affidamento condiviso

Affidamento condiviso L’affido condiviso e il principio di bigenitorialità: la centralità degli interessi del minore nei provvedimenti del giudice sulla separazione dei coniugi

L’affidamento condiviso nella separazione

L’affidamento condiviso è la condizione in cui, di regola, si trovano i figli in conseguenza della separazione dei genitori.

L’affido congiunto si contrappone ad altre possibili soluzioni che il giudice può adottare in sede di separazione dei coniugi con prole, come ad esempio l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori in considerazione di particolari circostanze (in particolare, quando l’affidamento all’altro genitore, anche in via condivisa, sia contrario all’interesse del minore).

Affido condiviso come funziona

Fino all’emanazione della legge 54/2006, la regola, in tema di affidamento dei figli in sede di separazione, era rappresentata dall’affido esclusivo. Con tale provvedimento legislativo, invece, si è scelto di rendere centrale il ruolo dell’affido condiviso paritario per garantire, da un lato il diritto di ciascun coniuge all’esercizio della responsabilità genitoriale e alla partecipazione alle decisioni più importanti nell’interesse dei figli, e dall’altro, il diritto di questi ultimi alla c.d. bigenitorialità.

Il principio della bigenitorialità

Il principio della bigenitorialità è riassunto nella formula dell’art. 337-ter del codice civile, in base al quale “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.

Più in generale, il secondo comma della norma citata evidenzia come oggi l’affidamento condiviso rappresenti la regola, in quanto impone al giudice, in caso di separazione dei coniugi, di valutare prioritariamente “la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”. Solo quando tale strada non sia percorribile egli è chiamato a stabilire a quale dei genitori i figli debbano essere affidati, fermi restando il diritto e il dovere di ciascuno dei genitori di contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli.

Quali sono le regole per l’affidamento condiviso

Il regime di affido paritario non esclude, peraltro, che tra i due genitori ne sia individuato uno presso la cui abitazione i figli continueranno a dimorare.

Il collocamento dei figli

Al genitore collocatario, di norma, è concessa la possibilità di continuare ad abitare nella casa familiare. In tal caso, all’altro genitore viene garantita la presenza dei figli presso il proprio domicilio (evidentemente, una casa diversa presso cui il coniuge non collocatario è andato a vivere dopo la separazione). Sta al giudice, in assenza di accordo tra le parti, individuare i giorni o i periodi in cui i figli si trasferiscono presso l’abitazione del genitore non collocatario (frequente è, ad esempio, l’adozione di provvedimenti giudiziali che prevedano i c.d. fine settimana alternati presso ciascun genitore).

Una particolare tendenza emersa nelle decisioni della più recente giurisprudenza è quella di prevedere, nell’interesse dei figli, che questi abitino permanentemente nella casa familiare e che ad alternarsi nella presenza all’interno di essa siano gli ex coniugi.

In altre parole, tali provvedimenti mirano a garantire una stabilità emotiva, nei rapporti e nella vita quotidiana, in favore dei figli ed evitare che questi ultimi siano trattati, come si usa dire, come “pacchi postali”, in continua peregrinazione tra le attuali abitazioni dei due genitori. I giudici che seguono tale orientamento impongono, dunque, a ciascun genitore di abbandonare, in determinati giorni, la casa familiare per far posto all’altro coniuge.

Tale filone giurisprudenziale, che annovera anche autorevoli pronunce di legittimità (v. Cass., ord. n. 6810/2023), incontra, per avverso, le critiche di chi vi scorge un’eccessiva gravosità per i coniugi nella gestione della propria vita e dei propri rapporti quotidiani.

Quando decade l’affidamento condiviso

In ultima analisi, con l’affido condiviso viene garantita la partecipazione di entrambi i genitori alle più importanti decisioni relative alla cura e all’educazione dei figli, si pensi ad esempio al percorso scolastico da seguire, alle attività extrascolastiche da praticare o alle scelte in ambito sanitario, come la decisione di sottoporsi o meno ad un vaccino.

In ogni caso, ai figli minori è garantito l’ascolto da parte del giudice, ai sensi dell’473 bis 4 c.p.c. che prevede in capo al minore che abbia compiuto gli anni dodici (o meno, se capace di discernimento) un generale diritto di essere ascoltato in relazione ai provvedimenti giudiziali che lo riguardano.

Infine, va ricordato che ogni provvedimento giudiziale in tema di affidamento dei figli – ivi compreso quello che dispone sull’assegno di mantenimento  – può essere sottoposto a revisione su richiesta di uno dei genitori, ai sensi dell’art. 337-quinquies c.c.

giustizia riparativa

Giustizia riparativa La giustizia riparativa dopo la Riforma Cartabia: lo scopo, le procedure di mediazione, i possibili esiti e i benefici per l’imputato

Giustizia riparativa, cosa si intende

La giustizia riparativa è un modello di giustizia penale incentrato sulla gestione degli effetti pregiudizievoli causati da un reato, anziché sulla punizione dell’autore del reato, come è invece il sistema penale tradizionale.

Oggetto di elaborazioni dottrinali anche molto risalenti nel tempo, il modello di giustizia riparativa ha trovato recente consacrazione sia a livello europeo, con la Direttiva UE n. 29/2012, sia nell’ordinamento italiano, con l’introduzione delle norme contenute negli artt. 42-67 del d.lgs. 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia).

Giustizia riparativa e obbligo dell’esercizio dell’azione penale

Il percorso di giustizia riparativa delineato dalla Riforma Cartabia si caratterizza, innanzitutto, per essere un percorso facoltativo, cioè lasciato alla libera scelta dei soggetti coinvolti, e soprattutto non alternativo all’azione penale “tradizionale”.

Il nostro sistema penale, infatti, non lascia scelta alle parti (e in particolare al pubblico ministero) in ordine alla possibilità di esercitare l’azione penale, che è obbligatoria (cfr. art. 112 Costituzione). ciò significa che il p.m., ogni qual volta abbia notizia di un reato, deve attivarsi, ferma restando la possibilità di richiedere l’archiviazione al giudice per le indagini preliminari, ove gli elementi raccolti durante l’indagine non siano ritenuti idonei a sostenere l’accusa.

I possibili benefici per l’imputato

Così intesa, dunque, la giustizia riparativa si pone come un momento di dialogo tra la vittima ed il reo (ed altri soggetti intermediari, come vedremo tra breve), che ha come finalità, da un lato, la ricerca di una riparazione, anche simbolica, degli effetti del reato, all’esito di un percorso in cui la vittima ha anche l’occasione di elaborare l’accaduto e di esprimere sensazioni ed esigenze che invece difficilmente trovano posto nell’azione penale (va precisato che per “vittima”, a questo riguardo, si intende anche il familiare della persona la cui morte è stata causata dal reato, cfr. art. 42 del decreto 150/22).

Dall’altro lato, l’esito positivo del percorso di giustizia riparativa consente al reo di ottenere dei benefici nell’ambito dell’azione penale esercitata dal p.m. (si ricordi che, ove intrapreso, il percorso di giustizia riparativa va di pari passo – senza in alcun modo sostituire – con l’azione penale “tradizionale”).

Riparazione del reato circostanza attenuante

Nello specifico, la riparazione del reato eventualmente conseguita nell’ambito della procedura di giustizia riparativa può essere considerata come circostanza attenuante e quindi comportare una diminuzione della pena; può valere quale rimessione tacita di querela; e può condurre alla sospensione condizionale della pena per un anno.

Giustizia riparativa accessibile senza preclusioni

Va evidenziato che, a norma dell’art. 44 del d.lgs. 150/22 Riforma Cartabia, i programmi di giustizia riparativa sono accessibili per qualsiasi reato, senza preclusioni in relazione alla sua gravità, e possono essere attivati in ogni stato e grado del procedimento penale (art. 129-bis c.p.p.), d’ufficio dal giudice o su richiesta dell’imputato o della vittima.

Come chiedere giustizia riparativa?

Dal punto di vista procedurale, le procedure di giustizia riparativa si svolgono con l’intervento di mediatori terzi abilitati che operano presso gli appositi Centri per la giustizia riparativa, nell’ambito di un sistema che opera sotto la vigilanza del Ministero della Giustizia.

Partecipano ai programmi di giustizia riparativa la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa ed eventualmente altri soggetti appartenenti alla comunità, come i familiari, persone di supporto e rappresentanti di enti locali o di altri enti pubblici.

Tali programmi mirano a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione dell’imputato e la ricostituzione dei legami con la comunità (art. 43 comma 2 del decreto citato).

Gli esiti della mediazione nella giustizia riparativa

All’esito della procedura di mediazione nella giustizia riparativa, l’esperto redige una relazione in cui, tra l’altro, dà conto degli esiti della stessa e la trasmette al giudice del procedimento penale, il quale, in base alle risultanze, può riconoscere in favore dell’imputato i vantaggi di cui si è detto sopra.

Quanto all’esito del programma di giustizia riparativa, esso, quando positivo, può consistere in un esito simbolico, come ad esempio scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o accordi tra vittima e imputato relativi alla frequentazione di persone o luoghi (art. 56 del decreto citato); oppure in un esito materiale, come il risarcimento del danno, una restituzione o l’adoperarsi dell’imputato per attenuare le conseguenze del reato.

In chiusura, va evidenziato che il principale scopo della giustizia riparativa non è quello di alleviare la pena dell’imputato, ma quello di proporre un percorso alternativo che metta al centro il dialogo e soprattutto il racconto della vittima, per individuare, in concreto, l’azione riparatoria più idonea a ricostruire il legame sociale danneggiato.

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bancarotta fraudolenta

Bancarotta fraudolenta Il reato di bancarotta fraudolenta: la dichiarazione di liquidazione giudiziale, l’elemento soggettivo e i contrasti giurisprudenziali

Reato di bancarotta fraudolenta e liquidazione giudiziale

Il reato di bancarotta fraudolenta punisce l’imprenditore, o chi ricopre cariche societarie, che compia con dolo atti in danno del patrimonio dell’impresa o della parità di condizioni dei creditori.

L’art. 322 del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I.) dispone, sulla falsariga di quanto prevedeva l’art. 216 della Legge Fallimentare, che può essere punito per tale reato solo l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale (in precedenza, si faceva riferimento all’imprenditore fallito; la liquidazione giudiziale ha sostanzialmente sostituito il fallimento nella nuova disciplina posta dal Codice, come strumento procedurale teso a soddisfare i creditori dell’imprenditore insolvente).

Le diverse ipotesi di bancarotta fraudolenta

Le ipotesi di bancarotta fraudolenta individuate dall’art. 322 C.C.I.I. sono le seguenti:

  • la c.d. bancarotta patrimoniale, che ricorre quando l’imprenditore distrae, occulta, dissimula o distrugge o dissipa i propri beni, oppure quando espone o riconosce passività inesistenti per arrecare pregiudizio ai creditori;
  • la c.d. bancarotta documentale, quando l’imprenditore sottrae, distrugge o falsifica i libri o le scritture contabili, per trarne un ingiusto profitto o per recar danno ai creditori;
  • e la c.d. bancarotta preferenziale, che ricorre quando l’imprenditore favorisce alcuni creditori in danno di altri, eseguendo pagamenti o simulando titoli di prelazione.

Le pene previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza

Ciò che distingue il reato di bancarotta fraudolenta dalla semplice bancarotta è l’elemento psicologico, che consiste nel dolo, e cioè nell’intenzione, da parte del soggetto agente, di arrecare danno ai creditori.

La pena prevista per il reato di bancarotta fraudolenta è la reclusione da tre a dieci anni, nei casi di bancarotta patrimoniale o documentale, e da uno a cinque anni per la bancarotta preferenziale.

In ogni caso, il colpevole è punito anche con la condanna alla pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e all’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni (art. 322 C.C.I.I., ultimo comma).

Dichiarazione di liquidazione giudiziale nella giurisprudenza

Particolare interesse ha suscitato in giurisprudenza il valore della dichiarazione di liquidazione giudiziale, che a volte è stata considerata come un vero e proprio elemento del reato, mentre altre volte come una mera condizione di punibilità.

In particolare, la sentenza n. 13910/2017 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione aveva sancito che la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) fosse semplicemente una condizione di punibilità, cioè un evento al verificarsi del quale il colpevole può essere punito. Ciò perché, a giudizio degli Ermellini, la dichiarazione di fallimento è cosa ben diversa dallo stato di insolvenza che ne è alla base e che solo costituisce l’offesa al patrimonio dei creditori.

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Orientamento più risalente della Cassazione

L’orientamento più risalente della Corte di Cassazione, che considerava invece la dichiarazione di fallimento come elemento costitutivo del reato di bancarotta fraudolenta, è stato invece riportato in auge da una successiva pronuncia della Suprema Corte (Cass. pen., sent. n. 40477/18), che considera la sentenza dichiarativa di fallimento (oggi dichiarazione di liquidazione giudiziale) come un elemento costitutivo della fattispecie di reato.

In proposito, la sentenza motiva tale scelta “in quanto il reato fallimentare, in assenza della sentenza dichiarativa di fallimento, non può essere considerato ontologicamente integrato in tutte le sue componenti essenziali”, ricollegandosi espressamente al risalente, ma autorevole, arresto delle Sezioni Unite (sent. n. 2 del 1958), che giustificava tale orientamento sostenendo che, mentre la condizione di punibilità presuppone un reato già perfetto, la dichiarazione di fallimento inerisce intimamente alla struttura del reato.

 

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capacità giuridica

La capacità giuridica Definizione e profili storici della disciplina della capacità giuridica. In particolare: la tutela del concepito e le differenze con la capacità di agire

Capacità giuridica, definizione

La capacità giuridica è l’attitudine di una persona ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici.

Tale istituto, tanto essenziale nei suoi caratteri quanto fondamentale nell’ambito di un ordinamento giuridico, è disciplinato dall’art. 1 del codice civile, che stabilisce che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita.

Profili storici della disciplina della capacità giuridica

L’importanza di una disciplina espressa riguardo all’istituto in parola si coglie più compiutamente attraverso un confronto con la disciplina prevista in altri periodi storici, quando era contemplata la possibilità di limitare o privare della capacità giuridica (c.d. morte civile) taluni soggetti per motivi politici o razziali.

È ciò che avvenne, ad esempio, in Italia durante il regime fascista, e un importante riflesso ne è l’attuale testo dell’art. 22 della Costituzione, il quale espressamente dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Acquisto e perdita della capacità giuridica: l’art. 1 del codice civile

Come si è detto, la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, con ciò intendendosi il momento del distacco del feto dal grembo materno.

Ciò significa che il nascituro non è considerato, nel nostro ordinamento, soggetto di diritto, sebbene sia comunque oggetto di tutela da parte della legge.

La capacità giuridica del concepito

Infatti, ad esempio, il concepito (e a dire il vero anche il non-concepito, se si intenda il figlio di una determinata persona vivente al tempo della morte del de cuius) può succedere per testamento e ricevere per donazione.

I diritti del nascituro, però, sono subordinati all’evento della nascita, come prevede il secondo comma dell’art. 1 del codice civile.

Perdita della capacità giuridica

Analogamente, la capacità giuridica di un soggetto termina con la sua morte naturale. Per vero, anche la dichiarazione (con sentenza) di morte presunta, ex art. 58 c.c., determina la perdita della capacità giuridica del soggetto, con contestuale apertura della relativa successione.

Capacità delle persone giuridiche

Oltre che appannaggio delle persone fisiche, la capacità giuridica è configurabile anche in capo alle persone giuridiche, sebbene ciò non postuli il possesso da parte di queste ultime di alcuni diritti propri delle persone fisiche (si pensi a quelli afferenti al diritto familiare).

Le persone giuridiche sono titolari, peraltro, di alcuni rilevanti diritti, quali quello al nome (o alla denominazione) e all’immagine.

Differenza tra capacità giuridica e capacità di agire

Sul tema in oggetto, è importante distinguere tra loro i concetti, ben differenti, di capacità giuridica e capacità di agire.

Se la capacità giuridica, come si è detto, attiene alla generica attitudine alla titolarità di diritti e obblighi giuridici, la capacità di agire indica, invece, la possibilità di porre in atto atti giuridici, e quindi di divenire volontariamente titolare di diritti o di obbligarsi verso terzi.

A differenza della capacità giuridica, la capacità d’agire non si acquista con la nascita ma, come disposto dall’art. 2 cod. civ., si consegue, come regola generale, alla maggiore età, attualmente fissata al compimento dei 18 anni.

In alcuni casi, peraltro, l’ordinamento prevede che determinati atti giuridici possano essere posti in atto anche dal minore (vedi le norme in tema di matrimonio e riconoscimento del figlio da parte del minore emancipato), e che in altri casi la capacità di agire possa essere limitata, anche a tutela del soggetto stesso (interdizione o inabilitazione).

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esdebitazione in cosa consiste

Esdebitazione: in cosa consiste L’esdebitazione nelle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento: in particolare, l’esdebitazione del debitore incapiente

Cosa si intende per esdebitazione

L’esdebitazione consiste nella cancellazione definitiva dei debiti ed è prevista come conseguenza del positivo esito delle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento.

La composizione delle crisi di sovraindebitamento, cioè di quelle situazioni in cui il debitore non è in grado di far fronte ai propri obblighi nei confronti dei creditori, è stata al centro di alcuni importanti interventi normativi degli ultimi anni, a cominciare dalla legge n. 3 del 2012, le cui disposizioni sono sostanzialmente confluite nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII).

Esdebitazione e procedure per il sovraindebitamento

In linea generale, le procedure in parola sono destinate ai piccoli imprenditori o ai consumatori, cioè a chi non esercita attività d’impresa. In altre parole, sono dedicate a quei soggetti che non possono accedere alla liquidazione giudiziale (una volta si definivano soggetti non fallibili, prima che il fallimento venisse sostituito normativamente dalla liquidazione giudiziale).

Legge 3 del 2012

Con la legge 3 del 2012, in particolare, furono introdotte tre diverse procedure di risoluzione della crisi: il piano del consumatore (oggi “ristrutturazione dei debiti del consumatore”, artt. 67 e segg. del CCII), l’accordo con i creditori (anche detto concordato minore) e la liquidazione del patrimonio.

Il primo è destinato solo al consumatore e prevede alcuni aspetti molto vantaggiosi per il debitore, a cominciare dal fatto che non vi è bisogno del consenso dei creditori per ottenere l’accesso alla procedura, ma solo del parere positivo del giudice, adito tramite l’intervento di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC).

Si tratta, in sostanza, di sottoporre al giudice una serie di documentazioni, che dimostrino la difficoltà del debitore ad adempiere ai propri obblighi, per richiedere l’approvazione di un piano di rientro.

Per i piccoli imprenditori è invece possibile proporre l’accordo con i creditori, che viene siglato se ottiene il consenso della maggioranza dei creditori.

Ovviamente queste procedure presentano un vantaggio anche per i creditori, poiché consentono loro di recuperare almeno una parte del credito, con procedure più snelle rispetto a quelle tradizionali esecutive.

Le esdebitazioni nel Codice della crisi

La terza procedura prevista è la liquidazione del patrimonio del debitore, attivabile in via alternativa alla proposta per la composizione della crisi, e alla quale può seguire l’esdebitazione (si tratta della c.d. liquidazione controllata ex art. 278 ss. del CCII, la cui disciplina discende da quella precedentemente prevista dalla legge 3 del 2012 in tema di liquidazione del patrimonio del debitore).

L’esdebitazione comporta la completa liberazione dai debiti, con conseguente inesigibilità di quelli  rimasti insoddisfatti all’esito della liquidazione.

L’esdebitazione conseguente alla liquidazione controllata è pronunciata con decreto dal tribunale, contestualmente alla dichiarazione di chiusura della procedura.

L’esdebitazione del debitore incapiente

Una particolare disciplina è dedicata all’esdebitazione del debitore incapiente, prevista in origine dall’art. 14-quaterdecies della legge 3/12 ed oggi contenuta nell’art. 283 del Codice della Crisi.

Come intuibile, tale soluzione può essere scelta da chi si trovi nelle condizioni di non poter offrire ai creditori alcuna utilità e che non abbia particolari prospettive di guadagno futuro.

L’esdebitazione del sovraindebitato incapiente può essere chiesta solo una volta nella vita, a condizione che il giudice consideri il soggetto meritevole, cioè ritenga che egli abbia assunto, a suo tempo, le obbligazioni usando l’ordinaria diligenza.

Cosa succede dopo esdebitazione

Ove rispettate tutte le condizioni di legge, il giudice concede con decreto l’esdebitazione al debitore incapiente, con l’unico obbligo per quest’ultimo di presentare una dichiarazione annuale, per quattro anni, in cui siano indicate le eventuali sopravvenienze attive. Se queste raggiungono almeno il dieci per cento dei crediti dovuti, vengono destinate al soddisfacimento dei creditori.

I creditori possono opporsi al decreto di esdebitazione, sollecitando il giudice ad una nuova decisione, contro la quale le parti possono proporre reclamo. In mancanza di opposizione, pertanto, e salvo gli obblighi connessi alla dichiarazione annuale di cui si è detto sopra, il soggetto richiedente è liberato da tutti i debiti.

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due diligence cos'è pratica

Due diligence: cos’è e quando si mette in pratica Cos’è la Due diligence e quando si mette in pratica. In particolare: l’oggetto dell’indagine, il suo obiettivo e le ipotesi di due diligence interna

Cosa si intende per due diligence

L’espressione Due diligence si riferisce all’operazione di ricerca, raccolta e analisi di dati e informazioni, finalizzata alla valutazione sulla convenienza ed opportunità di un’operazione finanziaria o commerciale.

Solitamente, l’attività di Due diligence viene demandata a società di consulenza specializzate, cui si rivolge chi è coinvolto in una trattativa di acquisizione di determinati tipi di asset (partecipazioni societarie, immobili, crediti, operazioni nell’ambito di fusioni e incorporazioni societarie etc.).

Il significato letterale della locuzione in oggetto corrisponde a “dovuta diligenza” e si riferisce alla necessaria attenzione che occorre riporre nell’analisi dei vari aspetti e, soprattutto, dei possibili rischi derivanti da un’operazione commerciale o imprenditoriale.

Due diligence significato

A seconda dell’oggetto dell’analisi, si possono distinguere vari tipi di Due diligence.

L’indagine di fatti, dati e informazioni, ad esempio, si può concentrare sugli aspetti fiscali, oppure su quelli giuridici (e in tal caso si parla di Due diligence legale) o ancora sulle aspettative di mercato e quindi sul valore strategico dell’acquisto che si intende effettuare.

Ancora, l’analisi diligente può riguardare il valore di un’azienda o di uno specifico ramo d’azienda, le difficoltà di recupero di una serie di crediti o la fattibilità di un’offerta pubblica di acquisto.

Anche riguardo all’acquisto di immobili, è prassi consolidata accertarsi sull’esistenza di eventuali garanzie o cause di prelazione che possono rendere meno appetibile l’acquisto o meno probabile il buon esito di un’offerta.

Tipologie di Due diligence

L’incarico di Due diligence può precedere l’operazione di acquisto o anche seguirla.

Nel primo caso, le risultanze dell’attività di indagine svolta dalla società di consulenza influenzeranno il corso delle trattative, rafforzando la convinzione dell’opportunità di un acquisto (o di una diversa operazione, come la quotazione in borsa o l’aumento di capitale sociale) o, al contrario, dissuadendo il potenziale acquirente che ha disposto l’indagine, a seconda delle risultanze di quest’ultima.

A operazione avvenuta, invece, l’avvio di una Due diligence può rispondere ad esigenze di verifica riguardo all’operazione compiuta e, in base all’esito, può risultare utile a rimodulare le condizioni di vendita (a cominciare dal prezzo pattuito, ad esempio, se si è stipulato un semplice contratto preliminare) o a concordare ulteriori condizioni, come la previsione di una penale o la prestazione di una garanzia relativa a determinati rischi.

Due diligence interna

Va segnalato, infine, che la pratica di Due diligence può anche essere adottata da un’azienda per fini conoscitivi della propria stessa struttura e funzionamento.

L’oggetto dell’indagine, in tal caso, è quindi interno, e può rispondere a svariati obiettivi, come ad esempio la verifica della corretta compliance alle normative di interesse (ad esempio, quella fiscale).

In alcuni casi, peraltro, l’indagine interna di Due diligence può essere imposta direttamente dalla legge.

La Due diligence nelle direttive UE

A livello europeo, ad esempio, di recente è stato approvato il nuovo Regolamento Antiriciclaggio (AML Package), in vigore dal luglio 2024, che pone, a carico delle aziende che presentano determinati requisiti, alcuni obblighi in ordine all’identificazione della clientela, per prevenire l’ingresso nel mercato di risorse finanziarie di provenienza illecita.

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Un altro esempio di indagine interna di Due diligence prevista dalla legge è quella oggetto della c.d. direttiva CSDDD, con cui l’Unione Europea intende sensibilizzare le aziende in ordine al monitoraggio e alla prevenzione dei danni ambientali e delle violazioni in tema di diritti umani nell’ambito della propria catena produttiva.

licenziamento giustificato motivo oggettivo

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo Presupposti e disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. L’obbligo di repêchage e la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione

I diversi tipi di licenziamento

La normativa in materia di licenziamenti individuali, in primo luogo individuata dalla legge n. 604 del 1966, prevede che il datore di lavoro possa adottare tale misura in conseguenza della condotta del lavoratore (si tratta delle ipotesi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo), oppure per ragioni obiettive: in tal caso ricorre il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In particolare, tale misura può essere adottata dal datore per motivi di carattere economico (ad esempio, a fronte di un periodo di crisi) o per ragioni organizzative che inducano a ridurre il personale o a rinunciare all’attività di determinati settori aziendali.

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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: i presupposti

In generale, perché il licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa essere considerato legittimo, è necessario non solo che ricorrano le ragioni obiettive sopra evidenziate, ma anche che sia verificabile il nesso causale tra esse ed il licenziamento e che l’individuazione del lavoratore da licenziare sia stata effettuata senza discriminazioni o disparità di giudizio da parte del datore.

Inoltre, come costante giurisprudenza insegna, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è da considerarsi legittimamente adottato solo nel caso in cui non sia stato possibile ricorrere al c.d. repêchage. Con tale termine si fa riferimento alla possibilità di mantenere in essere il rapporto di lavoro con il dipendente attraverso la ricollocazione dello stesso in una diversa posizione lavorativa, con contestuale mutamento delle mansioni a cui lo stesso viene adibito.

In altre parole, se nell’ambito dell’organizzazione aziendale è individuabile una posizione lavorativa che può essere ricoperta da quel lavoratore, anche con mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle cui questi era stato adibito in precedenza, il licenziamento non è legittimamente praticabile.

Inoltre, ove praticabile, il licenziamento deve essere preceduto da preavviso scritto e, nelle realtà aziendali più grandi, deve essere oggetto di apposito tentativo di conciliazione, salvo poi poter essere impugnato dal lavoratore davanti al Giudice del lavoro.

Obbligo di repêchage e giurisprudenza della Corte di Cassazione

Sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e in particolare sull’obbligo di repêchage, si registra copiosa ed autorevole giurisprudenza di legittimità, tesa soprattutto a definire meglio i contorni della legittimità, o meno, del licenziamento.

Cassazione SS.UU. n. 7755/1998

Al riguardo, una delle pronunce più importanti è sicuramente quella delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 1998, che ha chiarito che il ricollocamento del lavoratore può riguardare anche posizioni relative a mansioni inferiori, poiché in tal caso l’esigenza di evitare il demansionamento del dipendente recede rispetto all’interesse di quest’ultimo alla conservazione del posto di lavoro (Cass., SS.UU., n. 7755/98).

Cassazione n. 2739/2024

Sul punto, è da segnalare un recente arresto della Suprema Corte (Cass., ord.  n. 2739 del 30 gennaio 2024), che, da un lato, si riporta all’orientamento appena evidenziato, per confermare che al dipendente vada prospettata la possibilità di ricollocazione anche in posizioni lavorative caratterizzate da mansioni inferiori a quelle precedentemente ricoperte; dall’altro, sottolinea come l’onere della prova in merito alla possibilità di repêchage (così come in relazione all’esistenza del nesso causale tra ragioni oggettive e licenziamento) incombe sul datore di lavoro.

La pronuncia degli Ermellini, infatti, a questo proposito ha smentito quella della Corte di merito, che aveva fatto riferimento ad un supposto onere del dipendente di indicare a quali posizioni lavorative egli avrebbe astrattamente potuto essere adibito; la Suprema Corte ha evidenziato che il dipendente non ha alcun onere di allegazione al riguardo, e che spetta soltanto al datore di lavoro l’onere di dimostrare – per quanto con prova negativa – che non vi erano posizioni idonee all’operazione di ricollocamento del lavoratore.

espropriazione pubblica utilità

Espropriazione per pubblica utilità Il procedimento di espropriazione per pubblica utilità e le sue fasi: il vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità, l’indennità e il decreto di esproprio

Cosa si intende con espropriazione?

L’espropriazione per pubblica utilità è una procedura che le pubbliche amministrazioni possono mettere in atto quando, in base agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, ritengano che una determinata area debba essere asservita alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità o che un determinato immobile debba essere destinato ad una funzione di pubblica utilità.

L’espropriazione per pubblica utilità nella Costituzione

L’espropriazione si pone, quindi, come un limite al diritto di proprietà, nel senso che pur corrispondendo quest’ultimo ad un potere illimitato di godimento e disposizione sul bene in capo al proprietario, tale diritto/potere è destinato a recedere di fronte al superiore interesse pubblico.

Questo è esattamente il concetto espresso dall’art. 42 della Costituzione, che al terzo comma dispone, appunto, che la proprietà privata, nelle ipotesi previste dalla legge, può essere espropriata per cause di interesse generale e che, in tali casi, al proprietario spetta un indennizzo.

Quanto dura il vincolo di esproprio?

Ovviamente, per evitare abusi, discriminazioni e disparità di trattamento, l’intero procedimento di espropriazione per pubblica utilità è disciplinato nel dettaglio dalla legge e trova, oggi, compiuta regolamentazione nel DPR n. 327 del 2001, c.d. Testo Unico sugli espropri.

In base alla normativa in vigore, il primo passaggio fondamentale del procedimento di espropriazione è l’apposizione del vincolo su un determinato bene. La scelta del bene, o dei beni, su cui apporre tale vincolo discende direttamente dall’approvazione degli strumenti di pianificazione urbanistica, come il Piano di Governo del Territorio o il Piano Regolatore.

Il vincolo ha una durata di cinque anni, anche se la legge prevede che possa essere reiterato nel caso in cui non abbia avuto seguito entro tale termine. In tale ipotesi, però, al proprietario va riconosciuta un’indennità commisurata al danno prodotto. Ciò è conseguenza del fatto che, per il fatto dell’apposizione del vincolo, il bene subisce un chiaro deprezzamento, e la reiterazione del vincolo non fa altro che prolungare tale situazione.

Entro i cinque anni dall’apposizione, pertanto, deve normalmente intervenire il successivo provvedimento dell’Autorità procedente, che consiste nella dichiarazione di pubblica utilità. In caso contrario, e in mancanza di reiterazione, il vincolo decade.

La dichiarazione di pubblica utilità

La dichiarazione di pubblica utilità consegue all’approvazione del progetto definitivo di un’opera (si pensi ad una strada) e si concreta nella destinazione alla pubblica utilità dell’area su cui tale opera dovrà insistere.

Tale dichiarazione viene resa pubblica dall’Ente procedente (ad esempio sugli albi, o in apposite sezioni del sito web istituzionale) e può essere oggetto di osservazioni da parte di eventuali controinteressati, le quali vengono esaminate dall’amministrazione nell’ambito di un’istruttoria di cui viene dato conto nel provvedimento finale.

Tale provvedimento può prevedere la trasformazione fisica dell’immobile (nel classico caso di costruzione di una nuova opera) o nella semplice destinazione ad uso pubblico di un immobile privato preesistente.

In ogni caso, il provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità viene notificato ai proprietari delle aree interessate, in vista del conseguente provvedimento di esproprio, che deve essere adottato entro cinque anni, salvo proroga di massimo due anni.

Quanto viene pagato un esproprio?

Prima dell’adozione del decreto di esproprio, cioè del provvedimento con cui si conclude il procedimento di espropriazione per pubblica utilità, è necessario che l’amministrazione procedente determini l’indennità di esproprio.

Tale emolumento rappresenta l’indennizzo al proprietario, la cui corresponsione è prevista, come detto, dall’art. 42 della nostra Costituzione.

L’indennità provvisoria è comunicata al destinatario, che può accettare l’importo o avanzare le proprie osservazioni in merito. Successivamente, l’Ente, sentiti i tecnici incaricati, determina l’indennità di esproprio definitiva, commisurata al valore venale del bene.

Dopo il pagamento dell’indennità, viene stipulato con il privato l’atto di cessione e adottato il decreto di esproprio, con la conseguente presa di possesso da parte dell’Amministrazione procedente e l’avvio dei lavori, ove previsti.

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Note 171-ter c.p.c.: le incertezze della riforma Allo studio del Governo i correttivi alla Riforma Cartabia, anche per dirimere le incertezze sul decreto ex art. 171-bis e sui suoi rapporti con le note integrative ex art. 171-ter

I rapporti tra le note integrative e il decreto ex art. 171-bis c.p.c.

Se la Riforma Cartabia si prefiggeva l’obiettivo di portare chiarezza, semplificazione e rapidità nell’ambito del processo civile, purtroppo non si può dire che ciò sia avvenuto con specifico riferimento al tema delle memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. e del decreto che il giudice dovrebbe emanare a margine delle verifiche preliminari ex art. 171-bis.

Sul punto si è verificata una certa confusione e divergenza di opinioni tra gli addetti ai lavori, sfociata in una diversità di operato da parte degli avvocati e nel contrastante tenore dei provvedimenti adottati dai giudici dei Tribunali.

Ricapitoliamo brevemente la materia, per poi concentrarci sui più recenti interventi legislativi, che intendono apportare correttivi alla riforma Cartabia per riportare, quanto meno, la dovuta chiarezza normativa sul tema.

Le memorie integrative dopo la Riforma Cartabia

Come risaputo, le note integrative ex art. 171-ter c.p.c. sostituiscono, sostanzialmente, le vecchie memorie ex art. 183, sesto comma, e consentono alle parti di modificare e precisare domande, eccezioni e richieste istruttorie in un momento che precede la celebrazione della prima udienza.

Ciò allo scopo, diversamente da quanto accadeva nel rito pre-riforma, di mettere il giudice in condizioni di arrivare alla prima udienza già consapevole del thema decidendum ed istruttorio.

Ebbene, secondo le previsioni dell’articolo in questione, tali memorie possono essere depositate dalle parti entro determinati termini (pari a quaranta, venti e dieci giorni prima) da calcolarsi a ritroso, rispetto alla data di udienza di prima comparizione.

Già, ma qual è, di preciso, questa data? Ecco il vero nodo della questione.

Data della prima udienza di comparizione: il decreto ex art. 171-bis

Di regola, la data dell’udienza di prima comparizione ex art. 183 c.p.c. è quella indicata dall’attore nell’atto di citazione.

Il convenuto è tenuto a costituirsi entro 70 giorni prima di tale data, e dalla scadenza di tale termine il giudice, ex art. 171-bis, ha quindici giorni (termine ordinatorio, si badi) per compiere le verifiche preliminari sulla regolarità del contraddittorio e per indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui ritiene opportuna la trattazione.

Ebbene, quando pronuncia tali provvedimenti, il giudice ha facoltà di fissare una nuova data per l’udienza di comparizione delle parti, “rispetto alla quale decorrono i termini indicati dall’articolo 171-ter” (art. 171-bis, secondo comma). Inoltre, se non provvede in tal senso, egli “conferma o differisce, fino ad un massimo di quarantacinque giorni, la data della prima udienza”, ed anche in tal caso i termini ex art. 171-ter decorrono con riferimento a tale nuova data.

Adesso, il dilemma che si è posto all’attenzione di dottrina e giurisprudenza è il seguente: il giudice è tenuto in ogni caso ad adottare il decreto di cui all’art. 171-bis, o in mancanza è da ritenersi implicita la conferma della data fissata dall’attore? E cosa succede se adotta il decreto decorso il termine ordinatorio di quindici giorni indicato da tale articolo, e in particolare se tale decreto sopraggiunga dopo l’avvenuto deposito di note ex art. 171-ter da parte degli avvocati?

E ancora: il decreto del giudice vale ad autorizzare il deposito delle memorie integrative, o queste possono essere presentate anche senza alcuna concessione da parte del giudice?

Incertezze in giurisprudenza sulle memorie integrative ex art. 171-ter

Come si vede, il proposito di semplificare e velocizzare la procedura, proprio della Riforma Cartabia, è stato frustrato, in questo caso, dalla mancanza di chiarezza riguardo alla necessità, o meno, dell’adozione del decreto di conferma, differimento o fissazione di una nuova udienza da parte del giudice, ex art. 171-bis.

E così, si sono verificati casi in cui il Tribunale ha ritenuto erroneo il deposito di memorie integrative ex art. 171-ter in assenza di decreto del giudice (Trib. Treviso 25.01.2024 o anche il provvedimento del Trib. Pistoia, 22.09.2023, con cui, in sostanza, si riteneva che la decorrenza dei termini per il deposito delle note non potesse considerarsi ancora iniziata, mancando il provvedimento giudiziale); e casi in cui il Tribunale ha espressamente fatto salvi i termini ex art. 171-ter, facendoli decorrere dalla data di udienza fissata dall’attore, in un caso in cui il decreto di fissazione dell’udienza era stato adottato oltre il termine di quindici giorni previsto dall’art. 171-bis (Trib. Firenze, 19.01.2024).

Il Tribunale di Piacenza è andato ancora oltre, con un provvedimento del 01.05.2023, sostenendo espressamente che il deposito delle note ex art. 171-ter debba essere autorizzato dal giudice, sul modello del previgente rito in cui il codice prevedeva una formale concessione dei termini per le note ex art. 183 sesto comma, possibile peraltro solo su apposita richiesta di parte.

Correttivo sulla necessità del decreto all’esito delle verifiche preliminari

Insomma, un po’ di confusione si è fatta, e forse la colpa non è nemmeno di una Riforma tutto sommato ben scritta sul punto, ma piuttosto di un certo eccesso nello sforzo interpretativo da parte degli operatori: non appare, in fin dei conti, così scontato ritenere che l’intenzione del legislatore fosse quella di rendere necessario in tutti i casi un decreto relativo alla data di prima udienza, e tanto meno che dall’adozione di questo dipendesse, addirittura, la possibilità o meno di depositare le memorie integrative.

Lo schema di decreto legislativo presentato a marzo

Ma tant’è, i dubbi e le interpretazioni discordanti ci sono stati, e così siamo arrivati alla situazione attuale: la necessità di un correttivo alla Riforma Cartabia, che è in effetti ai lavori, sotto forma di Schema di decreto legislativo, presentato in data 18 marzo 2024 e concernente disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149.

Nel dettaglio, a dirimere d’ora in poi ogni dubbio sul tema sopra affrontato, il documento prevede all’art. 3 (Modifiche al codice di procedura civile) la riformulazione dell’art. 171-bis nel senso di prevedere “che la fase delle verifiche preliminari debba comunque concludersi con un decreto del giudice istruttore” e di precisare che “i termini di cui all’art. 171-ter per il deposito di memorie integrative iniziano a decorrere dalla data del decreto”, computandosi gli stessi rispetto all’udienza fissata nell’atto di citazione o dal giudice istruttore.

Tale modifica, viene precisato nell’atto di delega al Governo, “ha anche lo scopo di eliminare ogni dubbio circa il fatto che in sede di verifiche preliminari il giudice deve in ogni caso emettere un provvedimento di conferma o differimento dell’udienza, anche se non adotta uno dei provvedimenti relativi alla corretta instaurazione del contraddittorio”.

reato resistenza pubblico ufficiale

Resistenza a pubblico ufficiale Il reato di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 del codice penale. Differenze con il reato di violenza e minacce e rassegna giurisprudenziale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale sanziona chi si oppone all’azione di un pubblico ufficiale (o del privato che, richiesto, gli presti assistenza) nel momento in cui quest’ultimo sta compiendo un atto del proprio ufficio.

Nel concetto di resistenza sono ricompresi, come vedremo tra breve, quei comportamenti che mirano a impedire il compimento dell’atto di ufficio, e questa circostanza vale a distinguere il reato di resistenza da quello di violenza o minaccia a pubblico ufficiale.

I caratteri del reato: violenza e minacce

A norma dell’art. 337 del codice penale, per aversi resistenza a pubblica ufficiale occorre che l’opposizione a quest’ultimo debba avere i caratteri della violenza o minaccia.

A questo riguardo, è opportuno precisare quando ricorrano tali caratteri, per comprendere quando si possa configurare il reato in oggetto. Ad esempio, la semplice fuga da un agente di polizia intenzionato ad eseguire controlli non integra resistenza, non ricorrendo violenza né minaccia.

Diversamente, se la fuga è accompagnata da minacce e da violenza – ad esempio, il tentativo di forzare con la propria auto un posto di blocco o l’esecuzione di manovre tese a impedire l’inseguimento in auto e foriere di pericolo per gli inseguitori – si ha resistenza a pubblico ufficiale, poiché si crea ostacolo al compimento degli atti da parte degli agenti, indipendentemente dall’esito di tale azione (Cass. pen. n. 5459/20).

La giurisprudenza sull’art. 337 c.p.

Altre pronunce giurisprudenziali ci aiutano a definire meglio i contorni di tale concetto.

Resistenza passiva

Ad esempio, la Corte di Cassazione, VI sez. penale, con sentenza n. 6604/22, ha chiarito, nel solco di pacifica giurisprudenza legittimità (cfr., tra tante, Cass. sez. VI, n. 10136/13), che la semplice resistenza passiva non vale a integrare il reato di cui all’art. 337 c.p., con tale locuzione intendendosi, ad esempio, l’atto del semplice divincolarsi del soggetto fermato dall’agente di polizia, attraverso l’uso di gesti di moderata violenza non diretta contro il pubblico ufficiale.

Parimenti, non fa resistenza il soggetto fermato dal pubblico ufficiale che si appoggi al telaio dell’auto della polizia per cercare di non essere condotto all’interno del veicolo (Cass. sez. VI, 6069/2015: si tratta di un altro esempio di resistenza passiva).

In definitiva, per integrarsi resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., occorre che il soggetto intenda porre in atto un condizionamento diretto dell’azione del pubblico ufficiale, opponendosi ad essa con violenza e minaccia e con lo scopo di impedirla.

La minaccia

In ogni caso, non è sempre facile ricostruire i confini di tale condotta; quanto alla minaccia, ad esempio, essa non deve essere generica, ma ingiusta, per quanto non necessariamente diretta verso la persona del pubblico ufficiale, né su una cosa. Si pensi, ad esempio, che la Suprema Corte ha ritenuto sussistente la resistenza a pubblico ufficiale in un caso in cui il soggetto fermato ha minacciato di darsi fuoco, non ritenendo la Corte necessaria una minaccia diretta o personale, essendo sufficiente una minaccia morale tale da costituire ostacolo all’azione del pubblico ufficiale (Cass. 26869/17).

Differenza tra resistenza a p.u. e violenza ex art. 336 c.p.

Il criterio per distinguere il reato di resistenza a pubblico ufficiale da quello di violenza o minaccia ai danni dello stesso (art. 336 c.p.) è quello temporale, in quanto la resistenza si configura quando si cerca di impedire un atto del pubblico ufficiale mentre questi lo sta compiendo, mentre il reato di violenza o minaccia si configura quando queste ultime sono perpetrate prima che il pubblico ufficiale compia il proprio atto d’ufficio o di servizio (cfr, Cassazione, Vi sez. pen., n. 37749/10).

Esimente al reato di resistenza a pubblico ufficiale

Va ricordato, infine, che il reato in oggetto è escluso quando la resistenza sia conseguenza di un’azione arbitraria del pubblico ufficiale che ecceda i limiti delle proprie attribuzioni (v. Cass. pen., n. 18841/2011, secondo cui tale esimente ricorre, ad esempio, quando la perquisizione personale sia disposta dal pubblico ufficiale in assenza degli elementi normativamente previsti che la giustifichino).

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale è procedibile d’ufficio – cioè senza necessità di querela – ed è sanzionato con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni.