reato abbandono animali

Abbandono di animali: non c’è reato se il cane resta al canile per indigenza Il reato di abbandono di cui all’art. 727 c.p. non si configura se il proprietario non ritira l’animale dal canile per problemi economici

Reato di abbandono di animali

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16168-2024, ha stabilito che il mancato ritiro di un cane dal canile a cui è stato affidato non configura il reato di abbandono di animali.

Lasciare un cane presso una struttura di ricovero non è punibile perché queste strutture assicurano le necessarie cure agli animali, non li sopprimono e non li destinano alla sperimentazione.

Anche se la retta per la custodia viene sospesa e il cane scappa, perché va a cercare il proprietario, il reato di abbandono non si configura.

Il reato sussiste invece se il proprietario affida il cane a un canile privato, obbligato contrattualmente alla cura dell’animale, sospende i pagamenti o non ritira l’animale, se è prevedibile che l’inadempimento possa determinare l’abbandono dell’animale da parte del canile per mancanza di affidabilità o di professionalità della struttura stessa.

Condannato il proprietario che lascia l’animale al canile

La pronuncia pone fine a un processo iniziato con la condanna di un imputato per il reato di abbandono di animali, accusato di aver abbandonato un cane meticcio con microchip nel territorio di un comune calabrese.

L’imputato ha presentato ricorso per Cassazione, contestando la valutazione della prova da parte del Tribunale e sottolineando che il cane, che era solito allontanarsi per giorni, era stato trovato a quasi 200 km di distanza dal luogo di residenza dell’imputato.

L’imputato ha dichiarato di non aver mai visitato la località in cui il cane era stato catturato e di essersi trovato nell’impossibilità di ritirarlo dal canile locale a causa delle restrizioni sugli spostamenti imposte dalla pandemia e delle sue difficili condizioni economiche.

Non c’è abbandono di animale se ci sono difficoltà economiche

La Suprema Corte ha rilevato che il Tribunale non ha adeguatamente considerato l’impossibilità oggettiva dell’imputato di riprendere l’animale a causa delle restrizioni alla mobilità tra regioni durante l’emergenza pandemica. Inoltre, le difficoltà economiche derivanti dalla perdita del lavoro hanno impedito all’imputato di pagare la retta del canile.

Di conseguenza, né l’omesso pagamento della retta né l’omesso ritiro dell’animale potevano configurare il reato di abbandono. La decisione del Tribunale di condannare l’imputato non ha considerato adeguatamente queste circostanze oggettive.

L’articolo 727 del codice penale punisce il reato di abbandono di animali, definito come qualunque condotta che manifesti la volontà dolosa di non tenere l’animale con sé e che violi i doveri di cura e custodia. Tuttavia la norma non prevede l’obbligo di denunciare lo smarrimento dell’animale. Nel caso in esame, l’affidamento del cane a una struttura con obbligo di custodia esclude la configurazione di abbandono, e il mancato pagamento delle rette al canile non integra questa fattispecie penale.

In conclusione, la Cassazione ha annullato la condanna, affermando che in caso di indigenza e impossibilità materiale di ritirare un animale affidato a un canile, non si configura il reato di abbandono di animali. La decisione rappresenta un’importante chiarificazione sulla tutela degli animali e sulle responsabilità dei proprietari in situazioni di difficoltà economica e logistica.

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mutuo ammortamento francese

Mutui: salvo l’ammortamento alla francese Per le sezioni unite della Cassazione, il mutuo con ammortamento “alla francese” soddisfa la trasparenza e la determinatezza dell’oggetto se la Banca allega il piano al contratto

Mutui con ammortamento “alla francese”

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza numero Cass-15340-2024 salvano i mutui “alla francese” ossia quei mutui tradizionali che prevedono rate costanti e una quota di interessi progressivamente decrescente a fronte di un capitale progressivamente crescente. La mancata indicazione sulle modalità di ammortamento e del calcolo degli interessi passivi non determina la nullità di questi contratti di mutuo.

Contratto nullo se non indica modalità di ammortamento e calcolo degli interessi

La vicenda che si conclude con la sentenza a Sezioni Unite ha inizio quando una signora si rivolge al Tribunale per far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario che la stessa aveva stipulato, ma in relazione al quale non era stata pattuita e indicata la modalità di ammortamento “alla francese” e la modalità di calcolo degli interessi passivi. Chiedeva quindi che la banca venisse condannata a rimborsare i maggiori interessi riscossi indebitamente dalla banca.

Il Tribunale competente dispone il rinvio pregiudiziale alla Cassazione, chiedendo la soluzione della questione di diritto relativa alle conseguenze giuridiche derivanti dall’omessa indicazione, all’interno del contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori a fronte della previsione scritta del tasso annuo nominale e della modalità di ammortamento “alla francese”, ovvero se la mancata ed espressa previsione negoziale di tali condizioni determini la nullità del contratto. Il Tribunale ricorda infatti che, ai sensi dell’articolo 117 comma 4 del Testo Unico Bancario, i contratti bancari di credito devono indicare, a pena di nullità, il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni inclusi e gli eventuali e maggiori oneri in caso di mora, con conseguente rideterminazione, in caso di mancata previsione, del piano di ammortamento con applicazione del tasso sostitutivo.

Ammortamento alla francese: il piano soddisfa determinatezza e trasparenza

Nella motivazione della sentenza la Cassazione illustra prima di tutto le caratteristiche tipiche del piano di ammortamento alla francese. Trattasi, nello specifico, di un piano che prevede un rimborso del capitale e degli interessi con pagamento del debito a rate costanti, comprensive di una quota capitale crescente e di una quota interessi decrescente. Il dubbio che gli Ermellini sono chiamati a risolvere riguarda la trasparenza di questo ammortamento e la capitalizzazione composta degli interessi in quanto “l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta produce interessi”. Un sistema che, per il Tribunale de rinvio, comporta una maggiore onerosità del costo del denaro che il cliente prende a prestito proprio perché si producono interessi su interessi.

Per la Cassazione però “deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. “alla francese” e del regime di capitalizzazione composto degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determina dell’oggetto del contratto causandone la nullità parziale”.

In relazione poi al contestato difetto di trasparenza la Cassazione ricorda che, se il contratto trasparente è quello che consente di intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa e di avere la piena contezza delle condizioni del contratto sottoscritto e comprendere la portata del suo impegno, nel caso di di specie esso non sussiste. L’istituto di credito ha assolto ai propri obblighi informativi allegando il piano di ammortamento al contratto, offrendo così al cliente la possibilità di verificare se l’offerta rispondeva alle sue necessità e alla sua situazione finanziaria e di valutarne la convenienza, previo confronto con altre offerte presenti sul mercato.

Alla luce delle motivazioni suddette la Cassazione enuncia quindi il seguente principio di diritto: “in “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento alla francese di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminata delloggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza e delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra istituti di credito e i clienti”. 

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separazione carriere giudici

Separazione delle carriere: via libera del CdM Approvato il disegno di legge sulla riforma della Giustizia, che prevede la divisione delle carriere della magistratura requirente e giudicante. Plauso dell'avvocatura. Ecco il testo

Ok del Governo alla riforma della Giustizia

Il CdM ha approvato il 29 maggio 2024 il disegno di legge costituzionale di riforma della giustizia (vedi bozza) contenente le “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Il testo del ddl, composto da otto articoli, interviene sugli articoli 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110 della Costituzione disponendo la separazione delle carriere dei magistrati, introducendo un sistema di sorteggio per la componente laica del CSM e istituendo l’Alta Corte per giudicare gli errori dei magistrati.

Separazione delle carriere

Il primo punto della riforma, che la magistratura non ha accolto con favore, dispone la separazione delle carriere. La modifica prevede che i magistrati requirenti non possano passare al ruolo della magistratura giudicante e viceversa.

Indipendenza della magistratura requirente

La separazione delle carriere mira anche a garantire la piena indipendenza della magistratura requirente da qualsiasi tipo di influenza e di interferenza da parte del Governo e da parte di altri poteri, al pari della magistratura giudicante.

Cambia la composizione del CSM

La riforma interviene anche sulla composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. Il CSM  verrà diviso in due sezioni, una dedicata ai magistrati requirenti e una ai magistrati giudicanti, presiedute entrambe dal Presidente della Repubblica.

Nomina della componente laica del CSM

La componente laica del CMS, costituita attualmente dai membri eletti dal Parlamento, verrà nominata per sorteggio, sempre con la finalità di garantire la piena indipendenza e imparzialità del Consiglio Superiore della Magistratura.

Istituita l’Alta Corte

Per giudicare gli illeciti disciplinari dei magistrati viene istituita l’Alta Corte, che si va a sostituire in questo modo al Consiglio Superiore della Magistratura.

Dialogo aperto con l’ANM

Il Ministro Nordio si dice aperto a un dialogo con l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Le critiche fanno parte del sistema democratico, ma la volontà popolare che viene espressa con le elezioni è sacra. Resta inalterata la disciplina sull’obbligo dell’azione penale nel rispetto della volontà espressa dalla ANM, che si esprimerà anche sui contenuti del testo, modificato fino a qualche minuto prima della approvazione.

Plauso del CNF e dell’AIGA

«La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri costituisce un importante passo avanti verso il giusto processo, previsto dall’art. 111 della Costituzione, perché assicura equidistanza tra accusa e difesa nei confronti del giudice. Inevitabile, dunque, è la previsione dell’istituzione di un Consiglio superiore per la magistratura giudicante e uno per quella requirente, perché mantenere un unico organo di autogoverno finirebbe, nel concreto, per vanificare la separazione delle due carriere. Questi passaggi, che concretizzano il principio costituzionale dell’uguaglianza tra accusa e difesa, contribuiranno a rendere chiara la terzietà del giudice e, dunque, a rafforzare la fiducia nel sistema giudiziario». Così il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, il quale ha aggiunto: «un processo penale ideale necessita di un pubblico ministero forte, di un avvocato forte e di un giudice terzo altrettanto forte. Con la separazione delle carriere si passa da una “cultura della giurisdizione” ristretta ai magistrati, ad una “cultura della legalità” comune tra tutte le parti del processo, anche al difensore, e di conseguenza di maggior tutela per i cittadini».

Soddisfazione anche dai giovani avvocati secondo cui “la proposta, di matrice governativa, può rappresentare, finalmente, l’ultimo tassello verso l’effettiva realizzazione del giusto processo, nel quale i protagonisti della giurisdizione devono agire realmente sul piano della parità delle armi”. Si tratta, si legge nella nota AIGA di “una scelta coerente con la finalità di garantire la pienezza del contraddittorio e l’equidistanza delle parti, nonché la concreta terzietà del giudice”. Siffatti principi, concludono i giovani avvocati, “costituiscono la vera essenza della giurisdizione, la quale, tuttavia, potrà raggiungere il suo definito compimento con la previsione dell’Avvocato in Costituzione, ultimo tassello mancante per l’autentica ed auspicata riforma della giustizia”.

 

azione vittima errore medico

Vittima di errore medico: può agire direttamente per il risarcimento Azione diretta del danneggiato da responsabilità medica: analisi del decreto attuativo sui requisiti minimi delle polizze assicurative

Attuazione legge Gelli

Il decreto 232 del 15 dicembre 2023 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, pubblicato sulla GU n 51 del 1° marzo 2024 e in vigore dal 16 marzo 2024, ha attuato la previsione contenuta nel comma 6 dell’articolo 10 della legge Gelli n. 24/2017 sulla responsabilità sanitaria.

La disposizione rimetteva infatti a un decreto di attuazione la determinazione dei requisiti minimi: 

  • “delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati” ;
  • “di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure, anche di assunzione diretta del rischio, richiamate dal comma 1.”

Al decreto di attuazione anche il compito di disciplinare: “le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione nonché la previsione nel bilancio delle strutture di un fondo rischi e di un fondo costituito dalla messa a riserva per competenza dei risarcimenti relativi ai sinistri denunciati.”

Azione diretta per la vittima di errore medico

Il comma 6 dell’articolo 10, attuato con il decreto  n. 232 del 15 dicembre 2023, è richiamato dal comma 6 dell’articolo 12 della legge Gelli, che prevede l’azione diretta del soggetto danneggiato a causa di un errore medico. L’entrata in vigore della norma sulla azione diretta era infatti subordinata all’entrata in vigore del decreto di attuazione n. 232/2023.

La norma nello specifico prevede la possibilità per il soggetto danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’assicurazione che garantisce la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all’esercente della professione sanitaria. Il tutto nei limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione.

All’impresa di assicurazione il comma 3 dell’articolo 12 riconosce tuttavia il diritto di rivalsa verso l’assicurato, nel rispetto dei requisiti minimi che non possono essere derogati contrattualmente e che sono stati anch’essi stabiliti dal decreto n. 232 del 15 dicembre 2023.

Garanzie assicurative: oggetto

In base all’articolo 3 del decreto n. 232/2023 per le coperture assicurative in favore dei soggetti indicati dall’art. 210 commi 1, 2 e 3 dell’articolo 10 della legge n. 24/2017 (strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria che svolga la propria attività al di fuori di una delle strutture pubbliche e private; esercenti la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private) l’assicurazione si obbliga a tenere indenne la struttura dei rischi che derivano dalla sua attività per coprire la responsabilità contrattuale di quanto la stessa è tenuta a pagare a titolo di risarcimento per i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati a terzi.

La garanzia tiene indenne anche il personale operante a qualunque titolo presso la struttura stessa compresi i soggetti che svolgono attività di formazione aggiornamento sperimentazione e ricerca.

La copertura riguarda anche la responsabilità extracontrattuale di coloro che esercitano la professione sanitaria per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria anche se non dipendono dalla struttura, ma di cui la stessa si avvale per adempiere le proprie prestazioni con il paziente.

La copertura assicurativa  tiene indenne anche l’esercente attività libero professionale quando lo stesso deve adempiere ad un’obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente per danni cagionati colposamente a terzi.

L’assicurazione si obbliga anche a tenere indenne colui che esercita la professione sanitaria presso la struttura qualunque titolo per le azioni di responsabilità amministrativa, rivalsa o surroga che siano state esercitati nei suoi confronti.

Massimali minimi di garanzia delle coperture

L’articolo 4 del decreto n. 232/2023 definisce i massimali minimi di garanzia delle coperture assicurative relative ai contratti assicurativi obbligatori delle strutture sanitarie sociosanitarie e pubbliche private.

I massimali variano da un minimo di 1.000.000,00 euro per sinistro fino a un massimo di 5.000.000,00 in base al tipo di prestazioni che vengono svolte al loro interno.

I massimali assicurativi per gli esercenti la professione sanitaria al di fuori della struttura o che svolgano la loro attività in regime libero professionale al loro interno p che si avvalga della stessa per adempiere un’obbligazione assunta con il paziente variano da un minimo di 1.000,000,00 di euro fino a un massimo di 2.000.000,00 per paziente. Anche in questo caso il massimale varia in base al livello di rischio dell’attività svolta.

Durata della copertura

Per quanto riguarda l’efficacia temporale della garanzia, l’articolo 5 del decreto n. 232/2023 stabilisce che la copertura assicurativa presenta la forma della “claims made” e opera per le richieste di risarcimento che vengono presentate per la prima volta quando la polizza è vigente e che si riferiscono a fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi in questo periodo e nei 10 anni precedenti la conclusione del contratto.

La copertura assicurativa vale anche in caso di cessazione definitiva dell’attività dell’esercente la professione sanitaria senza che rilevi la causa della cessazione. L’ultraattività della copertura riguarda in questo caso le richieste risarcitorie presentate per la prima volta entro i 10 anni successivi alla cessazione dell’attività e riferita fatti che hanno generato la responsabilità verificatasi nel periodo di efficacia della polizza.

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decreto autovelox

Decreto autovelox: stop alle multe selvagge In Gazzetta Ufficiale, il decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti concede ai Comuni 12 mesi per adeguarsi alle nuove regole sulla collocazione e l'uso degli autovelox

Decreto autovelox: in Gazzetta Ufficiale

Il decreto autovelox dell’11 aprile 2024, predisposto dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministero dell’interno e pubblicato il 28 maggio 2024 in Gazzetta Ufficiale (n. 123), introduce regole nuove per l’installazione degli autovelox fissi e mobili.

Il provvedimento ministeriale attua l’articolo 25 comma 2 della legge n. 120/2010, che prevede la definizione con decreto delle modalità di collocazione e di uso dei dispositivi o dei mezzi tecnici di controllo finalizzati al rilevamento delle violazioni dei limiti di velocità. Il testo non si applica alle postazioni fisse mobili o collocate su veicoli in movimento presidiate e per le quali la constatazione della violazione viene effettuata nell’immediato.

Queste le principali novità del decreto:

  • i Comuni dovranno chiedere al prefetto un nulla osta preventivo per installare l’autovelox;
  • i dispositivi dovranno essere segnalati alle seguenti distanze: 1 Km sulle strade extraurbane, 200 metri sulle strade urbane di scorrimento e 75 metri su tutte le altre;
  • stop agli autovelox nelle città sotto i 50 km/h e sulle strade con limite di velocità inferiore di 20 km/h rispetto a quello previsto dal Codice della Strada.

Condizioni per la collocazione degli autovelox

Le postazioni fisse possono essere collocate per il rilevamento della violazione dei limiti di velocità solo dopo un’attenta valutazione dell’ente proprietario della strada, anche su richiesta dell’organo di polizia stradale che le utilizza. Dove non sia possibile collocare postazioni fisse per la contestazione differita per motivi legati all’infrastruttura della strada o per altre ragioni oggettive è possibile procedere alla collocazione di postazioni mobili.

Per le strade diverse dalle strade extraurbane e dalle autostrade le postazioni per il rilevamento della velocità possono essere collocate solo sui tratti di strada preventivamente individuati dal prefetto sia in ambito urbano che extraurbano, nel rispetto delle caratteristiche geometriche delle infrastrutture stradali e delle condizioni indicate nell’allegato A, ossia elevato tasso di incidentalità, impossibilità documentata di procedere alla contestazione immediata e presenza di velocità operative dei veicoli mediamente superiori ai limiti consentiti e indicati con apposita segnaletica.

Le postazioni a bordo di veicoli in movimento senza contestazione immediata sono utilizzabili solo sulle strade o tratti di strada consentiti e solo se non sia possibile collocare postazioni fisse.

Visibilità e segnalazione delle postazioni di controllo

Le regole sulla visibilità e sulla segnalazione delle postazioni di controllo sono contenute nel capo sette dell’allegato al decreto del ministro dell’infrastrutture dei trasporti n. 282  del 13 giugno 2017.

Per quanto riguarda invece i dispositivi a bordo di veicoli in movimento il decreto stabilisce che la visibilità della postazione di controllo debba essere attuata attraverso segnali luminosi posti sopra il veicolo o per mezzo di un messaggio variabile riportante la dicitura “rilevamento dinamico velocità” abbinato alla segnalazione visiva a luce lampeggiante blu, che deve essere in funzione durante il rilevamento.

Utilizzazione delle postazioni fisse o mobili

Le postazioni fisse o mobili e i dispositivi su veicoli in movimento possono essere utilizzati per rilevamento a distanza delle violazioni dei limiti di velocità su certi tipi di strade da determinati organi di polizia stradale nel rispetto dei criteri di pianificazione concordate in sede di Conferenza provinciale permanente.

Nell’ambito di detta pianificazione, per evitare duplicazioni e sovrapposizioni, il prefetto deve tenere conto dell’eventuale presenza di postazioni fisse lungo lo stesso tratto di strada e valutare la  possibilità di collocare postazioni mobili in condizioni di sicurezza.

Tutela della privacy

Il decreto presta attenzione anche alla privacy del conducente. I dispositivi di controllo utilizzati per accertare l’eccesso di velocità devono essere impiegati nel rispetto della normativa sul trattamento dei dati personali contenuta nel regolamento UE 679/2016. Il titolare del trattamento dei dati deve infatti assicurare il rispetto della normativa vigente in materia di dati personali e che il trattamento venga effettuato solo si fini della rilevazione delle infrazioni. Il titolare del trattamento dei dati inoltre può affidare operazioni specifiche di trattamento a soggetti terzi che agiscono in qualità di responsabili previo accordo sulla protezione dei dati da stipulare in forma scritta.

Allegati A e B: cosa prevedono

Il decreto è integrato da due allegati che contengono i dettagli della normativa.

L’allegato A) detta le regole sulla collocazione delle postazioni di controllo individuando i tratti di strada, stabilendone le condizioni tecniche e le modalità e i luoghi di collocazione delle postazioni  mobili e fisse sulle strade extraurbane e sulle strade urbane.

L’allegato B) invece definisce le modalità di utilizzo dei dispositivi e le attività complementari al controllo. Il documento regolamenta le attività di gestione dei dispositivi e dei sistemi di controllo degli organi di polizia stradale, la manutenzione dei dispositivi e dei sistemi di controllo, le attività sussidiarie che possono essere affidate a terzi, le forme di acquisizione dei dispositivi e dei sistemi di controllo e gli aspetti connessi alla protezione dei dati personali.

decreto superbonus

Decreto Superbonus: tutte le novità Detrazioni spalmate in dieci anni, bonus ristrutturazioni più basso dal 2028, obblighi di segnalazione a carico delle amministrazioni locali. Le novità della legge di conversione del decreto superbonus in vigore dal 29 maggio 2024

Decreto Superbonus: in vigore la legge

L’aula di Montecitorio ha approvato in data 23 maggio 2024 in via definitiva la conversione in legge del DL 39/2024, noto come “decreto superbonus”. Il testo, dopo il sì del Senato del 16 maggio scorso col ricorso alla fiducia, ha ricevuto l’ok della Camera (con la fiducia) diventando legge dello Stato. La nuova legge-67-2024 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 maggio per entrare in vigore il 29 maggio 2024.

Il provvedimento introduce importanti novità su Superbonus, Sismabonus e Bonus Barriere Architettoniche, tra cui la possibilità di detrarre le spese in 10 anni, l’introduzione di controlli antifrode e il divieto di compensazione dei crediti con i contributi previdenziali.

Il Decreto Superbonus prevede in sostanza significative modifiche alle agevolazioni fiscali per l’edilizia, con un focus particolare sulla riqualificazione energetica e strutturale, i controlli e la gestione delle detrazioni. Misure destinate ad avere un impatto rilevante su contribuenti, professionisti del settore edile e amministrazioni locali.

Le principali novità del decreto Superbonus

Vediamo quali sono i principali elementi di novità del testo approvato.

L’articolo 1 del decreto limita l’utilizzo dello sconto in fattura e della cessione del credito a specifiche categorie di contribuenti e solo per interventi realizzati nei comuni colpiti da eventi sismici, con un tetto massimo di 400 milioni di euro per il 2024, di cui 70 milioni destinati agli eventi del 6 aprile 2009.

Se al 30 marzo 2024 non sono state sostenute spese documentate per lavori già effettuati, la deroga contemplata non sarà applicabile se:

  • “risulti presentata la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) se gli interventi sono agevolati e sono diversi da quelli effettuati dai condomini;
  • risulti adottata la delibera assembleare che ha approvato l’esecuzione dei lavori e risulti presentata la comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA);
  • risulti presentata l’istanza per l’acquisizione del titolo abilitativo, se gli interventi sono agevolati e comportano la demolizione e la ricostruzione degli edifici.”

Istituito un fondo di 35 milioni di euro per il 2025, destinato a sostenere interventi di riqualificazione energetica e strutturale degli immobili danneggiati nei comuni colpiti da eventi sismici a partire dal 1° aprile 2009. Le risorse saranno ripartite tra i Commissari straordinari e sarà adottato un D.P.C.M. per stabilire il limite massimo del contributo e le modalità applicative.

Istituito un fondo di 100 milioni di euro per il 2025, destinato ai contributi per la riqualificazione energetica e strutturale degli immobili di ONLUS, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale. Le richieste dovranno essere presentate all’ENEA, mentre la concessione dei contributi sarà competenza del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.

Esclusa l’applicabilità della remissione in bonis per l’adempimento dell’obbligo di comunicazione dell’opzione per la cessione dei crediti o per lo sconto in fattura. Il 4 aprile è il termine ultimo per inviare all’Agenzia delle Entrate la sostituzione delle comunicazioni relative alla cessione del credito o allo sconto in fattura.

Introdotto l’obbligo di trasmettere una serie di dati all’ENEA e al Portale nazionale delle classificazioni sismiche per monitorare la spesa relativa agli interventi agevolati. I soggetti che sostengono spese per interventi di efficientamento energetico dovranno inviare informazioni quali i dati catastali dell’immobile, l’ammontare delle spese sostenute e previste, e le percentuali delle detrazioni spettanti.

Sospesa l’utilizzabilità dei crediti d’imposta per i soggetti con debiti erariali superiori a 10.000 euro.

Dal 1° gennaio 2024, le spese sostenute per il Superbonus, il Sismabonus e il Bonus Barriere Architettoniche dovranno essere detratte in 10 anni anziché in 4. Questa misura retroattiva riguarda le spese maturate dal 1° gennaio 2024.

Per chi ha già esercitato l’opzione di cessione del credito o sconto in fattura nel 2024 relativamente al Superbonus, potrà continuare detta compensazione in 4 anni per il Superbonus e in 5 anni per il Sismabonus e il Bonus Barriere.

Il decreto prevede il divieto di scegliere la cessione del credito per le rate non ancora fruite per chi ha beneficiato del Superbonus o di altri bonus nella forma di detrazione diretta.

Le banche saranno tenute a comunicare all’Agenzia delle Entrate l’acquisto dei crediti a un prezzo pari o superiore al 75% del valore nominale. In caso contrario, il periodo di fruizione delle quote residue dei crediti sarà esteso da 4 a 6 anni dal 2025 in poi.

Le amministrazioni locali avranno il dovere di segnalare alle autorità competenti eventuali interventi fraudolenti che abbiano portato a detrazioni indebite. I comuni che effettueranno le segnalazioni potranno ottenere circa il 50% del valore delle segnalazioni.

Novità sulle condizioni per ottenere i crediti d’imposta per investimenti in beni strumentali nuovi e per attività di ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, design e ideazione estetica, compresi quelli relativi all’innovazione digitale 4.0 e alla transizione ecologica.

Il Bonus Ristrutturazioni scenderà al 30% dal 2028 al 2033. Per il triennio 2025-2027, il bonus sarà al 36%, salvo ulteriori norme che ne elevino la percentuale.

elezione diretta presidente consiglio

Elezione diretta del Presidente del Consiglio Cosa prevede il ddl n. 935 di riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio che, dopo il passaggio in Commissione, è all’esame dell’assemblea del Senato

Elezione diretta del premier: il ddl n. 935

Il disegno di legge n. 935 per l’elezione del Presidente del Consiglio, presentato dall’attuale  presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 15 novembre 2023, dal 15 maggio è all’esame dell’assemblea del Senato dopo essere stato assegnato in sede referente alla prima Commissione Permanente Affari Costituzionali, che ha apportato alcune modifiche al testo base.

L’elezione diretta del PdC comporta la modifica degli articoli 59, 88, 92 e 94 del testo costituzionale. Questa proposta di legge costituzionale mira a rafforzare la stabilità governativa e a rendere più trasparente e diretta l’elezione del Presidente del Consiglio, mantenendo tuttavia intatti molti dei meccanismi di controllo e di bilanciamento presenti nella Costituzione italiana.

Analizziamo le principali novità in attesa della versione definitiva del testo.

Presidente del Consiglio eletto dal corpo elettorale

La modifica principale prevede che il Presidente del Consiglio sia eletto direttamente dai cittadini per un mandato di cinque anni, con la possibilità di essere rieletto per un massimo di due legislature consecutive, estendibili a tre in particolari condizioni.

Questo cambia l’articolo 92 della Costituzione. Una volta eletto, il Presidente del Consiglio riceve l’incarico di formare il Governo dal Presidente della Repubblica.

La procedura di nomina dei Ministri rimane invariata: proposta del Presidente del Consiglio eletto e nomina da parte del Presidente della Repubblica.

Da segnalare la clausola antiribaltone che prevede la sostituzione del Presidente del Consiglio solo da parte di un parlamentare della maggioranza al fine di portare avanti il programma di Governo.

Premio elettorale

La proposta introduce un sistema elettorale in cui le elezioni del Presidente del Consiglio e delle due Camere avvengono simultaneamente. Il Presidente del Consiglio eletto deve essere anche un parlamentare e deve essere eletto nella Camera in cui ha presentato la sua candidatura.

Per garantire una maggioranza parlamentare al Presidente del Consiglio, viene introdotto un premio elettorale nazionale, la cui esatta configurazione sarà definita dalla futura legge elettorale. Questa dovrà assicurare che l’elezione del Presidente del Consiglio porti anche all’elezione dei deputati collegati alla sua lista.

Rapporto fiduciario

Nonostante l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, il Governo necessita ancora della fiducia delle Camere, come stabilito dall’articolo 94 della Costituzione. Se il Governo non ottiene la fiducia, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente del Consiglio eletto. In caso di mancato ottenimento della fiducia al secondo tentativo o in caso di revoca della fiducia, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere.

Ruolo del Presidente della Repubblica

Modifiche indirette anche al ruolo del Presidente della Repubblica. L’articolo 83 viene modificato per richiedere una maggioranza assoluta dal sesto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. Viene eliminata inoltre la necessità della controfirma ministeriale per alcuni atti presidenziali, come la nomina dei giudici della Corte costituzionale e del Presidente del Consiglio. Lo scioglimento anticipato delle Camere e la convocazione di sessioni straordinarie non sono tuttavia inclusi tra questi atti.

Senatori a vita

La proposta prevede la soppressione dell’istituto dei senatori a vita, con una disposizione transitoria che mantiene in carica quelli attuali. Non viene toccato l’istituto dei senatori di diritto a vita, come gli ex-Presidenti della Repubblica.

Scioglimento delle Camere

Il disegno di legge prevede poi che lo scioglimento delle Camere avvenga solo congiuntamente, eliminando la possibilità di scioglimento separato, come consentito dalla revisione costituzionale del 1963. La modifica mira a garantire la stabilità delle maggioranze governative.

Norme transitorie

Le norme transitorie prevedono che la legge costituzionale entri in vigore dopo il primo scioglimento o la cessazione delle Camere successiva all’entrata in vigore delle nuove regole.

Gli attuali senatori a vita inoltre restano in carica fino alla fine del loro mandato.

deposito telematico audio video

Processo telematico: non è pronto per audio e video Il CNF chiarisce che al momento il deposito di files audio e video è ammesso solo su supporto CD/DVD in Cancelleria

No al deposito telematico di audio e video

Con il parere n. 17 del 19 aprile 2024, pubblicato il 9 maggio sul sito del Codice deontologico, il CNF precisa che, in attesa delle nuove specifiche tecniche del processo telematico, non è possibile effettuare il deposito diretto dei files in formato audio e video.

Diversi Tribunali risolvono il problema ammettendo il deposito in cancelleria di questi file su supporti CD/DVD.

Deposito file audio e video nel processo telematico: il quesito

Il C.O.A di Biella si rivolge al C.N.F per chiedere un parere sul deposito di files audio e video nel processo telematico.

La domanda è volta ad accertare se esita un sistema per produrre files audio e video nel processo telematico, che possano essere fruiti dal Giudice e, in caso di risposta negativa, se sia corretta la richiesta da parte degli Uffici Giudiziari di produrre i file audio e video su unità esterne come le USB solo in “copia forense” o se sia altrettanto valida la produzione su supporto USB di questi files, riservando la produzione della copia forense alle sole ipotesi in cui possa sorgere una contestazione.

Poiché la modalità di produzione dei files su supporto esterno è una diretta conseguenza dell’impossibilità di provvedere al deposito telematico, il COA chiede se è condivisibile applicare a questa fattispecie l’esenzione dal pagamento dei diritti di copia, in base a quanto previsto dall’articolo 40 commi 1 quater e quinques del DPR 115/2002.

Consentito il deposito in cancelleria di file audio e video

Il CNF ricorda che la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia di recente ha posto in consultazione la nuova versione delle specifiche tecniche che si riferiscono ai documenti informatici e che sono richiamate nell’articolo 34 del decreto del Ministro della Giustizia n. 44/2011.

Il comma 3 di questa norma dispone infatti che “Fino all’emanazione delle nuove specifiche tecniche, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le specifiche tecniche vigenti, già adottate dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.” 

Al momento pertanto, nel rispetto delle regole vigenti, non è possibile depositare telematicamente files audio e video. 

Parte della giurisprudenza ammette il deposito in cancelleria di files audio e video solo se contenuti in un supporto informatico esterno come i CDROM, corredato da una nota di deposito in cui è necessario specificare la tipologia di files contenuti in detto supporto e il motivo per il quale si procede al deposito nelle forme “tradizionali”.

L’utilizzo delle chiavette USB è sconsigliato per i costi maggiori, per i problemi legati all’integrità dei files e perché la data di retention degli USB è di 10 anni mentre quella dei CDROM /DVD è di 30 anni.

In alcuni Tribunali, per prassi, è previsto il deposito telematico di files audio e video in formato ZIP o RAR, accompagnato dall’obbligo di dare atto del contestuale deposito dei file in formato CD/DVD in cancelleria.

In questo modo si evita che il giudice e le parti non abbiano il programma specifico per l’apertura di del file pdf, utilizzato come contenitore di contenuti audio e video.

La soluzione adottata scongiura in questo modo anche il problema legato al pagamento dei costi di copia.

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Magistrati: le nuove regole su accesso, test e valutazioni Riforma ordinamento giudiziario e collocamento fuori ruolo dei magistrati: cosa prevedono i decreti attuativi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 6 aprile 2024

Riforma ordinamento giudiziario: i due decreti attuativi

Sulla Gazzetta Ufficiale n. 81 del 6 aprile 2024 sono stati pubblicati i decreti legislativi n. 44/2024 e n. 45/2024, che attuano la legge delega n. 71/2022, che aveva conferito le deleghe al Governo per riformare l’ordinamento giudiziario e per riordinare la disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati.

Alla luce di questi due testi attuativi analizziamo quali sono le novità più importanti destinate ad avere un maggiore impatto sull’accesso in magistratura e sulla carriera dei magistrati.

Scuola Superiore magistratura: corsi e costi

Il decreto dispone che i corsi di preparazione presso la Scuola superiore siano riservati a laureati in possesso di determinati requisiti e che stanno svolgendo o abbiano svolto il tirocinio presso l’ufficio per il processo o altre strutture. I corsi sono tenuti nelle materie oggetto della prova scritta da docenti di elevata competenza e professionalità. Nel determinare il costo per la frequentazione della Scuola a carico dell’aspirante magistrato si tiene conto delle condizioni reddituali del soggetto e del suo nucleo familiare.

Accesso in magistratura: il test psico-attitudinale

La prova scritta prevede tre elaborati in diritto, civile penale e amministrativo anche alla luce dei principi della Costituzione e dell’Unione Europea. Il diritto commerciale è sostituito dal diritto commerciale e della crisi e dell’insolvenza e il diritto comunitario è sostituito dal diritto dell’Unione Europea.

Dal 2026 i candidati dovranno sostenere un colloquio psico-attitudinale, nel corso del quale saranno sottoposti a test individuati dal CSM nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria. Il colloquio sarà diretto dal presidente della seduta con il supporto di un esperto psicologo.

Fascicolo personale del magistrato

Viene istituito il fascicolo per la valutazione del magistrato, da tenere in modalità informatica. Nel fascicolo sono inseriti annualmente i provvedimenti tabellari organizzativi o quelli che individuano compiti e attività giudiziarie ed extra-giudiziarie del magistrato e i programmi annuali di gestione.

Il fascicolo contiene anche dati statistici comparati relativi al lavoro svolto dal magistrato, gli atti e i provvedimenti redatti, i verbali delle udienze a cui ha partecipato e i provvedimenti relativi all’esito degli affari trattati scelti a campione dal CSM al termine di ogni anno. Nel fascicolo sono inseriti anche i provvedimenti o gli atti prodotti dal magistrato nel numero individuato dal CSM, le relazioni di ispezione, gli atti con i quali è stata promossa l’azione disciplinare, i rapporti dei capi dell’ufficio a cui appartiene il magistrato e gli elementi ulteriori individuati dal CSM. Al fascicolo possono accedere i dirigenti dell’ufficio, il magistrato stesso e i componenti dei consigli giudiziari.

Valutazione della professionalità

Tutti i magistrati, ogni quattro anni a partire dalla nomina, sono sottoposti alla valutazione della professionalità. La valutazione della professionalità interessa la capacità, la laboriosità, la diligenza e l’impegno del magistrato ed è effettuata in base a parametri oggettivi indicati dal CSM.

La capacità riguarda la preparazione giuridica e il livello di aggiornamento.

La laboriosità si riferisce invece alla produttività, ossia al numero e alla qualità degli affari trattati.

La diligenza tiene conto dell’assiduità e della puntualità del magistrato riferita alla presenza del magistrato alle udienze nei giorni stabiliti, ma anche al rispetto dei termini per la redazione e il deposito di provvedimenti

L’impegno viene valutato in base alla disponibilità del magistrato nel sostituire colleghi assenti e frequentare corsi di aggiornamento presso la Scuola superiore della magistratura.

Il CSM disciplina gli elementi in base ai quali consigli giudiziari devono esprimere le valutazioni dei magistrati al fine di garantire omogeneità di giudizio. 

Il procedimento di valutazione

La valutazione della professionalità avviene alla scadenza del periodo di quattro anni. Il consiglio giudiziario acquisisce il fascicolo personale relativo alla valutazione della professionalità e ulteriori informazioni disponibili presso il CSM e il Ministero della Giustizia.

La valutazione riguarda anche la relazione del magistrato sul lavoro svolto e tutta una serie di documenti indicati specificamente dal decreto.

Sulla base di tutte le informazioni acquisite il consiglio giudiziario formula un parere motivato da trasmettere al CSM. Entro 10 giorni dalla notifica del parere il magistrato può comunicare al CSM le proprie osservazioni e chiedere di essere ascoltato personalmente. Prima di questa audizione però il magistrato deve essere informato della possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di estrarne copia. Il CSM procede alla valutazione della professionalità sulla base del parere espresso dal consiglio giudiziario, tenendo conto della documentazione acquisita. Qualora il CSM ritenga di recepire il parere del consiglio giudiziario contenente la valutazione positiva può limitarsi a richiamarne il contenuto senza motivare ulteriormente.

Valutazione della professionalità: esiti possibili

Il giudizio finale sulla professionalità può essere positivo, non positivo o negativo.

Il giudizio positivo può essere discreto, buono, ottimo.

Il giudizio non positivo prevede una nuova valutazione della professionalità del magistrato da parte del CSM dopo un anno e dopo aver acquisito un nuovo parere del consiglio giudiziario.

In caso di giudizio negativo il magistrato viene sottoposto a una nuova valutazione di professionalità dopo due anni. Il CSM può disporre che lo stesso partecipi a uno o più corsi di riqualificazione professionale per colmare le carenze riscontrate e può assegnarlo a una funzione diversa nella stessa sede o escluderlo, fino alla valutazione successiva, dall’accesso a incarichi direttivi semi direttivi o funzioni specifiche. La valutazione negativa comporta la perdita del diritto all’aumento periodico dello stipendio per due anni.

Collocamento fuori ruolo magistrati

Il secondo decreto attuativo n. 45/2024  riordina la normativa del collocamento fuori ruolo dei magistrati. Esso dispone che i magistrati, dopo il collocamento fuori ruolo, possano svolgere gli incarichi presso enti pubblici o pubbliche amministrazioni a condizione che questo non comprometta l’integrale svolgimento ordinario del lavoro giudiziario.  Devono essere svolti con collocamento fuori ruolo gli incarichi di direttore dell’ufficio di gabinetto e capo di segreteria di un ministero.

Il magistrato non può essere collocato fuori ruolo se:

  • sono decorsi meno di 10 anni di esercizio effettivo delle funzioni proprie della magistratura;
  • sono decorsi meno di tre anni dal rientro in ruolo dopo un incarico svolto fuori ruolo per un periodo superiore a cinque anni.

Il collocamento fuori ruolo viene autorizzato quando l’incarico da conferire al magistrato risponde a un interesse dell’amministrazione di appartenenza. Non può tuttavia essere collocato fuori ruolo il magistrato che presti servizio in una sede con un rilevante indice di scopertura dell’organico.

Il collocamento fuori ruolo può essere disposto solo dopo aver acquisito il consenso scritto del magistrato, che lo può revocare fino al momento in cui non abbia avuto inizio l’esercizio effettivo delle funzioni presso l’amministrazione o istituzione richiedente.

Il decreto stabilisce infine che dal 1 gennaio 2026 i magistrati possano essere collegati fuori ruolo nel rispetto di determinati limiti numerici:

  • 80 unità per i magistrati ordinari;
  • 25 unità per i magistrati amministrativi;
  • 25 unità per i magistrati contabili.

L’articolo 14 del dlgs n. 45/2024 precisa infine che la normativa sul collocamento fuori ruolo dei magistrati non si applica ai membri del Governo e a coloro che ricoprano cariche elettive.

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Tempo tuta: quando è pagato Per la Cassazione, il tempo tuta per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro non deve essere retribuito se non c’è l’obbligo di indossare indumenti specifici da lavoro

Retribuzione tempo tuta

Il tema del “tempo tuta” riguarda la retribuzione del tempo impiegato dai lavoratori per indossare e togliere l’abbigliamento da lavoro. Questo argomento è stato oggetto di numerosi dibattiti e sentenze.

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 13639-2024 ha fornito un importante chiarimento, stabilendo come non sia prevista alcuna retribuzione per il tempo di vestizione e svestizione quando i lavoratori non sono obbligati a indossare specifici indumenti di lavoro. Stessa conclusione per i dispositivi di protezione nel caso in cui l’uso dei DPI sia facoltativo e avvenga dopo aver timbrato il cartellino. Tale tempo rientra infatti nell’orario di lavoro, per cui non è necessario il riconoscimento di una retribuzione aggiuntiva.

Retribuzione tempo di vestizione non dovuta

La vicenda giunge in Cassazione dopo che la Corte d’appello di Bologna, modificando la decisione di primo grado, ha respinto le richieste di due lavoratori che chiedevano il riconoscimento del “tempo-tuta” come orario di lavoro per venti minuti a turno dal febbraio 2014 al luglio 2019.

La Corte ha concluso che, in assenza di un obbligo imposto dal datore di lavoro riguardo al tempo, modo e luogo della vestizione e svestizione, non esiste un diritto alla retribuzione per quel tempo. I lavoratori possono indossare gli abiti da lavoro a casa o negli appositi spogliatoi aziendali, senza alcun obbligo specifico.

La Corte ha sottolineato che i lavoratori erano liberi di indossare abiti personali e portare a casa gli indumenti da lavoro per lavarli, confermando l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda. Per i DPI specifici, come guanti e mascherine, conservati in armadietti aziendali e utilizzati solo dopo aver timbrato il cartellino, non si poneva il problema della retribuzione aggiuntiva, poiché erano accessibili solo durante l’orario di lavoro.

Niente retribuzione tempo di vestizione senza obbligo

I lavoratori hanno fatto ricorso alla Cassazione, contestando la violazione di diverse normative come il Decreto legislativo.  66/2003, la Direttiva Europea 2003/88 e l’articolo 2094 del Codice Civile, sostenendo che le operazioni di vestizione e svestizione dovessero essere incluse nell’orario di lavoro.

La Cassazione però ha confermato la sentenza d’appello, ribadendo che l’assenza di un obbligo di indossare abiti da lavoro forniti dall’azienda esclude la necessità di retribuire il tempo dedicato a queste operazioni.

Nella motivazione dell’ordinanza, richiamando lo storico della lite, la Cassazione riporta che “tutti i lavoratori  non avevano, e non hanno, alcun obbligo di indossare gli abiti da lavoro (il cui utilizzo resta facoltativo) non sussistendo alcun obbligo imposto da di indossare gli indumenti da lavoro forniti.” Questo conferma l’assenza di un obbligo di tenere e lavare questi indumenti in azienda.

Per quanto riguarda invece i DPI utilizzati durante l’orario di lavoro, il problema della retribuibilità non si pone, in quanto l’accesso a essi avveniva solo dopo aver timbrato il cartellino, ossia durante l’orario di lavoro. In sintesi, le sentenze della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Bologna confermano che l’assenza di un obbligo di vestizione imposto dal datore di lavoro esclude il diritto alla retribuzione per il tempo necessario a indossare e togliere la “tuta” da lavoro.

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