sanzioni disciplinari magistrati

Condanna penale magistrato: no alla rimozione automatica Per la Corte Costituzionale è illegittima la previsione dell'automatica rimozione dalla magistratura del magistrato condannato a pena detentiva

Sanzioni disciplinari magistrati

È costituzionalmente illegittima la previsione dell’automatica rimozione dalla magistratura in caso di condanna del magistrato a una pena detentiva non sospesa. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 51-2024, con la quale è stata accolta una questione sollevata dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione.

La vicenda

Nel caso oggetto del procedimento principale, si legge nel comunicato stampa ufficiale, un magistrato era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, alla pena non sospesa della reclusione di due anni e quattro mesi per avere apposto – con il consenso della presidente del collegio di cui era componente – la firma apocrifa della presidente stessa in tre provvedimenti giurisdizionali.
In applicazione della norma ora dichiarata incostituzionale, il Consiglio superiore della magistratura aveva quindi applicato al magistrato la sanzione disciplinare della rimozione, e l’interessato aveva promosso ricorso per cassazione contro il provvedimento.

Condanna penale e sanzione espulsione

La Corte costituzionale ha rammentato che, secondo la propria costante giurisprudenza, la condanna penale di un funzionario pubblico o di un professionista non può, da sola, determinare la sua automatica espulsione dal servizio o dall’albo professionale. “Sanzioni disciplinari fisse, come la rimozione, sono anzi indiziate di illegittimità costituzionale; e in ogni caso deve essere salvaguardata la centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che gli compete” ha aggiunto la Corte.
La norma dichiarata incostituzionale, invece, ricollegava la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il CSM di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso
concreto.
Nel caso che ha dato luogo al giudizio, in effetti, il giudice penale aveva irrogato una severa pena detentiva non sospesa senza poter considerare gli effetti che tale pena avrebbe necessariamente prodotto nel successivo giudizio disciplinare. In conseguenza poi dell’automatismo creato dalla norma, neppure nel giudizio disciplinare era stato possibile vagliare “la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni”. E ciò pur “a fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e
sull’esistenza stessa, della persona interessata”.
D’altra parte, ha proseguito la Consulta, “non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione. E ciò (…) anche in considerazione del fatto che la mancata concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del condannato (…); ma può semplicemente discendere – come nel caso oggetto del giudizio a quo – dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il condannato per cui non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale”, continuando così a svolgere la propria ordinaria attività lavorativa.

Discrezionalità CSM

Infine, ha precisato il giudice delle leggi che – per effetto della sentenza – il CSM potrà ora determinare discrezionalmente la sanzione da applicare al magistrato, potendo naturalmente optare ancora per la rimozione, “laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le funzioni medesime”.

Allegati

bando prestiti giovani avvocati

Giovani avvocati: prestiti agevolati Cassa Forense ha pubblicato il bando 2024 per la concessione di prestiti agli avvocati under35

Bando prestiti giovani avvocati

Prestiti fino a 15mila euro con rimborsabilità fino a 5 anni e abbattimento degli interessi al 100% . E’ quanto prevede il bando 2024 per prestiti agevolati per gli avvocati under35 iscritti a Cassa Forense.

L’obiettivo è quello di “facilitare l’accesso dei giovani avvocati al mercato del credito, al fine di far fronte alle spese di avviamento dello studio professionale nei primi anni di esercizio dell’attività”.

Beneficiari

Possono beneficiare dell’iniziativa gli iscritti alla Cassa, esclusi i praticanti, che non abbiano compiuto il 35° anno di età alla data di presentazione della domanda e che non abbiano in corso un altro prestito riguardante precedenti analoghi bandi della Cassa Forense.

Inoltre, ai fini dell’ammissione al bando il richiedente deve essere in regola con le prescritte comunicazioni reddituali alla Cassa (modelli 5) e con il pagamento dei contributi previdenziali nei confronti dell’Ente, con possibilità di presentare all’atto della domanda richiesta di regolarizzazione spontanea o di aderire ad accertamenti già avviati dalla Cassa.

Il reddito infine non deve essere superiore a 40mila euro.

Come fare domanda

La richiesta di prestito deve essere inviata entro il 31/10/2024, a pena di inammissibilità, alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense esclusivamente tramite l’apposita procedura online attivata sul sito dell’ente. Non sono ammesse domande presentate con modalità e/o canali diversi.

recupero compensi avvocato ufficio

All’avvocato d’ufficio spettano anche le spese per il recupero dei compensi La Cassazione conferma che il difensore d’ufficio ha diritto anche al rimborso delle spese, diritti e onorari delle procedure di recupero del proprio credito, ivi compresa la fase di opposizione a decreto ingiuntivo

Recupero compensi avvocato ufficio

Il difensore d’ufficio ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine, compresi compensi e spese per la fase di opposizione al decreto ingiuntivo. Lo ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 5041-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Piacenza rigettava l’opposizione proposta ex art. 170 d.P.R. 115/2002 dall’avvocato al decreto di liquidazione emesso a suo favore dal Gip per l’attività svolta quale difensore d’ufficio di un imputato, lamentando il mancato riconoscimento delle spese sostenute per difendersi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

L’ordinanza evidenziava che il diritto al rimborso dei compensi relativi alla procedura esecutiva inutilmente esperita volta alla riscossione dell’onorario comprendeva i costi relativi al solo procedimento monitorio ai sensi degli artt. 82 e 116 d.P.R. 115/2002, senza riferimento alla successiva ed eventuale fase di opposizione.

Rilevava, inoltre, che il ricorrente non chiedeva la liquidazione degli onorari come liquidati dalla sentenza del giudice di pace che aveva rigettato l’opposizione, ma gli onorari che il ricorrente aveva versato al difensore di fiducia nominato nell’opposizione. Trattandosi, dunque, di “una scelta personale del ricorrente, che ben avrebbe potuto difendersi in proprio, con la conseguenza che li compenso versato al difensore non poteva farsi rientrare nei costi del procedimento monitorio quale passaggio obbligato per provare il requisito di cui all’art. 116 d.P.R. 115/2002”.

Il ricorso

Il legale proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo il quale il “difensore d’ufficio ha diritto a vedersi liquidato non solo il compenso relativo all’attività svolta quale difensore d’ufficio nel procedimento penale della persona risultata successivamente insolvente, ma anche le spese sostenute per il tentativo di recupero del credito professionale”.

La decisione

Per gli Ermellini, il professionista ha ragione.

“E’ consolidato l’indirizzo di cui sono espressione già Cass. n. 24104/2011 e Cass. n. 27854/201 – ricordano infatti – le quali, recependo i principi maggioritari nella giurisprudenza delle sezioni penali della Cassazione, hanno statuito nel senso che li difensore d’ufficio di un imputato in un processo penale ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine”.

Tale principio, aggiungono dal Palazzaccio, “risulta del tutto coerente con la lettera dell’art. 116 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e con la sua stessa ratio, perché l’estensione della liquidazione anche ai compensi e agli esborsi resisi necessari per la procedura esecutiva, ancorché rimasta infruttuosa, si giustifica per riferirsi strumentalmente e funzionalmente a una precedente attività professionale comunque resa anche nell’interesse dello Stato; quindi, risulterebbe iniquo accollare al professionista l’onere delle spese occorrenti per il recupero dei compensi professionali dovuti e riconosciuti all’avvocato (cfr. Cass. n. 40073/2021).

Le medesime ragioni che impongono di riconoscere al difensore d’ufficio i compensi e le spese riferite al decreto ingiuntivo chiesto nei confronti del soggetto a cui favore ha prestato l’attività difensiva, in quanto importi necessari a procurarsi il titolo esecutivo da azionare, “impongono – dunque – di riconoscere al difensore anche i compensi e le spese della fase di opposizione al decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dal debitore ingiunto”.

Né può giustificare la negazione del compenso e delle spese, concludono dalla S.C., “il fatto che l’avvocato avesse nominato un difensore mentre avrebbe potuto difendersi in proprio, in quanto anche in tale secondo caso egli avrebbe avuto diritto ai compensi stabiliti per la prestazione resa”.

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio al Tribunale di Piacenza in persona di diverso magistrato, li quale deciderà facendo applicazione dei principi esposti.

Allegati

monte orario tariffe avvocato

Avvocato: senza accordo sul monte orario si ricorre alle tariffe La mancata dimostrazione del monte orario per lo svolgimento dell’incarico professionale non impedisce al giudice di ricorrere alle tariffe per la determinazione del compenso

Monte orario in mancanza di patto

Il contenzioso sul quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, con ordinanza n. 3492-2024, ha avuto ad oggetto, in mancanza di un accordo sul del monte orario, la determinazione del compenso professionale spettante ad un’associazione di avvocati nei confronti dell’attività dalla stessa svolta in favore del proprio cliente.

Avverso la decisione adottata dalla Corte di Appello di Milano, con cui l’associazione di professionisti era stata condannata alla restituzione di quanto versato dal proprio cliente, la parte soccombente aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando il fatto che i giudici del merito avessero ritenuto, rispetto al caso di specie, di non poter dare applicazione alle tariffe professionali ai fini della quantificazione del compenso.

Sul punto, la ricorrente ha in particolare affermato che il giudice è “tenuto a determinare il compenso con criterio equitativo, indipendentemente dalla specifica richiesta del professionista e dalla carenza delle risultanze processuali sul quantum”.

Criterio pattizio: mero criterio di quantificazione del compenso

La Suprema Corte, con la sopracitata sentenza, ha accolto il ricorso proposto dall’associazione, ritenendolo fondato.

La Corte ha motivato la propria decisione facendo riferimento alla recente giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, secondo cui, in tema di compensi professionali, la norma architrave, data dall’art. 2233 cod. civ “a tenore della quale il compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene, pone una gerarchia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso”. Medesimi criteri valgono per il caso in cui il professionista svolga attività stragiudiziale.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, ha evidenziato la Corte “la mancata dimostrazione del monte orario occorso per lo svolgimento dell’incarico impedisce esclusivamente l’applicazione del parametro pattizio, il quale costituisce mero criterio di quantificazione del compenso non incidente sull’an del credito, ma non inibisce al giudice il potere di ricorrere al criterio residuale delle tariffe”.

Ne consegue, a giudizio della Suprema Corte, che i giudici del merito hanno errato nel ritenere che il compenso del professionista potesse essere quantificato esclusivamente facendo ricorso alle tariffe orarie, omettendo di liquidare gli onorari spettanti in ragione della mancata dimostrazione di tale presupposto.

Sulla scorta di tali argomentazioni, il Giudice di legittimità ha pertanto ritenuto fondato il motivo posto a fondamento del ricorso e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano.

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compensi gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria La Cassazione chiarisce che nel patrocinio a spese dello Stato all’avvocato va liquidato il compenso per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento

Gratuito patrocinio e compensi avvocato

Nel gratuito patrocinio, all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento, se è stata depositata la lista testimoniale e sono stati citati i testi. Così la seconda sezione civile della Cassazione, nell’ordinanza n. 2502-2024, accogliendo il ricorso di un avvocato.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto rigettava l’opposizione, proposta ex art.170 del DPR 115/2002, dall’avvocato avverso il decreto di liquidazione del compenso per l’attività svolta in un processo penale, quale difensore di soggetto ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato. Il Tribunale, in particolare, non aveva liquidato li compenso per la fase istruttoria, ritenendo che detta fase non si fosse mai svolta in quanto il processo, che aveva tratto origine dall’opposizione a decreto penale di condanna, dopo una serie di rinvii, era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorso

L’avvocato adiva quindi il Palazzaccio lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del D.M. 10.3.2014, n.55, in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere li Tribunale omesso di liquidare la fase istruttoria sull’erroneo presupposto che essa non si fosse svolta, sebbene lo stesso avesse depositato una lista testimoniale ed avesse citato i testi, attività, questa, espressamente prevista dall’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014.

La decisione

Per gli Ermellini, l’avvocato ha ragione. “Il Tribunale ha escluso il compenso per la fase istruttoria perché il processo penale era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, senza considerare – osservano infatti – che l’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014 prevede che la fase istruttoria non consiste solo nell’escussione dei testi, acquisizione di documentazione etc., ma comprende anche l’attività preparatoria all’istruttoria, vale a dire ‘le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato’”. ;

Nel caso di specie, dunque il giudice ha omesso di liquidare la fase istruttoria, benché il ricorrente avesse depositato la lista testimoniale e citato due testi, “attività inequivocabilmente compresa nella fase istruttoria”.

Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.

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assicurazione Inail studi associati

Studi associati senza obbligo di assicurazione Inail La Cassazione ribadisce che gli studi professionali associati non hanno l'obbligo di assicurarsi all'Inail

Studi associati e assicurazione Inail

Nessun obbligo di assicurarsi con l’Inail per gli studi professionali associati. A ribadirlo è la sezione lavoro della Cassazione, con l’ordinanza n. 4473/2024, respingendo il ricorso dell’Istituto.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Brescia confermava la pronuncia di primo grado che aveva escluso la sussistenza dell’obbligo assicurativo presso l’INAIL in capo ai professionisti associati in uno studio, richiamando, a fondamento del proprio decisum, i principi fissati dalla Cassazione (cfr. n. 15971/2017) e argomentando la Corte Cost. n. 25/2016.

L’Inail adiva quindi piazza Cavour lamentando che la corte di merito avesse ritenuto erroneamente che non “sussistessero i presupposti per l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in considerazione del carattere associativo e non societario del vincolo sussistente tra i professionisti”. Ad avviso dell’istituto, infatti, le caratteristiche concrete dello studio rendevano “lo stesso un soggetto giuridico autonomo assimilabile, per i meccanismi operativi, ad una vera e propria
società; ricorrerebbero, perciò, le indicazioni provenienti da Cass. nn. 12095 del 2006 e 13278 del 2007, secondo le quali a parità di esposizione a rischio deve corrispondere parità di tutela assicurativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto in base al quale è prestata l’attività lavorativa”.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., tuttavia, il motivo è infondato. La Corte richiama, quindi, il consolidato principio per cui, in tema di assicurazione contro gli infortuni e el malattie professionali “non sussiste l’obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studio in quanto la tendenza ordinamentale espansiva di tale obbligo può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell’ambito delle norme vigenti, le quali in alcun luogo (D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 1, 4 e 9) contemplano l’assoggettamento delle associazioni professionali all’obbligo in questione (così come non lo contemplano per li mero libero professionista)”.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

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compensi domiciliatario

L’avvocato ha l’obbligo di pagare i compensi al domiciliatario Il CNF ribadisce che l’avvocato che ha incaricato un collega di esercitare le funzioni di rappresentanza ed assistenza ha l’obbligo di retribuirlo a norma dell’art. 30 del Codice deontologico

Procedimento disciplinare

Nel caso sottoposto all’esame del Consiglio Nazionale Forense, dallo stesso deciso con sentenza n. 234/2023 (sotto allegata), era stato avviato un procedimento disciplinare a carico di un avvocato su esposto di un collega che, avendo ricevuto dal primo due incarichi professionali per due procedure esecutive presso terzi, aveva lamentato il mancato pagamento delle proprie competenze.

In particolare, l’avvocato ritenuto inadempiente era stato tratto a giudizio dinanzi al CDD di L’Aquila per rispondere del seguente capo d’incolpazione: “violazioni dell’art. 43 del Codice Deontologico approvato il 31 gennaio 2014 perché pur avendo conferito (…) l’incarico di rappresentanza ed assistenza nel procedimento di pignoramento presso terzi incardinato presso il Tribunale di Monza, ometteva di corrispondere alla stessa il compenso dovuto”.

All’esito dell’istruttoria, il CDD di l’Aquila aveva ritenuto integrata la responsabilità disciplinare dell’incolpato ed applicato la sanzione della censura a carico dello stesso.

Avverso tale decisione, l’avvocato aveva proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense.

Obbligo di corrispondere il compenso al domiciliatario

Il CNF, con la sopracitata decisione, ha ritenuto integrata la responsabilità dell’incolpato, confermando gli esito del Consiglio distrettuale di disciplina.

Il Consiglio è poi passato all’esame della giurisprudenza domestica formatasi sul punto, la quale è costante nel ritenere che “L’avvocato che abbia scelto o incaricato direttamente altro collega di esercitare le funzioni di rappresentanza o assistenza, ha l’obbligo di provvedere a retribuirlo, ove non adempia il cliente ex art. 43 ncdf, già art. 30 cdf”.

Sulla scorta di tali premesse, il CNF ha rigettato il ricorso proposto dall’avvocato e ha disatteso la richiesta di attenuazione della sanzione applicata a carico dello stesso, posto che il comportamento dell’avvocato non può apparire in alcun modo giustificato, considerando anche i “molteplici solleciti rimasti inevasi e del decorso di ben tre anni dall’apertura del procedimento disciplinare nonostante il solo dichiarato intento di adempiere”.

conflitto di interessi avvocato

Conflitto di interessi avvocato: basta il dubbio per far scattare l’illecito Il CNF chiarisce che l'assoluta terzietà dell'avvocato deve sussistere al di sopra di ogni dubbio

Conflitto di interessi avvocato

“Affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 24 cdf (già art. 37 codice previgente) non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato – e quindi anche la sola apparenza del conflitto – per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico”. E’ il principio affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 241-2023 pubblicata sul sito del Codice deontologico l’8 febbraio 2024.

La vicenda

Nella vicenda, un legale all’esito del procedimento disciplinare veniva sospeso dalla professione per due mesi per aver violato vari canoni deontologici, tra cui l’aver agito in conflitto di interessi, per essersi costituita in giudizio avverso una propria ex assistita.

L’avvocato adisce il Consiglio Nazionale Forense dolendosi della responsabilità disciplinare e della eccessività della sanzione.

La decisione

Per il CNF, tuttavia, le censure sono infondate. “Correttamente il CDD di Messina ha ritenuto che l’art. 24 del Codice Deontologico è a tutela della terzietà dell’avvocato, che non solo deve sussistere, ma è necessario che non ricorrano circostanze tali da porla in dubbio” afferma preliminarmente il consiglio.

“La norma si riferisce quindi anche alla sola apparenza del conflitto degli interessi. Trattasi di un illecito di pericolo volto a garantire l’assoluta terzietà dell’avvocato al di sopra di ogni dubbio, come specificato nella decisione impugnata che opportunamente fa espresso riferimento a precedenti sentenze di questo consiglio (sentenza 12 luglio 2016 n. 186; 16 luglio 2019 n.60)” aggiunge il CNF ritenendo che le valutazioni logiche giuridiche della decisione impugnata “appaiano ben motivate ed in particolare appare corretta la considerazione che l’incolpata si sia costituita nel giudizio promosso dall’avvocato [BBB] nei confronti di una propria ex assistita, tutelando gli interessi di quest’ultima contestando le richieste formulate dal legale, integra la violazione dell’articolo 24 del Codice vigente, sotto il profilo della lealtà e della correttezza, dato che ciò ha rappresentato un nocumento almeno potenziale agli interessi della controparte”.

Nulla di fatto, infine, neanche sul fronte dell’eccessiva severità della sanzione irrogata”, che il CNF reputa equilibrata rigettando in toto il ricorso.

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milleproroghe 2024

Milleproroghe 2024: le novità per gli avvocati La legge n. 218/2024 che ha convertito il decreto Milleproroghe dispone il rinvio di alcuni termini che interessano gli avvocati e gli aspiranti tali

Legge di conversione Milleproroghe 2024

Sulla Gazzetta Ufficiale del 28 febbraio 2024 è stata pubblicata la Legge-18-2024 di conversione del decreto legge n. 215 del 30 dicembre 2023, meglio noto come decreto “Milleproroghe”.

Il testo della legge, tra le tante proroghe previste, ne dedica diverse agli avvocati e a coloro che stanno studiando per l’abilitazione alla professione forense.

Le proroghe riguardano la materia di notificazioni per le cause civili, l’esame di abilitazione alla professione forense, l’iscrizione all’Albo degli avvocati Cassazionisti e le impugnazioni nel processo penale. Analizziamo singolarmente le varie proroghe.

Avvocati Cassazionisti 2024 con le vecchie regole

Gli avvocati, per un altro anno, possono iscriversi all’albo degli avvocati Cassazionisti se maturano i requisiti richiesti dalla normativa previgente, ossia il raggiungimento di 12 anni di iscrizione all’albo nel corso del 2024.

Il comma 6 sexies dell’art. 11 del decreto 215/2023 dispone infatti che: “All’articolo 22, comma 4, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, relativo all’iscrizione nell’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, le parole: “undici anni” sono sostituite dalle seguenti: “dodici anni”. 

Esame avvocato fino al 2025 con le vecchie regole

Per i primi 12 anni dall’entrata in vigore della legge contenente la nuova disciplina dell’ordinamento forense (in vigore dal 02 febbraio 2013) ossia fino al 2025, l’esame di abilitazione alla professione forense si svolge, secondo le norme previgenti, sia per quanto riguarda le prove scritte che quelle orali.

Il tutto in base a quanto sancito dal comma 6 quater dell’art. 11 del decreto Milleproroghe“ che così dispone: All’articolo 49, comma 1, della  legge 31 dicembre 2012, n. 247, relativo  alla disciplina  transitoria dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, le parole: “undici anni” sono sostituite dalle  seguenti: “dodici anni”.  

Per quanto riguarda l’esame 2024 la legge di conversione del Milleproroghe contempla la valenza delle regole speciali che sono state applicate alla sessione d’esame del 2023, che prevede lo svolgimento di uno scritto e un orale articolato in 3 fasi (in base a quanto sancito dall’art 4-quater, comma 1, del decreto-legge n. 51/2023 convertito dalla legge n. 87/2023).

Notifiche avvocati giudizio civile

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 11 del decreto Milleproroghe dispone che All‘articolo  4-ter,  comma  1,  del  decreto-legge 10 maggio 2023, n. 51, convertito, con  modificazioni, dalla legge  3 luglio 2023, n. 87,  concernente la sospensione dell’efficacia  di norme in materia di notificazioni eseguite dagli avvocati, le parole: “fino al 31 dicembre 2023” sono sostituite dalle seguenti: “fino  al 31 dicembre 2024”.

Questo significa che sono sospese fino alla fine del 2024 le disposizioni contenute nei commi 2 e 3 dell’art. 3 ter della legge n. 53/1994, che riconoscono agli avvocati di eseguire le notifiche a mezzo pec quando il destinatario ha eletto domicilio digitale o quando è obbligato per legge a munirsi di un domicilio digitale. Qualora poi detta notifica non sia possibile o non si concluda con esito positivo perché il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC o perché è un soggetto privato o un ente non tenuti ad avere un domicilio digitale, allora la notifica può essere effettuata nelle forme ordinarie.

Giudizi impugnazione processo penale Cartabia

Il nuovo comma 7 dell’art. 11 del Milleproroghe interviene infine sulla formulazione dell’art. 94 comma 2 del decreto legislativo n. 150/2022, ossia la riforma Cartabia del processo penale.

Nello specifico l’attuale formulazione dell’art. 94 contenente le disposizioni transitorie in materia di giudizi di impugnazione prevede che per le impugnazioni proposte fino al 30 giugno 2024 debbano continuare ad applicarsi e disposizioni di cui agli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.

Slittano in sostanza le novità introdotte dalla riforma Cartabia in materia di impugnazioni del processo penale.

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equo compenso

Avvocati: l’equo compenso entra nel Codice Deontologico Il CNF ha approvato la nuova norma deontologica che sanziona il legale che concorda compensi troppo bassi o comunque ingiusti

Nuova norma deontologica equo compenso

Via libera alla nuova norma deontologica in materia di equo compenso prevista dalla legge 49/2023. Il Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 23 febbraio scorso ha approvato il testo del nuovo art. 25-bis in linea con l’obiettivo della legge di “garantire che gli avvocati ricevano un adeguato compenso per la loro attività professionale, contrastando al tempo stesso il fenomeno delle parcelle troppo basse o addirittura gratuite”.

La nuova norma è stata elaborata dalla Commissione deontologica del Consiglio Nazionale Forense, approvata in prima battuta dal CNF nell’ultima seduta amministrativa del 2023 e inviata, come previsto dalla legge professionale forense, ai Consigli dell’Ordine per la necessaria consultazione. Completati tutti i passaggi, il CNF ha approvato quindi la disposizione in via definitiva con piccole integrazioni.

Le sanzioni previste

Due le sanzioni disciplinari previste dalla nuova norma del codice deontologico forense. L’avvocato, infatti, precisa il CNF nella nota ufficiale, “non può concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta, e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti”. In caso di violazione, ciò comporterà “l’applicazione in sede disciplinare della censura”. Inoltre, “nei casi in cui l’avvocato stipuli una qualsiasi forma di accordo con il cliente, la norma richiede l’obbligo ad avvertire per iscritto il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare i criteri stabiliti dalla legge, pena la nullità della pattuizione”. In tal caso, la violazione di questa seconda disposizione normativa “comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.

L’iter

Le modifiche al codice deontologico degli avvocati entreranno in vigore dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, completando l’iter previsto dall’ordinamento forense.

Il testo del nuovo art. 25-bis

Di seguito il testo del nuovo art. 25-bis Cdf:

Art. 25-bis – Violazioni delle disposizioni in materia di equo compenso

  1. L’avvocato non può concordare o preventivare un compenso che, ai sensi e per gli effetti delle vigenti disposizioni in materia di equo compenso non sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta, e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti.
  2. Nei casi in cui la convenzione, il contratto, o qualsiasi diversa forma di accordo con il cliente cui si applica la normativa in materia di equo compenso siano predisposti esclusivamente dall’avvocato, questi ha l’obbligo di avvertire, per iscritto, il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia.
  3. La violazione del divieto di cui al primo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. La violazione dell’obbligo di cui al secondo comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.