trattenimento migranti

Trattenimento migranti nei CPR: la Consulta richiama il legislatore La Corte costituzionale ha dichiarato inidonea la disciplina sul trattenimento dei migranti nei CPR, richiamando il legislatore a definire regole più chiare nel rispetto della libertà personale

Trattenimento migranti nei CPR: i dubbi di costituzionalità

Con la sentenza n. 96 del 2025, la Corte costituzionale ha esaminato la legittimità dell’art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 286 del 1998 (TU sull’immigrazione), nella parte in cui disciplina le modalità di trattenimento migranti nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).

Le questioni erano state sollevate dal Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare i provvedimenti di trattenimento di cittadini stranieri. Il giudice rimettente aveva denunciato la mancanza di una disciplina di rango primario che definisse le modalità e le garanzie di esercizio della restrizione della libertà personale, in violazione dell’articolo 13 Cost.

La libertà personale e la riserva assoluta di legge

La Corte ha ribadito che il trattenimento nei CPR costituisce un assoggettamento fisico che incide direttamente sulla libertà personale. In questo quadro, la disciplina vigente è stata ritenuta inidonea a individuare con chiarezza i “modi” della restrizione, cioè le regole che tutelano i diritti fondamentali durante il periodo di trattenimento.

Secondo la Consulta, il rinvio a norme regolamentari e a provvedimenti amministrativi discrezionali contrasta con la riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13, secondo comma, Cost.

Il ruolo del legislatore e l’inammissibilità delle questioni

Pur riconoscendo il vulnus costituzionale, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate con riferimento agli articoli 13 e 117 della Cost. Il motivo è che non spetta al giudice costituzionale colmare il vuoto normativo riscontrato: è il legislatore a dover predisporre una disciplina compiuta e conforme ai principi costituzionali e internazionali.

La Corte ha evidenziato che resta un dovere inderogabile del Parlamento intervenire per definire standard minimi di tutela e garantire i diritti e la dignità delle persone trattenute.

Le altre questioni di costituzionalità dichiarate inammissibili

Le ulteriori censure fondate sugli articoli 2, 3, 10, 24, 25, 32 e 111 della Costituzione sono state dichiarate inammissibili per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo. La Corte ha ricordato che l’ordinamento già consente il ricorso ai rimedi civili, come l’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c. e la tutela cautelare d’urgenza prevista dall’art. 700 c.p.c., strumenti idonei a garantire la protezione dei diritti fondamentali in caso di violazioni durante il trattenimento.

La conclusione della Corte costituzionale

In conclusione, la Corte ha chiarito che la disciplina attuale non soddisfa i requisiti costituzionali di determinatezza e legalità delle restrizioni alla libertà personale. L’onere di colmare questa carenza spetta al legislatore, cui è demandato il compito di assicurare una regolamentazione adeguata nel rispetto dei diritti fondamentali.

Iva all'importazione

IVA all’importazione non è un dazio: sanzioni da riformare La Corte costituzionale, ha chiarito che l’IVA all’importazione non è assimilabile ai dazi e che il cumulo di confisca, imposta e sanzioni pecuniarie viola il principio di proporzionalità

IVA all’importazione e dazi doganali

La Corte costituzionale, con sentenza n. 93/2025, ha precisato che, pur se il legislatore la qualifica come diritto di confine, l’IVA all’importazione non può essere assimilata ai dazi doganali. A differenza di questi ultimi, infatti, l’IVA è un’imposta neutra rispetto alle attività economiche, in quanto il soggetto passivo ha diritto alla detrazione dell’imposta dovuta o assolta sugli acquisti.

Al contrario, i dazi hanno finalità protettive e contributive per l’Unione europea e sono destinati ad aumentare il prezzo di determinate merci importate.

Cumulo sanzionatorio eccessivo e violazione principio proporzionalità

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che avevano messo in discussione l’articolo 70 del DPR n. 633/1972, in combinato disposto con gli articoli 282 e 301 del DPR n. 43/1973.

Tali norme prevedevano un sistema sanzionatorio caratterizzato dal cumulo tra:

  • confisca dell’oggetto importato,

  • pagamento dell’imposta evasa,

  • sanzione pecuniaria da due a dieci volte l’imposta.

Questo regime non trova eguali né per l’IVA interna né per i dazi doganali, per i quali il Codice doganale dell’Unione europea (art. 124 CDU) stabilisce l’estinzione dell’obbligazione doganale in caso di confisca.

Il principio di proporzionalità applicato alle sanzioni tributarie

La Corte costituzionale ha ribadito che il principio di proporzionalità si applica pienamente anche alle sanzioni tributarie, come già affermato nella sentenza n. 46/2023 e riconosciuto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in riferimento ai tributi armonizzati.

Già la legge delega n. 23/2014 aveva previsto la necessità di un sistema sanzionatorio equo e commisurato alla gravità dell’illecito, mentre il decreto legislativo n. 87/2024 ha ulteriormente ridisegnato il sistema delle sanzioni fiscali ispirandosi a criteri di proporzionalità.

La legittimità condizionata della confisca

Pur riconoscendo l’esigenza di evitare un cumulo eccessivo, la Corte ha escluso la possibilità di eliminare del tutto la confisca, evidenziando che, in caso di evasione IVA su beni non frazionabili, il sequestro conservativo non sarebbe sempre praticabile.

Per questo motivo, la pronuncia ha operato una reductio ad legitimitatem: le cose oggetto della violazione non sono confiscate se l’obbligato provvede a pagare integralmente l’IVA evasa, gli interessi e le sanzioni pecuniarie. In tal modo, si garantisce un bilanciamento tra l’effettiva tutela dell’erario e il rispetto del principio di proporzionalità delle sanzioni.

spaccio di lieve entità

Spaccio di lieve entità: sì alla messa alla prova La Corte costituzionale dichiara illegittima l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dalla sospensione con messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova

Spaccio di lieve entità e messa alla prova: la Corte costituzionale, con sentenza n. 90 del 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 168-bis del codice penale nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti di lieve entità, previsto dall’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti (D.P.R. n. 309/1990).

Le questioni di legittimità sollevate

Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai Tribunali di Padova e Bolzano, i quali hanno censurato, in combinato disposto, l’articolo 168-bis, primo comma, c.p., l’articolo 550, secondo comma, c.p.p. e l’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti, come modificato dal decreto-legge n. 123 del 2023.

Quest’ultimo intervento normativo aveva innalzato la pena detentiva massima per il piccolo spaccio, portandola da quattro a cinque anni di reclusione. Di conseguenza, il reato risultava escluso dall’ambito applicativo della messa alla prova, che prevede un limite massimo edittale inferiore.

Il confronto con l’istigazione all’uso di stupefacenti

Secondo i giudici rimettenti, tale preclusione si traduceva in una violazione del principio di ragionevolezza e del finalismo rieducativo della pena, non consentendo all’imputato di accedere a un programma personalizzato di riparazione e reinserimento sociale.

Inoltre, era evidenziata una disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, sanzionato con pene più elevate ma comunque compatibile, in astratto, con la sospensione del procedimento e la messa alla prova.

La decisione della Corte costituzionale

La Corte costituzionale ha accolto la questione di legittimità, richiamando l’articolo 3 della Costituzione. È stato ritenuto irragionevole che il reato di lieve entità, meno grave rispetto all’istigazione, fosse escluso dall’istituto che coniuga finalità deflattive e rieducative.

Secondo la Consulta, la preclusione automatica dell’accesso alla messa alla prova determinava un’inversione della scala di gravità dei reati in materia di stupefacenti e ostacolava la possibilità per l’imputato di intraprendere percorsi risocializzanti.

scioglimento del consiglio comunale

Scioglimento del consiglio comunale per mancato bilancio La Corte costituzionale ha confermato la legittimità dello scioglimento del consiglio comunale che non approva il bilancio in riequilibrio nei termini previsti

Bilancio in riequilibrio e scioglimento del consiglio comunale

Con la sentenza n. 91 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato infondate le questioni di legittimità sollevate dal TAR Campania in merito allo scioglimento del consiglio comunale che non approvi entro i termini di legge l’ipotesi di bilancio in riequilibrio, prevista dall’articolo 262, comma 1, del Testo unico degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000).

Il meccanismo previsto dal Testo unico degli enti locali

La Corte ha rilevato che l’articolo 262 del Tuel stabilisce un procedimento chiaro e oggettivo, privo di margini di discrezionalità arbitraria. La mancata approvazione del bilancio entro il termine stabilito costituisce un presupposto di fatto che comporta, in modo automatico, lo scioglimento degli organi consiliari.

Questa previsione normativa risponde all’esigenza di garantire il rispetto degli impegni finanziari assunti con il mandato elettorale.

La ratio dello scioglimento come extrema ratio

Secondo la Corte costituzionale, lo scioglimento rappresenta una misura estrema ma necessaria per tutelare l’autonomia e l’efficienza amministrativa. Il principio di buon andamento dell’amministrazione, sancito dall’articolo 97 della Costituzione, impone che gli organi elettivi siano in grado di assicurare il risanamento finanziario dell’ente locale.

L’inerzia o l’incapacità di approvare un bilancio in equilibrio interrompe il rapporto fiduciario con la comunità e compromette l’interesse collettivo alla stabilità economica dell’ente.

Il legame tra equilibrio finanziario e rappresentanza democratica

La sentenza evidenzia che la salvaguardia degli equilibri finanziari costituisce un presupposto essenziale del mandato elettivo e della stessa rappresentanza democratica. L’amministrazione che non rispetta in modo reiterato tali obblighi mina la fiducia dei cittadini e giustifica l’intervento sostitutivo dello Stato.

In questo quadro, lo scioglimento si configura come uno strumento coerente con i principi costituzionali e con la tutela dell’interesse pubblico al corretto funzionamento delle istituzioni locali.

abrogazione abuso d'ufficio

Abrogazione abuso d’ufficio legittima: le motivazioni della Consulta La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza con cui ha dichiarato legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, escludendo contrasti con la Convenzione di Mérida e i principi costituzionali

Legittima l’abrogazione dell’abuso d’ufficio

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 95 del 2025 depositata il 3 luglio, già anticipata l’8 maggio scorso, ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate contro l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio prevista dalla legge n. 114 del 2024. L’iniziativa giudiziaria era stata promossa da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, che avevano censurato la scelta legislativa sotto diversi profili costituzionali e internazionali.

Nessun obbligo internazionale di mantenere il reato

La Corte ha riconosciuto l’ammissibilità delle questioni prospettate in relazione all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, il quale impone il rispetto degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali. In particolare, si è esaminato se la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, nota come Convenzione di Mérida, imponesse l’obbligo di sanzionare penalmente l’abuso d’ufficio.

Dopo un’analisi dettagliata delle disposizioni convenzionali, la Consulta ha escluso che l’Italia fosse vincolata a mantenere nel proprio ordinamento una specifica fattispecie incriminatrice corrispondente all’abuso d’ufficio, evidenziando che la tipologia di condotte considerate non è prevista in modo uniforme in tutti gli Stati firmatari.

La discrezionalità del legislatore in materia penale

La sentenza sottolinea che la Corte costituzionale non può sostituire la propria valutazione di opportunità a quella del legislatore circa l’efficacia complessiva del sistema di prevenzione e contrasto degli illeciti commessi dai pubblici funzionari. Eventuali vuoti di tutela penale conseguenti all’abrogazione costituiscono una scelta politica che ricade nella responsabilità esclusiva del Parlamento.

Le censure basate sugli articoli 3 e 97 della Costituzione

I giudici rimettenti avevano anche prospettato un contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, per asserita disparità di trattamento tra condotte meno gravi che continuano a essere punite e comportamenti più gravi ora privi di sanzione.

Inoltre, si lamentava un vuoto di tutela rispetto ai principi di buon andamento e imparzialità amministrativa sanciti dall’articolo 97. Tuttavia, la Corte ha dichiarato queste censure inammissibili, rilevando che il loro eventuale accoglimento avrebbe comportato un effetto “in malam partem”, cioè un ampliamento della punibilità, ipotesi preclusa al giudizio di legittimità costituzionale.

La conclusione della Corte costituzionale

In definitiva, la Consulta ha affermato che la scelta di abrogare il reato di abuso d’ufficio, pur producendo indubbi effetti sul piano della tutela penale, è una decisione politica non sindacabile in sede costituzionale. L’eventuale bilanciamento tra i vuoti di tutela e i benefici che il legislatore si è prefisso di conseguire appartiene al piano della responsabilità politica e non può essere oggetto di censura alla luce dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.

associazioni non riconosciute

Associazioni non riconosciute: stop prescrizione per azioni contro amministratori La Corte costituzionale estende la sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità anche alle associazioni non riconosciute

Sospensione prescrizione per le associazioni non riconosciute

Con la sentenza n. 86 del 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 2941, primo comma, numero 7) del Codice civile. La norma, nella sua formulazione originaria, non prevedeva la sospensione del termine di prescrizione per le azioni di responsabilità promosse dalle associazioni non riconosciute contro i propri amministratori finché questi ultimi restano in carica.

Secondo i giudici costituzionali, questa esclusione si traduce in una disparità di trattamento irragionevole rispetto alle associazioni riconosciute e alle società di persone, per le quali la sospensione è già prevista.

La disparità rispetto ad associazioni riconosciute e società di persone

La Corte ha richiamato due precedenti pronunce: la sentenza n. 322 del 1998, che aveva riguardato le società in nome collettivo, e la sentenza n. 262 del 2015, relativa alle società in accomandita semplice. In entrambe le occasioni, era stata riconosciuta la necessità di sospendere la prescrizione delle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori durante il periodo in cui questi esercitano la carica.

La ragione è la medesima anche nel caso delle associazioni non riconosciute: mentre gli amministratori sono in carica, risulta difficile per l’ente accertare eventuali illeciti gestori e promuovere tempestivamente le azioni per tutelare il proprio patrimonio.

La personalità giuridica non incide sui rapporti interni

La Consulta ha sottolineato che il riconoscimento della personalità giuridica non modifica la natura del rapporto interno fra l’ente associativo e i suoi amministratori.

Di conseguenza, non si giustifica una disciplina differente che svantaggi le associazioni prive di riconoscimento rispetto a quelle dotate di personalità giuridica, né tantomeno rispetto alle società di persone, per le quali il legislatore ha già previsto strumenti di controllo e la sospensione del termine prescrizionale.

Effetti della sentenza e tutela dell’ente

La decisione adegua la normativa ai principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dall’articolo 3 della Costituzione. D’ora in avanti, anche le associazioni non riconosciute potranno beneficiare della sospensione della prescrizione delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, finché questi restano in carica.

Questa pronuncia offre agli enti associativi un’effettiva tutela dei propri interessi patrimoniali e garantisce che la durata dell’incarico degli amministratori non diventi un ostacolo all’esercizio dei diritti di difesa e di controllo.

Leggi anche la guida Associazioni riconosciute

società semplice

Società semplice: la Corte Costituzionale sul fallimento in estensione dei soci La Consulta chiarisce che il fallimento di una società semplice non è opponibile ai soci se non sono stati convocati nella procedura. Ecco cosa prevede la sentenza n. 87/2025

Società semplice e rischio di fallimento in estensione

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 87 del 2025, ha precisato i limiti del cosiddetto fallimento in estensione dei soci illimitatamente responsabili di una società semplice.

In linea generale, la società semplice non è soggetta a fallimento. Tuttavia, quando si accerta che ha esercitato attività commerciale, può essere dichiarata fallita, con la conseguenza che anche i soci rispondono patrimonialmente e possono subire il fallimento in estensione.

La legge fallimentare (articolo 147 del regio decreto n. 267/1942) consente che il procedimento di fallimento dei soci sia separato da quello della società.

Il diritto di difesa dei soci e la convocazione nella procedura

La questione esaminata dalla Corte riguardava un caso in cui i soci non erano stati convocati nel giudizio che aveva dichiarato il fallimento della società semplice. La normativa vigente, secondo l’interpretazione consolidata, riteneva sufficiente garantire ai soci il diritto di proporre reclamo entro trenta giorni dalla trascrizione della sentenza nel registro delle imprese.

Tuttavia, i giudici costituzionali hanno osservato che questa garanzia non è adeguata nel caso di una società semplice, che normalmente non è soggetta a fallimento e i cui soci non hanno motivo di monitorare costantemente il registro delle imprese.

L’onere di verifica e i limiti dell’affidamento

La Consulta ha affermato che, per garantire l’effettività del diritto di difesa, non può gravare sui soci l’onere di controllare autonomamente l’eventuale fallimento della società.

Secondo la sentenza, su basi così deboli non si può fondare un accertamento che condiziona la possibilità di dichiarare il fallimento del socio, con pesanti ripercussioni anche sul piano personale.

Di conseguenza, i soci devono essere convocati non solo nel giudizio che decide sul loro fallimento in estensione, ma anche nel procedimento che accerta la fallibilità dell’ente.

Fallimento società semplice non è automaticamente opponibile ai soci

La Corte costituzionale ha stabilito che, se la convocazione manca, la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è opponibile ai soci illimitatamente responsabili.

Nel giudizio sul fallimento in estensione, sarà quindi possibile discutere nuovamente la fallibilità dell’ente, a meno che non sia dimostrato che i soci hanno partecipato alla procedura oppure che abbiano esercitato il diritto di difesa mediante reclamo.

Questa interpretazione assicura un bilanciamento tra esigenze di tutela del ceto creditorio e diritti fondamentali dei soci.

metodo d'hondt

Caccia: è legittimo il metodo D’Hondt per i comitati di gestione La Consulta conferma la legittimità del metodo D’Hondt nella composizione dei comitati venatori. Nessuna violazione del principio di rappresentatività ambientale

La Consulta promuove il metodo D’Hondt

Con la sentenza n. 82/2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sull’articolo 3, comma 3, della legge regionale abruzzese n. 11/2023. La norma in esame introduce l’uso del sistema proporzionale con metodo D’Hondt per l’assegnazione dei seggi nei comitati di gestione della caccia.

Come funziona il metodo D’Hondt

Il metodo D’Hondt è un sistema di calcolo proporzionale che prevede la divisione dei voti di ogni lista – in questo caso il numero di iscritti a ciascuna associazione venatoria – per numeri progressivi, fino a coprire il totale dei seggi disponibili. Questo modello è ampiamente utilizzato anche in altri ambiti elettorali per assicurare una rappresentanza proporzionale.

Le critiche del TAR Abruzzo

Il TAR Abruzzo aveva sollevato dubbi di costituzionalità, ritenendo che il meccanismo penalizzasse alcune associazioni venatorie locali, contravvenendo a quanto disposto dall’articolo 14, comma 10, della legge statale n. 157/1992, a tutela della fauna. Secondo il giudice amministrativo, la norma nazionale garantirebbe una rappresentanza paritaria, considerata parte integrante della tutela ambientale ex articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione. Secondo i giudici, la norma statale richiamata non impone una rappresentanza proporzionale per ogni singola associazione, ma richiede la presenza, all’interno dei comitati, delle tre principali categorie di soggetti interessati: associazioni venatorie, associazioni di protezione ambientale e organizzazioni agricole.

Una volta garantita tale composizione tripartita, spetta alle Regioni stabilire, con ampio margine di discrezionalità, la formula elettorale più adeguata.

Ampia autonomia normativa per le Regioni

La Consulta ha ribadito che il meccanismo di ripartizione dei seggi rientra nella libertà di scelta del legislatore regionale. Il sistema D’Hondt, in questo contesto, è stato ritenuto una modalità legittima di distribuzione dei posti all’interno delle categorie rappresentate, senza ledere i principi costituzionali o gli obblighi di tutela ambientale.

medici in quiescenza

L’Asl può ricorrere ai medici in quiescenza se c’è necessità La Corte costituzionale conferma la legittimità della legge della Regione Sardegna che consente l’impiego temporaneo di medici in quiescenza per garantire l’assistenza primaria nelle aree disagiate

Legittimo l’impiego straordinario di medici in quiescenza

Con la sentenza n. 84/2025, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata contro l’art. 1, comma 1, della legge regionale sarda n. 12/2024. La norma in questione consente l’impiego, sino al 31 dicembre 2024, di medici di medicina generale in quiescenza per progetti straordinari di assistenza primaria, anche mediante contratti libero-professionali.

Garantire l’assistenza nelle aree disagiate

La disposizione mira a garantire la copertura dell’assistenza sanitaria primaria nei territori con carenza di medici, attraverso l’attivazione di ambulatori straordinari di comunità territoriale. I medici coinvolti sono abilitati all’uso dei ricettari previsti dall’art. 50 del d.l. 269/2003.

Le critiche del Governo e la posizione della Corte

Il Presidente del Consiglio ha impugnato la norma sostenendo che essa violerebbe la competenza statale in materia di ordinamento civile e contrasterebbe con l’Accordo collettivo nazionale (ACN) del 2024, che vieta l’attività convenzionata ai medici in quiescenza. La Corte, tuttavia, ha rigettato la questione, riconoscendo alla Regione Sardegna una legittima competenza in materia di organizzazione sanitaria.

Medici in quiescenza per tutelare la salute

La Consulta ha chiarito che l’adozione di misure temporanee e straordinarie è compatibile con l’ordinamento, qualora serva a garantire l’effettività del diritto alla salute, specialmente in presenza di criticità nell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA). Negare questa possibilità impedirebbe alle Regioni di far fronte a situazioni emergenziali, compromettendo le garanzie minime costituzionali.

processo tributario

Processo tributario e prove in appello: l’affondo della Consulta La Corte Costituzionale si pronuncia sulla nuova disciplina delle prove in appello nel processo tributario

Processo tributario e prove in appello

Con la sentenza numero 36/2025 la Consulta ha esaminato la legittimità costituzionale di alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo n. 220/2023, che ha introdotto modifiche significative in materia di contenzioso tributario.

L’oggetto del giudizio riguarda, in particolare, le criticità sollevate dalle Corti di giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia, in relazione alle nuove restrizioni sulla produzione di prove in appello.

Il divieto di deposito di deleghe e procure

La Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 58, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera bb) del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui vieta il deposito in appello di deleghe, procure e atti di conferimento di potere. Secondo la Corte, tale divieto contrasta con il diritto alla prova e non trova giustificazione rispetto agli altri elementi probatori ammessi in secondo grado.

Confermato il divieto sulle notifiche dell’atto impugnato

Di contro, la Corte ha ritenuto legittimo il divieto di produrre in appello le notifiche dell’atto impugnato e gli atti presupposti, escludendone il contrasto con i principi costituzionali. Questa restrizione, secondo i giudici, evita che il processo d’appello diventi un’occasione per sanare omissioni probatorie commesse in primo grado.

Dichiarata l’irragionevolezza della norma transitoria

Un ulteriore profilo di incostituzionalità ha riguardato l’articolo 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023, nella parte in cui estende le nuove regole sulle prove anche ai giudizi già pendenti in secondo grado. La Corte ha ritenuto questa disciplina irragionevole, in quanto incide retroattivamente sulle aspettative delle parti, lesinando la tutela di posizioni giuridiche già consolidate.

Implicazioni pratiche per il processo tributario

Questa pronuncia rappresenta un punto di riferimento per gli operatori del diritto tributario, chiarendo i limiti alla produzione di prove in appello e confermando la volontà del legislatore di limitare il ricorso all’appello per sanare vizi procedurali. Tuttavia, la Corte ha ribadito che le restrizioni non possono ledere il diritto alla difesa, soprattutto quando la mancata produzione della prova non sia imputabile alla parte.