale del Lavoro, dovendo consegnare valori alla Poste Italiane S.p.A. li affidava per il trasporto alla società X la quale aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società Y. La società X affidava il trasporto di un valore consistente di denaro alla società Z la quale, a sua volta, aveva stipulato un’assicurazione contro i rischi derivanti dal trasporto con la società G. ed aveva contestualmente affidato la gestione del trasporto alla società S. La società S. aveva stipulato contratto assicurativo contro i rischi derivanti dal trasporto con la stessa società G.

Il furgone con il quale la società S. stava effettuando il trasporto viene assaltato e rapinato a mano armata sulla autostrada Salerno-Reggio Calabria; in conseguenza, tutti i valori venivano trafugati.

Con il quesito di diritto si chiede alla Corte di Cassazione di intervenire in tema di assicurazione civile sulla distinzione tra assicurazione per conto proprio e per conto altrui.

La Corte di Appello aveva, infatti, ritenuto che la copertura della responsabilità civile derivante dall’attività del sub vettore era prevista dal contratto solo a favore del contraente e non a favore di eventuali altri terzi sub vettori.

I giudici di legittimità non condividono questo assunto che confonde l’attività dell’assicurato, potenzialmente fonte di danno a terzi e coperta dal contratto di assicurazione della responsabilità civile, con lo stabilire quali siano i soggetti che possono invocare la polizza direttamente nei confronti dell’assicuratore. La Corte di Cassazione, preliminarmente stabilisce se la polizza stipulata dal vettore a copertura della propria responsabilità, fosse limitata alla responsabilità diretta ex art. 1218 c.c. o coprisse anche quella indiretta ex art. 1228 c.c.

La Suprema Corte rammenta che l’assicurazione di responsabilità civile può essere stipulata per conto proprio o per conto altrui (art. 1891 c.c.).

L’assicurazione di responsabilità civile stipulata per conto proprio copre il rischio di impoverimento del contraente; quella per conto altrui copre il rischio di impoverimento di persone diverse dal contraente, a prescindere dal fatto che quest’ultimo debba rispondere del loro operato.

La distinzione tra assicurazione per conto proprio e assicurazione per conto altrui si distingue fermamente dalla distinzione tra assicurazione della responsabilità civile per fatto proprio e assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui.

Nel primo caso la distinzione si fonda sulla sussistenza o meno, in capo al medesimo soggetto, della qualità di contraente o di assicurato. Si avrà assicurazione per conto altrui ex art. 1891 c.c. quando il contraente non è il titolare dell’interesse esposto al rischio ai sensi dell’art. 1904 c.c. Diversamente si avrà assicurazione per conto proprio quando il contraente della polizza è altresì titolare dell’interesse assicurato.

In caso di assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui, invece, la distinzione si fonda sul titolo della responsabilità dedotta ad oggetto del contratto.

Pertanto, nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto proprio, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento derivante da una condotta tenuta personalmente dall’assicurato; nel caso di assicurazione per responsabilità civile per fatto altrui, l’assicuratore copre il rischio di impoverimento dell’assicurato derivante da fatti commessi da persone del cui operato quello debba rispondere.

L’assicurazione per responsabilità civile si dirà per conto proprio o altrui a seconda di quale sia l’interesse assicurato; allo stesso modo, si dirà per fatto proprio o per fatto altrui a seconda di quale sia il rischio assicurato. In virtù della distinzione strutturale tra i due tipi, le stesse possono cumularsi.

Si potrà quindi stipulare: una assicurazione della responsabilità propria sia per fatto proprio che per fatto altrui che una assicurazione della responsabilità altrui sia per il fatto dell’assicurato che per il fatto di persone del cui operato l’assicurato debba rispondere.

Il vettore, pertanto, potrebbe teoricamente assicurare: la responsabilità propria, sia per fatto proprio che per fatto dipendente da colpa dei dipendenti o degli incaricati compresi i sub vettori; che la responsabilità civile dei sub vettori, configurandosi un’assicurazione della responsabilità civile per fatto altrui ex art. 1891 c.c.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 21 novembre 2019, n. 30314; Cass., sez. III, 5 giugno 2020, n. 10825
giurista risponde

Marchi, segni distintivi e responsabilità del fornitore È conforme all’art. 3, comma 1, direttiva 85/374/CEE l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, soltanto perché quest'ultimo abbia una denominazione, marchio o segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Va rimessa alla Corte di giustizia la questione se sia conforme all’art. 1, comma 1, direttiva 85/374/CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore. – Cass., sez. III, ord. 6 marzo 2023, n. 6568.

Nel caso di specie il ricorrente conveniva in giudizio la X S.p.A. quale venditrice e la Y S.p.A. quale produttrice della propria auto, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti in un sinistro automobilistico in cui non aveva funzionato l’air-bag della vettura.

La Y S.p.A., costituitasi in giudizio, resisteva negando di essere la produttrice, qualificando Y1 S.p.A., appartenente al suo stesso gruppo industriale, come tale. Eccepiva di non essere responsabile del difetto del prodotto lamentato, in quanto il fornitore non ne risponde se il produttore è individuato e comunque ne risulta comunicata l’identità al consumatore, come avvenuto nel caso di specie.

Il Tribunale accoglieva la domanda attorea dichiarando la responsabilità extracontrattuale della convenuta per difetto di fabbricazione dell’air-bag.

La società presenta ricorso e chiede, se necessario, il rinvio pregiudiziale alla CGUE.

Il nucleo della questione da dirimere è se ritenere sussistente la responsabilità della società Y S.p.A. per il suo trovarsi in una posizione equiparata a quella del produttore non evocato.

Il ricorrente richiama la nozione di “produttore” ai sensi dell’art. 3, D.P.R. 224/1988 quale “fabbricante del prodotto finito o di una sua componente e il produttore della materia prima” con l’estensione per cui “si considera produttore anche chi si presenti come tale apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla sua confezione”. La ratio dell’estensione della responsabilità va rinvenuta nei “considerando” della Direttiva secondo cui “ai fini della protezione del consumatore è necessario considerare responsabili tutti i partecipanti al processo produttivo” se il prodotto o parte di esso è difettoso e quindi anche di chi “si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo o fornisca un prodotto il cui produttore non possa essere identificato”.

La logica è quella di sanzionare, con l’estensione della responsabilità, un preciso contegno commissivo, e non puramente omissivo del fornitore che aggiunga per sue ragioni (pubblicitarie, commerciali o di altro tipo) al marchio di fabbrica il marchio proprio, così impedendo al consumatore di distinguere con certezza il produttore dando luogo ad un “comportamento confusorio del fornitore” che se ne avvantaggia e che pertanto del marchio deve ricavare responsabilità come quella del produttore per aver indotto in confusione anche il consumatore.

La Direttiva specifica che quando non può essere individuato il produttore del prodotto si considera tale il fornitore a meno che quest’ultimo comunichi al danneggiato, entro un termine ragionevole, l’identità del produttore o della persona che gli ha fornito il prodotto.

Nel caso in esame, però, la Y S.p.A., secondo i giudici di primo grado verrebbe a condividere la qualità di produttrice di Y1 S.p.A. per aver apposto il proprio nome sul prodotto.

Va chiarito, allora, cosa debba intendersi per apposizione del nome ovvero se l’apposizione debba essere soltanto una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto o se l’apposizione sia lato sensu e dunque includa pure la presenza dell’elemento distintivo rinvenibile sul prodotto anche nei dati identificativi del soggetto che in tal modo si presenta come produttore.

La ricorrente, sulla base di un precedente giurisprudenziale argomenta sul principio per cui il distributore o l’importatore rispondono del danno causato dal vizio costruttivo del prodotto, se abbiano un marchio o una ragione sociale coincidenti in tutto od in larga parte con quelli del produttore, e sotto tali segni distintivi abbiano commercializzato il prodotto.

Questo indirizzo si fonda in termini oggettivi sulla coincidenza del marchio o della ragione sociale del soggetto fornitore che così viene equiparato al produttore ai fini della condivisione della responsabilità verso il consumatore.

Ma nel caso di specie, la Y S.p.A. e la Y1 S.p.A., appartenenti al medesimo gruppo industriale, condividono nella loro denominazione l’elemento “Y”, senza che la prima si sia attivata per apporre sul prodotto un elemento per creare confusione al consumatore.

La tutela del consumatore effettuata mediante l’estensione della responsabilità del produttore a chi produttore non è ma ne condivide significativi dati esterni è offerta solo quando l’apposizione del marchio è effettuata da chi non è produttore per volutamente fruire di un’ambiguità rispetto al produttore? O, invece, va estesa anche quando produttore e non produttore condividono, come nel caso di specie, comunque e oggettivamente elementi nella denominazione alquanto consistenti nei propri dati identificativi?

Ci si chiede, pertanto, se la condivisione di elementi identificativi adeguati a confondere deve ritenersi frutto di una intenzionale specifica apposizione perché sia rafforzata la tutela del consumatore oppure anche una semplice coincidenza va ricondotta a un’attività di confondere i soggetti da sanzionare oggettivamente con la responsabilità paritaria rispetto all’effettivo produttore?

Il collegio, se da un lato apprezza la soluzione che tutela più intensamente il consumatore, dall’altro è ben consapevole che sarebbe sostenibile anche la linea offerta dal ricorrente. Per tale ragione rimette la questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, ord. 7 dicembre 2017, n. 29327
giurista risponde

Sottoscrizione del contratto falsificata Il contratto è valido se il soggetto la cui sottoscrizione viene falsificata ne è a conoscenza, ovvero se ne avvale?

Quesito con risposta a cura di Sara Rosati e Silvia Todisco

 

Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene. – Cass., sez. III, 22 febbraio 2023 n. 5479.

Nel caso di specie, la società X di Y.Z. presentava un progetto finalizzato all’ottenimento di agevolazioni finanziarie al Ministero delle Attività Produttive che l’ammetteva alle agevolazioni richieste concedendo un contributo in conto impianti da erogarsi in tre rate e subordinava l’erogazione del contributo alla presentazione di una garanzia fideiussoria da parte della società, finalizzata a garantire l’eventuale restituzione del contributo ricevuto. La società Gamma prestava la garanzia a prima richiesta nell’interesse della società X di Y.Z. fino a concorrenza dell’importo della prima tranche. Dopo quattro anni, il Ministero, ritenuto che la società non avesse rispettato le condizioni necessarie per fruire del beneficio, chiedeva la restituzione del contributo e veniva escussa la polizza fideiussoria. La società garante, dopo aver pagato e chiesto invano la restituzione dell’importo alla società garantita, agiva in regresso. Fatta opposizione, nel corso del giudizio di primo grado emergeva, a seguito di consulenza grafica, che la firma Y.Z. apposta sul contratto di concessione della polizza fideiussoria era falsa.

Il Tribunale rigettava l’opposizione affermando che, anche se la firma era falsa, la polizza era pur sempre riconducibile alla società che l’aveva fatta propria producendola al Ministero per ottenere l’agevolazione concordata.

La Corte di Appello confermava la sentenza del Tribunale ed aggiungeva che, depositando la polizza fideiussoria al Ministero, la società aveva realizzato una condotta specificatamente diretta ad avvalersi del contratto di garanzia pur malamente stipulato sopportandone ogni conseguenza.

Avverso la sentenza era proposto ricorso per Cassazione dal X.Y. denunciando nullità o inesistenza del contratto di garanzia per falsità della sottoscrizione del legale rappresentante della società. Il ricorso era rigettato.

La Corte di Cassazione riteneva che i fatti indicano che si è verificata non una attività svolta da un falsus procurator, quanto la distinta ipotesi di contratto stipulato sotto nome altrui o con sostituzione di persona, pur con la decisiva variante che il falso nome è stato usato da colui che ha agito come rappresentante legale della società. Nel caso di specie non si è verificato che una persona, correttamente identificata, abbia agito in nome e per conto della società assumendo di averne i poteri, dei quali era sprovvisto. Vi è stata, invece, la sottoscrizione della polizza fideiussoria da parte di persona rimasta sconosciuta che ha firmato, in qualità di debitore, con il nome di X.Y. Il contratto è poi stato utilizzato dalla garantita per accedere ai finanziamenti.

Il contratto in tal modo stipulato non è nullo ma improduttivo di effetti nella sfera giuridica dell’apparente firmatario, a meno che questi non lo faccia proprio. Occorre distinguere le ipotesi in cui l’autore della dichiarazione abbia voluto per sé il risultato del negozio, ovvero abbia inteso attribuirlo al titolare del nome dato, dovendosi procedere di volta in volta ad una operazione ermeneutica del comune volere dei contraenti. Nel caso di specie, l’usurpatore non ha riferito il contratto a sé stesso, né alla persona di cui ha usato il nome bensì alla società. La statuizione finisce per essere assimilabile ad una spendita indebita del nome della società.

In questa situazione, allora, è possibile, mediante l’applicazione analogica delle norme sulla rappresentanza, la ratifica da parte della società, da accertarsi in concreto con esame dei comportamenti concludenti che integrino la manifestazione della volontà di avvalersi del contratto di garanzia. Ciò è accaduto nel caso di specie in cui la società, portata formalmente a conoscenza dell’avvenuta prestazione di garanzia da parte della garante, non soltanto non l’ha immediatamente disconosciuta, denunciando la falsità della firma ed esplicitando che il proprio legale rappresentante non aveva mai sottoscritto il contratto, ma se ne è avvalsa nell’ambito procedimentale del finanziamento chiesto al Ministero. Il successivo disconoscimento della firma sul contratto, effettuato solo in sede di opposizione a decreto ingiuntivo e neppure accompagnato da una denuncia penale, avvalorano la tesi che conduce al rigetto del ricorso e all’affermazione del principio di diritto per cui “Il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 novembre 2016, n. 22891
giurista risponde

Rimedi negata trascrizione accordo negoziazione assistita Quali sono i rimedi esperibili nel caso di negata trascrizione dell’accordo di separazione con negoziazione assistita?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

La pacifica natura non contenziosa del procedimento di reclamo previsto dalla legge contro le decisioni del Conservatore, oltre ad escludere la stessa ricorrenza dei presupposti per l’ammissibilità del ricorso straordinario, esclude che la questione interessata dal motivo legittimi la ricorribilità in Cassazione del provvedimento impugnato, trattandosi di questione che, per quanto controversa, potrà in ogni caso essere devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria nell’ambito di un processo a cognizione piena. – Cass. II, 4 agosto 2023, n. 23851.

Il caso sottoposto alla Suprema Corte è stato occasionato da un mancato adempimento pubblicitario da parte di un Conservatore dei registri immobiliari di una convenzione di negoziazione assistita di separazione personale, in quanto ritenuta mancante dell’autenticazione delle sottoscrizioni previste dalla legge ad opera di un pubblico ufficiale a tanto abilitato.

Il Tribunale aveva accolto la richiesta dei reclamanti, ritenendo che l’autenticazione certificata da parte degli avvocati fosse sufficiente a rendere trascrivibile l’atto in forza di quanto previsto dall’art. 6, D.L. 132/2014, norma che equipara gli accordi in esame ai provvedimenti che definiscono i procedimenti di separazione personale, per i quali non è richiesta alcuna ulteriore autenticazione delle sottoscrizioni ai fini della loro trascrivibilità.

Nei confronti di tale provvedimento con il quale si ordinava al Conservatore di provvedere alla trascrizione prima rifiutata, proponeva reclamo l’Agenzia delle entrate. Con successiva ordinanza, la Corte territoriale accoglieva il reclamo, sostenendo che nel caso di specie venisse in rilievo l’art. 5, D.L. 132/2014 la quale, disponendo che ai fini della trascrizione degli accordi in esame fosse sempre necessaria la indicazione da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, costitusce disposizione di portata generale, mentre la norma citata dalla coppia (art. 6), riguardante la negoziazione assistita in ambito familiare, non contiene alcuna deroga al suddetto principio. Difatti, per la Corte di Appello deve ancora attribuirsi portata prevalente alla previsione di cui all’art. 2657 c.c., che individua i requisiti di forma che deve avere l’atto ai fini della trascrizione: tale norma non può reputarsi derogata dalla diversa previsione di cui al citato art. 6, D.L. 132/2014 che in maniera generica si limita a prevedere una equiparazione dall’accordo di negoziazione ai provvedimenti che definiscono i procedimenti di separazione.

La coppia pertanto aveva proposto ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 Cost.

La Suprema Corte ha preliminarmente affermato l’inammissibilità del ricorso straordinario avverso il procedimento di reclamo previsto dalla legge nei confronti delle decisioni del Conservatore in materia pubblicitaria. Il ricorso straordinario è infatti esperibile solo contro decisioni conclusive di procedimenti contenziosi. Il provvedimento in questione, al contrario, è pronunciato all’esito di un procedimento che non comporta esplicazione di un’attività giurisdizionale in sede contenziosa. Esso è privo dei caratteri della decisorietà e definitività e, pertanto, insuscettibile di passare in giudicato. Tale conclusione è stata raggiunta in numerosi ulteriori casi in cui veniva in rilievo il diniego di trascrizione. Si pensi, a titolo esemplificativo, al provvedimento adottato all’esito del reclamo di cui all’art. 113bis disp. att. c.c. per il diniego di iscrizione di ipoteca giudiziale a garanzia di un credito, in cui la Corte ha ribadito che il procedimento avverso il rifiuto dell’Agenzia del territorio di eseguire una trascrizione, previsto dall’art. 745 c.p.c., cui rinvia l’art. 113bis disp. att. c.c., ha natura di volontaria giurisdizione non contenziosa (Cass. 28 gennaio 2011, n. 2095).

Con specifico riferimento al caso de qua, essendo la questione rappresentata dai requisiti minimi che deve rivestire la forma necessaria per la trascrizione e non dal diritto alla trascrivibilità del provvedimento, il diniego del Conservatore risulta emesso ex art. 2674 c.c. in quanto non è stato negato il diritto a procedere alla trascrizione dell’accordo di negoziazione assistita, ma è stata esclusa a monte l’idoneità della forma ai fini dell’adempimento pubblicitario. Pertanto, non si riscontra alcun conflitto di interessi tra due parti, l’una interessata ad eseguire la trascrizione e l’altra interessata a non eseguirla. La pacifica natura non contenziosa del procedimento di reclamo previsto dalla legge contro le decisioni del Conservatore, oltre ad escludere la stessa ricorrenza dei presupposti per l’ammissibilità del ricorso straordinario, esclude la stessa ricorribilità in Cassazione del provvedimento impugnato, trattandosi appunto di questione che potrà essere devoluta alla cognizione dell’Autorità giudiziaria nell’ambito di un processo a cognizione piena.

La Cassazione, pertanto, ha rigettato il ricorso statuendo che per il caso di specie le parti devono ricorrere ad un contenzioso ordinario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. I, 28 gennaio 2011, n. 2095
giurista risponde

Usucapione servitù costruzione con limiti di legge inferiori È ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali. Ciò vale anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem. – Cass. II, 5 settembre 2023 n. 2584.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a stabilire la possibilità o meno di usucapire il diritto a tenere un immobile a distanza ulteriore da quella legale.

In primo e secondo grado era stato rigettato il ricorso, e accolta l’eccezione dei convenuti – ai quali veniva contestata l’illegittimità della costruzione di un fabbricato realizzato in violazione delle distanze legali, nonché l’arretramento del muretto di recinzione per invasione del fondo – che sostenevano l’intervenuta usucapione del diritto a mantenere il fabbricato a distanza inferiore a quella legale, ritenendo i limiti imposti dai piani regolatori e dagli strumenti urbanistici ex art. 873, comma 2, c.c. derogabili dai privati.

Viene quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando l’illegittimo aggiramento dell’inderogabilità delle norme che impongono il rispetto di distanze minime tra fondi finitimi.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, respingendo il ricorso, si è posta in linea di continuità con i propri precedenti, ammettendo l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore di quella fissata dalle norme del codice civile, o da quelle dei regolamenti (Cass. 22 febbraio 2010, n. 4240; Cass. 22 aprile 2022, n. 12865).

Tale orientamento, specifica la Corte, non mira ad affermare la generica derogabilità delle norme in materia di distanze, bensì risponde all’esigenza di garantire la stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo.

Tale conclusione, peraltro, non determina alcuna compressione dei poteri della pubblica amministrazione la quale può agire in ogni momento per conformare la proprietà a quanto previsto dalle norme di legge. Resta ferma, infatti, la distinzione dei caratteri tra potere pubblico e potere privato, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria a cui appartiene (Cass. 10 gennaio 2023, n. 343).

In conclusione, la Suprema Corte afferma il venir meno della facoltà del ricorrente di far valere il proprio diritto soggettivo alle distanze legali, ferma restando la possibilità dell’intervento della p.a. per ripristinare la legalità nel caso di immobile abusivo. Per tale motivo, ha rigettato il ricorso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 22 febbraio 2010, n. 4240; Cass. II, 22 aprile 2022, n. 12865;
Cass. II, 10 gennaio 2023, n. 343
giurista risponde

Revoca assenso adozione È ammissibile la revoca dell’assenso all’adozione in casi particolari del proprio figlio minore, inizialmente espresso dal genitore biologico in favore del c.d. genitore di intenzione?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

Il genitore biologico può revocare l’assenso all’adozione del figlio minore in favore del partner con cui ha condiviso il progetto procreativo; la legittimità di tale revoca deve essere peraltro valutata dal giudice esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, secondo il modello del dissenso al riconoscimento. – Cass. I, 29 agosto 2023, n. 25436.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la possibilità da parte del genitore biologico di revocare il consenso all’adozione in casi particolari da parte del genitore d’intenzione del minore nato a seguito di p.m.a.

Nel primo e secondo grado era stato respinto il ricorso proposto dalla genitrice d’intenzione contro la revoca del consenso all’adozione in casi particolari espressa da parte della genitrice biologica. In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto che l’assenso all’adozione dovesse perdurare sino alla data della sentenza e che lo stesso, anche ove già espresso, fosse revocabile. Nel caso di specie, si era accertato che la genitrice naturale del minore aveva revocato il suo assenso all’adozione a seguito della cessazione della convivenza con la ricorrente e che la conflittualità tra le parti era molto elevata.

Veniva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando la violazione dell’art. 44, comma 1, lett. d) e art. 46 della L. 184/1983. In particolare, si affermava che nel consentire la revoca del consenso non si sarebbe tenuto in considerazione il superiore interesse del minore a fondamento del quale è prevista l’adozione in casi particolari.

La Suprema Corte nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ha fatto proprio quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162, secondo cui, in tema di adozione in casi particolari, l’effetto ostativo del dissenso del genitore biologico all’adozione da parte del genitore sociale deve essere valutato esclusivamente sotto il profilo della conformità all’interesse del minore, sicché il genitore biologico può validamente negare l’assenso all’adozione del partner solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non abbia intrattenuto alcun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato, oppure, pur avendo partecipato al progetto di procreazione, abbia poi abbandonato partner e minore. È possibile invece superare la rilevanza ostativa del dissenso ove si rischi di sacrificare uno dei rapporti sorti all’interno della famiglia nella quale il bambino è cresciuto, privandolo di un apporto che potrebbe essere fondamentale per la sua crescita e il suo sviluppo.

Nel caso di specie i giudici di merito hanno deciso in ragione del mero riscontro dell’avvenuta revoca dell’assenso da parte del genitore biologico, evidenziando le peculiarità del caso, ma omettendo di prendere in esame il superiore interesse del minore. Per tale motivo, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima, svolgendo una nuova valutazione della controversia, sotto il profilo della conformità all’interesse del minore.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2022, n. 38162
giurista risponde

Pacchetti turistici e servizi collegati Gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE ostano all’art. 5 della 2015/2302 relativa ai pacchetti turistici e ai servizi turistici collegati, giacché, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, detto articolo non include il diritto, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto,  in caso di circostanze inevitabili e straordinarie?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bolognese e Caterina D’Alessandro

 

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso impone a un organizzatore di viaggi di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, di tale direttiva. La validità dell’art. 5, par. 1, di detta direttiva alla luce dell’art. 169, par. 1 e par. 2, lett. a), TFUE, in combinato disposto con l’art. 114, par. 3, TFUE, non può pertanto essere rimessa in discussione per il motivo che esso non prevedrebbe di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, della medesima direttiva.

L’art. 12, par. 2, della direttiva (UE) 2015/2302 deve essere interpretato nel senso che esso non osta all’applicazione di disposizioni del diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza, in forza dei quali, qualora la risoluzione di un contratto di pacchetto turistico soddisfi le condizioni previste da tale disposizione e il viaggiatore interessato sottoponga al giudice nazionale una domanda di rimborso inferiore a un rimborso integrale, tale giudice non può concedere d’ufficio a detto viaggiatore un rimborso integrale, purché tali disposizioni non escludano che detto giudice possa informare d’ufficio tale viaggiatore del suo diritto ad un rimborso integrale e consentire a quest’ultimo di farlo valere dinanzi ad esso. – CGUE II, 14 settembre 2023, causa C-83/22.

Nel caso di specie, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, adita dal Tribunale di primo grado, n. 5 di Cartagena, Spagna, in via pregiudiziale e senza possibilità di pronunciarsi nel merito della controversia, è chiamata a pronunciarsi sulla validità dell’articolo 5 della direttiva (UE) 2015/2302 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2015, alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, nonché sull’interpretazione degli artt. 114 TFUE, 169 TFUE e 15 della direttiva in esame.

Nel primo caso, la Corte di Lussemburgo, ha chiarito che gli artt. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, e 114, par. 3, TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano alla validità dell’art. 5 della direttiva (UE) 2015/2302, nonché della legge di recepimento spagnola (Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios y otras leyes complementarias, BOE del 30 novembre 2007, n. 287).

Invero, sebbene, tra le informazioni precontrattuali obbligatorie per il viaggiatore, dette norme non includano espressamente il diritto, riconosciuto dall’art. 12 della direttiva (UE) 2015/2302, di risolvere il contratto prima dell’inizio del pacchetto, ottenendo il rimborso integrale della somma versata, in caso di circostanze inevitabili e straordinarie che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto, non significa che le stesse lo escludano.

L’art. 5, par. 1, della direttiva (UE) 2015/2302 infatti prevede che gli Stati membri garantiscano che un organizzatore di viaggi fornisca al viaggiatore le informazioni standard mediante il pertinente modulo di cui all’allegato I, parte A o B di tale direttiva, prima che quest’ultimo sia vincolato da un contratto di pacchetto turistico.

Il modulo contiene il riferimento – espresso o mediante collegamento ipertestuale – ai diritti fondamentali di cui i viaggiatori devono essere informati, tra i quali, rientra il diritto di risoluzione del contratto (indicato dal settimo trattino delle parti A e B dell’allegato I) senza corresponsione delle spese di risoluzione, purché in presenza di circostanze inevitabili e straordinarie incidenti sull’esecuzione del pacchetto, così come conferito dall’art. 12, par. 2, della medesima direttiva ai succitati viaggiatori.

In virtù di tale richiamo, alla luce dell’art. 169, par. 1 e 2, lett. a), TFUE, nonché dell’art. 114, par. 3, TFUE, l’art. 5 della direttiva deve essere interpretato nel senso che non esclude e, dunque, impone, l’obbligo di informare il viaggiatore del suo diritto di risoluzione di cui all’art. 12, par. 2, ponendo nel nulla qualsivoglia questione relativa alla validità dello stesso articolo.

Per quanto concerne la seconda questione pregiudiziale, la CGUE statuisce che l’art. 12, par. 2, letto ed interpretato alla luce degli artt. 114 e 169 TFUE, non impedisce l’applicazione di disposizioni di diritto processuale nazionale che sanciscono i principi dispositivo e di congruenza (ex artt. 216 e 218, par. 1, Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil, BOE dell’8 gennaio 2000, n. 7) e che, pertanto, in forza di tali principi, resta precluso al giudice della controversia accordare d’ufficio al ricorrente il rimborso integrale dei pagamenti eccedendo l’importo richiesto dallo stesso, senza che ciò possa ostacolare la tutela effettiva del ricorrente in qualità di consumatore.

La Corte precisa che in virtù del principio di autonomia processuale degli Stati membri nell’assicurare la tutela dei diritti sanciti dalla direttiva (UE), il diritto dell’Unione non può imporre al giudice nazionale di esaminare d’ufficio un motivo vertente sulla violazione di disposizioni dell’Unione ma accorda al giudice stesso la facoltà di agire d’ufficio solo in casi eccezionali, in cui il pubblico interesse esige il suo intervento (CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín, C‑227/08, EU:C:2009:792, punti 19 e 20) oppure l’obiettivo di tutela effettiva dei consumatori non può essere raggiunto (CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance, C‑679/18, EU:C:2020:167, punto 23).

La Corte constata quindi che, data la centralità del diritto di risoluzione conferito dalla direttiva (UE) ex art. 12, par. 2 qualificato come diritto fondamentale (nonché del conseguente diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati) e data la mancata dovuta informazione circa l’esistenza del suo diritto di risoluzione da parte della resistente, la tutela effettiva del diritto richiede che il giudice nazionale possa rilevarne d’ufficio la violazione.

Tale esame d’ufficio è tuttavia subordinato a talune condizioni che, nel caso di specie, e fatta salva la valutazione del giudice spagnolo del rinvio, sembrano essere soddisfatte.

Il giudice del rinvio sarebbe quindi tenuto ad esaminare d’ufficio il diritto di risoluzione, da un lato, informando il viaggiatore di tale diritto e, dall’altro, conferendogli la possibilità di farlo valere nel procedimento giurisdizionale in corso.

Tuttavia l’esame d’ufficio non impone al giudice nazionale di risolvere d’ufficio il contratto di pacchetto turistico di cui trattasi senza spese, conferendo al ricorrente il diritto al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per tale pacchetto.

Un siffatto potere d’ufficio non garantirebbe una tutela effettiva del diritto di risoluzione del consumatore di cui all’art. 12, par. 2, della direttiva e si porrebbe in contrasto con il principio d’iniziativa di parte, sub specie di autonomia del ricorrente nell’esercizio del suo diritto di risoluzione, nonché con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Se la direttiva concedesse al giudice il potere d’ufficio di risolvere il contratto, legittimerebbe di fatto la sostituzione del giudice nell’esercizio di un diritto e di una volontà propri del ricorrente, con il rischio di conseguenze irragionevoli quale l’esercizio del diritto di risoluzione del contratto contro la volontà del ricorrente stesso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    CGUE, Sez. I, 7 dicembre 2009, C‑227/08, Martín Martín (C‑227/08, EU:C:2009:792);

CGUE, Sez. II, 5 marzo 2020, C‑679/18, OPR-Finance (C‑679/18, EU:C:2020:167)