giurista risponde

Contratto preliminare e condizione potestativa mista Nel contratto preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione potestativa mista che il promissario acquirente ottenga, da un ente pubblico, la necessaria autorizzazione amministrativa, l’eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente può ritenersi contrario al principio di buona fede, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 1359 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Carmela Quagliano e Davide Venturi

 

Nel caso in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga da un ente pubblico la necessaria autorizzazione amministrativa, la relativa condizione è qualificabile come “mista”, dipendendo la concessione dei titoli abilitativi urbanistici non solo dalla volontà della P.A., ma anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica. Ne deriva che la mancata concessione del titolo comporta le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente. Ciò, in primo luogo, perché tale disposizione è inapplicabile nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una data prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento della condizione. In secondo luogo, perché l’omissione di un’attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede, e costituire fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico. La sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista, con conseguente esclusione dell’obbligo di considerare avverata la condizione. – Cass., sez. II, 6 marzo 2024, n. 5976.

Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’applicazione dell’art. 1359 c.c. (ossia l’avveramento fittizio della condizione) e, quindi, in ordine alla violazione del principio di buona fede, per le ipotesi di omissione dell’elemento potestativo nell’ambito del contratto sottoposto a condizione potestativa mista.

In primo grado, era stata respinta la domanda, di una società promittente venditrice, di recesso da un contratto preliminare di compravendita immobiliare.

In secondo grado, la Corte di Appello dava atto, innanzitutto, della conclusione, tra le parti, di due distinti negozi: il primo, quale preliminare di compravendita immobiliare sottoposto alla condizione sospensiva del mutamento di destinazione urbanistica dell’area; il secondo, teleologicamente connesso al primo, in quanto funzionale all’avveramento della condizione sospensiva in esso dedotta, quale contratto di mandato con cui era conferito mandato alla promissaria acquirente affinché portasse a termine l’attività necessaria per l’ottenimento dell’autorizzazione amministrativa.

Premesso il mancato avveramento della condizione, cui era subordinato il contratto, e sull’assunto che controinteressata all’avveramento di detta condizione fosse da reputarsi la promissaria acquirente, sulla quale, perciò, incombeva la prova della incolpevolezza dell’inadempimento – dimostrazione che, in specie, non era avvenuta –, il giudice di appello, ritenuta la sussistenza della fictio iuris di cui all’art. 1359 c.c., sosteneva la legittimità del recesso della promittente acquirente dal contratto preliminare e il conseguente diritto della stessa di trattenere la caparra confirmatoria.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione contestando, tra l’altro, l’erroneità della statuizione circa l’avveramento della condizione conseguente all’inottemperanza dell’onere probatorio ex art. 1359 c.c. In particolare, si obietta che gravi su chi lamenti il mancato avveramento della condizione, dedotta in contratto, l’onere di provarne l’imputabilità, a titolo di dolo o di colpa, in capo alla controparte, indipendentemente dal fatto che tale comportamento sia consistito nel violare obblighi imposti dalla legge o dal contratto.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il motivo di ricorso, ha innanzitutto evidenziato che l’applicazione dell’art. 1359 c.c. è strettamente legata, da un lato, all’accertamento di un vero controinteressato al verificarsi della condizione e, dall’altro, alla prova del dolo o della colpa. Inoltre, la Corte di Cassazione ha ricordato quanto stabilito dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui, l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione, è principio che riguarda anche il contratto sottoposto a condizione potestativa mista, qual è quello in esame e «in tale ipotesi, l’omissione di un’attività, intanto, può ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità, in quanto essa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, che, invece, deve escludersi per l’attività di attuazione dall’elemento potestativo in una condizione mista» (Cass. 22 giugno 2023, n. 17919; Cass. 22 agosto 2022, n. 25025; Cass. 11 settembre 2018, n. 22046).

In specie, la decisione della Corte di Appello, che aveva statuito in ordine all’avveramento della condizione, non era sorretta da adeguata motivazione laddove, per un verso, aveva dato per scontato che vi fosse una parte contraria al verificarsi della condizione (la promissaria acquirente) – mentre, in generale, entrambe le parti di un contratto bilaterale hanno interesse alla sua conclusione – e, per altro verso, aveva ritenuto l’inottemperanza al negozio di mandato, di per sé sola, indice di un comportamento doloso o colposo.

Per tale motivo, la Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte di Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita e condizione potestativa mista”, a cura di Carmela Quagliano e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

concordato preventivo biennale

Concordato preventivo biennale anche per forfetari Concordato preventivo biennale al via per i contribuenti forfetari. Imprenditori e professionisti potranno conoscere la proposta e accettarla tramite il modello Redditi 2024

Concordato preventivo biennale per i contribuenti forfetari

Imprenditori e professionisti forfetari possono adesso conoscere la proposta di Concordato preventivo ed eventualmente accettarla entro il termine di presentazione del modello Redditi 2024 (15 ottobre 2024). Per questi contribuenti è ora possibile, infatti, compilare il quadro LM del modello direttamente tramite il servizio “RedditiOnline” oppure tramite l’applicativo della dichiarazione precompilata per definire il proprio reddito 2024 e valutare se aderire all’istituto, introdotto dal Dlgs n. 13/2024 al fine di favorire l’adempimento spontaneo agli obblighi dichiarativi. Lo rende noto l’Agenzia delle Entrate con un comunicato istituzionale.

Concordato preventivo biennale (CPB): cos’è

Il Concordato Preventivo Biennale (CPB) è un istituto di compliance volto a favorire l’adempimento spontaneo degli obblighi dichiarativi (Dlgs n. 13 del 12 febbraio 2024).

Possono accedere i contribuenti esercenti attività d’impresa, arti o professioni che aderiscono al regime forfetario di cui all’articolo 1, commi da 54 a 89, della legge 23 dicembre 2014, n. 190.

Adesione alla proposta di Concordato

Ciascun contribuente può calcolare la propria proposta di concordato, compilando i campi presenti nel quadro LM del modello Redditi, utilizzando l’applicativo Redditionline.
Tramite tale applicativo il contribuente può inserire i dati necessari, calcolare la proposta di Concordato preventivo e, entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi, accettare tale proposta.

Per i contribuenti in regime forfetario, l’adesione alla proposta permette di pianificare la propria tassazione per un anno. I contribuenti Isa, invece, hanno a disposizione dallo scorso 15 giugno sul sito dell’Agenzia il software “Il tuo ISA 2024 CPB” per calcolare il proprio indice sintetico di affidabilità (Isa) e accedere alla proposta di Concordato preventivo biennale (Cpb).

Concordato al via anche per autonomi, individuali e forfetari

Possono ora aderire alla proposta di Concordato del Fisco anche le persone fisiche che esercitano attività d’impresa, arti o professioni e applicano il regime forfetario. Condizione per l’adesione è non avere debiti tributari riferiti al periodo d’imposta precedente a quello cui si riferisce la proposta o aver estinto, prima della scadenza del termine per aderire, quelli di importo pari o superiore a 5mila euro (compresi interessi e sanzioni). I contribuenti che optano per il nuovo istituto non possono – entro soglie definite – essere soggetti ad accertamenti sui redditi concordati.

Come aderire

I contribuenti forfetari interessati possono calcolare la propria proposta di Concordato compilando i campi presenti nel quadro LM del modello Redditi 2024 (anno d’imposta 2023) tramite il servizio RedditiOnline oppure tramite l’applicativo della dichiarazione precompilata.

La proposta di concordato dovrà eventualmente essere accettata entro il termine di presentazione del modello, fissato al 15 ottobre 2024.

L’adesione vincola il contribuente a dichiarare il reddito concordato – per un anno in via sperimentale per i soggetti forfetari – a prescindere dagli importi effettivamente conseguiti, mentre non ha alcun effetto ai fini Iva.

Imprenditori e professionisti che applicano gli Isa, come sopra anticipato, possono aderire al concordato dallo scorso 15 giugno tramite il software “Il tuo ISA 2024 CPB” che permette di calcolare il proprio indice sintetico di affidabilità e di concordare il reddito di lavoro autonomo o di impresa e la base imponibile Irap per gli anni 2024 e 2025.

locazioni brevi guida

Locazioni brevi: la guida del fisco Pubblicata la nuova guida "Locazioni brevi: la disciplina fiscale e gli obblighi per gli intermediari" dell'Agenzia delle Entrate

Locazioni brevi, online la guida aggiornata

Locazioni brevi: la guida del fisco aggiornata ad agosto 2024 è online. Un vero e proprio vademecum, intitolato “Locazioni brevi: la disciplina fiscale e gli obblighi per gli intermediari” contenente tutte le novità sulla tassazione dei contratti di affitto di abitazioni non superiori a 30 giorni, le regole e gli adempimenti a carico degli intermediari immobiliari.

Consulta la guida – pdf

La nuova disciplina sulle locazioni brevi

Il decreto legge n. 50/2017 ha introdotto una specifica disciplina fiscale per i contratti di locazione di immobili a uso abitativo, stipulati a partire dal 1° giugno 2017, che hanno una durata non superiore a 30 giorni: le “locazioni brevi”, appunto.

Si tratta, spiega l’Agenzia delle Entrate, “di quei contratti conclusi da persone fisiche al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa, per i quali non vi è l’obbligo di registrazione se non formati per atto pubblico o scrittura privata autentica”.

Il decreto 50/2017

In seguito all’entrata in vigore del decreto, è possibile applicare le disposizioni in materia di “cedolare secca sugli affitti”, già utilizzabili per i redditi fondiari derivanti dalla locazione, anche ai redditi derivanti dai contratti di sublocazione, di concessione in godimento oneroso dell’immobile da parte del comodatario, di locazione breve che comprende servizi accessori (per esempio, la pulizia, la fornitura di biancheria).

La disciplina si applica sia quando i contratti sono conclusi direttamente tra il proprietario (o il sublocatore o il comodatario) e i locatari sia quando per la loro stipula o per il pagamento dei canoni o dei corrispettivi intervengono soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare o che gestiscono portali telematici.

In queste situazioni, la legge ha individuato precisi adempimenti nei confronti di questi soggetti.

La legge di bilancio 2024

La legge di bilancio 2024 (legge n. 213/2023) ha successivamente modificato il decreto legge n. 50, introducendo alcune novità che riguardano l’aliquota dell’imposta sostitutiva (dovuta da chi sceglie il regime della cedolare secca per la tassazione dei redditi derivanti dai contratti di locazione breve) e gli adempimenti a carico degli intermediari non residenti.

È importante ricordare, rammenta infine la guida, “che dal 2021 l’applicabilità della cedolare secca alle locazioni brevi è prevista solo se nell’anno si destinano a questa finalità al massimo quattro appartamenti. Oltre questa soglia, l’attività, da chiunque esercitata, si considera svolta in forma imprenditoriale”.

Le regole nella nuova guida

Da qui la necessità della pubblicazione della guida sulle locazioni brevi, in cui sono illustrate tutte le regole generali sulla tassazione dei contratti di locazione breve nonchè le modalità operative che gli intermediari immobiliari devono osservare per adempiere agli obblighi posti a loro carico.

Leggi anche Affitti brevi: cosa cambia con il nuovo decreto

albo educatori e pedagogisti

Albo educatori e pedagogisti: c’è la proroga Il ministero della Giustizia annuncia la proroga per l'iscrizione al nuovo albo degli educatori e pedagogisti, in scadenza il 6 agosto

Albo educatori e pedagogisti

Albo educatori e pedagogisti, c’è più tempo per iscriversi al nuovo albo istituito con la legge n. 55/2024.

La legge recante “Disposizioni in materia di ordinamento delle professioni pedagogiche ed educative e istituzione dei relativi albi professionali” disciplina infatti entrambe le professioni e istituisce i relativi albi, fissando i requisiti e le condizioni per l’iscrizione.

Proroga scadenza

La scadenza, inizialmente prevista per il 6 agosto, sarà quindi prorogata.

I ministeri interessati, afferma via Arenula in una nota, “sono al lavoro per predisporre il testo ed inserirlo nel primo provvedimento normativo utile. L’obiettivo è garantire agli operatori del settore, per il nuovo anno scolastico che partirà a settembre, di poter continuare a svolgere i loro servizi educativi e socio-pedagogici”.

Incontro con le associazioni di settore

Il ministero della Giustizia, sempre a partire da settembre, incontrerà le associazioni più rappresentative del settore al fine di assicurare pieno supporto ai soggetti coinvolti dall’attuazione della legge istitutiva del nuovo Ordine professionale.

 

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convivente di fatto familiare

Il convivente di fatto è un familiare La disciplina dell'impresa familiare si applica dunque anche al convivente di fatto. Illegittimi gli artt. 230bis e 230-ter c.c.

Convivente di fatto e impresa familiare

Il convivente di fatto è un familiare perciò si applica la disciplina dell’impresa di famiglia. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale (sentenza n. 148/2024) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare – oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo – anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».

Inoltre, in via consequenziale, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.

Conviventi di fatto: la legge e la giurisprudenza

Per «conviventi di fatto» – secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, di tale legge – si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».

Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare – in riferimento, in particolare, agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione – nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari».

La Corte costituzionale ha accolto le questioni rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa nazionale, sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea, che ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

L’impresa familiare

“Rimangono – osserva ancora la Corte – le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio; ma quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni”.

Tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione; diritto che, “nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale tutela, versando anche il convivente di fatto, come il coniuge, nella stessa situazione in cui la prestazione lavorativa deve essere protetta, rischiando altrimenti di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

La decisione

Nel sottolineare che “la tutela del lavoro è strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare” la Consulta ha quindi ritenuto irragionevole la mancata inclusione del convivente di fatto nell’impresa familiare.

“All’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis del codice civile al convivente di fatto è conseguita l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che – nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare – comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione”.

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assegno di incollocabilità

Assegno di incollocabilità Guida all'assegno di incollocabilità erogato dall'Inail il cui importo è stato rivalutato dal ministero del Lavoro dal 1° luglio 2024

Cos’è l’assegno di incollocabilità

L’assegno di incollocabilità è una prestazione economica erogata dall’Inail, agli invalidi per infortunio o malattia professionale, che si trovano nell’impossibilità di essere collocati in qualsiasi settore lavorativo, riconosciuta dagli Organismi competenti.

Requisiti richiesti

Per ottenere l’assegno l’invalido deve avere:

  • età non superiore ai 65 anni;
  • grado di inabilità non inferiore al 34%, riconosciuto dall’Inail secondo le tabelle allegate al Testo Unico (d.p.r. 1124/1965) per infortuni sul lavoro verificatesi o malattie professionali denunciate fino al 31 dicembre 2006;
  • grado di menomazione dell’integrità psicofisica/danno biologico superiore al 20%, riconosciuto secondo le tabelle di cui al d.m. 12 luglio 2000 per gli infortuni verificatisi e per le malattie professionali denunciate a decorrere dal 1° gennaio 2007.

Come fare domanda

Per avere diritto all’assegno, il lavoratore deve fare domanda alla sede Inail d’appartenenza.

La domanda deve comprendere, oltre ai dati anagrafici, la descrizione dell’invalidità (lavorativa ed extralavorativa, se esistente) e la fotocopia del documento di identità.

In caso di invalidità extralavorativa, dovrà essere presentata la relativa certificazione.

Il titolare della rendita inoltra la richiesta alla Sede competente in base al suo domicilio o tramite:

  • sportello della Sede competente;
  • posta ordinaria;
  • Pec (posta elettronica certificata).

Il lavoratore può farsi assistere anche da un patronato.

Erogazione dell’assegno

L’importo dell’assegno (esente da Irpef e soggetto a rivalutazione annuale) viene pagato mensilmente unitamente alla rendita, a partire dal mese successivo alla presentazione della richiesta all’INAIL, tramite accredito su conto corrente o libretto bancario o postale, ovvero su carta prepagata dotata di codice Iban, o, ancora tramite istituti di credito convenzionati con l’INPS e per importi non superiori a 1.000 euro, con pagamenti i contanti presso gli sportelli.

Importo assegno incollocabilità

A partire dal 1° luglio 2024, l’importo mensile dell’assegno di incollocabilità, prima pari a 290,11 euro, è stato rivalutato e aumentato a 305,78 euro.

E’ stato il ministero del Lavoro, con il decreto ministeriale n. 108-2024, a comunicare il nuovo importo erogato da luglio, rivalutato sulla base della variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, intervenuta tra il 2022 e il 2023, registrata dall’ISTAT e pari al 5,4%.

Con circolare n. 20-2024, l’Inail ha fornito le relative istruzioni operative.

 

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giurista risponde

Ricorso avverso atti infra procedimentali È ammissibile il ricorso avverso atti infra procedimentali?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

No, è inammissibile il ricorso avverso atti infra procedimentali. – Cons. Stato, sez. I, 8 aprile 2024, n. 451.

Il Collegio ha evidenziato che: “Nel ricorso in esame la determinazione impugnata, avente ad oggetto la sospensione del procedimento disciplinare in virtù della pregiudiziale pendenza del procedimento penale nei confronti del ricorrente, costituisce atto endoprocedimentale, non solo adottato nell’interesse e a garanzia del ricorrente, ma soprattutto, privo di rilevanza lesiva nei suoi confronti”.

Si è inoltre evidenziato che anche secondo giurisprudenza civile: “In tema di procedimento amministrativo, il provvedimento finale a rilevanza esterna è impugnabile quale atto direttamente e immediatamente lesivo, mentre non sussiste l’interesse ad impugnare un atto privo di effetti immediati e diretti in quanto meramente endoprocedimentale”.

In conclusione, è inammissibile il ricorso proposto avverso la determinazione che sospende, ex art. 1393, comma 1, D.Lgs. 66/2010, il procedimento disciplinare di stato per acquisire gli esiti di quello penale presupposto venendo in rilievo un atto infra procedimentale privo di effetti lesivi.

 

Contributo in tema di “Ricorso avverso atti infra procedimentali”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 75 / Giugno 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

esame avvocati 2024

Esame avvocati 2024: domande dal 2 ottobre In Gazzetta Ufficiale il decreto firmato dal Guardasigilli relativo all'esame di stato per avvocati 2024. Le domanda di partecipazione vanno inviate dal 2 ottobre e sino al 12 novembre 2024

Esame avvocati 2024

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha firmato il decreto ministeriale 24 luglio 2024 relativo all’esame di stato per l’abilitazione all’esercizio della professione forense presso le sedi di Corti di appello di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Caltanissetta, Campobasso, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova, L’Aquila, Lecce, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Potenza, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Torino, Trento, Trieste, Venezia e presso la Sezione distaccata di Bolzano della Corte di appello di Trento.

Le domande di partecipazione alla sessione 2024 dovranno essere inviate per via telematica, seguendo le modalità indicate nel decreto, dal 2 ottobre al 12 novembre 2024.

I dettagli nella SCHEDA DI SINTESI

Le prove

L’esame di Stato si articola in una prova scritta e una orale. Quella scritta viene svolta sui temi formulati dal ministero della Giustizia ed ha ad oggetto la redazione di un atto giudiziario che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su quesito proposto in materia scelta dal candidato tra il diritto civile, penale e amministrativo.

La prova orale si svolge a non meno di 30 giorni di distanza dal deposito dell’elenco degli ammessi presso ciascuna Corte d’appello ed è articolata in tre fasi: – la prima ha ad oggetto “l’esame e la discussione di una questione pratico-applicativa, nella forma della soluzione di un caso, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, in una materia scelta preventivamente dal candidato tra il diritto civile, il diritto penale e il diritto amministrativo”; – la seconda verte sulla discussione di brevi questioni che dimostrino le capacità argomentative e di analisi giuridica del candidato relative a tre materie scelte preventivamente dal candidato, di cui una di diritto processuale; la terza fase, infine, riguarda la dimostrazione della conoscenza dell’ordinamento forense e dei diritti e doveri dell’avvocato.

La domanda di partecipazione

La domanda di partecipazione all’esame deve essere inviata telematicamente a partire dal 2 ottobre e sino al 12 novembre 2024. Ai fini dell’ammissione, il candidato e’ tenuto al pagamento di complessivi euro 78,91 (settantotto/91), utilizzando la procedura di iscrizione all’esame, ove nell’apposita sezione saranno presenti due istanze di pagamento digitale da assolvere tramite la piattaforma PagoPA. La prima istanza di pagamento e’ composta dalla tassa di euro 12,91 (dodici/91) e dal contributo spese di euro 50,00 (cinquanta), per un totale di 62,91 (sessantadue/91), la seconda istanza riguarda il pagamento dell’imposta di bollo di euro 16,00 (sedici). Il mancato pagamento entro la data di scadenza della domanda di partecipazione comporta l’esclusione dalla procedura.

Il candidato deve collegarsi al sito internet del Ministero della giustizia, alla voce «strumenti/concorsi, esami, assunzioni» ed effettuare la relativa registrazione, utilizzando unicamente l’autenticazione SPID di secondo livello, CIE o CNS.  A seguito dell’accesso, il candidato verrà guidato dalla procedura informatica all’accettazione dei dati per la privacy e il trattamento dati e per la compilazione della domanda e, dopo aver registrato in modo permanente i dati, procederà prima al pagamento degli importi dovuti e, successivamente, all’invio della domanda.

Al termine della procedura di invio verrà visualizzata una pagina di risposta che contiene il collegamento al file, in formato .pdf, «domanda di partecipazione».

E’ necessario selezionare la Corte di appello cui è diretta la domanda e indicare, altresì. il Consiglio dell’ordine degli avvocati, che ha certificato o che certificherà, il compimento della pratica forense. Possono presentare la domanda di ammissione all’esame di abilitazione esclusivamente coloro che abbiano completato la prescritta pratica professionale entro il giorno 10 novembre 2024.

La domanda si intende inviata quando il sistema genera la ricevuta contenente il codice identificativo e il codice a barre, che e’ messa a disposizione del candidato nella propria area riservata.

Candidati con disabilità e con DSA

I candidati con disabilità devono indicare nella domanda l’ausilio necessario, nonché l’eventuale necessità di tempi aggiuntivi, producendo la relativa documentazione sanitaria.

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interessi di mora

Interessi di mora: 12,25% fino al 31 dicembre 2024 Il MEF ha reso noto il saggio applicabile al secondo semestre dell'anno, in leggera flessione (0,25 in meno) rispetto al primo semestre 2024

Interessi di mora 2024

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso noto con comunicato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 luglio 2024 il saggio applicabile per il secondo semestre dell’anno (4,25%), ossia per il periodo che va dal 1° luglio al 31 dicembre 2024. Un tasso che mostra una leggere flessione al ribasso (-0,25%) rispetto alla percentuale del primo semestre.

Cosa sono gli interessi di mora

Gli interessi moratori vanno pagati al creditore nell’ipotesi di ritardo nel pagamento di un’obbligazione pecuniaria (ex art. 1224 c.c.), salvo che il debitore dimostri che il ritardo è stato determinato dall’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
Gli interessi moratori vanno corrisposti anche laddove non espressamente pattuiti dalle parti. La loro funzione è in sostanza quella di un “ristoro” per le conseguenze pregiudizievoli subite dal creditore per via del ritardo nel pagamento.

Interessi moratori al 12,25%

Se il pagamento tardivo riguarda una transazione commerciale, gli interessi di mora decorrono sulla base del tasso di riferimento comunicato dal Mef, cui va aggiunta la maggiorazione dovuta alla competenza fissa per le transazioni commerciali, pari all’8%, come previsto dall’art. 2 del Dlgs. n. 192/2012. Il Mef ha comunicato che “ai sensi dell’art. 5 del dlgs n. 231/2002, come modificato dalla lettera e) del comma 1 dell’art. 1 del decreto legislativo n. 192/2012 – per – il periodo 1° luglio – 31 dicembre 2024 il tasso di riferimento e’ pari al 4,25 per cento”.

Per cui, complessivamente per il secondo semestre 2024 la maggiorazione ammonterà a 12,25%.

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jammer auto reato

Jammer in auto: è reato? Scatta il reato ex art. 617-bis c.p. se il jammer usato per impedire di essere intercettati, di fatto impedisce le comunicazioni tra terzi

Jammer in auto

Per la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 28084-2024)scatta il reato se lo strumento (jammer) per impedire di essere intercettato di fatto impedisce comunicazioni tra terzi.

La vicenda

Nella vicenda, gli Ermellini sono stati chiamati ad esprimersi sul ricorso di un uomo condannato in appello a un anno di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto previsto dal’art. 617-bis, commi primo e secondo, codice penale, per avere tenuto, fuori dai casi consentiti dalla legge, nell’autovettura da lui condotta – in un cassetto lato posto-guidatore – un disturbatore di frequenza c.d. jammer, in funzione, al fine di impedire le comunicazioni telefoniche e via radio tra altre persone (ovvero le comunicazioni di seguito in auto dallo stesso con l’aggravante dell’aver commesso il fatto in danno di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni, disturbando le comunicazioni via radio della pattuglia della volante del commissariato di zona.

Il ricorso

L’uomo si doleva della inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché della contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione ala sussistenza del delitto previsto dall’art. 617-bis c.p., “che si configurerebbe solo se l’installazione sia finalizzata a impedire comunicazioni fra persone diverse dall’agente”. Nella fattispecie, invece, asseriva, il disturbo si sarebbe verificato esclusivamente nelle vicinanze della sua auto, quando l’auto della polizia giudiziaria vi si avvicinava, a dimostrazione che «l’istallazione» era finalizzata a impedire solo che qualcuno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno del suo veicolo.

D’altra parte, sosteneva il ricorrente, il possesso dell’apparecchio, risultando in libera vendita, non costituirebbe in sé reato, in assenza di una perizia che ne accerti l’effettiva potenzialità a disturbare e/o impedire le comunicazioni fra persone diverse dall’agente.

Il reato di cui all’art. 617 bis c.p.

Per la S.C., il ricorso è inammissibile.
“Il delitto di installazione di apparecchiature atte a intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni, previsto dall’art. 617-bis cod. pen. – ricordano i giudici – sanziona la condotta di chi predispone apparecchiature finalizzate a intercettare o impedire conversazioni telegrafiche o telefoniche altrui”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità esso si configura soltanto “se l’installazione è finalizzata a intercettare o impedire comunicazioni tra persone diverse dall’agente. Pertanto, il delitto non ricorre nell’ipotesi in cui si utilizzi un jammer al fine di impedire l’intercettazione di comunicazioni, sia tra presenti che
telefoniche, intrattenute dal soggetto che predispone l’apparecchio” (cfr. Cass. n. 39279/2018).

Inoltre, il delitto in parola “si configura come un reato di pericolo che si perfeziona al momento della mera installazione degli apparecchi disturbatori di frequenze e, dunque, anche nel caso in cui essi non abbiano funzionato o non siano stati attivati (cfr., ex multis, Cass. n. 1834/2021).

La decisione

Nel caso in esame, dalle annotazioni di polizia giudiziaria acquisite agli atti, è emerso che l’uomo aveva occultato, nell’autovettura su cui viaggiava, un jammer, con il quale erano state disturbate le comunicazioni radio tra la centrale operativa della Questura e la pattuglia che lo seguiva, allertata dalla segnalazione di un rappresentante di gioielli che aveva notato come l’autoveicolo dell’imputato lo seguisse in modo sospetto. E dal momento che tali comunicazioni radio risultavano tanto più disturbate quanto più la vettura in uso alla polizia giudiziaria si avvicinava al veicolo condotto dall’imputato, le sentenze di merito hanno logicamente concluso che il jammer fosse stato attivato proprio per ostacolare eventuali comunicazioni tra le Forze di polizia che lo avessero avvicinato e la centrale operativa della Questura.
La motivazione dei giudici di merito, pertanto, per piazza Cavour, è congrua e logica, e il ricorso rappresenta “la mera mera prospettazione di una lettura alternativa del materiale probatorio, ipotizzando, senza peraltro offrire alcun riscontro alla tesi difensiva, che il disturbatore fosse finalizzato a impedire che taluno potesse ascoltare quanto accadeva all’interno dell’auto dell’imputato”.

Per cui, il ricorso è inammissibile.