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Assunzione sostanza stupefacente: responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte Come viene a configurarsi l’elemento soggettivo colposo dello spacciatore in relazione alla morte dell’assuntore di sostanza stupefacente?

Quesito con risposta a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo

 

Nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 c.p. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il processo di causalità tra consegna della droga e morte, ma anche che il decesso sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che, quindi, sia accertata nei suoi confronti la presenza, in concreto, dell’elemento soggettivo colposo, correlata alla violazione di una regola precauzionale diversa dalla norma che incrimina il reato-base e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assuma la sostanza drogante, calibrate secondo la figura di un agente – modello che si trovi nella specifica situazione di quello “reale” ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto da quest’ultimo conosciute e conoscibili (Cass., sez. V, 14 novembre 2024, n. 41898).

In seguito ad una sentenza di proscioglimento per omissione di soccorso e contestuale condanna in appello ai sensi del reato ex art. 586 c.p. e cessione di sostanze stupefacenti, veniva presentato ricorso presso il Supremo Consesso per due ordini di motivi. Da una parte, violazione di legge per l’affermazione di responsabilità ex art. 586 c.p. per il mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo colposo per la morte della persona offesa, assuntrice abituale di sostanza stupefacente; il secondo, invece, si limitava al vizio di legge per il trattamento sanzionatorio complessivo e il riconoscimento della recidiva. Il caso concerneva la responsabilità penale di uno spacciatore per la morte dell’assuntrice per la cessione di una dose, dopo che i due avevano trascorso insieme la notte a bere e consumare eroina, tanto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero riconosceva tra le cause del decesso un sovradosaggio acuto di oppiacei.

In merito al riconoscimento della colpa in capo all’imputato, il quesito veniva ritenuto fondato da parte del Supremo Consesso.

Il grado di colpa esigibile e il relativo accertamento necessario venivano illustrati dalla Corte partendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla sentenza di Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676 (cd. Ronci). Quest’ultima si occupava di illustrare la compatibilità tra il reato di morte come conseguenza di altro delitto e il principio di colpevolezza, aderendo alla tesi già discussa in giurisprudenza della responsabilità per colpa in concreto.

Partendo dall’accertamento, questo deve necessariamente svolgersi mediante un giudizio di prognosi postuma, focalizzata sul frangente in cui è avvenuto il fatto. Oggetti dell’accertamento sono il nesso di causalità tra la consegna della droga e l’evento morte, ma anche e soprattutto la concreta rimproverabilità del decesso in capo allo spacciatore. Quest’ultima può ritenersi presente qualora la sussistenza dell’elemento soggettivo colposo risulti correlato alla violazione di una regola precauzionale differente a quella incriminante il reato – base e in presenza di un concreto coefficiente di prevedibilità ed evitabilità del rischio per il bene (ndr. vita dell’assuntore). Il parametro di valutazione è quello del comportamento dell’agente – modello, basato su tutte le circostanze del caso concreto dall’autore conosciute e conoscibili. Su queste fondamenta si è poi incardinata tutta la giurisprudenza successiva in materia di imputazione dell’omicidio dell’assuntore di sostanza stupefacente nei confronti dello spacciatore ex art. 586 c.p. (da ult. Cass. 19 settembre 2018, n. 49573).

L’analisi della Corte di legittimità prosegue riconoscendo il reato di morte come conseguenza di altro delitto quale forma di delitto aggravato dall’evento. Essa assume i contorni di una forma speciale di aberratio delicti ex art. 83, comma 2 c.p.: l’evento-morte, non voluto, viene imputato a titolo di colpa nell’ambito di un concorso formale di reati, in quanto derivante dalla commissione di una diversa condotta voluta e prevista ex se costituente reato. Tale circostanza impone che la valutazione del coefficiente psicologico colposo richiesto debba essere riferita al momento dell’evento morte, seppur collegato oggettivamente al precedente delitto doloso, poiché è dall’evento che viene ricavata la regola precauzionale violata.

Due sono gli elementi che confluiscono nella ricostruzione del fatto di reato: da una parte, l’agire prodromico all’evento che deve essere assistito dalla coscienza e volontà degli elementi essenziali del reato; dall’altra, l’accertamento della colpa, la quale deve essere proiettata nella fase consequenziale alla consumazione del delitto doloso. Pertanto, l’accertamento appena accennato va legato al momento della cessione della dose di sostanza stupefacente e non, come veniva realizzato dal giudice di merito nel caso di specie, nell’arco temporale tra questa e il decesso per non aver prestato assistenza alla vittima.

D’altra parte, la giurisprudenza di merito non ha valorizzato altri elementi ragionevolmente sintomatici della prevedibilità in concreto; indici di colpa possono risultare, sempre per giurisprudenza di legittimità consolidata, nella cessione contestuale o ravvicinata di più dosi alla medesima persona, nella consegna di una dose in elevata concentrazione o nella cessione a soggetto in evidente stato di alterazione da alcol (Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 22676).

 

(*Contributo in tema di “Assunzione di sostanza stupefacente: la responsabilità penale dello spacciatore in caso di morte”, a cura di Daniela Cazzetta e Vittoria Petrolo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 81 / Gennaio 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

incidente probatorio

Incidente probatorio Cos’è l’incidente probatorio, procedimento, i requisiti e l’ammissibilità e la giurisprudenza recente della Cassazione

Cos’è l’incidente probatorio

L’incidente probatorio è un istituto del diritto processuale penale italiano che consente l’acquisizione anticipata di prove durante le indagini preliminari, garantendo che queste vengano raccolte con le stesse formalità previste per il dibattimento. Questo strumento è disciplinato dagli articoli 392 e seguenti del Codice di Procedura Penale (c.p.p.).

Definizione e finalità

L’incidente probatorio permette al pubblico ministero o alla persona sottoposta alle indagini di richiedere al giudice l’assunzione anticipata di una prova quando vi è il rischio che questa possa disperdersi o non essere più acquisibile in sede dibattimentale. L’obiettivo principale consiste quindi nel preservare l’integrità e la disponibilità delle prove fondamentali per il processo.

Procedimento

La richiesta di incidente probatorio deve essere presentata dal pubblico ministero o dalla persona sottoposta alle indagini entro i termini previsti per la conclusione delle indagini preliminari e comunque entro un termine sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza di detti termini. Una volta ricevuta la richiesta, il giudice valuta se sussistono i presupposti di legge per procedere. Se la richiesta viene accolta, l’assunzione della prova avviene in contraddittorio tra le parti, con le stesse garanzie previste per il dibattimento.

Requisiti e ammissibilità dell’incidente probatorio

Secondo l’articolo 392 c.p.p., l’incidente probatorio è ammissibile nei seguenti casi:

  • Testimonianza a rischio: quando vi è fondato motivo di ritenere che un testimone non potrà essere esaminato durante il dibattimento perchè vi sono elementi per ritenere che la stessa sia soggetta a violenza, minaccia o offerta di denaro per dichiarare il falso o non deporre;
  • Prove soggette a modifiche: quando si teme che una prova possa subire alterazioni o non essere più disponibile in futuro.
  • Reati specifici: nei procedimenti per determinati reati, come quelli contro la libertà sessuale o che coinvolgono minori, l’incidente probatorio può essere richiesto per assumere la testimonianza della persona offesa, anche al di fuori delle ipotesi sopra indicate.

Giurisprudenza della Cassazione

La giurisprudenza ha più volte affrontato temi legati all’incidente probatorio. Ad esempio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27104 del 23 maggio 2024, hanno stabilito che è abnorme, e quindi impugnabile per cassazione, il provvedimento con cui il giudice rigetta la richiesta di incidente probatorio riguardante la testimonianza della persona offesa in reati come maltrattamenti, motivando il rigetto con la non vulnerabilità della persona offesa o la possibilità di rinviare la prova. La Corte ha ritenuto tali presupposti come presunti per legge, rendendo il rigetto del tutto ingiustificato.

La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza n. 17521 del 2 maggio 2024, invece ha esaminato un ricorso contro l’ordinanza del GIP che aveva respinto la richiesta di incidente probatorio avanzata dal Pubblico Ministero. La richiesta riguardava l’escussione di un minore, presunta vittima di maltrattamenti da parte del padre, ai sensi dell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p.

La Cassazione ha chiarito che il rigetto della richiesta non interrompe il procedimento, ma rientra nella discrezionalità del giudice. Il GIP valuta la necessità e l’opportunità dell’incidente probatorio in base alle specificità del caso e alla tutela del minore.

Cassazione n. 42942/2024: A seguito della modifica dell’art. 603, comma 3-bis, c.p.p. introdotta dall’art. 34, comma 1, lett. i), n. 1, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, il giudice deve rinnovare l’istruttoria quando una diversa valutazione di una prova dichiarativa, considerata decisiva, riguarda una testimonianza raccolta tramite incidente probatorio. L’assenza di un’esplicita menzione delle prove acquisite con questa modalità non implica che il legislatore abbia voluto escluderle dalla rinnovazione.

 

 

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femminicidio

Femminicidio: reato autonomo Approvato dal Consiglio dei ministri che introduce il delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime

Il delitto di femminicidio

Il femminicidio diventa reato autonomo. Oggi, 7 marzo, 2025, il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che introduce nel codice penale il delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime.

Cosa prevede il testo

Il testo, si legge nel comunicato stampa di palazzo Chigi, appronta un intervento ampio e sistematico per rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne.

Nuova fattispecie penale di femminicidio

Si introduce la nuova fattispecie penale di “femminicidio” che, per l’estrema urgenza criminologica del fenomeno e per la particolare struttura del reato, viene sanzionata con la pena dell’ergastolo. In particolare, si prevede che sia punito con tale pena “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. In linea con tale intervento, le stesse circostanze di commissione del reato sono introdotte quali aggravanti per i delitti più tipici di codice rosso, con la previsione di un aumento delle pene previste di almeno un terzo e fino alla metà o a due terzi, a seconda del delitto.

Le altre novità

Inoltre, il testo:

  • prevede l’audizione obbligatoria della persona offesa da parte del pubblico ministero, non delegabile alla polizia giudiziaria, nei casi di codice rosso;
  • introduce specifici obblighi informativi in favore dei prossimi congiunti della vittima di femminicidio;
  • prevede il parere, non vincolante, della vittima in caso di patteggiamento per reati da codice rosso e connessi obblighi informativi e onere motivazionale del giudice;
  • nei casi in cui sussistano esigenze cautelari, prevede l’applicazione all’imputato della misura della custodia cautelare in carcere o degli arresti domiciliari;
  • interviene sui benefici penitenziari per autori di reati da codice rosso;
  • introduce, in favore delle vittime di reati da codice rosso, un diritto di essere avvisate anche dell’uscita dal carcere dell’autore condannato, a seguito di concessione di misure premiali;
  • rafforza gli obblighi formativi dei magistrati, previsti dall’art. 6, comma 2, della legge n. 168 del 2023;
  • estende alla fase della esecuzione della condanna al risarcimento il regime di favore in tema di prenotazione a debito previsto per i danneggiati dai fatti di omicidio “codice rosso” e di femminicidio;
  • introduce una disposizione di coordinamento che prevede l’estensione al nuovo articolo 577-bis dei richiami all’articolo 575 contenuti nel codice penale.

Convenzione di Istanbul

L’intervento si inserisce anche nel quadro degli obblighi assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione di Istanbul e nel solco delle linee operative disegnate dalla nuova direttiva (UE) 1385/2024 in materia di violenza contro le donne, nonché delle direttive in materia di tutela delle vittime di reato.

Una svolta epocale

“Oggi il Governo compie un altro passo avanti nell’azione di sistema che sta portando avanti fin dal suo insediamento per contrastare la violenza nei confronti delle donne e per tutelare le vittime. Il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge estremamente significativo, che introduce nel nostro ordinamento il delitto di femminicidio come reato autonomo, sanzionandolo con l’ergastolo, e prevede aggravanti e aumenti di pena per i reati di maltrattamenti personali, stalking, violenza sessuale e revenge porn. Norme che considero molto importanti e che abbiamo fortemente voluto per dare una sferzata nella lotta a questa intollerabile piaga.  Ringrazio i Ministri che hanno lavorato al provvedimento e che ci hanno permesso di raggiungere, alla vigilia della Festa della Donna, questo importante risultato”. Sono le parole della premier Meloni.

Il Guardasigilli Nordio nella conferenza stampa a margine del Cdm ha parlato di “grande svolta”, che oltre a risolvere problemi tecnici costituisce una “manifestazione potente di attenzione dello Stato a questa problematica che è emersa in questi ultimi anni in maniera così dolorosa, e che deve avere un riconoscimento penale di prima levatura”.

decreto caivano

Decreto Caivano: prova semplificata secondo il favor minoris La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della disposizione del Decreto Caivano nella parte in cui indica il Gip per la prova minorile semplificata

Decreto Caivano: l’intervento della Consulta

Decreto Caivano: la prova minorile “semplificata” va decisa dal giudice collegiale e interpretata secondo il “favor minoris”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 23/2025, decidendo le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 27-bis del d.P.R. numero 448 del 1988, inserito dall’articolo 8, comma 1, lettera b), del decreto-legge numero 123 del 2023, convertito nella legge numero 159 del 2023 (“decreto Caivano”), sollevate, in riferimento agli articoli 3 e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni di Trento.

Prova minorile semplificata

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 della disposizione censurata, per violazione dell’articolo 31, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui indica «giudice per le indagini preliminari», anziché «giudice dell’udienza preliminare, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)».

Infatti, quale istituto di protezione della gioventù, rammenta la Corte, anche la prova minorile “semplificata”, introdotta dalla norma censurata, richiede la composizione pedagogicamente qualificata dell’organo giudicante, quindi un collegio integrato dagli esperti educatori, così come è previsto per la messa alla prova minorile ordinaria.

Favor minoris

Le ulteriori questioni sono state dichiarate non fondate «nei sensi di cui in motivazione», essendo possibile attribuire alla norma un significato adeguato al “favor minoris”, nel senso che:

– il programma rieducativo non può essere elaborato senza l’intervento dei servizi minorili, che seguono poi il minore durante lo svolgimento della prova e rimettono al giudice la relazione conclusiva;

– la proposta del pm di accesso alla prova “semplificata” è atto di esercizio dell’azione penale, quindi può intervenire solo quando sia sufficientemente definito, oltre al fatto-reato, anche il quadro esistenziale del minore;

– nell’applicazione dell’istituto, giudice e PM possono avvalersi dei mezzi conoscitivi di cui agli articoli 6 e 9 del d.P.R. 448/1988, non ostando la clausola di invarianza finanziaria, inserita dal “decreto Caivano” per forme atipiche di impegno dei servizi;

– il termine di sessanta giorni fissato dalla norma censurata per il deposito del programma rieducativo non è perentorio, sicché, qualora per giustificate ragioni non riesca a rispettarlo, la difesa del minore può ottenerne una proroga;

– come per il progetto di intervento nella prova minorile ordinaria, neppure nella prova “semplificata” è precluso al giudice integrare o modificare il programma rieducativo, purché consulti le parti e i servizi minorili;

– oltre ad attività di lavoro, la prova “semplificata” può avere ad oggetto anche attività di carattere socio-relazionale, e gli stessi eventuali impegni lavorativi non devono compromettere i percorsi scolastico-educativi in atto.

La decisione

«In virtù della pronuncia sostitutiva sulla composizione del giudice e dei descritti adeguamenti interpretativi» – si legge, infine, in sentenza – «la norma censurata si sottrae alla richiesta di ablazione radicale, anche in ragione del fatto che il nuovo istituto, per come modificato in sede di conversione del d.l. n. 123 del 2023, non preclude ulteriori percorsi procedimentali, incluso quello della messa alla prova ordinaria».

reato di rapina impropria

Reato di rapina impropria Reato di rapina impropria: definizione, differenze con la rapina propria, configurabilità del tentativo e giurisprudenza

Cos’è la rapina impropria

La rapina impropria è disciplinata dall’articolo 628, comma 2, del Codice Penale italiano. Si configura quando, dopo aver commesso un furto, l’autore utilizza violenza o minaccia per assicurarsi il possesso della refurtiva o garantirsi l’impunità. Questo reato si distingue dalla rapina propria, prevista dal comma 1 dello stesso articolo. Nella rapina propria infatti la violenza o la minaccia precedono o accompagnano l’atto di sottrazione del bene.

Differenza tra rapina impropria e rapina propria

La principale differenza tra rapina impropria e rapina propria risiede nel momento in cui si manifesta la violenza o la minaccia:

  • Rapina propria: la violenza o la minaccia sono utilizzate per vincere la resistenza della vittima e appropriarsi del bene.
  • Rapina impropria: la sottrazione del bene avviene senza l’uso di violenza o minaccia. Queste vengono impiegate successivamente, al fine di mantenere il possesso del bene sottratto o per assicurarsi l’impunità.

Configurabilità del tentativo di rapina impropria

La giurisprudenza ha affrontato la questione della configurabilità del tentativo per questo tipo di reato. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 35425 del 27 giugno 2023, ha stabilito che il tentativo è configurabile quando l’agente, dopo aver compiuto atti idonei e inequivocabili diretti alla sottrazione della cosa altrui, utilizza violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità, anche se la sottrazione non si è concretamente realizzata. Questo orientamento conferma che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente l’uso di violenza o minaccia in seguito ad atti preparatori al furto, indipendentemente dal completamento della sottrazione.

Giurisprudenza rilevante

  • Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 34952 del 19 aprile 2012: ha chiarito che, per il perfezionamento della rapina impropria, è sufficiente l’apprensione del bene altrui, senza necessità di un effettivo impossessamento, inteso come acquisizione di una signoria autonoma sul bene sottratto.
  • Corte Costituzionale, sentenza n. 190 del 31 luglio 2020: nel confrontare questo tipo di rapina con figure similari la Consulta ha affermato: 1. Il ricorso alla violenza o alla minaccia nella rapina propria e impropria non segue sempre uno schema fisso. Spesso un furto inizialmente non violento degenera in rapina propria se la vittima oppone resistenza o se l’oggetto è difficile da sottrarre. Al contrario, una rapina impropria può essere pianificata, prevedendo l’uso della violenza per garantirsi la fuga. 2.La rapina impropria non richiede il pieno possesso del bene da parte dell’agente per consumarsi, ma ciò non giustifica un trattamento giuridico diverso dalla rapina propria. Ciò che rileva è la contestualità tra la violenza e l’aggressione patrimoniale, che rende il reato più grave del semplice furto. 3. L’immediatezza della violenza è essenziale per equiparare la rapina impropria a quella propria, giustificando misure come l’arresto in flagranza e il diritto alla legittima difesa, che cessano quando tale contestualità viene meno.
  • Corte Costituzionale n. 86/2024: illegittimo dal punto di vista costituzionale l’ 628, secondo comma, del codice penale, poiché non prevede una riduzione di pena fino a un terzo nei casi in cui il fatto di rapina risulti di lieve entità, considerando natura, mezzi, modalità o circostanze dell’azione, nonché la tenuità del danno o del pericolo. Per effetto di questa decisione, la corte ha esteso l’illegittimità anche al primo comma dello stesso articolo, con analoga previsione di riduzione della pena in presenza di fatti di minore gravità.

 

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violenza privata

Violenza privata: guida al reato ex art. 610 c.p. Il reato di violenza privata: in cosa consiste, normativa di riferimento, configurazione del reato e giurisprudenza

Cos’è il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è previsto e punito dall’art. 610 del codice penale italiano. Questo reato si configura quando un soggetto, mediante violenza o minaccia, costringe un altro soggetto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà. La violenza privata è considerata un delitto contro la libertà personale. La norma tutela infatti la libertà morale, ossia il diritto di ciascun individuo a decidere autonomamente delle proprie azioni.

Normativa di riferimento

L’articolo 610 del codice penale stabilisce che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualcosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni”. La pena è aumentata se il fatto è commesso ad esempio con l’uso di armi o da più persone riunite.

Come si configura il reato di violenza privata?

Il reato si configura attraverso due elementi principali:

  1. Violenza o minaccia: l’uso della forza fisica o la prospettazione di un male ingiusto e imminente per costringere la vittima.
  2. Costrizione: la vittima è obbligata a compiere, tollerare o omettere un’azione contro la propria volontà.

Elemento oggettivo e soggettivo del reato

Elemento oggettivo: consiste nella condotta violenta o minacciosa che porta alla costrizione della vittima. La violenza può essere fisica o morale, mentre la minaccia deve essere tale da incutere il timore nella vittima di un male ingiusto.

Elemento soggettivo: richiede il dolo generico, ossia la volontà cosciente di costringere un’altra persona a compiere un atto contro la propria volontà. Non è necessario che il soggetto agente persegua un fine specifico, ma basta la consapevolezza della natura costrittiva dell’atto.

Come viene punito il reato di violenza privata?

Il reato di violenza privata è punito con la reclusione fino a quattro anni. La pena può essere aumentata in presenza di aggravanti, come:

  • l’uso di armi;
  • il compimento del fatto da più persone riunite;
  • la recidiva specifica o reiterata del reato.

Aspetti procedurali del reato di violenza privata

Azione penale: il reato è punibile previa querela della persona. Offesa. E’perseguibile d’ufficio invece quando il reato viene commesso in danno di un soggetto incapace a causa dell’età o dell’infermità o quando è commesso in presenza delle aggravanti indicate nel comma 2 della norma.

Competenza: la competenza per il giudizio è del tribunale monocratico.

Prescrizione: il reato si prescrive in sei anni, salvo interruzioni dovute a atti processuali.

Misure cautelari: In presenza di gravi indizi di colpevolezza, il giudice può disporre misure cautelari personali.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza italiana ha fornito interpretazioni significative per chiarire i confini del reato di violenza privata:

Cassazione n. 10360/2019: l’elemento oggettivo del reato previsto dall’art. 610 c.p. consiste nell’uso della violenza o della minaccia con lo scopo di costringere qualcuno a compiere, tollerare o omettere un’azione. Affinché si configuri il reato, la violenza o la minaccia devono essere finalizzate a determinare un effetto ulteriore, ossia la costrizione della vittima. Ne consegue che l’atto violento o minaccioso non deve coincidere con l’evento stesso di costrizione: se la violenza si esaurisce nella mera imposizione a tollerare, senza un ulteriore effetto coercitivo, il delitto di cui all’art. 610 c.p. non può ritenersi integrato.

Cassazione penale n. 32534/2020: il reato di violenza privata previsto e disciplinato dall’art. 610 c.p è integrato anche dalla condotta di chi parcheggia l’auto all’interno del cortile condominiale in modo da impedire agli altri condomini l’accesso ai propri garage.

Cassazione penale n. 1174/2020: Il reato di violenza privata ha natura istantanea e si perfeziona nel momento in cui la vittima subisce una costrizione che limita la sua libertà di scelta e di azione. Non ha rilevanza il fatto che gli effetti di tale costrizione possano perdurare nel tempo o che la persona offesa possa successivamente liberarsene.

 

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legittima difesa

Legittima difesa Legittima difesa: cos’è, quali sono i suoi presupposti, cosa è cambiato con la riforma del 2019, eccesso e giurisprudenza rilevante

Cos’è la legittima difesa

La legittima difesa, disciplinata dall’art. 52 del Codice Penale, è una causa di giustificazione che esclude la punibilità di chi commette un reato per proteggere un diritto proprio o altrui da un’aggressione ingiusta. Il principio si fonda sull’idea che la reazione difensiva sia necessaria e proporzionata all’offesa ricevuta.

Con la riforma della legittima difesa introdotta nel 2019 (L. 36/2019), il legislatore ha introdotto significative novità, soprattutto in tema di difesa domiciliare. Tuttavia, la giurisprudenza continua a giocare un ruolo cruciale nel definire i limiti tra difesa legittima ed eccesso colposo.

Definizione e disciplina (art. 52 c.p.)

L’articolo 52 del Codice Penale prevede:

“Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.”

In sintesi, per essere legittima, la difesa deve avere queste caratteristiche:

  • Necessità: non esiste un’altra via per proteggere il diritto minacciato.
  • Attualità del pericolo: la minaccia deve essere imminente e concreta.
  • Ingiustizia delloffesa: l’aggressione deve essere illegittima.
  • Proporzionalità: la reazione deve essere commisurata all’offesa subita.

Presupposti

Perché possa applicarsi la scriminante della difesa legittima, devono sussistere contemporaneamente i seguenti presupposti:

  1. Pericolo attuale di un’offesa ingiusta:
    • Il pericolo deve essere immediato e concreto. Non è sufficiente un semplice timore generico.
    • L’offesa deve riguardare un diritto proprio o altrui (vita, integrità fisica, proprietà).
  2. Necessità della difesa:
    • La difesa è legittima solo se è l’unica possibilità per evitare il danno.
    • Non devono esserci alternative come la fuga o la richiesta immediata di aiuto.
  3. Proporzionalità tra offesa e difesa:
    • La reazione deve essere adeguata e commisurata alla gravità della minaccia.
    • Non è necessario che ci sia simmetria, ma la difesa non deve essere eccessiva rispetto al pericolo.

La riforma del 2019: cosa è cambiato

Nel 2019, la Legge n. 36/2019 ha modificato l’art. 52 c.p., introducendo nuove disposizioni, soprattutto in materia di difesa domiciliare.

  1. Presunzione di legittima difesa in casa (art. 52, comma 2 e 3 c.p.)
  • È sempre considerata legittima la difesa quando l’offesa avviene nella propria abitazione.
    o in un luogo di privata dimora (es. ufficio, negozio, garage).
  • Si presume la proporzionalità della difesa se l’aggressore entra con violenza, minaccia o inganno.
  1. Esclusione della punibilità per eccesso colposo (art. 55 c.p.)
  • L’eccesso colposo (reazione sproporzionata per errore o paura) è escluso quando l’azione difensiva è avvenuta in una situazione di grave turbamento, determinata dal pericolo per la propria o altrui incolumità.

Quando c’è eccesso di legittima difesa (art. 55 c.p.)

L’eccesso colposo di legittima difesa, previsto dall’art. 55 c.p., si verifica quando la reazione:

  • È sproporzionata rispetto al pericolo.
  • Non è necessaria per evitare l’
  • È frutto di colpa (imprudenza, negligenza, errore nella valutazione del pericolo).

Esempi concreti:

  • Sparare all’aggressore in fuga, quando il pericolo è cessato.
  • Colpire mortalmente un ladro disarmato, che non rappresenta una minaccia immediata.

Riforma 2019:
In caso di grave turbamento emotivo (es. un’aggressione notturna in casa), l’eccesso colposo può essere non punibile.

La legittima difesa putativa

La legittima difesa putativa (art. 59 c.p.) si verifica quando il soggetto:

  • Crede erroneamente di trovarsi in una situazione di pericolo attuale.
  • Reagisce come se fosse necessario difendersi.

È rilevante solo se l’errore è giustificabile dalle circostanze (es. buio, rumori sospetti, contesto minaccioso).

Esempio:

Una persona spara a un intruso credendo sia armato, ma si scopre che l’aggressore era disarmato. La legittima difesa putativa potrebbe essere riconosciuta, se l’errore era oggettivamente plausibile.

Giurisprudenza sulla legittima difesa

Ecco una serie di massime della Cassazione in materia:

Cassazione, sentenza n. 49883/2019

La legge 26 aprile 2019, n. 36 ha introdotto una specifica causa di non punibilità per chi, agendo per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, si trovi in stato di minorata difesa ovvero in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto. Tuttavia, tale causa di non punibilità non è applicabile quando l’azione difensiva illecita, pur riconducibile a un eccesso colposo, non sia motivata dalla volontà di proteggere la propria o altrui incolumità, ma sia invece esclusivamente finalizzata alla difesa dei beni propri o altrui. In altre parole, se l’azione difensiva, pur viziata da un eccesso colposo, è volta a salvaguardare l’incolumità personale, essa può rientrare nella causa di non punibilità prevista dall’art. 55, co. 2, c.p., anche in presenza di uno stato di minorata difesa o grave turbamento.

Cassazione n. 37427/2020

L’attenuante della provocazione e l’esimente della legittima difesa si distinguono nonostante entrambe derivino da un’offesa ingiusta altrui. La differenza principale risiede nella necessità, per la legittima difesa, che l’offesa sia in corso al momento della reazione, mentre per la provocazione ciò non è richiesto. In particolare, la provocazione può essere riconosciuta anche quando l’offesa si è già conclusa, purché permanga nello stato d’animo dell’agente un’ira determinata da essa. Al contrario, la legittima difesa presuppone un pericolo attuale: se l’offesa è cessata, non può essere invocata. Tuttavia, se l’offesa è ancora in atto e la reazione è proporzionata, la legittima difesa risulta applicabile.

Cassazione n. 46921/2023

La legittima difesa putativa si basa sugli stessi presupposti di quella reale, con la differenza che il pericolo, anziché essere effettivo, è solo supposto dall’agente a causa di un errore nella valutazione dei fatti. Tale errore esime da responsabilità se scusabile, mentre comporta colpa ai sensi dell’art. 59 u.c. c.p. se dovuto a negligenza. In ogni caso, deve derivare da circostanze concrete che, sebbene mal interpretate, possano giustificare la convinzione di trovarsi in pericolo. Non basta, quindi, il solo stato d’animo dell’agente: l’errore deve trovare riscontro in elementi oggettivi che abbiano indotto la falsa percezione del pericolo. La legittima difesa putativa è dunque configurabile solo se l’erronea convinzione della necessità di difendersi si basa su dati reali, seppur inidonei a creare un pericolo attuale, ma tali da rendere plausibile la percezione soggettiva di una minaccia, in relazione al contesto in cui si svolge l’azione difensiva.

Casistica: quando è legittima difesa e quando no

Caso È legittima difesa? Motivazione
Spara a un ladro che entra di notte con un’arma  Sì Difesa proporzionata e pericolo attuale.
Colpisce un aggressore che lo minaccia con un coltello  Sì Necessità di difendere l’incolumità.
Insegue e spara all’aggressore in fuga  No Pericolo cessato, è eccesso colposo.
Spara per errore a una persona che credeva armata Dipende Possibile difesa putativa.
Reagisce a un’aggressione notturna in casa, colpendo mortalmente l’aggressore Sì (2019) Applicabile la presunzione di legittima difesa.

Differenze con lo stato di necessità (art. 54 c.p.)

Aspetto Legittima difesa (art. 52 c.p.) Stato di necessità (art. 54 c.p.)
Pericolo Proviene da un’aggressione ingiusta di terzi Deriva da cause naturali o situazioni indipendenti da terzi
Reazione Contro l’aggressore Può danneggiare anche soggetti innocenti
Necessità Difesa di sé o di altri Salvaguardia della propria o altrui incolumità
Esempio Difesa da un ladro armato Sfonda una porta per salvarsi da un incendio

 

 

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patteggiamento

Patteggiamento: applicazione pena su richiesta delle parti Il patteggiamento: guida completa all’applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 e seguenti del Codice di procedura penale

Il patteggiamento: art. 444 e seguenti c.p.p.

Il patteggiamento, noto formalmente come applicazione della pena su richiesta delle parti, è un rito alternativo disciplinato dagli articoli 444 e seguenti del Codice di procedura penale (c.p.p.). Questo strumento processuale consente all’imputato e al pubblico ministero di concordare una pena, evitando così il dibattimento e ottenendo benefici sia in termini di tempi sia sotto il profilo sanzionatorio. Con le modifiche normative apportate dalla Riforma Cartabia al processo penale, il patteggiamento ha subito alcuni importanti aggiornamenti

Cos’è il patteggiamento?

Il patteggiamento è un accordo tra il pubblico ministero (PM) e l’imputato, con il quale le parti propongono al giudice una pena concordata. In questo rito alternativo:

  • non si svolge il dibattimento, evitando l’assunzione di prove in aula;
  • il giudice si limita a valutare la correttezza dell’accordo, l’esistenza delle condizioni di legge e la congruità della pena;
  • in caso di accoglimento, la sentenza di patteggiamento ha gli stessi effetti di una condanna penale, pur godendo di alcune agevolazioni.

Il patteggiamento è uno strumento utile per deflazionare il carico giudiziario, garantendo celerità nei procedimenti e favorendo la rieducazione del reo attraverso l’accettazione della pena concordata.

Come si richiede

Il patteggiamento può essere richiesto:

  1. dallimputato o dal suo difensore mediante un’istanza scritta;
  2. dal pubblico ministero, che può proporre un accordo all’

L’accordo deve prevedere una pena sostitutiva o dei una pena pecuniaria ridotta fino a un terzo o una pena detentiva, quando questa tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a 1/3 non supera i 5 anni soli o congiunti a una pena di tipo pecuniario.

Procedura per la richiesta

  1. Presentazione dellistanza: l’imputato e il PM presentano congiuntamente la richiesta di applicazione della pena al giudice.
  2. Udienza di verifica: il giudice valuta:
  • la qualificazione giuridica del fatto;
    • l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti;
    • le determinazioni in merito alla confisca;
    • la congruità della pena rispetto al reato commesso.
  1. Emissione della sentenza: se il giudice ritiene fondato l’accordo, emette una sentenza di patteggiamento, che ha valore di condanna definitiva.

Per quali reati è ammesso

Il patteggiamento è ammesso per reati che prevedono pene detentive e/o pecuniarie, purché la pena concordata:

  • Non superi i 5 anni di reclusione (inclusi aumenti per la continuazione del reato e diminuzioni per attenuanti).
  • Sia combinabile con pene pecuniarie (multe, ammende).

Reati tipici oggetto di patteggiamento

  • Furto, truffa, appropriazione indebita.
  • Lesioni personali e reati contro la persona non gravi.
  • Reati in materia di stupefacenti di lieve entità (art. 73, comma 5, D.P.R. 309/1990).
  • Reati fiscali e tributari, se non gravemente lesivi dell’interesse pubblico.

Reati esclusi dal patteggiamento

Il patteggiamento non è ammesso per:

  • Reati di mafia, terrorismo o criminalità organizzata.
  • Reati di violenza sessuale aggravata, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo.
  • Reati con pene superiori ai 5 anni di reclusione (salvo applicazione di circostanze attenuanti).

Novità della riforma Cartabia

La Riforma Cartabia ha introdotto alcune modifiche al patteggiamento.

Nella richiesta di patteggiamento di cui all’art. 444 c.p.p. l’imputato e il Pm possono chiedere anche di non applicare le pene accessorie oppure di applicarle per una durata determinata, salvo eccezioni e di non ordinare la confisca oppure di disporla per specifici beni o per un importo determinato.

La sentenza pronunciata al termine del patteggiamento e anche dopo la chiusura del dibattimento non ha efficacia e non costituisce prova nei giudizi civili, disciplinari, tribunali o amministrativi, compreso quello finalizzato ad accertare la responsabilità contabile. Se poi non vengono applicate pene accessorie, non producono alcun effetto le disposizioni di leggi diverse da quelle penali, che equiparano la sentenza emessa all’esito del patteggiamento alla sentenza di condanna. Salvo eccezioni la sentenza di patteggiamento è equiparata a una pronuncia di condanna.

La volontà dell’imputato nella richiesta di patteggiamento è espressa personalmente o per mezzo di un procuratore speciale e la firma è autenticata da un notaio, dal difensore o da altro soggetto autorizzato.

Nel decreto con cui viene fissata l’udienza l’indagato viene informato della possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa.

Nell’udienza art. 447, in quella preliminare nel giudizio direttissimo e in quello immediato, se l’imputato e il Pm chiedono una pena sostitutiva, il giudice decide immediatamente, ma se non è possibile sospende il processo e fissa una udienza apposita entro 60 giorni, avvisando le parti e l’ufficio di esecuzione esterno competente.

Effetti del patteggiamento

La sentenza emessa a seguito di patteggiamento ha gli stessi effetti di una condanna, ma con alcune particolarità:

  • la pena in essa contenuta è ridotta fino a un terzo;
  • la pronuncia non costituisce precedente ostativo per l’accesso a misure alternative alla detenzione;
  • la sentenza non compare nel certificato del casellario giudiziale richiesto dai privati (eccetto per specifiche eccezioni);
  • estinzione del reato di cui all art 445 c.p.p comma 2, in assenza di recidiva nei termini temporali indicati.

Differenza tra patteggiamento e rito abbreviato

Aspetto Patteggiamento Rito abbreviato
Natura Accordo tra PM e accusato sulla pena Giudizio basato sugli atti raccolti dal PM
Riduzione della pena Fino a 1/3 1/3 sulla pena finale
Svolgimento del processo Nessuna istruttoria, solo accordo tra le parti Giudizio sommario basato sugli atti del PM
Sentenza Di applicazione della pena – di condanna (no giudizio sul merito) Di merito (accertamento dei fatti) –  di condanna o assoluzione
Effetti sul casellario Non risulta nel casellario richiesto dai privati Risulta come sentenza ordinaria
Possibilità di appello Solo ricorso per vizi formali Appellabile nei limiti dell’art. 443 c.p.p.

  

 

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bene culturale

Bene culturale: la definizione della Cassazione La Cassazione definisce il bene culturale ai fini penali, in tema di delitti contro il patrimonio culturale

Bene culturale, cosa si intende

In mancanza di una definizione legislativa di bene culturale, anche dopo l’introduzione nel codice penale dei delitti contro il patrimonio culturale (artt. 518-bis e ss. c.p.), deve ritenersi sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive del bene stesso (come la tipologia, la rarità, la localizzazione, ecc.). Questo è quanto affermato dalla terza sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 44354/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Firenze, rigettava l’istanza di riesame avverso il decreto di sequestro probatorio emesso dal Procuratore della Repubblica e avente ad oggetto una “lettera autografa” indirizzata a un vescovo del 1500, ipotizzandosi il reato di cui all’art. 518 quater c.p.

Avverso tale provvedimento, l’imputato, a mezzo dei difensori di fiducia, proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra l’altro, l’insussistenza del reato presupposto e la mancata indicazione delle ragioni per le quali la missiva costituiva “un bene mobile di interesse religioso appartenente a enti e istituzioni ecclesiastiche”.

Bene culturale secondo la giurisprudenza

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile per carenza d’interesse. Preliminarmente, però i giudici ricordano che “in mancanza di una definizione legislativa del bene culturale, la giurisprudenza ha adottato un approccio di tipo sostanziale ritenendo che l’accertamento dell’interesse culturale prescinda da un’espressa dichiarazione amministrativa reputandosi sufficiente che la ‘culturalità’ sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni (cfr., ex plurimis, n. 24988 del 16/7/2020), quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri”.
Tale orientamento, per la S.C., “appare in linea con la definizione di bene culturale che si rinviene nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali, cui la legge n. 22/2022, che ha introdotto nel codice penale gli artt. 518 bis e ss., costituisce strumento attuativo, che prescinde dalla preventiva dichiarazione di interesse culturale da parte dell’organo amministrativo”.

La Convenzione (lett. h del comma 2 dell’art. 2), inoltre riconduce alla categoria dei beni culturali i “manoscritti rari e incunaboli, libri antichi, documenti e pubblicazioni di particolare interesse (storico, artistico, scientifico, letterario, ecc.) singolarmente o in collezioni”.

La decisione

Nel caso di specie, la motivazione del Tribunale del riesame, che è giunto alla conclusione secondo cui, “a prescindere dal luogo del rinvenimento”, alla missiva consegnata ai Carabinieri può astrattamente attribuirsi la natura di “bene archivistico protetto e tutelato dalla Soprintendenza Archivistica per l’Umbria” si sottrae, quindi, alle censure difensive collocandosi nel solco segnato dal consolidato orientamento di legittimità innanzi indicato. Per cui, il ricorso è dichiarato inammissibile.

Allegati

processo penale minorile

Il processo penale minorile Il processo penale minorile in Italia: disciplina, principi ispiratori, e fasi procedurali e esiti possibili

Processo penale minorile: disciplina

Il processo penale minorile in Italia è disciplinato dal D.P.R. 448/1988, noto come Codice del processo penale minorile, e dal D.Lgs. 272/1989, che ne stabilisce le disposizioni di attuazione, coordinamento e transitorie. Questo sistema processuale è stato concepito con un approccio educativo e rieducativo, ponendo al centro il minore e la sua crescita, piuttosto che la sola punizione.

Principi fondamentali del processo penale minorile

Il processo penale minorile si basa su alcuni principi fondamentali:

Prevalenza della funzione rieducativa: l’obiettivo principale è il recupero sociale del minore, evitando la stigmatizzazione, anche nel rispetto di quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione.

Specializzazione degli organi giudiziari: la competenza, dopo la riforma Cartabia, è affidata alle sezioni distrettuali dei Tribunali per le persone, per i minorenni e per le. Famiglie, composto da magistrati e giudici onorari. Al Tribunale si affiancano altri organismi della magistratura i cui ruoli vengono integrati dai Servizi minorili.

Personalizzazione del procedimento: le decisioni devono tenere conto della personalità del minore e delle sue esigenze educative.

Minimizzazione dell’intervento giudiziario: si privilegia l’applicazione di misure alternative al processo.

Le fasi del processo penale minorile

Il processo penale minorile si sviluppa in modo simile al processo penale ordinario, attraverso fasi determinate che  possono concludersi con esiti diversi.

Indagini preliminari e misure cautelari

Le indagini preliminari nel processo minorile presentano alcune peculiarità.

Il pubblico ministero può disporre accertamenti sulla personalità del minore (art. 9 D.P.R. 448/1988).

Il minore deve essere assistito da un difensore fin dal primo atto.

Le misure cautelari devono essere adottate con estrema cautela e privilegiano soluzioni non detentive, come la permanenza in casa o il collocamento in comunità.

Udienza preliminare

L’’udienza preliminare, che nel processo minorile funge da filtro per smaltire i giudizi dibattimentali può concludersi con:

  • Sentenza di condanna a pena pecuniaria o sanzione sostitutiva su richiesta del PM,
  • Sentenza di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale o irrilevanza del fatto.
  • Messa alla prova, una misura alternativa che sospende il processo per consentire al minore di partecipare a un percorso rieducativo (art. 28 D.P.R. 448/1988).
  • Rinvio a giudizio, se vi è un quadro probatorio sufficiente.

Dibattimento e sentenza

Se il processo prosegue, perché nella fase precedente il minore non ha scelto un rito alternativo o è stato ritenuto non colpevole, si arriva alla fase dibattimentale, che si svolge con rito camerale a porte chiuse per garantire la riservatezza del minore. Le sentenze possono prevedere:

  • lassoluzione, se non viene dimostrata la colpevolezza.
  • la  condanna con misure rieducative, come la libertà vigilata o il collocamento in comunità.
  • la sospensione del processo e messa alla prova del minore, con successiva estinzione del reato in caso di esito positivo.

Le misure alternative e la messa alla prova

Uno degli strumenti più innovativi del processo minorile è la messa alla prova, che consente di sospendere il procedimento per verificare se il minore possa essere rieducato senza necessità di condanna. Se il percorso viene completato con successo, il reato viene estinto.

 

 

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