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Procedure di gara: il termine per ricorrere Quali i termini per ricorrere nelle procedure di gara?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Nell’ambito delle procedure di gara, ai fine dell’esperibilità del ricorso, trova applicazione il termine decadenziale dei trenta giorni, laddove la comunicazione degli esiti di gara abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo; nel caso contrario trova applicazione il termine di quarantacinque giorni (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 25 settembre 2024, n. 1721).

Preliminarmente, è opportuno ricordare che l’art. 120 del codice del processo amministrativo prevede che il termine decorre, per il ricorso principale ed i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’art. 90 del D.Lgs. 36/2023 oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, ai sensi dell’art. 36 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Dunque, la decorrenza del termine per ricorrere differisce che si tratti di ricezione della comunicazione ex art. 90 oppure della messa a disposizione degli atti ex art. 36, mediante la procedura dell’accesso.

A tal proposito soccorrono le regole cardine della pienezza conoscitiva strumentali all’inviolabilità del diritto di difesa, costituzionalmente tutelato.

Pertanto, nell’ambito delle controversie ex art. 120 c.p.a., laddove la comunicazione degli esiti di gara (ex art. 90) abbia esaustivamente soddisfatto l’interesse sostanziale conoscitivo e non sia necessario attendere la messa a disposizione per tutti i concorrenti non esclusi, trova applicazione il tradizionale termine decadenziale dei trenta giorni ai fini dell’esperibilità del ricorso avverso gli atti di gara. Nel caso contrario in cui la conoscenza di atti ulteriori e diversi assurga a condizione ineludibile per poter acquisire una pienezza conoscitiva, rintracciabile mediante l’istituto dell’accesso formale, allora opera la logica della dilazione temporale con un’estensione fino ai quarantacinque giorni.

 

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

foglio di via

Foglio di via, nessuna convalida del giudice Per la Corte Costituzionale, il foglio di via del Questore non richiede la convalida da parte del giudice

Foglio di via e convalida

La misura di prevenzione del foglio di via, disposta dal questore nei confronti di persone pericolose per la sicurezza pubblica, non restringe la libertà personale dell’interessato, ma limita la sua libertà di circolazione. Pertanto, essa non richiede l’intervento di un giudice, come prescritto invece dall’articolo 13 della Costituzione per ogni misura restrittiva della libertà personale. Spetterà poi al giudice amministrativo e al giudice penale verificarne la legittimità e proporzionalità nel singolo caso concreto, rispettivamente quando l’interessato proponga ricorso contro il provvedimento del questore, o sia imputato in sede penale per la violazione degli obblighi stabiliti nel provvedimento. Lo ha chiarito la Corte costituzionale nella sentenza numero 203/2024, con la quale sono state dichiarate non fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Taranto sull’articolo 2 del codice antimafia.

Il caso

Nel caso in esame, un uomo era stato rinviato a giudizio per avere fatto più volte ritorno nel Comune di Taranto, dal quale era stato allontanato mediante foglio di via, motivato dal questore sulla base della sua pericolosità sociale. Prima di pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura, il giudice si è però interrogato sulla legittimità costituzionale dell’articolo 2 del codice antimafia. Quest’ultimo attribuisce al questore il potere di disporre la misura senza prevedere la sua necessaria convalida da parte di un giudice.

La restrizione della libertà personale

La Corte ha anzitutto ricordato che una restrizione della libertà personale si verifica quando la persona subisce una coazione nel proprio corpo, come nel caso di arresto o di detenzione, o ancora nel caso di un trattamento medico coattivo. Si ha, inoltre, restrizione della libertà personale quando il soggetto venga sottoposto a misure che presuppongano un giudizio di “degradazione giuridica” e impongano obblighi di intensità tale da poter essere equiparati all’assoggettamento della persona all’altrui potere. In numerose decisioni, a partire dal 1956, la Corte ha ritenuto che quest’ultima situazione si verifichi in conseguenza di misure di prevenzione che impongano all’interessato obblighi di rimanere in un luogo determinato, ovvero di recarsi periodicamente presso un ufficio di polizia.

La giurisprudenza

Viceversa, la Corte ha sinora sempre escluso che il semplice divieto di recarsi in un luogo determinato ponga in causa le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. In questo caso, infatti, la persona resta libera di andare in qualsiasi altro luogo desideri, tranne quello dal quale è interdetta. Con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto di dover confermare la propria costante giurisprudenza, alla quale del resto il legislatore si è da tempo orientato nel configurare la disciplina delle misure di prevenzione e dei cosiddetti “DASPO”.

E ciò nella consapevolezza che il tendenziale rispetto dei propri precedenti è una delle condizioni essenziali per l’autorevolezza delle decisioni di ogni giurisdizione superiore, compresa la Corte costituzionale.

La decisione

Peraltro, la Consulta ha sottolineato che”gli effetti del foglio di via possono risultare assai gravosi per il destinatario, ad esempio quando gli venga vietato l’ingresso nell’intero capoluogo di provincia nella quale risiede”. Tuttavia, l’ordinamento italiano dispone “di strumenti efficaci per garantire una tutela effettiva ai diritti fondamentali del destinatario contro i pericoli di uso arbitrario di queste misure, ad esempio quale strumento di repressione del dissenso politico e delle legittime forme di protesta protette dalla Costituzione”.

Da un lato, il ricorso al giudice amministrativo è certamente idoneo ad assicurare una tutela immediata ed effettiva contro eventuali provvedimenti lesivi dei diritti fondamentali dell’interessato.

Dall’altro, lo stesso giudice penale, nei procedimenti per violazione degli obblighi inerenti a una misura di prevenzione, ha il dovere di verificarne preliminarmente la legittimità.

La verifica di legittimità compiuta dall’uno e dall’altro giudice, infine, comprende necessariamente anche una valutazione di proporzionalità tra le finalità di tutela perseguite dall’autorità di polizia e la concreta incidenza della singola misura sulla libertà di circolazione dell’interessato, nonché sull’intera gamma dei suoi diritti fondamentali comunque incisi dal provvedimento.

indegnità a succedere

Indegnità a succedere Indegnità a succedere: analisi dell'istituto ex art. 463 c.c. che esclude dalla successione chi ha compiuto atti gravi contro il de cuius o persone a lui vicine

Indegnità a succedere: cos’è

L’indegnità a succedere è una causa di esclusione dalla successione, sancita dall’articolo 463 del Codice Civile italiano. In base a questo istituto una persona, normalmente chiamata a succedere, viene privata del diritto di ereditare, a causa di comportamenti gravemente lesivi nei confronti del defunto o di persone a lui vicine. In questo articolo, esploreremo nel dettaglio l’articolo 463 del Codice Civile, i suoi effetti sulla successione, e le principali pronunce giuridiche che hanno interpretato e applicato questa norma, per fornire una panoramica chiara e completa dell’istituto.

Quando si verifica l’indegnità a succedere

L’indegnità a succedere si verifica quando una persona, pur avendo diritto all’eredità come successibile, viene esclusa dalla successione a causa comportamenti gravi o immorali della stessa nei confronti del defunto. Il Codice Civile italiano prevede che alcune azioni, particolarmente gravi, possano privare un soggetto della capacità di ereditare.

L’istituto ha quindi natura punitiva e preventivo-sociale. Esso impedisce a chi ha compiuto atti gravi di godere dei benefici derivanti dalla morte di chi ha danneggiato.

Articolo 463 c.c.: cosa prevede

L’articolo 463 c.c. stabilisce che una persona è indegna a succedere se, con azioni od omissioni, ha compiuto atti gravi di rilievo penale e civile. L’indegnità colpisce infatti:

  • chi, con volontà, ha ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente dello stesso, in assenza di una delle cause che ne escludono la punibilità;
  • chi ha commesso, in danno di uno dei suddetti soggetti, un fatto a cui la legge dichiara applicabile le disposizioni sull’omicidio;
  • chi ha denunciato una delle persone suddette per un reato punibile con l’ergastolo o la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denuncia è stata dichiarata poi calunniosa nell’abito del giudizio penale; chi ha testimoniato contro le stesse persone imputate per i predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata falsa nel giudizio penale;
  • chi è decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta e non è stato reintegrato nella stessa alla data di apertura della successione;
  • chi ha indotto con dolo o violenza la persona a fare, revocare o mutare il testamento;
  • chi ha soppresso, celato, o alterato il testamento che regolerebbe la successione;
  • chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso.

Indegnità a succedere: cosa dice la giurisprudenza

La giurisprudenza ha avuto e ha ancora un ruolo fondamentale nell’interpretare e applicare l’articolo 463 del Codice Civile. Diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno infatti contribuito a chiarire l’ambito e i limiti dell’indegnità a succedere. Vediamo alcune delle principali pronunce.

Indegno chi contravviene ai doveri di assistenza familiare

La sentenza della Cassazione Civile n. 19547/2008 ha stabilito che l’indegnità a succedere non si limita ai casi di omicidio o tentato omicidio. Essa si realizza in tutti i casi in cui il comportamento del successibile contravvenga ai doveri di rispetto e di assistenza familiare. Il caso riguardava un figlio che, pur non avendo ucciso il padre, aveva compiuto atti di grave maltrattamento psicologico e fisico nei suoi confronti. La Corte ha ritenuto che tali azioni giustificassero l’esclusione dalla successione. A conclusioni similari è giunta, sempre la Cassazione, nella sentenza n. 10591/2012. La Corte ha escluso infatti dalla successione una persona che, pur non avendo compiuto atti di violenza fisica diretta, aveva continuato a trattare il padre malato in modo indegno e disumano, causando  allo stesso un grave danno psicologico. La decisione della Cassazione ha sancito quindi che l’indegnità può derivare da atti non necessariamente violenti, ma comunque lesivi della dignità del defunto.

Indegno chi commette violenza economica

Gli Ermellini, nella sentenza n. 5935/2018 si sono occupati invece della questione della violenza economica come causa di indegnità a succedere. Un coniuge che aveva abusato della posizione di potere economico nei confronti del defunto, sottraendo beni o controllando in modo oppressivo le risorse finanziarie, è stato ritenuto indegno a succedere. La Corte ha interpretato l’indegnità come una misura che tutela non solo la vita fisica del defunto, ma anche il suo patrimonio e la sua integrità morale.

Dichiarazione di indegnità

L’indegnità a succedere non si verifica in ogni caso automaticamente: deve essere accertata in giudizio. Per dichiarare una persona indegna di succedere è necessario infatti che il tribunale prenda una decisione formale in seguito a una causa avviata da un altro soggetto che vanta diritti sull’eredità. Chi ha interesse a escludere un successibile dalla successione può quindi ricorrere al tribunale per ottenere una sentenza di indegnità, che ha natura costituiva.

Effetti dell’indegnità a succedere

La sentenza di indegnità comporta l’esclusione dalla successione del soggetto indegno, che perde quindi il diritto a ricevere beni e diritti rientranti nell’eredità del defunto.

La persona indegna non eredita nulla dal defunto, neppure legati o donazioni disposti in suo favore dal de cuius. Il patrimonio del defunto verrà quindi suddiviso tra quei soggetti che, per legge o per testamento, possono succedere al de cuius.

Riabilitazione dell’indegno

L’articolo 466 c.c prevede però che, chi è stato dichiarato indegno, possa essere riammesso a succedere se lo stesso è stato riabilitato espressamente per mezzo di un atto pubblico o di un testamento. Se poi l’indegno che non è stato riabilitato espressamente, è stato incluso nel testamento e il testatore conosceva la causa di indegnità, allora l’indegno può essere ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria in suo favore.

Leggi anche: Testamento: no all’interpretazione troppo “tecnica”

nuove licenze ncc

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni Le Regioni possono autorizzare nuove licenze di NCC ma devono rispettare l'obbligo della pubblica gara

Licenze NCC autorizzate dalle Regioni

Nuove licenze NCC autorizzate dalle Regioni. Ok dalla Corte Costituzionale purchè si rispetti l’obbligo della pubblica gara. Questo quanto precisato con la sentenza n. 206/2024.

La «rigida previsione contenuta nella risalente disciplina introdotta nel 1992», che assegna solo ai comuni la possibilità di indire pubblici concorsi per il rilascio delle autorizzazioni al servizio di noleggio con conducente (NCC), deve ritenersi «cedevole rispetto a successive leggi regionali che definiscano un assetto più articolato e attuale, in funzione della tutela di un livello di interessi che riguarda importanti potenzialità di sviluppo dell’intero territorio regionale». Si legge nel documento con cui la Consulta – dopo la pronuncia numero 137 del 2024, con cui è stata dichiarata, a seguito di autorimessione, l’illegittimità costituzionale del divieto di rilascio di nuove autorizzazioni per il servizio di NCC, previsto dall’articolo 10-bis, comma 6, del decreto-legge numero 135 del 2018 – è tornata a giudicare il ricorso del governo avverso l’articolo 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Calabria numero 16 del 2023.

Duplice portata normativa

Tale disposizione – ha precisato la sentenza – riveste una duplice portata normativa: da un lato, infatti, alloca anche alla Regione Calabria la funzione relativa al rilascio delle autorizzazioni per il servizio di NCC, dall’altro la disciplina attraverso una assegnazione diretta di tali autorizzazioni alla Ferrovie della Calabria srl. In riferimento al primo aspetto, la sentenza ha chiarito che «il principio di sussidiarietà non si oppone, ma anzi conferma la possibilità per la Regione di introdurre, nell’ambito della propria competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, norme che integrano, nel territorio regionale, quelle statali vigenti che declinano il livello di governo di allocazione della funzione di rilascio di autorizzazione al NCC».

Potenziare il sistema del trasporto

Dal momento che è la «quasi totale assenza di vettori» il motivo che ha spinto il legislatore regionale ad intervenire, la norma risulta funzionale a potenziare il sistema complessivo del trasporto non di linea, che «concorr[e] a dare “effettività” alla libertà di circolazione».

La sentenza ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione del rilascio delle autorizzazioni a svolgere il servizio di NCC direttamente a Ferrovie della Calabria srl: tale disciplina viola, infatti, l’obbligo del pubblico concorso previsto dall’articolo 8, comma 1, della legge numero 21 del 1992 e si pone pertanto in contrasto con la competenza statale in materia di «tutela della concorrenza», che assume carattere trasversale e prevalente, fungendo «da limite alla disciplina che le Regioni possono dettare nelle materie di loro competenza, concorrente o residuale», «sia pure nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi alla cui garanzia la competenza statale esclusiva è diretta».

giurista risponde

Diniego di accesso e segreto professionale È legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Si, è legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale che rientra tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990 (Cons. Stato, sez. VII, 19 settembre 2024, n. 7658).

È opportuno preliminarmente ricordare che l’art. 24 della legge sul procedimento amministrativo disciplina i casi di esclusione del diritto di accesso: a) per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi della L. 801/1977, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; b) nei procedimenti tributari; c) nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione; d) nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale relativi a terzi.

Il secondo comma dell’art. 24 prevede che, le singole pubbliche amministrazioni individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittimo il diniego di accesso ad atti coperti dal segreto professionale facendolo rientrare tra i casi di esclusione previsti dall’art. 24, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, rendendo, pertanto, superflua la mancata formalizzazione della opposizione del professionista interessato.

Infatti, il segreto professionale è posto a tutela, oltre che degli assistiti, anche della libertà di scienza che, nell’esercizio dell’attività professionale, deve essere garantita ai prestatori d’opera intellettuale ai sensi dell’art. 2239 c.c. e dell’art. 33 Cost. Tale libertà potrebbe risultare gravemente compromessa qualora non si garantisse la riservatezza delle valutazioni, dei giudizi e delle opinioni espresse nel corso dell’attività professionale.

(*Contributo in tema di “Procedure di gara: il termine per ricorrere”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

rito abbreviato

Rito abbreviato: la rinuncia all’impugnazione apre alla sospensione La Consulta ha stabilito che la rinuncia all'impugnazione della condanna nel giudizio abbreviato può aprire la strada alla sospensione condizionale della pena

Rito abbreviato e rinuncia all’impugnazione

Il condannato in esito a rito abbreviato che non abbia proposto impugnazione deve poter essere ammesso alla sospensione condizionale e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando per effetto della diminuzione di un sesto prevista dalla “riforma Cartabia” la pena inflittagli non superi i due anni di reclusione. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 208/2024, che ha ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale di Nola sulla nuova disciplina introdotta dalla riforma.

La questione

Una persona condannata, con rito abbreviato, a due anni e quattro mesi di reclusione aveva rinunciato all’impugnazione, ottenendo così l’ulteriore sconto di un sesto della pena ora previsto dal nuovo comma 2-bis dell’articolo 442 del codice di procedura penale. Il giudice dell’esecuzione aveva quindi ridotto la pena a un anno, undici mesi e dieci giorni di reclusione. Il condannato aveva però anche chiesto al giudice i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, che in via generale possono essere concessi quando la pena concretamente inflitta resti al di sotto del tetto di due anni di reclusione.

Il giudice aveva però osservato che la riforma non attribuisce espressamente questo potere al giudice dell’esecuzione. Ritenendo che tale mancata previsione non fosse compatibile con il principio di eguaglianza e la finalità rieducativa della pena, il giudicante aveva investito della questione la Corte costituzionale.

I chiarimenti della Consulta

La Consulta ha chiarito, anzitutto, che i principi costituzionali evocati dal giudice impongono effettivamente di riconoscere al giudice dell’esecuzione il potere di valutare se sussistano i presupposti per la concessione dei due benefici, ogniqualvolta la pena da eseguire sia ridotta entro il limite dei due anni per effetto della riduzione prevista dalla riforma.

La Corte ha sottolineato la funzionalità alla finalità rieducativa della pena dei benefici in esame, entrambi di antica tradizione nel nostro ordinamento.

In particolare, “la sospensione condizionale mira, da un lato, ad evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve. Dall’altro, essa intende prevenire la commissione di nuovi reati da parte del condannato attraverso la minaccia di revoca del beneficio, e a favorirne il percorso di risocializzazione attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che possono essere associati al beneficio”.

In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive non superiori a due anni possano essere sospese.

Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali, con cui l’imputato volontariamente rinuncia a garanzie che formano parte integrante dei suoi diritti costituzionali di difesa in giudizio (come il diritto di proporre appello contro la sentenza di condanna che lo riguarda), fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso.

La decisione

Secondo la Corte, il giudice avrebbe potuto concedere i benefici al condannato anche sulla base della legge oggi vigente, interpretata in conformità ai principi costituzionali. Poiché, tuttavia, due recentissime pronunce della Corte di cassazione hanno interpretato in senso opposto la disciplina normativa, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno intervenire per assicurare la certezza del diritto in materia processuale, dichiarando costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.

Edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: meno vincoli all’esecuzione forzata Per la Consulta è incostituzionale l'improcedibilità prevista per l'esecuzione forzata su immobili di edilizia pubblica nei confronti del costruttore privato

Esecuzione forzata edilizia residenziale pubblica

Edilizia residenziale pubblica: “è incostituzionale l’improcedibilità prevista – nell’ambito dell’esecuzione forzata su immobili destinati all’edilizia residenziale pubblica convenzionata – per il caso in cui il creditore fondiario non risponda a particolari requisiti o non partecipi alla procedura”. È quanto si legge nella sentenza numero 211/2024, con cui la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 1, comma 378, della legge 30 dicembre 2020, numero 178.

La norma

La norma censurata prevedeva che il giudice dell’esecuzione dovesse verificare d’ufficio in capo al creditore fondiario procedente la sussistenza dei seguenti requisiti: rispondenza del contratto di mutuo ai criteri stabiliti dalla legge numero 457 del 1978 (articolo 44) e inserimento dell’istituto di credito nell’elenco delle banche convenzionate presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Dopo aver constatato che il citato elenco non risulta ancora istituito e dopo aver preso atto che la formulazione della disposizione ha generato interpretazioni significativamente diverse, la Corte ha reputato “irragionevole e sproporzionata la norma censurata, ricostruita dal rimettente in maniera da abbracciare tanto una ratio sanzionatoria, quanto una supposta funzione di tutela della garanzia dello Stato”.

La Corte ha ritenuto, anzitutto, incostituzionale la disciplina, “là dove prevede la sanzione della improcedibilità per il creditore che non abbia rispettato i requisiti indicati nel richiamato articolo 44 della legge numero 457 del 1978, in presenza dei quali gode della garanzia dello Stato. Se dal mancato rispetto dei citati requisiti si fa discendere anche la perdita della garanzia dello Stato, risulta, infatti, sproporzionato inibire in aggiunta l’accesso alla tutela esecutiva. Se, invece, si esclude la perdita della garanzia dello Stato, l’improcedibilità determina solo l’irragionevole effetto di far valere la garanzia dello Stato al di fuori della procedura, anziché nell’ambito della stessa, ove la garanzia opera in via sussidiaria”.

Parimenti, irragionevole, oltre che sproporzionata, è la norma se interpretata nel senso di estendere l’improcedibilità anche ai casi in cui il creditore fondiario neppure partecipi alla procedura concernente i richiamati immobili.

La decisione

La Consulta rileva, infatti, che il creditore fondiario viene per legge avvisato dell’avvio della procedura concernente il bene su cui grava il suo diritto di ipoteca e rispetto al quale gode della garanzia dello Stato. Pertanto, se non interviene, è solo su di lui che dovrebbero riverberarsi le conseguenze della sua stessa inerzia. Viceversa, è irragionevole correlare all’inerzia del creditore fondiario l’improcedibilità per gli altri creditori, consentendo, al contempo, al debitore di assicurarsi, con il solo pagamento delle rate del mutuo fondiario, una temporanea impignorabilità del bene. Infine ha ribadito il giudice delle leggi che “restano fermi gli strumenti preposti alla tutela della finalità abitativa, vale a dire l’improcedibilità in caso di mancato avviso al comune e all’ente finanziatore circa la pendenza della procedura e il rispetto degli oneri reali in capo all’assegnatario della vendita forzata”.

chatgpt garante

ChatGpt: Garante Privacy multa Openai Il Garante Privacy ha chiuso l'istruttoria nei confronti di Openai che dovrà realizzare una campagna informativa di 6 mesi e pagare una sanzione di 15 milioni di euro

ChatGPT, istruttoria Garante Privacy

ChatGPT il Garante per la protezione dei dati personali ha adottato nei giorni scorsi un provvedimento correttivo e sanzionatorio nei confronti di OpenAI in relazione alla gestione del servizio ChatGPT.

Le violazioni

Il provvedimento, che accerta le violazioni a suo tempo contestate alla società californiana, arriva all’esito di un’istruttoria avviata nel marzo del 2023 e dopo che l’EDPB (Comitato europeo per la protezione dei dati) ha pubblicato il parere con il quale identifica un approccio comune ad alcune delle più rilevanti questioni relative al trattamento dei dati personali nel contesto della progettazione, sviluppo e distribuzione di servizi basati sull’intelligenza artificiale.

IA generativa

Secondo il Garante la società statunitense, che ha creato e gestisce il chatbot di intelligenza artificiale generativa, oltre a non aver notificato all’Autorità la violazione dei dati subita nel marzo 2023, ha trattato i dati personali degli utenti per addestrare ChatGPT senza aver prima individuato un’adeguata base giuridica e ha violato il principio di trasparenza e i relativi obblighi informativi nei confronti degli utenti. Per di più, OpenAI non ha previsto meccanismi per la verifica dell’età, con il conseguente rischio di esporre i minori di 13 anni a risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza.

Campagna informativa di 6 mesi

L’Autorità, con l’obiettivo di garantire, innanzitutto, un’effettiva trasparenza del trattamento dei dati personali, ha ordinato a OpenAI, utilizzando per la prima volta i nuovi poteri previsti dall’articolo 166, comma 7 del Codice Privacy, di realizzare una campagna di comunicazione istituzionale di 6 mesi su radio, televisione, giornali e Internet.

I contenuti, da concordare con l’Autorità, dovranno promuovere la comprensione e la consapevolezza del pubblico sul funzionamento di ChatGPT, in particolare sulla raccolta dei dati di utenti e non-utenti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa e i diritti esercitabili dagli interessati, inclusi quelli di opposizione, rettifica e cancellazione.

Grazie a tale campagna di comunicazione, gli utenti e i non-utenti di ChatGPT dovranno essere sensibilizzati su come opporsi all’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa con i propri dati personali e, quindi, essere effettivamente posti nelle condizioni di esercitare i propri diritti ai sensi del GDPR.

Sanzione di 15 milioni di euro

Il Garante ha comminato a OpenAI una sanzione di quindici milioni di euro calcolata anche tenendo conto dell’atteggiamento collaborativo della società.

Infine, tenuto conto che la società, nel corso dell’istruttoria, ha stabilito in Irlanda il proprio quartier generale europeo, il Garante, in ottemperanza alla regola del c.d. one stop shop, ha trasmesso gli atti del procedimento all’Autorità di protezione dati irlandese (DPC), divenuta autorità di controllo capofila ai sensi del GDPR, affinché prosegua l’istruttoria in relazione a eventuali violazioni di natura continuativa non esauritesi prima dell’apertura dello stabilimento europeo.

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Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria Quali effetti si producono sul testamento in caso di apposizione di onere o condizione sospensiva non avveratasi per esclusiva volontà del disponente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

In materia successoria, ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva alla disposizione testamentaria, dipendente anche dalla sua volontà, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace (Cass., sez. II, ord. 18 settembre 2024, n. 25116).

Il caso di specie origina da un testamento olografo con cui il testatore istituisce come eredi universali due nipoti chiedendo loro di occuparsi del suo accudimento, nel paese natio, fintantoché in vita.

A seguito di impugnazione dell’anzidetto atto mortis causa, l’adito Tribunale, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali, escluse che con il testamento fosse stato istituito un patto successorio vietato dalla legge e che lo stesso fosse viziato da errore, violenza o dolo.

Quanto all’impegno per l’accudimento, sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi di adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Anche la Corte di appello territoriale rigettò l’impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado: non può trattarsi di onere per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione. Invero, nel caso in esame, si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volesse esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica. Si trattava, invece, di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale; da qui la non applicabilità dell’art. 634, comma 2, c.c., con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 c.c., riferibile anche alla condotta di colui che abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, con la conseguenza che la stessa deve ritenersi adempiuta (così anche Cass., sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325; Cass. 20 luglio 2004, n. 13457).

Viene proposto ricorso per Cassazione in cui i ricorrenti assumono che la Corte aveva violato la regola ermeneutica sopra richiamata.

In materia testamentaria, secondo i ricorrenti, con i dovuti adattamenti era applicabile l’art. 1362 c.c., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete.

In altri termini, il contenuto letterale deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda: seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione, cioè il materiale accudimento.

Con il secondo motivo viene denunciata errata applicazione dell’art. 1359 c.c. in quanto non attinente alla fattispecie in esame, trattandosi di evento possibile, futuro e incerto alla data di redazione del testamento, norma posta a tutela di posizioni giuridiche attive, quali l’aspettativa dell’altro contraente, situazione che non ricorreva affatto nel caso di specie.

La censura è stata rigettata: la previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa; regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.

La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende impraticabile l’estensione della regola.

Il Codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria. L’art. 634 c.c., invero, prevede una disciplina diversa rispetto a quella contemplata per i contratti dall’art. 1354 c.c., diretta a salvaguardare la volontà del disponente; volontà che deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 c.c. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).

L’art. 634 c.c. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La condizione apposta al testamento in oggetto non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore. È stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina a eredi universali dei nipoti: proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In ragione delle motivazioni esposte, il ricorso è stato rigettato.

(*Contributo in tema di “Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

doveri dell'avvocato

I doveri dell’avvocato Doveri dell’avvocato: previsti dalla disciplina dell’ordinamento della professione forense e dal Codice deontologico

Doveri dell’avvocato: le fonti normative

I doveri dell’avvocato sono molteplici. L’attività legale in Italia è infatti regolata da norme precise che definiscono non solo i diritti degli avvocati, ma anche i loro doveri professionali nei confronti dei clienti, della giustizia e della collettività. La Legge 247 del 2012 e il Codice Deontologico Forense rappresentano le principali fonti normative in materia di deontologia professionale e disciplinano i comportamenti degli avvocati. Questi testi normativi assicurano che la loro attività sia condotta con etica, trasparenza e rispetto delle regole.

In questo articolo, esploreremo in dettaglio i doveri dell’avvocato, analizzando gli aspetti principali della legge n. 247/2012 e del Codice Deontologico Forense, per comprendere l’influenza di questi testi sull’esercizio della professione legale e sulla tutela degli interessi dei clienti e della giustizia.

Doveri dell’avvocato nella Legge 247/2012

La Legge 247 del 2012 rappresenta una normativa fondamentale per la professione forense in Italia. Essa ha introdotto importanti novità in materia di formazione, accesso alla professione e disciplina dell’attività. La legge stabilisce i principi fondamentali che devono orientare l’operato dell’avvocato, tracciando un quadro normativo che bilancia i diritti della professione con i doveri nei confronti dei clienti, della giustizia e della collettività. Vediamo quali sono i doveri degli avvocati in base alla legge 247 del 2012.

Obbligo di lealtà e correttezza

La Legge 247 stabilisce che l’avvocato debba agire con lealtà e correttezza nei confronti del cliente, della controparte, dell’autorità giudiziaria e degli altri professionisti. Questo dovere implica che l’avvocato non possa adottare comportamenti fraudolenti, ingannevoli o dilatori. Il professionista deve evitare ogni azione che possa compromettere l’integrità del processo.

Obbligo di competenza professionale

L’avvocato è tenuto a esercitare la professione con competenza. La legge impone l’obbligo di mantenere una costante formazione professionale e di non assumere incarichi in materie di cui non ha adeguata conoscenza. La responsabilità di garantire un’assistenza legale adeguata al cliente è uno dei principali fondamenti della professione.

Obbligo di indipendenza

L’avvocato deve esercitare la professione in piena indipendenza, evitando conflitti di interesse e garantendo che la sua attività non sia influenzata da pressioni esterne. Questo principio è essenziale per tutelare l’autonomia dell’avvocato nella difesa dei diritti del cliente.

Obbligo di riservatezza

Uno dei doveri più importanti dell’avvocato è il rispetto del segreto professionale. La Legge 247 del 2012 stabilisce che l’avvocato debba mantenere riservate tutte le informazioni confidenziali acquisite durante l’esercizio della professione. Questa norma ha lo scopo di garantire la fiducia del cliente nell’avvocato e di tutelare i suoi diritti.

Obbligo di assistenza legale continuativa

L’avvocato ha l’obbligo di fornire un’assistenza legale continuativa al cliente, tenendo conto delle specifiche esigenze del caso. L’avvocato deve impegnarsi per risolvere le problematiche legali del cliente nel miglior modo possibile, rispettando i termini e le scadenze procedurali.

Obbligo di informazione al cliente

L’avvocato deve informare il cliente sull’evoluzione del caso e le possibili strategie da adottare, rendendo noto anche il possibile esito della causa e le eventuali implicazioni legali ed economiche.

Doveri dell’avvocato nel Codice deontologico forense

Il Codice Deontologico Forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense (CNF) e aggiornato periodicamente, è il documento che disciplina in modo dettagliato l’etica e la condotta degli avvocati italiani. Esso si integra con la Legge 247 del 2012 e rappresenta una guida di comportamento che l’avvocato deve rispettare quotidianamente. Esso definisce i doveri nei confronti del cliente e la parte assistita, dei terzi e delle controparti, ma anche nei confronti delle istituzioni giudiziarie e forensi, della collettività e  dei colleghi.

Vediamo quindi quali sono i principali doveri dell’avvocato previsti dal Codice Deontologico.

Incompatibilità

L’avvocato deve evitare di svolgere attività che siano incompatibili con la sua iscrizione all’albo. Non deve svolgere inoltre attività che possano contrastare clan i doveri di dignità, probità, decoro e indipendenza.

Dignità professionale

L’avvocato deve astenersi da comportamenti che possano danneggiare la dignità della professione, come il ricorso a tecniche aggressive, minacciose o disoneste. Il rispetto per la giustizia e per gli altri professionisti deve sempre prevalere.

Dovere di fedeltà

Il legale deve rispettare il mandato ricevuto e deve svolgere la sua attività tutelando l’interesse della parte e rispettando il ruolo costituzionale e sociale della attività difensiva.

Diligenza e competenza

L’avvocato deve esercitare l’attività con coscienza, diligenza e competenza per garantire la qualità della prestazione. A tal fine è tenuto anche al rispetto del dovere di aggiornamento professionale e di formazione continua.

Segretezza e riservatezza

L’avvocato è tenuto al rispetto del segreto professionale nello svolgimento dell’attività stragiudiziale, giudiziale e di consulenza. Tali principi devono ispirare la sua condotta anche quando si rapporta con gli organi dell’informazione.

Adempimenti fiscali, contributivi e assicurativi

Come tutti i lavoratori autonomi l’avvocato è tenuto a rispettare i vari adempimenti fiscali, contributivi e assicurativi imposti dalla legge.

Lealtà e onestà professionale

L’avvocato è chiamato a comportarsi con lealtà verso tutti gli attori del processo: il cliente, la controparte, i giudici e gli altri professionisti. Deve evitare pratiche ingannevoli o dilatorie, agendo sempre con trasparenza.

Rispetto dell’autonomia del cliente

L’avvocato deve rispettare l’autonomia decisionale del cliente, consigliarlo in modo corretto e non forzarlo a prendere decisioni contro la sua volontà o interesse. L’assistenza legale deve sempre essere volta a tutelare gli interessi del cliente e a far rispettare i principi della giustizia.

Divieto di promesse di risultati

L’avvocato è tenuto a non può promettere o garantire l’esito positivo di una causa. Ogni causa porta con sé delle incertezze, e l’avvocato deve informare il cliente circa le probabilità di successo, ma non deve mai fare dichiarazioni che possano ingannarlo.

Obbligo di assistenza equa

Il Codice Deontologico impone che ogni avvocato, anche se incaricato in una causa in cui non vi è un interesse economico diretto, debba assicurare la migliore assistenza legale possibile, rispettando i principi di equità e giustizia.

Divieto di conflitto di interessi

L’avvocato deve evitare qualsiasi situazione di conflitto di interessi che potrebbe compromettere la sua imparzialità e la difesa dei diritti del cliente. In caso di conflitto, l’avvocato è obbligato a rinunciare all’incarico.

Obbligo di educazione e correttezza verso i colleghi

L’’avvocato deve mantenere rapporti di cortesia e rispetto con i colleghi e gli altri operatori del diritto. La concorrenza tra avvocati deve essere sana e improntata al principio della correttezza professionale, evitando comportamenti denigratori o sleali.

Mancato rispetto dei doveri dell’avvocato: conseguenze

Il mancato rispetto dei doveri professionali stabiliti dalla Legge 247 del 2012 e dal Codice Deontologico Forense può comportare sanzioni disciplinari per l’avvocato. Queste sanzioni vanno dal semplice  avvertimento alla radiazione dall’albo. Nei casi più gravi la sanzione disciplinare può essere aumentata.

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