mantenimento ai figli

Mantenimento ai figli: può essere versato in ritardo Non è punibile per la Cassazione la violazione degli obblighi di mantenimento della prole se si tratta di un inadempimento occasionale

Tenuità del fatto

Mantenimento ai figli, se versato in ritardo e l’inadempimento è occasionale scatta la causa di non punibilità. Questo quanto emerge dalla sentenza n. 21068/2024 con cui la sesta sezione penale della Cassazione ha accolto il ricorso di una donna condannata in appello per il reato di cui all’art. 570-bis c.p.

La vicenda

Avverso tale sentenza, la ricorrente adiva il Palazzaccio lamentando travisamento della prova da parte della corte territoriale che aveva negato la produzione della documentazione attestante l’adempimento tardivo, dalla quale emergeva che la ricorrente aveva versato gli assegni di mantenimento in precedenza rimasti inadempiuti, provvedendo anche al regolare adempimento per le scadenze successive.
Sostiene la difesa che copia di tutti i bonifici era stata depositata alle udienze dibattimentali, sicchè il giudice di appello era incorso in un palese travisamento della prova, avendo ritenuto che la prova documentale non era stata mai prodotta in giudizio.
Con il secondo motivo, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’esclusione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, sottolineando come la Corte d’appello era stata fuorviata dal fatto di non aver riconosciuto l’adempimento tardivo, a fronte del quale le gravità della condotta avrebbe sicuramente meritato una diversa considerazione.

Produzione documentale

Per la S.C. il ricorso è fondato.
In relazione al primo motivo, a fronte della puntuale indicazione della produzione documentale, la Corte d’appello ha totalmente omesso l’esame della questione, limitandosi ad affermare che si trattava di una mera deduzione difensiva e senza verificare e confutare il dato specifico allegato dalla ricorrente. Per cui, nella specie, “il giudice di appello è incorso in un vizio di motivazione apparente, posto che a fronte della specificità del motivo dedotto in appello, la negazione della circostanza avrebbe reso necessaria l’esposizione delle ragioni per cui non poteva ritenersi fornita la prova documentale, procedendo in primo luogo alla verifica dell’effettività della produzione e, in caso di positivo riscontro, alla valutazione nel merito della documentazione”.
Tali doverosi passaggi sono stati del tutto pretermessi, “il che – proseguono i giudici – inficia di per sé la tenuta della motivazione, soprattutto ove si consideri la necessità di valutare la gravità e rilevanza dell’inadempimento”.
Secondo la più recente giurisprudenza, infatti, “la condotta incriminata dall’art. 570-bis cod. pen. non è integrata da qualsiasi forma di inadempimento civilistico, ma necessita di un inadempimento serio e sufficientemente protratto, o destinato a protrarsi, per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla entità dei mezzi economici che il soggetto obbligato deve fornire (Sez.6, n. 47158 del 20/10/2022, Rv. 284023)”.

Particolare tenuità del fatto

L’omessa valutazione del tardivo adempimento incide direttamente anche sull’ulteriore profilo dedotto dalla ricorrente, relativo al mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto.
“La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. – ricordano dalla S.C. – è applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, a condizione che l’omessa corresponsione del contributo al mantenimento abbia avuto carattere di mera occasionalità (Sez.6, n. 5774 del 28/1/2020, Rv. 278213)”.
L’applicazione di tale principio al caso di specie, imponeva, dunque, “la necessaria verifica della dedotta corresponsione, sia pur tardiva, degli assegni di mantenimento stabiliti in favore della prole, al fine di verificare se le concrete modalità della condotta potessero o meno dar luogo all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen.”.
Anche con riguardo a tale profilo, pertanto, concludono gli Ermellini, “si rende necessario l’annullamento con rinvio, al fine di integrare le lacune valutative e motivazioni in cui è incorsa la sentenza impugnata”.

Allegati

spid obbligatorio

Spid obbligatorio per accedere a siti porno e scommesse Spid obbligatorio dal 2025 per verificare l’età degli utenti che accedono a siti di contenuti pornografici, scommesse o giochi d’azzardo

Dal 2025 Spid obbligatorio per accedere a siti porno e scommesse

Dal 2025 Spid obbligatorio per verificare l’età degli utenti che accedono a siti pornografici, di giochi e di scommesse.

L’Agcom ha infatti  comunicato di aver approvato nel corso della seduta del 24 settembre 2024 uno schema di decreto per accertare la maggiore età di coloro che accedono a determinati contenuti online. Il provvedimento, ancora in bozza, contiene le linee guida per la tutela dei minori in attuazione di alcune disposizione contenute nel decreto Caivano. Si tratta infatti di contenuti potenzialmente dannosi per lo sviluppo psico fisico dei più giovani.

Spid obbligatorio, ma non solo

Il testo predisposto è il frutto della collaborazione di Agcom con diverse associazioni di consumatori, piattaforme e il Garante della Privacy.

Esso stabilisce che i siti di contenuto pornografico, così come quelli dedicati ai giochi d’azzardo e alle scommesse, saranno obbligati a verificare la maggiore età degli utenti che vi faranno accesso.

Per accertare che l’utente abbia compiuto effettivamente la maggiore età si potrà utilizzare lo Spid. Questo sistema di autenticazione però non è l’unico strumento utilizzabile.

Agcom infatti lascia liberi fornitori di scegliere il sistema di verifica dell’età degli utenti. Alcuni potrebbero utilizzare il futuro l’IT Wallet, altri la Carta di identità elettronica, già impiegata per accedere a molti servizi della Pubblica Amministrazione.

Il metodo utilizzato, qualunque esso sia, dovrà rispettare però la privacy e la sicurezza dell’utente.

E’ anche possibile che i fornitori sviluppino metodi propri come applicazioni o altro. L’importante, anche in questo caso, è che vengano rispettate le regole fissate da Agcom e dal Garante della Privacy.

Tutela del minore: Digital service Act

Il provvedimento, che deve essere ancora sottoposto al vaglio della Commissione Europea, attua in sostanza anche quanto previsto dal Digital Service Art ossia il Regolamento UE 2022/2065.

L’art 28 dedicato alla protezione online dei minori, dispone che i fornitori di piattaforme online a cui possono accedere i minori debbano adottare misure adeguate e proporzionate per tutelare la loro vita privata e la loro sicurezza. I fornitori non devono presentare nell’interfaccia pubblicità basate sulla profilazione, se sono consapevoli che l’utente destinatario del servizio è un minorenne.

L’articolo 35 invece, sull’attenuazione dei rischi, prevede che i fornitori di piattaforme online di grandi dimensioni debbano adottare misure di attenuazione dei rischi ragionevoli, efficaci e proporzionate, che devono comprendere, se opportuno “j) l’adozione di misure mirate per tutelare i diritti dei minori, compresi strumenti di verifica dell’età e di controllo parentale, o strumenti volti ad aiutare i minori a segnalare abusi o ottenere sostegno, a seconda dei casi.” 

Il Regolamento però tutela i minori anche nei considerando che fanno da premessa agli articoli.

Nel considerando n. 12 del Regolamento, ad esempio, tra le attività illegali che si possono compiere online compaiono anche  “la condivisione di immagini che ritraggono abusi sessuali su minori.”

Nel considerando n. 40 invece i minori sono tra i destinatari degli obiettivi di sicurezza e fiducia degli destinatari del servizio.

Si tratta di specificazioni del considerando n. 71 che tratta il tema specifico della tutela dei minori, precisando che: “I fornitori di piattaforme online utilizzate dai minori dovrebbero adottare misure adeguate e proporzionate per proteggere i minori, ad esempio progettando le loro interfacce online o parti di esse con il massimo livello di privacy, sicurezza e protezione dei minori per impostazione predefinita, a seconda dei casi, o adottando norme per la protezione dei minori, o aderendo a codici di condotta per la protezione dei minori.”

 

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reato di stalking

Il reato di stalking Il fenomeno dello stalking: nozione, natura, fondamento della riforma, elementi strutturali del reato, procedibilità

Stalking: terminologia e definizione

Reato di stalking: con il termine inglese «stalking» vengono indicate una serie di azioni, ripetute nel tempo, che hanno caratteri di sorveglianza e di controllo, di ricerca di contatto e/o di comunicazione e che suscitano nel destinatario ansia, preoccupazione e timore.

Il termine, privo di un esatto corrispettivo nella lingua italiana, in inglese ha origine venatoria ed è particolarmente efficace nel descrivere il comportamento, tipico del cacciatore, del seguire, braccare e cacciare una preda.

Al di fuori dell’ambito venatorio, esso indica quei comportamenti molesti, o addirittura francamente persecutori, descritti anche in ambiti diversi da quello delle relazioni di coppia (si veda ad esempio, il noto fenomeno dello star-stalking). Quelli tipicamente più gravi e oggetto di maggiore attenzione sono, tuttavia, quelli messi in atto da ex partner a seguito dell’interruzione di una relazione intima; nel caso specifico questi comportamenti si inscrivono, spesso, in una vera e propria patologia della relazione in cui il «persecutore», che non è riuscito a elaborare la separazione e il lutto della perdita, persiste nel tentativo di entrare in contatto con l’ex partener e/o di spiare e controllare la sua vita.

Fanno tipicamente parte di questi comportamenti molesti, e configurano quindi il fenomeno dello stalking, le richieste ripetute e insistenti di parlare o di avere appuntamenti con l’ex partner, l’invio di lettere, messaggi, telefonate o regali indesiderati, il seguire e controllare gli spostamenti del partner, gli appostamenti sotto casa, fuori dal lavoro o da scuola. Si tratta di comportamenti che di per sé potrebbero anche non configurarsi come reati. Ai fini della configurazione del reato di stalking ciò che li rende minacciosi e persecutori è il fatto di essere ripetuti, insistenti e indesiderati al punto da spaventare la vittima che ne è oggetto.

Lo stalking è stato inquadrato negli studi di psicologia anche come sindrome del molestatore assillante: si tratta di una definizione che risale al 1912: fu uno studioso francese, Gaetan Gratian de Clérambault , che parlò di questa sindrome ed in particolare descrisse l’erotomane come individuo affetto da delirio erotico mosso da gelosia.

Abbiamo studi molto sedimentati sullo stalking, anche in Italia, ad esempio il Modena Stalking Group, che non è un complesso musicali, ma è un gruppo di associazioni che sono raccordate tra loro e che da tempo si occupano in generale della violenza contro le donne ed in particolare del fenomeno dello stalking . In una delle ultime pubblicazioni del Modena Stalking Group, sono contenuti una serie di contributi da parte studiosi di scienze psichiatriche i quali descrivono il comportamento dello stalker che può essere veramente il più vario: si va dal pedinamento al furto d’identità della persona offesa, all’ordinare per suo conto e in suo nome beni oppure lo screditamento della persona sul luogo di lavoro fino a comportamenti più violenti; c’è tutta una escalation di violenza che va dalle lettere minatorie all’uccisione degli animali domestici, alle minacce verso i familiari, insomma c’è una gamma veramente infinita di comportamenti, non necessariamente tra loro omogenei e non necessariamente di per sé costituenti reato.

Il fenomeno dello stalking in tempi più ravvicinati è stato conosciuto soprattutto per la notorietà delle vittime, spesso si tratta di personaggi del mondo dello spettacolo; così, ad esempio, David Caruso l’attore più conosciuto della serie televisiva americana CSI, nella quale interpreta l’investigatore di polizia Horatio Caine. È rimasto vittima di ripetute molestie da parte di una fan di nazionalità austriaca, che poi venne condannata a sette mesi di prigione dal tribunale di Innsbruck. A questa decisione si è arrivati dopo che la presunta fan aveva inviato 120 lettere, tra cui una in cui lo minacciava di morte semplicemente perché Caruso non le aveva rilasciato un autografo. Ed infatti la California è il primo Stato che si è dotato di una legislazione antistalking nel 1990, poi, mano mano, tutti gli altri Stati si hanno adottato analoghe previsioni legislative anche in Europa.

Le dimensioni del fenomeno

Dall’indagine multiscopo «Sicurezza delle donne» condotta dall’ISTAT, emerge che nel nostro Paese le donne che hanno subito comportamenti persecutori dal marito, dal convivente o dal fidanzato quando si stavano separando da lui o dopo la separazione sono 2 milioni 77 mila.

Su base nazionale risulterebbe che circa il 20% delle donne hanno subito, almeno una volta nella vita, persecuzioni assimilabili allo stalking. Questo dato è confermato dal Centro antipedinamento di Roma secondo cui nella sola capitale il 21% della popolazione è stata vittima, almeno una volta nella vita, di stalking. Questi dati, ci danno ovviamente un quadro generale della situazione; è importante infatti considerare il cosiddetto «numero oscuro», ossia di tutti i casi in cui la molestia assillante non è stata segnalata alle autorità o denunciata.

I volontari dell’Osservatorio Nazionale Stalking (ONS) hanno monitorato 14 regioni, somministrando ed analizzando 8.400 questionari. L’analisi delle variabili socio demografiche ha evidenziato un’assoluta trasversalità del fenomeno. Nello specifico, anche questa analisi conferma l’importante, e per certi versi allarmante, dato sull’incidenza dello stalking sulla popolazione femminile italiana.

Le ragioni di una riforma: inadeguatezza normativa preesistente

Da più parti era avvertita la necessità di adeguare il nostro ordinamento alla realtà dei rapporti sociali ed interpersonali conseguenti all’evoluzione della società italiana.

In particolare sia da parte del mondo dei giuristi (dottrina e giurisprudenza) sia da parte di associazioni varie di cittadini è stato rilevato che alcuni comportamenti particolarmente odiosi ed invasivi dell’altrui sfera privata non sono adeguatamente sanzionati.

Ci si riferisce a vari atteggiamenti tenuti da soggetti i quali per i più svariati motivi turbano la tranquillità privata delle persone attraverso atti di molestia compiuti anche con mezzi telematici o informatici.

L’inadeguatezza dell’attuale normativa si evince chiaramente dalla lettura della vigente norma sanzionatoria prevista dal codice penale all’art. 660 il quale sotto la rubrica della molestia o disturbo alle persone punisce alcuni comportamenti che debbono presentare alcuni anacronistici requisiti sotto il profilo soggettivo determinati dalla petulanza o altro biasimevole motivo, e sotto il profilo oggettivo dall’essere commessi in luogo pubblico o aperto al pubblico.

Così è stata ravvisata dalla giurisprudenza per esempio la molestia di cui all’art. 660 c.p.:

  • in un continuo e pressante tallonamento con la vettura da parte dell’autore del reato nei confronti del veicolo della vittima;
  • le proposte di appuntamenti galanti non gradite dall’interlocutrice chiamata da un anonimo per telefono;
  • un pedinamento puro e semplice;
  • il continuo e insistente corteggiamento di una donna, chiaramente non gradito;
  • colui che assillando la parte offesa con ossessivi riferimenti alle abitudini sessuali di questa compie una serie di telefonate dal tono confidenziale;
  • azioni di disturbo ravvisate nella condotta dell’ex fidanzato della persona offesa, che rivolge frasi e atteggiamenti di corteggiamenti per ore, intrattenendosi alla presenza di altri avventori all’interno di un locale pubblico dove la stessa lavorava.

La stessa collocazione della norma tra le contravvenzioni, la previsione punitiva di questa (arresto fino a 6 mesi o ammenda fino a 516 euro), l’inserimento tra le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica, rendono la fattispecie punitiva assolutamente desueta.

La norma di cui all’art. 660 c.p. in realtà ha una dimensione e una ispirazione assolutamente illiberale e poliziesca, privilegiando la tutela dell’ordine pubblico; occorre, invece, modificare la scala dei valori, privilegiando il principio personalistico: in sostanza non è la tutela della persona che deve porsi come strumento per assicurare l’ordine e la tranquillità alla collettività ma al contrario è la garanzia della tranquillità a livello collettivo che deve assicurare il verificarsi delle condizioni necessarie e preliminari al godimento della tranquillità personale.

Altri delitti che venivano utilizzati per sanzionare le condotte oggi punite come atti persecutori erano la violenza privata e il reato di minaccia, delitti per loro natura istantanei, non sempre tuttavia configurabili nelle condotte di stalking, perché se noi lo esaminiamo dal punto di vista fattuale il comportamento dell’autore di atti persecutori può essere il più vario e il più disomogeneo e non necessariamente i singoli atti debbono o possono costituire reato ai sensi delle vecchie norme (artt. 612, 610, 594, 595 c.p.).

Il rafforzamento della tutela, allo stato insufficiente, va inquadrato in un più ampio discorso che presuppone la rimeditazione dei principi e degli strumenti di tutela della vita privata e della riservatezza della persona in un contesto caratterizzato, come quello attuale, da molteplici possibilità di aggressione: si pensi, per esempio, al grado di penetrazione nell’intimità personale che si attua attraverso le risorse informatiche. Di qui la necessità di riaffermare, con forza, il diritto di ogni persona a non subire, nel contatto con gli altri, interferenze tali che alterino in modo rilevante la sua tranquillità personale e la sfera di vita privata senza essere sorrette da esigenze di ordine sociale.

In buona sostanza si tratta di garantire a ciascuno la possibilità di filtrare e selezionare il contatto con gli altri rispetto ad alcune manifestazioni gratuite, fastidiose o superflue che spesso si è costretti a subire.

Legislazione italiana: il D.L. n. 11/2009, convertito in l. n. 38/2009

L’art. 7 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, ha introdotto nel codice penale, tra i delitti contro la libertà morale, il nuovo delitto di atti persecutori, collocato dopo l’art. 612 c.p. Il cd. stalking, si sostanzia in un comportamento reiterato consistente in minacce o molestie. Scopo dichiarato della nuova fattispecie è quello di evitare che i comportamenti persecutori possano degenerare in fatti ben più gravi (quali la violenza sessuale e l’omicidio), se non tempestivamente controllati e ridimensionati. La norma ha carattere residuale: essa, infatti non troverà applicazione qualora nei fatti sia configurabile un reato più grave.

La nuova legge in materia di atti persecutori costituisce un sistema integrato di tutela, in quanto la tematica dello stalking viene trattata non soltanto dal punto di vista del diritto penale sostanziale, ma il legislatore ha creato un vero e proprio microsistema integrato di tutela, perché accanto alle norme di diritto penale sostanziale, e cioè all’art. 612bis c.p., ha previsto anche una serie di norme procedurali, per esempio:

  • introducendo una nuova figura di misura cautelare all’art. 282ter c.p.p.;
  • ha previsto una serie di facilitazioni per l’assunzione della prova, in particolare per quanto riguarda l’incidente probatorio;
  • ha previsto un sistema anche di prevenzione attraverso la procedura di ammonimento, che è un atto amministrativo del Questore;
  • ha previsto una serie di norme a tutela della vittima attraverso oneri e obblighi di informazione e di sostegno anche socio-sanitario nei confronti della vittima;
  • ha previsto infine una tutela di natura civilistica attraverso l’ampliamento degli ordini di protezione.

L’oggetto giuridico della tutela

Il delitto previsto dall’art. 612bis c.p. rientra tra i reati contro la persona ed in particolare tra i delitti contro la libertà morale.

Il concetto di tranquillità personale

Il concetto di tranquillità personale, che costituisce l’oggetto giuridico che tutela la nuova fattispecie delittuosa, va qui precisamente delineato: esso riflette la personalità del singolo nel momento statico di chiusura agli altri a fronte di quelle interferenze e intrusioni che legittimano la chiusura del soggetto e il rispetto del suo diritto a non essere aggredito nella propria solitudine.

È fin troppo ovvio che tale concetto presuppone il riconoscimento della possibilità di scelta e di selezione dei condizionamenti esterni e si pone come estrinsecazione della personalità individuale garantendo alla stessa l’isolamento da influenze perturbatrici.

È evidente che la lesione o messa in pericolo della tranquillità personale può sfociare in una aggressione alla libertà individuale, personale o morale del soggetto stesso, violando il processo di autodeterminazione del singolo ovvero, in casi estremi, può addirittura risolversi in un attentato alla sua integrità psicofisica.

Sulla scorta di questi principi teorici il D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009 ha introdotto all’art. 612bis c.p. una nuova fattispecie di reato che, sul piano più strettamente concreto tutela il singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita procurando spesso ansie, preoccupazioni, paure, che le attuali norme non sono idonee a prevenire.

A mero titolo di esempio si possono ricordare i tanti atteggiamenti tenuti da soggetti un tempo legati da vincoli affettivi poi venuti meno successivamente (relazioni sentimentali interrotte, convivenze di fatto allorché uno dei due soggetti non voglia più continuare il precedente rapporto ecc.).

La natura plurioffensiva del reato di atti persecutori

Molestie gravi possono provenire anche da rapporti di vicinato o dai nuovi rapporti telematici ed informatici; si pensi, ad esempio, all’invasione dei messaggi di posta elettronica o ai social media (facebook, tik-tok, instagram ecc.) spesso non graditi sulle proprie utenze cellulari (s.m.s., m.m.s, whatsapp ecc.). Si tratta di nuovi comportamenti antisociali rispetto ai quali la tutela finora prestata non appare adeguata alle nuove esigenze di riservatezza e di tranquillità come dianzi precisati. È evidente che noi abbiamo diritto di scegliere con chi avere rapporti, abbiamo un diritto ad autodeterminarci e di selezionare con chi avere rapporti e con chi non averli. Questa è la frontiera del diritto nella società moderna.

Il reato di stalking offende proprio questo bene giuridico, cioè mette in discussione la mia possibilità di scegliere con chi avere contatti, con chi avere rapporti, quindi tutela il diritto di ogni persona a non subire nel contatto con gli altri interferenze tali che alterino in modo rilevante la sua tranquillità personale e la sfera di vita privata senza essere sorrette da esigenze di ordine sociale. Ciascuno quindi deve avere il diritto di filtrare e selezionare il contatto con gli altri, escludendo tutte le manifestazioni con le quali non voglia ovviamente avere contatti. Non è dunque soltanto – a badarci bene – il concetto della libertà morale, ma occorre far riferimento anche ai concetti di riservatezza e, in casi estremi, anche a quello di incolumità personale, e ciò in quanto la condotta può estrinsecarsi anche in minacce alla incolumità della persona offesa o dei suoi familiari o delle persone a lei legate da vincoli affettivi.

Possiamo allora concludere che il reato in esame abbia natura plurioffensiva in quanto diversi sono i beni protetti seppure tutti riconducibili ai diritti della personalità

Il nuovo delitto previsto dall’art. 612bis c.p.

La norma in esame punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Soggetto attivo

Sotto il profilo criminologico lo stalker è una persona che non riesce ad accettare l’abbandono del partner o di altra figura significativa e che cerca di ristabilire il rapporto interrotto, oppure un individuo che nutre un rancore per una causa estranea ad un rapporto affettivo, ma dovuta ad un altro tipo di rapporto (di lavoro, professionale ecc.). In altri casi lo stalker è un molestatore sessuale, che individua l’oggetto del suo desiderio nella vittima (anche sconosciuta) ed effettua una serie di tentativi di approccio.

In ogni caso trattasi di delitto comune che può essere commesso da chiunque.

Il reato di atti persecutori può essere commesso anche da una pluralità di soggetti in concorso fra loro. La Giurisprudenza della Cassazione ha, infatti, stabilito che in tema di atti persecutori, ai fini della sussistenza del concorso di persone nel reato, ha rilevanza il comune movente, che pur essendo estraneo alla nozione di dolo, lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti persecutori e la sua dimensione plurisoggettiva, intesa come volontà comune di concorrere nel reato. (Fattispecie in cui il contributo di ciascuno degli imputati, componenti del medesimo nucleo familiare, alla realizzazione delle condotte criminose era originato dal comune risentimento nutrito nei confronti delle persone offese per le infamanti accuse mosse contro uno di essi) (Sez. 5, sent. 2675 del 24-1-2022 (ud. 18-10-2021) rv. 282772-01).

Soggetto passivo

Soggetto passivo del delitto di atti persecutori può essere chiunque; il delitto può essere commesso ai danni di più persone e non necessariamente la vittima dei comportamenti minacciosi coincide con la vittima dello stalking.

Integra il delitto di atti persecutori (art. 612bis c.p.), la condotta di colui che compie atti molesti ai danni di più persone, costituendo per ciascuna motivo di ansia, non richiedendosi, ai fini della reiterazione della condotta prevista dalla norma incriminatrice, che gli atti molesti siano diretti necessariamente ad una sola persona, quando questi ultimi, arrecando offesa a diverse persone di genere femminile abitanti nello stesso edificio, provocano turbamento a tutte le altre (Sez. 5, sent. 20895 del 25-5-2011 (ud. 7-4-2011) rv. 250460).

Integra il delitto di atti persecutori il porre in essere una condotta minacciosa o molesta nei confronti di soggetti diversi dalla vittima, ancorché ad essa legati da un rapporto qualificato, ove l’autore del fatto agisca nella consapevolezza che la stessa certamente sarà posta a conoscenza della sua attività intrusiva e persecutoria, volta a condizionarne indirettamente le abitudini di vita così da determinare, quale conseguenza voluta, l’impossibilità o, comunque, la difficoltà per la persona offesa di trovare un lavoro o di frequentare un determinato luogo.

Le condotte moleste possono essere dirette verso soggetti che siano legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, da intendersi non in senso formale, ma come idoneità della relazione interpersonale, secondo l’id quod plerumque accidit, a giustificare il verificarsi dell’evento di danno anche nei riguardi della persona offesa (Sez. 5, sent. 43384 del 26-10-2023 (ud. 16-10-2023) rv. 285271-01).

Qualora gli atti persecutori siano posti in essere nei confronti di più soggetti passivi, si configura una pluralità di reati, eventualmente unificati dalla continuazione, atteso che le condotte determinano differenti eventi e offendono distinte vittime.

Natura: reato abituale

A proposito del concetto di reiterazione, molti autori hanno qualificato nelle prime note di commento gli atti persecutori come reato abituale; in realtà si può avanzare qualche dubbio sulla piena coincidenza fra i concetti di reiterazione e di abitualità, perché l’abitualità presuppone una pluralità di azioni (più di due) che si attuino in un tempo ben definito, ben determinato .

Se noi guardiamo le altre legislazioni, nessuna fa cenno a quante volte debba reiterarsi la molestia o la minaccia, ad eccezione della normativa inglese, la quale prevede che siano sufficienti almeno due episodi perché si verifichi il reato di stalking.

Uno studio abbastanza serio ed importante del gruppo di Mullen e Pathé sulla sindrome del molestatore assillante ha invece ritenuto che deve trattarsi di atti ripetuti per almeno 10 volte e perduranti nello spazio di tempo di almeno 4 settimane, e che tali atti devono consistere in sgraditi tentativi di avvicinarsi o di comunicare con la vittima .

La giurisprudenza, invece, non ha dubbi circa la natura abituale del reato. Secondo la Suprema Corte di cassazione si tratta di un reato abituale, che si caratterizza proprio per la ripetitività della condotta e che trova proprio in questa la ragione di una autonoma incriminazione rispetto ai singoli episodi di minaccia, molestie o di violenza privata, perché è in essa che si manifesta l’offesa penale. Ad avviso, peraltro, della costante giurisprudenza della Cassazione (da ultimo, Cass. V, 19-7-2018, n. 33842) integrano il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612bis c.p. anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la «reiterazione» richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. Deve, dunque, escludersi che tale delitto, proprio in quanto necessariamente abituale, sia configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia, neppure unificando o ricollegando la stessa ad episodi pregressi oggetto di altro procedimento penale attivato nella medesima sede giudiziaria, atteso il divieto di bis in idem (Cass. V, 20-11-2014, n. 48391).

È configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Cass. V, 15-9-2016, n. 38306).

Il delitto di atti persecutori è, altresì, configurabile anche quando le condotte di violenza o minaccia integranti la «reiterazione» criminosa siano intervallate da un prolungato lasso temporale (Cass. V, 4-8-2021, n. 30525).

Integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di «sms» e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti «social network» (ad esempio «facebook»), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, sent. 32404 del 30-8-2010 (cc. 16-7-2010) rv. 248285).

Elemento oggettivo: la condotta

La condotta può consistere nella minaccia o molestia che può avvenire in qualsiasi modo anche, ad esempio con mezzi telematici o informatici, al cui abuso possono conseguire nuove forme di pesanti interferenze nella vita privata. Rientrano sotto la tutela della norma anche quella vastissima area di illeciti che vengono oggi commessi a mezzo del telefono (si pensi, ad esempio, agli SMS, agli MMS o all’avvento dei video telefoni o comunque dei messaggi visivi), ovvero ancora alle molestie che attraverso la rete di internet e i vari social network (facebook, twitter, istagram) si attuano con relativa violazione della privacy. Peraltro non vi dovrebbero essere problemi di duplicazione di norme in quanto gli attentati previsti dall’art. 615bis c.p. (Interferenze illecite nella vita privata) tutelano l’inviolabilità del domicilio ma non quello della persona. Infatti l’art. 615bis c.p. riguarda l’indebita acquisizione o divulgazione di notizie sulla vita privata, ma non le molestie o il disturbo arrecati al soggetto, indipendentemente da tali acquisizioni o divulgazioni.

Minaccia

Per il concetto di minaccia si rinvia all’ampia produzione dottrinaria e giurisprudenziale formatasi in ordine alla previsione dell’art. 612 c.p. Si riportano di seguito alcune massime esplicative della interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Suprema Corte al concetto di minaccia.

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 612 c.p. minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole o da altri per lui nella persona o nel patrimonio (Cass. 12-8-1986, n. 8275).

Il delitto di minaccia può attuarsi con qualsiasi mezzo o comportamento idoneo a incutere timore, senza che sia necessario l’uso di parole intimidatorie (Cass. 5-10-1982, n. 8627).

Sussiste il reato di cui all’art. 612 c.p. anche se le minacce non sono rivolte direttamente al soggetto passivo, ma a persona a lui legata da relazioni di parentela, di amicizia e di lavoro, con la certezza che di esse egli venga a conoscenza. (Fattispecie relativa a ritenuta sussistenza del reato, ritenuta inaccoglibile la tesi difensiva fondata sul rilievo che, non essendo state percepite le frasi minacciose direttamente dalla persona offesa, bensì dalle sue impiegate e per via telefonica, sarebbe venuta meno ogni loro carica intimidatrice) (Cass. 24-6-1985, n.  6289).

Per la sussistenza del delitto di minaccia non è sufficiente la prospettazione di un male futuro, essendo altresì necessario che il verificarsi del detto male dipenda dalla volontà dell’agente. (Nella fattispecie, la Corte ha escluso che potesse ravvisarsi minaccia nelle parole dell’imputato, il quale si era limitato ad affermare che il figlio aveva problemi psichici e che aveva «preso una fissazione» per la persona offesa, contro la quale avrebbe anche potuto puntare un coltello) (Cass. 11-6-1999, n. 7571).

Ai fini della configurazione del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, essendo solo necessario che questa sia venuta a conoscenza anche tramite altre persone, a condizione che ciò avvenga in un contesto per il quale si ritenga che l’agente abbia avuto la volontà di produrre l’effetto intimidatorio. (Fattispecie in cui la minaccia sia stata pronunciata a persona legata al soggetto passivo da relazioni di amicizia e lavoro) (Cass. 22-9-2003, n. 36353).

In tema di minaccia, anche un mero comportamento può presentare i connotati della minaccia, in quanto, da un lato, la condotta si inserisca in un contesto reiterato di espressioni di inequivoco contenuto minaccioso e, dall’altro, esso risulti oggettivamente caratterizzato da atteggiamenti marcatamente minacciosi (Nella specie, l’agente sostava lungamente con l’autovettura sotto l’abitazione della vittima e, sporgendosi dal finestrino, la chiamava a gran voce affinché fosse sentito da tutto il vicinato) (Cass. 12-12-2004, n. 556).

Ai fini della configurabilità del reato di minaccia (art. 612 c.p.), si richiede la prospettazione di un male futuro ed ingiusto – la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente – che può derivare anche dall’esercizio di una facoltà legittima la quale, tuttavia, sia utilizzata per scopi diversi da quelli per cui è tipicamente preordinata dalla legge; non è, peraltro, necessario che il bene tutelato dalla norma incriminatrice sia realmente leso, essendo sufficiente che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale (Cass. 6-2-2004, n. 4633).

Anche le frasi intimidatorie pronunziate in forma condizionata integrano il delitto di minaccia, a meno che l’intimidazione, espressa in detta forma, sia intesa non già a restringere la libertà psichica del minacciato, bensì a prevenire un’azione illecita del medesimo, rappresentandogli tempestivamente quale reazione legittima il suo comportamento potrebbe determinare (Cass. 3-5-1973, n. 3338).

Non integrano il delitto di minaccia le locuzioni intimidatrici espresse in forma condizionata quando siano dirette, non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, ma a prevenirne un’azione illecita o inopportuna e siano rappresentative della reazione legittima determinata dall’eventuale realizzazione di dette azioni. (In applicazione di questo principio la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha escluso che l’espressione «se vedi Attilio digli che se si appoggia alla mia macchina in modo provocatorio io l’ammazzo» integri il delitto di minaccia, avuto riguardo al contesto in cui era stata proferita concernente soggetti adusi ad utilizzare messaggi convenzionali, tali da escludere la serietà della frase minatoria, costituente una sorta di avvertimento condizionato alla ostentazione di un comportamento provocatorio) (Cass. 20-7-2007, n. 29390).

Molestie

Per quanto riguarda le molestie in particolare un aiuto alla ampia casistica della giurisprudenza ci viene anche dal nostro ordinamento europeo che seppure il più delle volte non in maniera tassativa, precettiva per il nostro ordinamento statuale, ha comunque adottato sul tema una sorta di catalogo definitorio.

In particolare il Consiglio, nella delibera, la numero 2006/54 della Comunità Europea, a proposito dell’attuazione del principio di pari opportunità e di parità di trattamento tra uomini e donne ha dato una definizione sia delle molestie che delle molestie sessuali, ritenendo che per molestia si intende una situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona, avente lo scopo di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

Per molestia sessuale invece si intende la situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Quanto, invece al concetto di molestia, si riportano di seguito alcuni orientamenti giurisprudenziali formatisi in sede di interpretazione dell’art. 660 c.p.

Ai fini della sussistenza del reato previsto dall’art. 660 c.p., la molestia o il disturbo devono essere valutati con riferimento alla psicologia normale media, in relazione cioè al modo di sentire e di vivere comune. Nell’ipotesi in cui il fatto sia oggettivamente molesto o disturbatore è pertanto irrilevante che la persona offesa non abbia risentito alcun fastidio. (Nella specie trattavasi di continuo e pressante tallonamento con la vettura da parte dell’autore del reato nei confronti del veicolo della vittima) (Cass. 24-9-1984, n. 7355).

Nella generica dizione di cui all’art. 660 c.p. «col mezzo del telefono» sono compresi anche la molestia e il disturbo recati con altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza (citofono ecc.) (Cass. 30-6-1978, n. 8759).

Ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), integrano la condotta ivi prevista le proposte di appuntamenti galanti non gradite dalla interlocutrice chiamata da un anonimo per telefono e, pertanto, palesemente rivolte a molestare le persone (Cass. 25-11-1992, n. 11336).

Il fatto del pedinamento, puro e semplice, non basta ad integrare gli estremi dell’azione molesta punita dall’art. 660 c.p., anche se interferisce nell’altrui sfera di libertà e pure se non è gradito alla persona che lo subisce. Per rientrare nella previsione della fattispecie legale il pedinamento, infatti, deve concretarsi in un’azione pressante, indiscreta e impertinente (Cass. 2-10-1978, n. 11846).

Il continuo, insistente corteggiamento, chiaramente non gradito, di una donna, che si estrinsechi in ripetuti pedinamenti e in continue telefonate, realizza non solo l’elemento materiale del reato di cui all’art. 660 c.p., ossia «la molestia», ma altresì la sua componente psicologica, in quanto la relativa condotta è rivelatrice di «petulanza» oltreché di «motivo biasimevole» (Sez. 1, sent. 6905 dell’11-6-1992 (ud. 28192) rv. 190546).

Il reato di molestie telefoniche commesso assillando la parte lesa con ossessivi riferimenti alle abitudini sessuali di questa non è escluso dal fatto che l’interlocutore (nel caso di specie una donna) assuma con il molestatore, al fine di raccogliere elementi utili per individuare l’autore delle telefonate, un tono confidenziale rivolgendogli del tu e consentendo a questi di fare altrettanto poiché tale comportamento non può essere interpretato come di acquiescenza o comunque attenuare nell’autore delle molestie la consapevolezza della illiceità della propria condotta (Cass. 25-1-1997, n. 512).

La disposizione di cui all’art. 660 c.p. punisce la molestia commessa col mezzo del telefono, e quindi anche la molestia posta in essere attraverso l’invio di short messages system (SMS) trasmessi attraverso sistemi telefonici mobili o fissi, i quali non possono essere assimilati a messaggi di tipo epistolare, in quanto il destinatario di essi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza l’obiettivo di recare disturbo al destinatario (Cass. 17-2-2004, n. 28680).

La pluralità di azioni di disturbo costituisce elemento costitutivo del reato di cui all’art. 660 c.p. e non può, quindi, essere riconducibile all’ipotesi di reato continuato (Cass. 24-3-2004, n. 14512).

Integra il reato di molestie, la condotta di continuo ed insistente corteggiamento, che risulti non gradito alla persona destinataria, in quanto tale comportamento è oggettivamente caratterizzato da petulanza. (Nel caso di specie l’imputato, ex fidanzato della persona offesa, le aveva rivolto frasi ed atteggiamenti di corteggiamento per ore, intrattenendosi alla presenza di altri avventori all’interno del locale pubblico dove la stessa lavorava come cameriera, nonostante le espresse e ripetute rimostranze della vittima) (Cass. 18-5-2007, n. 19438).

Vediamo ora i più recenti orientamenti giurisprudenziali formatisi in tema di atti persecutori.

Rientra nella nozione di molestia, quale elemento costitutivo del reato, qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente il reato di atti persecutori nelle condotte reiterate di inoltro alla persona offesa di post dal contenuto molesto o palesemente minaccioso, nell’appostamento effettuato nei pressi della dimora dei suoi genitori e nella grave aggressione fisica perpetrata in loro danno, tali da determinare nella stessa un perdurante e grave stato d’ansia) (Sez. 5, sent. 1753 del 17-1-2022 (ud. 16-9-2021) rv. 282426-01).

Costituiscono molestie, elemento costitutivo del reato, le azioni reiteratamente promosse in sede civile (nella specie, ventitré in dieci anni), in base ad un’unica ragione contrattuale, da un asserito creditore che si era precostituito titoli esecutivi fondati su atti da lui falsificati e si era avvalso, quindi, di fatti consapevolmente inventati in funzione dell’unilaterale e ingiustificata modifica aggravativa della posizione del debitore, realizzata con abuso del processo, atteso che la falsificazione dei titoli e la reiterazione dell’azione giudiziaria risulta causativa di uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612bis c.p. (Sez. 5, sent. 17171 del 21-4-2023 (cc.  16-1-2023) rv. 284399-02).

Rientrano nella nozione di molestie anche le condotte che, pur non essendo direttamente rivolte alla persona offesa, comportino subdole interferenze nella sua vita privata. (Fattispecie in cui l’imputato aveva distribuito, all’interno dei bagni di più autogrill, volantini contenenti offerte sessuali falsamente provenienti dalla vittima con indicazione del suo numero telefonico e del suo indirizzo, da cui erano derivate richieste alla stessa di prestazioni sessuali da parte di sconosciuti) (Sez. 5, sent. 25248 dell’1-7-2022 (ud. 12-5-2022) rv. 283369).

Integra l’elemento materiale del delitto di atti persecutori il reiterato invio alla persona offesa di «sms» e di messaggi di posta elettronica o postati sui cosiddetti «social network» (ad esempio, «facebook»), nonché la divulgazione attraverso questi ultimi di filmati ritraenti rapporti sessuali intrattenuti dall’autore del reato con la medesima (Sez. 6, sent. 32404 del 30-8-2010 (cc. 16-7-2010) rv. 248285).

La reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita (Fattispecie relativa a provvedimento de libertate) (Sez. 5, sent. 17698 del 7-5-2010 (cc. 5-2-2010) rv. 247226.

Gli eventi

Le minacce o le molestie devono presentare il carattere dell’idoneità:

  • a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero
  • a ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da relazione affettiva ovvero
  • tali da costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita.

Una situazione psichica di difficile dimostrazione, in luogo della idoneità della condotta a determinare tale evento.

Non si tratta di un reato di pura condotta ma è necessario un evento di danno o di pericolo: deve conseguire al comportamento minaccioso, molesto o comunque perturbante la lesione o la messa in pericolo della libertà morale o personale ovvero dell’integrità psicofisica della persona offesa.

Dunque non è necessario che si verifichi un danno alla salute, ma è sufficiente che si produca una semplice alterazione del normale equilibrio fisico psichico del soggetto che non necessariamente trasmodi in una malattia. Il concetto di integrità psicofisica è, infatti, più ampio di quello, di salute psicofisica, avendo riguardo alla sfera complessiva della personalità e non soltanto ad una alterazione misurabile con criteri medico-legali.

Il delitto di atti persecutori ha, dunque, natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo (Sez. 5, sent. 3781 dell’1-2-2021 (ud. 24-11-2020) rv. 280331-01). Si tratta in sostanza di un reato a fattispecie alternative, ciascuna delle quali è idonea ad integrarlo (Sez. 5, sent. 34015 del 22-6-2010).

Primo evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura

È stata criticata, sotto il profilo della tassatività, la scelta di accentrare la tipicità dell’illecito sulla realizzazione di un evento, consistente in uno stato di ansia o di paura.

In merito alla nozione di ansia noi abbiamo una letteratura medica che ci dice che cosa è lo stress e ce lo quantifica e qualifica; tale stato tra l’altro deve essere grave e perdurante.

In giurisprudenza si afferma che il perdurante e grave stato di ansia o di paura, costituente uno dei tre possibili eventi del delitto di atti persecutori, è configurabile in presenza del destabilizzante turbamento psicologico di una minore determinato da reiterate condotte dell’indagato consistite nel rivolgere apprezzamenti mandandole dei baci, nell’invitarla a salire a bordo del proprio veicolo e nell’indirizzarle sguardi insistenti e minacciosi (Cass. 12-1-2010, n. 11945).

Ma la paura che cos’è? La paura è un concetto affidato alla soggettività del percettore e dunque di carattere estremamente soggettivo, perché è legata alla nostra sfera emozionale, alla nostra sensibilità, che varia da persona a persona: ciò che può far paura a me può non far paura assolutamente ad un’altra persona e viceversa.

L’evento tipico del «perdurante e grave stato di ansia o di paura», che consiste in un profondo turbamento con effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, non può risolversi in una sensazione di mero fastidio, irritazione o insofferenza per le condotte minatorie o moleste subìte (Cass. V, 21-1-2021, n. 2555).

Il riferimento alla gravità è stato ritenuto elemento di ulteriore indeterminatezza. La prova del prodursi di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve, dunque, essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Cass. VI, 3-12-2014, n. 50746; Cass. V, 7-4-2017, n. 17795).

Come si fa ad accertare lo stato di ansia o di paura?

È sempre necessaria una perizia sulla vittima? In realtà non sempre lo stato di ansia e di paura si traduce in una patologia medicamente accertabile attraverso una perizia. È però evidente che qualora vi sia una documentazione medica che certifica lo stato di ansia e di paura, il giudice avrà a disposizione un elemento di valutazione, perché i centri antiviolenza, molto meglio del perito o del certificato del pronto soccorso sanitario, fanno un percorso di osservazione della vittima e possono accertare effettivamente se sussistano danni che la persona offesa ha subito a seguito degli atti persecutori. Pertanto ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612bis c.p.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (così Cass. 10-1-2011, n. 16864). Un grave e perdurante stato di turbamento emotivo è idoneo ad integrare l’evento del delitto di atti persecutori, per la cui sussistenza è sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, sent. 8832 del 7-3-2011 (cc. 1-12-2010). La prova del grave e perdurante stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante, ovvero aggravino una preesistente situazione di disagio psichico della persona offesa (Sez. 5, sent. 7559 del 2-3-2022 (ud. 10-1-2022) rv. 282866-01).

Secondo evento: «ingenerare un fondato timore»

Anche l’esegesi di questa parte della norma in esame pone problemi di interpretazione. In particolare ci si chiede quando un timore possa dirsi fondato. È fondato il timore che sia idoneo a cagionare la messa in pericolo o la lesione dell’incolumità.

Altra questione problematica si rinviene nel concetto di «persona legata affettivamente alla vittima». Chi è la persona legata affettivamente? È quella legata da un vincolo di amicizia, è quella con la quale io convivo o ho una comunanza di vita, è il mio conoscente occasionale, è il mio compagno di viaggio?

La giurisprudenza della S.C. ha ritenuto che le condotte moleste possono essere dirette verso soggetti che siano legati alla vittima da un rapporto qualificato di vicinanza, da intendersi non in senso formale, ma come idoneità della relazione interpersonale, secondo l’id quod plerumque accidit, a giustificare il verificarsi dell’evento di danno anche nei riguardi della persona offesa (Sez. 5, sent. 43384 del 26-10-2023 (ud. 16-10-2023) rv. 285271-01).

Terzo evento: «costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita»

Che cosa si intende per abitudini di vita?

Anche questo è un concetto la cui definizione appare alquanto problematica, perché l’abitudine di vita sussiste sicuramente se io cambio lavoro, se io cambio città, quindi se trasferisco il mio domicilio. Ma se per esempio io ho il guardone di fronte, il quale ogni mattina si mette alla finestra e mi disturba perché mi vede mentre io in pigiama prendo il caffè e quindi sono costretto o a vestirmi o ad oscurare la finestra e quindi cambio in qualche modo una mia abitudine di vita, possiamo dire che questo è un cambio di abitudine di vita rilevante?

Naturalmente l’esempio è paradossale, ma serve a far capire come in realtà questo è un concetto sul quale bisogna riflettere, perché non qualsiasi abitudine di vita evidentemente sarà tale da integrare l’evento così come è previsto.

La giurisprudenza della S.C. ha dettato i seguenti principi interpretativi:

  • ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità (Cass. V, sent. 29872 del 6-7-2011 (cc. 19-5-2011) rv. 250399;
  • ai fini della individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, quale elemento integrativo del delitto, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate (Cass. V, 9-6-2014, n. 24021; Cass. V, 6-3-2018, n. 10111);
  • l’evento tipico della alterazione o cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa può essere anche transitorio, ma non occasionale (Cass. V, 6-5-2021, n. 17552);
  • l’evento, consistente nell’alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura indotto nella persona offesa, deve essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso, nell’ambito della quale possono assumere rilievo anche comportamenti solo indirettamente rivolti contro la persona offesa (Cass. VI, 1-3-2021, n. 8050).

L’alterazione o il cambiamento delle abitudini di vita, che costituisce uno dei possibili eventi alternativi contemplati dalla fattispecie criminosa di cui all’art. 612bis c.p., non è integrato dalla percezione di transitori disagi e fastidi nelle occupazioni di vita della persona offesa, ma deve consistere in una costrizione qualitativamente apprezzabile delle sue abitudini quotidiane (Cass. V, sent. 1541 del 14-1-2021 (cc. 17-11-2020) rv. 280491-01.

Elemento soggettivo

Nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Cass. V, 26-10-2015, n. 43085, nonché Cass. I, 15-10-2020, n. 28682); il dolo, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Cass. V, 8-5-2014, n. 18999).

Consumazione e tentativo

Il delitto di atti persecutori, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di «stalking» non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Sez. 5, sent. 3781 dell’1-2-2021 (ud. 24-11-2020) rv. 280331-01).

Stabilire il momento della consumazione del delitto di atti persecutori è importante perché da quel momento decorre sia il termine di prescrizione del reato che il termine per proporre la querela (a meno che non ci si trovi di fronte ad una delle ipotesi di perseguibilità di ufficio).

Come già detto, il delitto è un reato abituale proprio, per la cui commissione è necessaria la realizzazione di più atti di minaccia o molestie.

Si è affermato in giurisprudenza che, nel delitto in esame, che è reato abituale e si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, il termine finale di consumazione, in mancanza di una specifica contestazione, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale, cosicché non si configura violazione del principio del ne bis in idem in caso di nuova condanna per fatti successivi alla data della prima pronuncia (Cass. V, 8-5-2017, n. 22210, nonché Cass. V, 8-6-2020, n. 17350).

Nel medesimo senso, si afferma che il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di stalking non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Cass. V, 1-2-2021, n. 3781).

Si afferma che il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l’abitualità del reato né inficia la continuità delle condotte, quando sussista l’oggettiva e complessiva idoneità della condotta a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in una delle forme descritte dall’art. 612bis c.p. (Cass. V, 13-11-2019, n. 46165, nonché Cass. V, 5-6-2020, n. 17240). Inoltre, il delitto è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento (Cass. V, 21-2-2019, n. 7899).

La consumazione del reato in esame prescinde dal momento iniziale di realizzazione delle condotte, assumendo, invece, a tal fine significato il comportamento complessivamente tenuto dal responsabile, sicché la competenza per territorio deve essere determinata in relazione al luogo in cui il comportamento stesso diviene riconoscibile e qualificabile come persecutorio ed in cui, quindi, il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica, in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dall’art. 612bis c.p. (Cass. V, 24-1-2020, 3042).

Da ultimo, si è affermato che il delitto di atti persecutori ha natura di reato abituale e di danno che si consuma con la realizzazione di uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612bis c.p., conseguente al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, così che, nell’ipotesi di «contestazione aperta», il giudizio di penale responsabilità dell’imputato può estendersi, senza necessità di modifica dell’originaria imputazione, anche a fatti verificatisi successivamente alla presentazione della denunzia-querela e accertati nel corso del giudizio, non determinandosi una trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale da ingenerare incertezza sull’oggetto dell’imputazione e da pregiudicare il diritto di difesa (Cass. V, 21-5-2020, n. 15651).

Nel medesimo senso, si è affermato che il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno ad eventi alternativi eventualmente concorrenti tra loro, ciascuno dei quali idoneo a configurarlo, si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, cosicché l’unitarietà della condotta di stalking non può essere interrotta dall’essersi realizzato prima l’uno o l’altro dei plurimi eventi previsti dalla disposizione incriminatrice (Cass. V, 1-2-2021, n. 3781).

Il reato è compatibile con il tentativo. In particolare, si è ritenuto configurabile il tentativo del delitto di atti persecutori in quanto, trattandosi di reato di evento, è logicamente e giuridicamente possibile che alla commissione della condotta, ossia degli atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare uno degli eventi tipici di cui all’art. 612bis c.p., siano essi di danno o di pericolo, non segua l’effettiva causazione degli stessi (Cass. 18-1-2021, n. 1943).

Le circostanze aggravanti

La norma dell’art. 612 bis c.p. prevede due specifiche aggravanti:

  • la prima ad efficacia comune, se il fatto è commesso dal coniuge, anche legalmente separato o divorziato o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

Sull’originario impianto normativo di questa aggravante è intervenuto il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013 (provvedimento noto come decreto anti-femminicidio e violenza di genere). In particolare, si è provveduto ad estendere il novero delle ipotesi aggravate al fatto commesso dal coniuge in costanza di vincolo matrimoniale con la vittima (in precedenza l’aggravante era connessa allo stato di legale separazione o divorzio del medesimo, la qual cosa riduceva in modo significativo i margini di applicabilità dell’aggravante, in relazione ad un reato di frequentissima ricorrenza intraconiugale).

In sede di riforma della previsione, si è, altresì, attribuito rilevo aggravante al fatto commesso nell’ambito di relazioni affettive in atto (in precedenza rilevavano solo i legami pregressi fra reo e persona offesa; la relazione affettiva, peraltro, assume rilievo se produce l’insorgere di un rapporto di abituale frequentazione, tale da generare sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale: ciò in quanto è parso opportuno evitare il rischio di indefinibili interpretazioni estensive dell’aggravante). Sostanzialmente analogo a tale correttivo è quello che ha interessato il delitto di violenza sessuale aggravata (di cui si è detto esaminando l’art. 609ter, ed al cui esame si rinvia).

Circa il concetto di relazione affettiva, la giurisprudenza della S.C. ha ritenuto che la «relazione affettiva» tra autore del reato e persona offesa, pur se non intesa necessariamente soltanto come «stabile condivisione della vita comune», postula quantomeno la sussistenza, da verificarsi in concreto, di un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione, costituendo l’abuso o l’approfittamento di tale legame il fondamento della ratio di aggravamento della disposizione in esame (Sez. 5, sent. 21641 del 19-5-2023 (ud. 2-3-2023) rv. 284696-01).

Ulteriore, significativa, innovazione si è tradotta nell’attribuire specifico rilievo aggravante al cd. cyber-stalking, realizzato, cioè, mediante strumenti informatici o telematici. Si è, peraltro, osservato come gli strumenti telematici presuppongano quelli informatici, dunque non possano porsi come alternativi (del resto, è con la telematica che può commettersi il reato, in quanto le persecuzioni sono realizzabili solo mediante comunicazione).

Rileva, dunque, l’invio di messaggi sms o di posta elettronica e l’impiego di social network, che propalando contenuti verbali ed immagini in maniera indefinita, possono tradursi in strumenti di persecuzione almeno molesta. Taluni hanno, peraltro, espresso dubbi sull’opportunità di considerare aggravate condotte persecutorie «a distanza» (quali quelle telematiche) rispetto a quelle commesse mediante contatto diretto con la vittima;

  • la seconda ad effetto speciale (la pena è aumentata fino alla metà) se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della L. 5-2-1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.

La ratio di questa aggravante consiste nell’accentuare l’oggettivo disvalore penale della fattispecie in conseguenza della particolare «vulnerabilità» di talune potenziali vittime del reato in esame, meritevoli, dunque, di tutela penale «rafforzata», ovvero delle modalità oggettive (l’uso di armi) o soggettive (travisamento) della condotta posta in essere.

Viene prevista una ulteriore aggravante anch’essa ad efficacia comune e nel caso in cui il reato venga commesso da chi è stato ammonito dal Questore.

Ulteriore aggravante per l’art. 612bis c.p. è stata prevista dalla L. 168/2023 se il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato adottato l’ammonimento.

Quindi la condotta è aggravata ed è procedibile d’ufficio qualora il soggetto, già ammonito per uno dei reati indicati, tra i quali il delitto di atti persecutori (nell’ambito della violenza domestica) commetta uno qualunque di tali reati (nell’ambito della violenza domestica) nei confronti della stessa persona offesa o di altra vittima. La ratio è chiara: prevedere apposite misure per prevenire ulteriori condotte di violenza domestica, intesa non solo come violenza ai danni di una vittima specifica (ipotesi usuale), ma come condotta delittuosa che ben può essere posta in essere ai danni di altre persone offese, generalmente donne, come risulta dalla concreta esperienza.

Rapporti con altri reati

Svariati problemi sono sorti dalla comparazione fra il reato di atti persecutori e gli altri reati con i quali può eventualmente concorrere; problemi acuiti dalla clausola di salvezza contenuta nella norma in esame secondo la quale prevede l’applicabilità del delitto di atti persecutori salvo che il fatto non costituisca più grave reato.

Così ad esempio è stato ritenuto che il delitto di cui all’art. 612bis c.p. possa concorrere con quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.) avendo oggetto giuridico diverso, mentre restano assorbiti solo quei fatti che, pur costituendo astrattamente di per sé reato, rappresentino elementi costitutivi o circostanze aggravanti di esso e non anche quelli che eccedano tali limiti, dando vita a responsabilità autonoma e concorrente (Cass. V, 18-5-2016, n. 20696). Si è altresì ritenuto che il delitto di atti persecutori possa concorrere con quello di diffamazione, anche quando nelle modalità della condotta diffamatoria si esprimono le molestie reiterate costitutive del reato previsto dall’art. 612bis c.p. (Sez. 5, sent. 49288 dell’11-12-2023 (ud. 15-11-2023) rv. 285559-01), e con quello di violenza privata, non sussistendo tra di essi un rapporto strutturale di specialità unilaterale ai sensi dell’art. 15 c.p., dal momento che il delitto di cui all’art. 612bis c.p., diversamente dal primo, non richiede necessariamente l’esercizio della violenza e contempla un evento come l’alterazione delle abitudini di vita della vittima di ampiezza molto maggiore rispetto alla costrizione della vittima ad uno specifico comportamento, che basta ad integrare il delitto previsto dall’art. 610 c.p. (Cass. V, 22-5-2019, n. 22475).

Spesso risulta problematica la distinzione fra il reato di atti persecutori e quello di maltrattamenti in famiglia. La S.C. ha indicato alcuni parametri distintivi, quali ad esempio, la cessazione della convivenza more uxorio. Ha infatti stabilito la S.C. che il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di «famiglia» e di «convivenza» di cui all’art. 572 c.p. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa, sicché è configurabile l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612is, comma 2, c.p., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall’imputato dopo la cessazione della convivenza more uxorio con la persona offesa (Sez. 6, sent. 31390 del 19-7-2023 (ud. 30-3-2023) Rv. 285087-01). In altro arresto giurisprudenziale, tuttavia, si sostiene che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta «persona della famiglia» fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza. (In motivazione la Corte ha precisato che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall’art. 143, comma 2, c.c.) (Sez. 6, sent. 45400 del 29-11-2022 (ud. 30-9-2022) rv. 284020-01). In altro arresto la S.C. ha addirittura ritenuto configurabile il concorso fra i due reati, affermando che è configurabile il concorso fra i reati di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale, nonostante la persistente condivisa genitorialità. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti persecutori) (Sez. 6, sent. 10626 del 24-3-2022 (ud. 16-2-2022) rv. 283003-02).

La norma, si distingue, altresì, dalla contravvenzione prevista dall’art. 660 c.p. perché non richiede la commissione in luogo pubblico o aperto al pubblico, né tantomeno i requisiti soggettivi della petulanza o altro biasimevole motivo: si tratta di una fattispecie a dolo generico.

Pertanto anche la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (Molestia o disturbo alle persone) può concorrere con il delitto di atti persecutori e ciò in quanto ai fini della configurazione del delitto di atti persecutori, le reiterate molestie non devono essere commesse necessariamente in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come invece previsto per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p. (Cass. V, 24-3-2016, n. 12528). Il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 c.p. consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612bis c.p. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Cass. VI, 30-7-2020, n. 23375; nel medesimo senso, Cass. V, 26-4-2021, n. 15625).

Rapporto fra stalking e omicidio aggravato ex art. 576 c. 1, n. 5.1), c.p.

Particolarmente discusso è il rapporto fra il reato di atti persecutori e l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p., il quale prevede la pena dell’ergastolo se il fatto omicidiario è cagionato dall’autore del delitto di atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa.

L’omicidio del soggetto perseguitato si presenta, infatti, nell’esperienza giudiziaria come il risultato estremo, ma purtroppo non infrequente, dell’intento di annullamento della personalità della vittima; e quindi si integra compiutamente nella complessiva direzione finalistica del fatto, come peraltro sottolineato nei rammentati lavori preparatori.

L’aggravante di cui all’art. 576, comma 1, n. 5.1) venne introdotta proprio dal D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009.

Sulla questione sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, chiamata a dirimere il contrasto giurisprudenziale formatosi, che può così sintetizzarsi: «Se, in caso di omicidio commesso dopo l’esecuzione di condotte persecutorie poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa, i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p. concorrano tra loro o sia invece ravvisabile un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p.».

In proposito, va ricordato che l’art. 84, comma 1, c.p. esclude l’applicazione delle disposizioni sul concorso di reati quando «la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato». Quindi, condizione imprescindibile per la ravvisabilità della figura del reato complesso è l’interferenza fra le norme incriminatrici su un fatto oggettivo, comune agli ambiti applicativi delle stesse. La ratio di tale previsione è quella di evitare una duplicazione della risposta sanzionatoria per gli stessi fatti in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, necessità che si manifesta «segnatamente nel rapporto fra il reato complesso e gli altri reati che lo compongono, contraddistinti da un contesto unitario, nell’ambito del quale maggiormente risalta la possibilità di una sproporzione nel cumulo di pene previste per fatti inseriti nella stessa azione criminosa».

L’intenzione del legislatore era nell’occasione chiaramente espressa dall’intento di affrontare con adeguato rigore sanzionatorio un fenomeno criminale notoriamente ricorrente ed ingravescente nella realtà attuale, ossia il verificarsi di fatti omicidiari in danno di vittime di atti persecutori da parte degli stessi autori di tali atti. Orbene, in questa prospettiva la ratio della previsione si individua nella risposta ad un fatto complessivo visto come meritevole di aggravamento per la sua oggettiva valenza criminale, ossia lo sviluppo omicidiario di una condotta persecutoria, con l’effetto di sanzionare tale aggravamento con la massima pena dell’ergastolo; nel quale, pertanto, tale condotta è intranea nella sua fattualità alla struttura della disposizione circostanziale. La fattispecie in esame presenta, in conclusione, le caratteristiche strutturali del reato complesso circostanziato, che include il reato di atti persecutori in una specifica forma aggravata del reato di omicidio.

Non vi è dubbio infatti che, se l’intento legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale gli atti persecutori e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono altresì in una prospettiva finalistica unitaria.

Dunque secondo la Corte nomofilattica il reato di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p., commesso a seguito di quello di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, integra, in ragione della unitarietà del fatto, un reato complesso circostanziato ai sensi dell’art. 84, comma 1, c.p. (così SS.UU. sent. 38402 del 26-10-2021 (ud. 15-7-2021) rv. 281973).

E ciò in quanto la norma per l’omicidio aggravato assorbe integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612bis c.p. ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa.

Le Sezioni Unite hanno anche evidenziato come per il caso del reato complesso circostanziato, nel rapporto fra omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1), c.p. e delitto di atti persecutori, affinché il secondo sia assorbito nel primo, occorre che debbano sussistere oltre agli «elementi strutturali esplicitamente indicati dalla norma, anche un ulteriore elemento sostanziale, costituito dall’unitarietà del fatto che complessivamente integra il reato riconducibile a questa fattispecie», aggiungendo che il concetto di unitarietà «si presenta come articolato non solo nella contestualità dei singoli fatti criminosi sussunti della fattispecie assorbente, ma anche nella loro collocazione in una comune prospettiva finalistica».

La procedibilità

Il delitto è punito normalmente a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi, allungato al doppio di quello ordinario previsto dall’art. 124 c.p. (tre mesi).

Si procede d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’art. 3 della L. 5-2-1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto procedibile di ufficio. La procedibilità di ufficio è inoltre prevista quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi dell’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009.

L’art. 1 della nuova L. 168/2023 ha inoltre modificato l’art. 3 della L. 119/2013, prevedendo al comma 5quinquies che si procede d’ufficio per il reato di cui all’art. 612bis c.p. anche quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica, da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

A proposito della procedibilità di ufficio in caso di ammonimento da parte del questore, la S.C. ha statuito che ai fini della procedibilità d’ufficio per il caso in cui l’agente sia destinatario di ammonimento del questore, non è necessario che vi sia coincidenza tra i fatti oggetto di segnalazione e i fatti di rilevanza penale, in quanto i presupposti di intervento dell’autorità amministrativa si differenziano da quelli dell’autorità giudiziaria sia sul piano della ricognizione dei fatti che lo legittimano, sia in relazione alle modalità del loro accertamento. (In motivazione, la Corte ha precisato che i fatti oggetto di ammonimento possono assumere rilievo penale qualora, nonostante lo stesso, siano seguiti da condotte espressione del medesimo comportamento molesto) (Sez. 5, sent. 1035 del 13-1-2022 (ud. 30-9-2021) rv. 282732-01).

Sulla procedibilità del reato di atti persecutori aveva già inciso il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013, con correttivi oggetto di scelte e ripensamenti in sede di conversione. In particolare, il decreto si era limitato a sancire che la querela proposta dovesse essere irrevocabile, in ragione dei rischi cui poteva essere esposta la vittima del reato, possibile obiettivo di ulteriori minacce e violenze finalizzate ad ottenere, per l’appunto, il ritiro della querela. La legge di conversione ha, invece, rimesso in discussione tale opzione normativa, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni. In tale ottica, si è ripristinata la revocabilità della querela, salvo che nel caso in cui il reato sia stato realizzato mediante minacce reiterate gravi (quelle, cioè perpetrate nei modi di cui all’art. 612, comma 2, c.p.), ma si è posta la condizione che la remissione sia esclusivamente «processuale». In proposito, ha precisato la Cassazione che deve ritenersi idonea ad estinguere il reato in esame anche la remissione di querela effettuata davanti a un ufficiale di polizia giudiziaria, e non solo quella ricevuta dall’autorità giudiziaria, atteso che l’art. 612bis, comma 4, c.p., laddove fa riferimento alla remissione «processuale», evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p. (Cass. IV, 21-4-2016, n. 16669; Cass.V, 25-1-2021, n. 3034). La S.C. ha altresì statuito che ai fini dell’irrevocabilità della querela, non è necessario che la gravità delle reiterate minacce sia oggetto di specifica contestazione, non costituendo una circostanza aggravante, ma una modalità di realizzazione della condotta, incidente sulla revocabilità della querela. (In motivazione, la Corte ha precisato che la gravità delle minacce è demandata alla valutazione del giudice e deve essere comunque ricavabile dalla compiuta descrizione della condotta nell’imputazione) (Sez. 5, sent. 34412 del 4-8-2023 (ud. 11-5-2023) rv. 284992-01).

Ai fini della proposizione della querela per il delitto di atti persecutori, il termine inizia a decorrere dalla consumazione del reato, che coincide alternativamente con «l’evento di danno» consistente nella alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante stato di ansia o di paura, ovvero con «l’evento di pericolo» consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto (Cass. V, 23-4-2015, n. 17082).

Il problema della consumazione del reato è legato alla querela, che può essere proposta nel termine (lungo) di 6 mesi, ma da quando decorre questo termine? In altri termini quando si consuma il reato di stalking?

Il problema posto non è di poco rilievo e implica anche la considerazione e qualificazione che devono ricevere eventuali ulteriori episodi di stalking verificatisi dopo la proposizione della querela.

Se si ritiene che nel momento in cui viene proposta querela il reato si è consumato, i successivi comportamenti dovrebbero considerarsi come un post factum non punibile (conseguenza questa davvero aberrante), né sembrerebbe possibile utilizzare la categoria della continuazione di cui all’art. 81 c.p., perché, trattandosi di atti persecutori (pluralità di atti) che devono possedere il requisito della reiterazione, è del tutto evidente la incompatibilità ontologica con l’istituto della continuazione, vale a dire con un reato che si consuma in più occasioni più volte.

Se quindi il reato si è già consumato prima della proposizione della querela, i successivi comportamenti pur astrattamente rientranti nel paradigma dell’art. 612bis c.p. dovrebbero considerarsi come un post factum non punibile, a meno che non sia nel frattempo intervenuta una sentenza quanto meno di primo grado la cui emanazione consentirebbe di poter contestare un nuovo reato di stalking.

È del tutto evidente che questo (paradossale) ragionamento non possa essere condivisibile, come parimenti non condivisibile ed arbitrario appare porre un limite temporale alla consumazione del reato (tot comportamenti in tot tempo), dovendosi, invece, ritenere che il reato di stalking si consuma e si reitera fino all’ultimo atto che viene consumato, per cui se dopo la proposizione della querela c’è un altro atto di stalking ovviamente questo entrerà in contestazione anche con quello precedente alla querela.

Questa conclusione è confortata dalla interpretazione giurisprudenziale della Corte di cassazione. Quest’ultima, infatti, ha ritenuto che il carattere del delitto di atti persecutori, quale reato abituale improprio, a reiterazione necessaria delle condotte, rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere anche dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende anche a queste ultime, poiché, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato (Cass. V, 3-10-2016, n. 41431).

La procedura di ammonimento (D.L. 11/2009, conv. in l. 38/2009)

L’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009 prevede una speciale procedura di carattere amministrativo che conduce ad una misura preventiva atta ad anticipare la tutela della persona offesa: si tratta dell’ammonimento.

Fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’art. 612bis c.p., introdotto dall’art. 7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore.

Il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.

La pena per il delitto di cui all’art. 612bis c.p. è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

Si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’art. 612bis c.p. quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l’ammonimento previsto dal presente articolo.

All’art. 8 della legge istitutiva dello stalking è stata introdotta una speciale procedura di competenza dell’autorità di P.S., che può adottare prima dell’instaurazione del procedimento penale, qualora la persona offesa prima di proporre la querela esponga i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore. Questi, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore valuta l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni.

Fra i compiti specifici dell’autorità di P.S., infatti, all’art. 1 del T.U. di P.S. è previsto il bonario componimento dei dissidi privati.

Con il provvedimento di ammonimento, il Questore invita il soggetto denunciato ad astenersi dai comportamenti delittuosi di molestia o disturbo.

Deve ritenersi che il soggetto ammonito abbia comunque facoltà di difendersi anche in questa sede presentando memorie o deduzioni.

Se nonostante la diffida formale il soggetto denunciato continua nei suoi comportamenti, è previsto un aggravamento della pena prevista per il reato di atti persecutori.

L’ammonimento, in sostanza, dovrebbe avere una immediata efficacia dissuasiva e potrebbe, peraltro, risolvere i casi meno gravi.

Si tratta di una procedura che ha valore e forza di atto amministrativo con specifiche funzioni di natura preventiva, il cui esito, però, viene preso in considerazione in sede di procedimento penale.

In altri disegni di legge proposti anche nelle precedenti legislature l’istituto in esame era sottoposto ad autorizzazione da parte del Pubblico Ministero. Tale autorizzazione nel D.L. in esame è stata eliminata e ciò in quanto si tratta di una misura di carattere preventivo che ha natura amministrativa i cui effetti poi si riverberano nel procedimento penale e pertanto non vi era alcuna necessità di prevedere l’autorizzazione del P.M.: infatti un processo di giurisdizionalizzazione avrebbe poi comportato la convalida della misura da parte dell’A.G. (GIP) con il relativo regime delle impugnazioni (riesame, cassazione) assimilandola, in buona sostanza, ad una ulteriore misura coercitiva che avrebbe appesantito inutilmente l’istituto che, invece, mantenendosi nell’alveo della mera prevenzione, meglio risponde allo scopo cui è diretto di costituire un agevole e veloce strumento per impedire situazioni di pericolo.

I provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, possono essere revocati su istanza dell’ammonito, non prima che siano decorsi tre anni dalla loro emissione, valutata la partecipazione del soggetto ad appositi percorsi di recupero presso gli enti di cui al comma 5bis e tenuto conto dei relativi esiti. Quest’ultima disposizione è stata introdotta dall’art. 1 della L. 168/2023 che ha modificato in tal senso l’art. 3 del D.L. 14-8-2013, n. 93, conv. in L. 15-10-2013, n. 119.

L’art. 1 della L. 168/2023 modifica l’art. 8 del D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009:

  1. a) ampliando l’ambito di applicabilità (comma 1), per cui l’ammonimento richiesto dalla persona offesa, prima di proporre querela, riguarda non solo l’art. 612bis c.p. (atti persecutori), ma anche l’art. 612ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti i seguenti delitti), indipendentemente dall’essere stati commessi nell’ambito della violenza domestica;
  2. b) prevedendo effetti sostanziali e procedurali quando il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del citato articolo e (innovativamente) anche se la persona offesa è diversa da quella per cui è stato già adottato l’ammonimento (commi 3 e 4):
  • le pene sono aumentate, trattasi di aggravante comune, perciò con aumento fino a un terzo ex art. 64, comma 1, c.p.;
  • si procede d’ufficio.

Va affrontata infine la problematica relativa alla facoltà della persona ammonita di esercitare la propria difesa sin dalla fase preventiva: questi potrà eventualmente presentare memorie o deduzioni: ciò anche al fine di evitare che denunce infondate possano avere seguito.

La procedura di ammonimento prevista dalla L. 119/2013

La procedura di ammonimento è stata prevista anche dalla successiva L. 119/2013. Anche su tale disposizione ha inciso l’art. 1 della L. 168/2023 (Rafforzamento delle misure in tema di ammonimento e di informazione alle vittime) che interviene sull’ammonimento applicato dal questore nella materia in esame sulla base di due diverse normative:

 

  • il D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013, che prevede l’ammonimento applicato d’ufficio dal questore per condotte di violenza domestica, attraverso un procedimento avviato dalle forze dell’ordine in presenza di condotte riconducibili all’art. 582, comma 2, c.p. (lesioni personali punibili a querela della persona offesa) ovvero all’art. 581 (percosse, anch’esse punibili a querela), consumate o tentate, nell’ambito, appunto, di violenza domestica espressamente definita;
  • il D.L. 11/2009, conv. in L. 38/2009, che prevede l’ammonimento applicato dal questore su richiesta della persona offesa del delitto di cui all’art. 612bis (atti persecutori) perseguibile a querela, richiesta che può essere presentata fino a che non è proposta la querela, di cui si è detto prima.

La nozione di violenza domestica

Il legislatore prevede che ai fini della procedibilità d’ufficio o della sussistenza dell’aggravante, il nuovo reato debba essere commesso nell’ambito della violenza domestica, conseguentemente richiama espressamente la nozione contenuta nell’art. 1, comma 1, secondo periodo. Tale definizione, originariamente prevista solo «Ai fini del presente articolo» si espande all’area del diritto penale, dovendo accertarsi se il reato (ai fini della procedibilità e della contestazione dell’aggravante) sia riferibile alla violenza domestica.

La violenza domestica è un fenomeno che si verifica all’interno di una coppia spostata o convivente. In senso più ampio invece, si manifesta all’interno della famiglia, legittima o di fatto. Non rileva che il legame sia di tipo eterosessuale o omosessuale.

Secondo l’art. 3 della Convenzione di Istanbul «l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

Una definizione ampia che arriva a ricomprendere anche rapporti passati senza convivenza e non di coppia. Ne sono un esempio quello tra genitori e figli, fratello e sorella e tra familiari di generazioni diverse. Non sono quindi esclusi dal fenomeno i bambini e gli anziani.

La Convenzione di Istanbul riconosce che la violenza domestica colpisce le donne in misura decisamente sproporzionata. Essa tuttavia si rivolge anche a quegli uomini, che in determinati contesti possono essere vittime di gesti violenti. La Convenzione include inoltre i bambini testimoni di episodi di violenza domestica tra le vittime del fenomeno.

Definizione di violenza domestica per la legge italiana

Una definizione più ristretta rispetto quella contenuta nella Convenzione di Istanbul è quella dell’art. 3 del D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013. Detto articolo dispone che si intendono per violenza domestica, uno o più atti gravi, ovvero non episodici, o commessi in presenza di minorenni, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare (o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva), indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Le nuove disposizioni relative all’ammonimento d’ufficio

L’art. 1 della L. 168/2023 modifica in più parti la disciplina dell’ammonimento applicabile d’ufficio dal questore. Assumono rilievo in questa sede alcune modifiche.

Le modifiche all’art. 3, comma 1, D.L. 93/2013, conv. in L. 119/2013

Plurime le modifiche apportate dall’art. 1 della L. 168/2023 all’art. 3 del D.L. citato:

  1. a) viene ampliato l’ambito di applicabilità, per cui l’ammonimento può essere emesso (d’ufficio) per i seguenti delitti, tentati o consumati (alcuni perseguibili d’ufficio, altri a querela, perciò in quest’ultimo caso indipendentemente dalla presentazione della querela), ritenuti reati spia che richiedono un immediato intervento per interrompe la violenza:

1) art. 581 c.p. (percosse), già previsto in precedenza;

2) art. 582 c.p., indipendentemente dalle diverse ipotesi previste nella versione previgente (in precedenza il riferimento era al solo comma 2, lesioni personali perseguibili a querela);

3) art. 610 c.p. (violenza privata);

4) art. 612, comma 2, c.p. (minaccia aggravata);

5) art. 612bis c.p. (atti persecutori);

6) art. 612ter c.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti);

7) art. 614 c.p. (violazione di domicilio);

8) art. 635 c.p. (danneggiamento).

  1. b) è estesa la nozione di violenza domestica, nell’ambito della quale devono essere commessi i delitti su indicati per consentire l’ammonimento.

Per espressa dizione normativa, si intendono commessi nell’ambito della violenza domestica: uno o più atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica gravi ovvero non episodici o (a seguito della modifica) commessi in presenza di minorenni, che si verificano: all’interno della famiglia o del nucleo familiare, o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Viene ripresa, come ricordato in precedenza, la nozione di violenza domestica prevista dalla Convenzione di Istanbul.

  1. c) sono previsti, innovativamente, effetti sostanziali e procedurali quando il fatto è commesso, nell’ambito di violenza domestica (come su definita), da soggetto già ammonito ai sensi del citato articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per cui è stato già adottato l’ammonimento:
  • le pene sono aumentate; trattasi di aggravante comune, perciò con aumento fino a un terzo ex art. 64 c.p. (comma 5quater);
  • si procede d’ufficio, nei casi in cui è prevista la perseguibilità a querela (comma 5quinqunquies).

Quindi la condotta è aggravata ed è procedibile d’ufficio qualora il soggetto, già ammonito per uno dei reati indicati (nell’ambito della violenza domestica) commetta uno qualunque di tali reati (nell’ambito della violenza domestica) nei confronti della stessa persona offesa o di altra vittima. La ratio è chiara: prevedere apposite misure per prevenire ulteriori condotte di violenza domestica, intesa non solo come violenza ai danni di una vittima specifica (ipotesi usuale), ma come condotta delittuosa che ben può essere posta in essere ai danni di altre persone offese, generalmente donne, come risulta dalla concreta esperienza e dalla relazione della commissione femminicidio che individua una recidiva dell’85%.

Naturalmente l’informazione sull’esistenza di un ammonimento in atto dovrà essere fornita dalla polizia giudiziaria all’atto della trasmissione della notizia di reato acquisendola dal Sistema Informativo di Indagine, anche verificando, se necessario, presso la questura l’operatività dell’ammonimento.

niente tenuità del fatto

Niente tenuità del fatto per la responsabilità da reato degli enti L’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova applicazione in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 (“Decreto 231”)?

La particolare tenuità del fatto

L’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova compiuta disciplina per le persone fisiche nell’art. 131-bis cod. pen. Tale disposizione normativa esclude la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (o con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva) quando, per le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale.

Responsabilità amministrativa da reato degli enti

Giova rilevare che le prescrizioni in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex Decreto 231, con riferimento all’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. (introdotto dal d.lgs. n. 28/2015), non prevedono un’esplicita regolamentazione normativa.

Nello specifico, l’art. 8 del Decreto 231 (rubricato: “Autonomia delle responsabilità dell’ente”) sancisce che: “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

La disciplina relativa all’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante, sia stata introdotta dopo il 2001, ossia nel 2015, l’articolo 8 del Decreto 231 non è stato soggetto a nessun intervento di aggiornamento.

Il primo intervento della Cassazione

È spettato alla Suprema Corte, pertanto, risolvere il quesito dell’applicabilità (o meno), nel processo contra societatem, della causa di non punibilità ex art 131-bis c.p.

Negli anni successivi all’introduzione nel Codice Penale dell’art. 131-bis, a opinione di molti giuristi, la Corte di Cassazione con la sentenza del 28 febbraio 2018, n. 9072 sembrava implicitamente avvallare la compatibilità tra l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e il sistema di responsabilità amministrativa degli enti.

La Suprema Corte, infatti con la soprammenzionata sentenza, si limitava ad affermare  che: “In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. non esclude la responsabilità dell’ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica”.

La soluzione definitiva della Suprema Corte

La soluzione definitiva a tale quesito arriva con la recente sentenza della Corte di Cassazione del 10 ottobre 2024 n. 37237 che non lascia alcun margine di opinabilità in materia, approdando ad una chiusura netta della questione.

Nelle considerazioni in diritto, infatti, la stessa ha specificato che:

  • si deve richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Cass. Pen., Sez. III, n. 1420/2020), secondo cui la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai propri dirigenti o dai soggetti sottoposti alla loro direzione prevista dal d.lgs. n. 231/2001, in considerazione della differenza esistente tra i due tipi di responsabilità e della natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 ”;
  • tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso”.

Esclusa la particolare tenuità del fatto

In conclusione, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente ex Decreto 231 per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti di cui all’art. 5 dello stesso[1], in quanto, tale approdo giurisprudenziale trova ragione:

  • nella differenza esistente tra la responsabilità penale della persona fisica e responsabilità amministrativa da reato dell’ente, nonché
  • nella natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

[1] “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

beneficio della non menzione

Beneficio della non menzione anche in Cassazione Il beneficio della non menzione può essere disposto dalla Cassazione senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto

Non menzione e giudizio di legittimità

Il beneficio della non menzione può essere direttamente disposto dalla Cassazione, sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto. Lo ha stabilito la seconda sezione penale nella sentenza n. 37164/2024 accogliendo sul punto il ricorso di un imputato.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Napoli confermava la condanna emessa dal tribunale nei confronti di un imputato per i reati di cui agli art. 81, 10 e 640-ter e 81, 10 e 493-ter cod. pen.

L’uomo adiva il Palazzaccio dolendosi, tra le altre cose, della carenza di motivazione in merito alla richiesta di applicazione del beneficio della non menzione.

La decisione

Per la S.C. il motivo è fondato (sebbene il ricorso sia complessivamente infondato nel resto). La Corte d’appello infatti non ha offerto una specifica risposta all’ultimo motivo di gravame, con cui si invocava il beneficio di cui all’art. 175 c.p. e tale inequivoca lacuna motivazionale impone, limitatamente a questa sola statuizione, l’annullamento della sentenza impugnata.
L’apparato argomentativo speso dalla Corte territoriale in tema di sospensione condizionale della pena, fondato sulla valutazione dei medesimi elementi ex art. 133 c.p. che vengono necessariamente in rilievo anche per la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, “consente tuttavia di colmare la denunciata carenza, senza necessità di rinvio” aggiungono gli Ermellini.

“lI beneficio in questione può, infatti, essere direttamente disposto – dalla Cassazione – sulla base degli elementi già valorizzati dal giudice del merito ex art. 164 cod. pen. nei termini sopra accennati, senza la necessità di ulteriori accertamenti di fatto (cfr., tra le altre, Cass. n. 14885/2021).

Per cui, la S.C. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al mancato riconoscimento del beneficio della non menzione della condanna, che concede. E rigetta il ricorso nel resto.

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giurista risponde

Concorso anomalo e progressione criminosa Nell’applicazione dell’istituto del concorso anomalo, ex art. 116 c.p., in che rapporto si deve porre l’elemento psicologico del dolo con la prevedibilità della progressione criminosa dell’azione?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

La configurabilità dell’art. 116 c.p. (concorso anomalo) è soggetta a due limiti negativi e cioè che l’evento diverso non sia voluto neppure sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale e che l’evento più grave, concretamente realizzato, non sia conseguenza di fattori eccezionali, sopravvenuti, meramente occasionali e non ricollegabili eziologicamente alla condotta criminosa di base (Cass., sez. I, 20 giugno 2024, n. 24520).

Preliminarmente il Supremo Collegio, nel rispondere al quesito oggetto della presente sentenza ha ritenuto di specificare quelli che sono i limiti applicativi dell’art. 116 c.p. sotto il profilo dell’elemento soggettivo distinguendolo dalle ipotesi di concorsi di cui all’art. 110 c.p.

Ciò posto, premettendo che è oramai consolidata una concezione unitaria del concorso di presone nel reato – contrariamente a quanto avveniva con il Codice Zanardelli –, l’attività che integra gli estremi dell’art. 110 c.p. può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo, in tutte o alcune delle fasi di: ideazione, organizzazione ed esecuzione, alla realizzazione collettiva della fattispecie di reato. Tale attività, peraltro, non necessita di un previo accordo diretto alla causazione dell’evento; infatti il concorso ben potrebbe estrinsecarsi in un intervento di carattere estemporaneo, sopravvenuto a sostegno dell’azione altrui ancora in corso quand’anche iniziata all’insaputa del correo (Cass., Sez. Un., 3 maggio 2001, n. 31).

Il concorso anomalo ex art. 116 c.p. si differenzia rispetto al concorso “pieno” – sopradescritto – e sussiste alla presenza di tre requisiti: l’adesione dell’agente ad un reato voluto in concorso con altri; la commissione da parte di altro concorrente di un reato diverso – eventualmente più grave –; un nesso causale, non solo materiale ma anche psicologico tra la condotta del compartecipe rispetto al reato voluto e l’evento diverso concretamente realizzato da altri. Pertanto è necessario che il concorrente non abbia previsto e voluto, nemmeno a titolo di dolo eventuale, il reato diverso, posto in essere dall’esecutore. Invero, nel caso in cui il soggetto non soltanto si sia rappresentato l’evento, ma l’abbia voluto – sia che tale volizione si estrinsechi sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni) – si ricadrà nell’alveo applicativo dell’art. 110 c.p. e, pertanto, si applicherà la disciplina ordinaria del concorso di persone nel reato. A tali tre requisiti si aggiunge poi un ulteriore aspetto che estrinseca il terzo requisito, ovvero, la prevedibilità della progressione criminosa dell’agire.

Su quest’ultimo, cruciale, punto la Corte ribadisce come sia assolutamente preponderante la prevedibilità dell’evento reato differente. Invero, il requisito della prevedibilità dell’evento posto in progressione criminosa, anche se non espressamente previsto nella disposizione normativa, è di fondamentale importanza. Questo, lo si si evince in forza di una interpretazione sistematica e teleologica delle norme fondanti la responsabilità penale e vive ormai una condizione di assoluta stabilità dopo la pronuncia della Corte cost. 42/1965. Pertanto è imprescindibile un “nesso psicologico” in termini di prevedibilità tra la condotta dell’agente compartecipe e l’evento diverso in concreto verificatosi.

Tale aspetto, peraltro, non può dirsi integrato dalla sola sussistenza di un rapporto di causalità materiale tra la condotta dell’agente e l’evento più grave, ma è necessario che sussista un rapporto di “causalità psichica”, nel senso che il reato diverso – e più grave – commesso dal compartecipe deve essere astrattamente rappresentabile nella psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto (Cass. 11 gennaio 2006, n. 744), il tutto senza, comunque, che l’agente debba avere effettivamente previsto e accettato il rischio della sua commissione, giacché, in tal caso – come affermato in precedenza –, sarebbe configurabile il dolo eventuale e quindi il concorso pieno ex art. 110 c.p.

La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello voluto, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso anomalo ex art. 116 nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza.

Alla luce di quest’interpretazione ermeneutica la Cassazione ha ritenuto che la componente psichica del concorso anomalo ex art. 116 c.p. si collochi, in un’area compresa fra la mancata previsione di uno sviluppo in effetti imprevedibile (situazione nella quale la responsabilità resta esclusa) e l’intervenuta rappresentazione dell’eventualità che il diverso evento potesse verificarsi, anche in termini di mera possibilità o scarsa probabilità (situazione nella quale si realizza un’ordinaria fattispecie concorsuale su base dolosa). Sulla base di tale interpretazione il Supremo Collegio confermava la sentenza impugnata ritenendo che il corrente avesse agito con dolo diretto e, pertanto, con il pieno intento di cooperare all’esecuzione del disegno criminoso nella sua forma più grave effettivamente verificatasi.

*Contributo in tema di “Concorso anomalo e progressione criminosa”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

cannabis light

Cannabis light: il ddl sicurezza la vieta Cannabis light: il ddl sicurezza non punisce la produzione agroindustriale, vuole contrastare il commercio delle inflorescenze e dei derivati

Cannabis light: vietata per motivi di sicurezza pubblica

Il ddl-sicurezza, in attesa dell’approvazione definitiva in Senato, modifica la disciplina sulla cannabis light. Il disegno interviene sulla legge n. 242/2016, che promuove la coltivazione e la filiera agroindustriale della canapa per contrastare la criminalità e le condotte pericolose per la sicurezza pubblica.

Le modifiche alla legge n. 242/2016, apportate dall’art. 18, comma 1, sono precedute infatti da un’importante premessa: “Al fine di evitare che l’assunzione di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa (Cannabis sativa L.) o contenenti tali infio­rescenze possa favorire, attraverso altera­zioni dello stato psicofisico del soggetto as­suntore, comportamenti che espongano a ri­schio la sicurezza o l’incolumità pubblica ovvero la sicurezza stradale.”

Cannabis light: come cambiano gli artt. 1 e 2 della l. n. 242/2016

Le due norme su cui interviene il disegno di legge sono gli articoli 1 e 2 della legge n. 242/2016. Questo il tenore letterale che potrebbero assumere le disposizioni delle due norme, prestando attenzione soprattutto ai termini in grassetto.

Articolo 1 Legge n. 242/2016

  1. La presente legge reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione della filiera industriale della canapa (Cannabis sativa.)”
  2. Il sostegno e la promozione riguardano la coltura della canapa finalizzata:
  3. a) alla coltivazione e alla trasformazione;
  4. b) all’incentivazione della realizzazione di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali per gli usi consentiti dalla legge.

3 bis. Le disposizioni della presente legge non si applicano allimportazione, alla lavorazione, alla detenzione, alla cessione, alla distribuzione, al commercio, al trasporto, allinvio, alla spedizione, alla consegna, alla vendita al pubblico e al consumo di prodotti costituiti da infiorescenze di canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, o contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati. Restano ferme le disposizioni del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” 

Con queste novità in pratica il ddl specifica che le misure di sostegno e di promozione previste dalla legge stessa riguardano solo la filiera industriale e si rivolgono esclusivamente alla coltura della canapa con comprovate finalità alle attività previste dalla legge.

Tra le varie finalità di sostegno e promozione della canapa il ddl elimina l’impiego e il consumo dei semilavorati, finalizzando la realizzazione dei semilavorati solo agli usi consentiti dalla legge.

Il ddl chiarisce infine che la legge n. 242/2016 non si applica a quanto specifica nel nuovo comma 3 bis.

Articolo 2 Legge 242/2016

“Dalla canapa coltivata ai sensi del comma 1 (ossia senza autorizzazione per le varietà indicate nellarticolo 1) è possibile ottenere:

  1. g)  coltivazioni destinate al florovivaismo

3bis. Sono vietati limportazione, la cessione, la lavorazione, la distribuzione, il commercio, il trasporto, linvio, la spedizione e la consegna delle infiorescenze della canapa coltivata ai sensi del comma 1 del presente articolo, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti o costituiti da tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli oli da esse derivati. Si applicano le disposizioni sanzionatorie previste dal titolo VIII del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” 

Con queste modifiche il ddl precisa che la coltivazione della canapa non necessita di autorizzazione se dalla stessa si ottengono prodotti destinati al florovivaismo professionale.

Nel nuovo comma 3 bis invece sancisce i divieti delle attività elencate relative alle infiorescenze della canapa coltivata anche in forma semilavorata, ecc.

Cannabis light: il divieto preoccupa le associazioni di categoria

Le associazioni di categoria si dicono preoccupate della modifica che rende illegali le infiorescenze della canapa e i suoi derivati. Si tratta di una misura che mette a rischio anche i settori collegati a questi prodotto, soprattutto quello alimentare e quello tessile. Molte imprese, gestite soprattutto da giovani imprenditori, tra cui molte donne, hanno investito energie e risorse in queste attività commerciale e in quelle collegate.

Dipartimento delle Politiche antidroga: chiarimenti

Il Dipartimento competente però non ha tardato a fornire importanti chiarimenti sulle misure del ddl relative alla cannabis light.

Il ddl non vuole criminalizzare la coltivazione e la filiera agro industriale della canapa. Esso mira a contrastare più che altro la produzione e la commercializzazione delle inflorescenze e dei suoi derivati per uso ricreativo praticata dai cannabis shop. A causa di queste attività infatti, nella società si è diffusa, a torto, l’idea della legalizzazione della cannabis light. Ciò che il decreto vuole contrastare quindi è solo l’uso improprio di queste sostanze e tutte quelle condotte degli assuntori che, in stato di alterazione psico fisica, possono mettere a rischio l’incolumità e la sicurezza pubblica.

 

Leggi anche questa interessante nota a sentenza: Niente tenuità per il “nonno” spacciatore

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sequestro preventivo

Sequestro preventivo: le modalità esecutive spettano al PM La Cassazione chiarisce che compete al PM il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo

Sequestro preventivo e modalità esecutive

Spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione. Lo ha chiarito la seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 37168/2024.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli, in funzione di Tribunale del riesame, confermava integralmente il decreto del Giudice per le indagini preliminari che aveva disposto il sequestro preventivo in via diretta, fino alla capienza di euro 2.767.538,20, e, per l’importo non rinvenuto, per equivalente, nei confronti di alcuni indagati per il reato di cui agli artt. 110 e 648-ter cod. pen.
La questione approda al Palazzaccio dove viene dedotta la «manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione tale da risultare apparente», in relazione alla ribadita sussistenza del periculum in mora. “La decisione dei giudici della cautela – a dire della difesa – deriverebbe da una lettura approssimativa degli atti, che non avrebbe tenuto conto del fatto che l’intera somma in contestazione era confluita nell’operazione di completamento dell’immobile”. Inoltre, viene censurato, “il nuovo percorso argomentativo esposto dal Tribunale, che avrebbe invece dovuto annullare li provvedimento genetico, privo di adeguata motivazione sul punto”.

La decisione

Per la S.C. però il ricorso è infondato.

In materia di cautela reale, l’art. 325 cod. proc. pen., ricordano i giudici, “consente il ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge (nel cui ambito deve includersi anche la motivazione omessa o soltanto apparente). Non sono, dunque consentiti, i profili di censura diretti a contestare la tenuta logica dell’apparato argomentativo”.

Il primo motivo, sotto l’abito dell’omessa motivazione, in primo luogo, osservano dalla Cassazione, “introduce surrettiziamente una serie di censure incentrate sulla presunta erroneità delle ragioni di fatto e di diritto poste a fondamento dell’ordinanza impugnata, spingendosi, anzi, a una certosina disamina dei singoli passaggi argomentativi (in tema di rapporti con i e l’associazione per delinquere, di complessivo importo conferito da questi ultimi, di sussidiarietà del vincolo), sollecitandone un’alternativa rilettura rispetto a quella già offerta dal Tribunale”.
Inoltre, “le questioni che attengono alle modalità di esecuzione del sequestro preventivo – quali quelle denunciate nel caso di specie – non possono essere fatte valere con una richiesta di riesame (né con una istanza di dissequestro)”.  “Considerato che spetta al pubblico ministero il potere di fissazione delle modalità esecutive del sequestro preventivo e che i provvedimenti con cui è esercitato tale potere sono impugnabili con la procedura dell’incidente di esecuzione, si tratta, dunque, di questioni – concludono dal Palazzaccio – che devono essere portate all’attenzione del giudice competente con la suddetta distinta procedura non impugnatoria” (cfr. ex multis, Cass. n. 8283/2020). Per cui, il ricorso è rigettato.

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giurista risponde

Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali Nell’applicazione dell’istituto della legittima difesa putativa, ovvero dell’eccesso colposo di legittima difesa, i timori personali possono essere di per sé stessi sufficienti ad escludere la punibilità del soggetto agente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Riente e Michele Pilia

 

L’accertamento della legittima difesa, reale o putativa o dell’eccesso colposo di questa, deve essere effettuato con un giudizio “ex ante” calato all’ interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali (Cass., sez. I, 26 giugno 2024, n. 25230).

Nell’affrontare il thema decidendum, il Supremo Collegio ha operato un pregevole lavoro di ricostruzione ermeneutica in ordine ai requisiti per la sussistenza della legittima difesa, differenziando le ipotesi di eccesso colposo di legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. come novellato dalla L. 26 aprile 2019, n. 36, da quello più generale della legittima difesa putativa di cui al combinato disposto degli artt. 52 e 59 c.p.

Più nello specifico, l’ipotesi dell’eccesso colposo della legittima difesa di cui all’art. 55 c.p. ricorre nel caso in cui il superamento del limite della necessaria proporzione che deve esserci tra la difesa del bene giuridico minacciato e l’offesa è dipeso da errore determinato da colpa (Cass. 12 ottobre 2023, n. 41552). Sotto tale profilo, infatti, lo stato di grave turbamento che funge da presupposto, in alternativa alla minorata difesa ex art. 61, comma 5 c.p., per l’applicazione della causa di non punibilità prevista dal novellato art. 55, comma 2 c.p., richiede che esso sia prodotto dalla situazione di pericolo in atto, rendendo, di conseguenza, irrilevanti stati d’animo che abbiano cause preesistenti o diverse ed è necessario un esame di tutti gli elementi della situazione per accertare se la concretezza e gravità del pericolo in atto possa avere ingenerato un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (Cass. 3 dicembre 2020, n. 34345). Per l’effetto una condotta antecedente a quella delittuosa che fa sorgere dei meri timori personali non può essere idonea ad integrare il presupposto della norma.

Tale ipotesi differisce, peraltro, dalla legittima difesa putativa, di cui all’art. 59 c.p., perché il concetto di errore ha una portata ben più generale rispetto al turbamento. Invero, l’errore scusabile non è altro che una rappresentazione falsata della realtà che prescinde da un turbamento emotivo e potrebbe, astrattamente, ricomprenderlo se questo non integra il requisito di cui all’art. 55, comma 2 c.p.

In altri termini la rappresentazione falsata del pericolo, nel caso di cui all’art. 59 c.p. è ontologicamente incompatibile con l’ipotesi di un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa, perché nel caso di cui all’art. 55, comma 2 c.p. non è esigibile una valutazione sulla proporzione della reazione. Di converso l’errore, per dirsi scusabile, deve trovare un’adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell’agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Per cui, la capacità di razionale valutazione dell’agente è necessaria per l’applicazione dell’art. 59 c.p., mentre è in radice esclusa per l’applicazione dell’art. 55, comma 2 c.p., i quali peraltro si inseriscono in momenti della condotta che possono essere diversi.

Ciò posto la presente sentenza, prendendo le mosse (Cass. 21 marzo 2013, n. 13370), ha ritenuto di affermare che al fine di valutare l’eventuale sussistenza dell’eccesso colposo di legittima difesa devono essere valutate ex ante le specifiche e peculiari circostanze concrete dell’azione. Pertanto devono essere esaminate oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali.

Sul punto nonostante sia ampiamente condivisibile la ricostruzione ermeneutica testé riportata, in ordine ai c.d. “timori personali”, è d’uopo segnalare l’esistenza di un orientamento parzialmente differente, coevo alla novella normativa del 2019, il quale però a parare di chi scrive può dirsi superato. Detto orientamento, prendendo comunque le mosse dall’arcinota sentenza Cass. 21 marzo 2013, n. 13370, ha ritenuto che, a seguito della novella legislativa del 2019, “i timori personali” laddove possano essere riconducibili nella categoria del “grave turbamento” (di cui alla nuova formulazione dell’art. 55 c.p.) debbano essere necessariamente oggetto di valutazione da parte del giudice di merito ed in assenza di tale valutazione la sentenza deve essere annullata (Cass. 10 dicembre 2019, n. 49883).

Alla luce di quanto sopraesposto, nel caso di specie la Corte ritenendo di aderire al primo orientamento ha, altresì, ricordato che il riconoscimento o l’esclusione della legittima difesa, reale o putativa, e dell’eccesso colposo nella stessa – qualora gli elementi di prova siano stati puntualmente accertati e logicamente valutati dal giudice di merito – è un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità. In forza di ciò, non essendo stati riscontrati vizi procedurali nell’accertamento degli elementi di prova o motivazionali nel vaglio degli stessi, la Corte ha confermato la sentenza di condanna.

Contributo in tema di “Eccesso colposo di legittima difesa e timori personali”, a cura di Valentina Riente e Michele Pilia, estratto da Obiettivo Magistrato n. 77 / Settembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia: la nozione di convivenza Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p: tra imputato e vittima deve sussistere una relazione affettiva, l'amicizia non è sufficiente

Maltrattamenti in famiglia e convivenza

Il reato di maltrattamenti in famiglia contemplato dall’art. 572 c.p richiede per la sua configurazione il requisito della convivenza. Esso è soddisfatto in presenza della coabitazione tra soggetti legati da una relazione qualificata dalla comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di solidarietà reciproca. Non è sufficiente la mera divisione degli spazi della abitazione comune ricollegabile a un mero rapporto di amicizia. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 37166/2024.

Convivenza assente: niente maltrattamenti in famiglia

La Corte ridetermina la pena inflitta a un imputato per la commissione di diversi reati, tra i quali quello di maltrattamenti verso familiari e conviventi contemplato dall’art. 572 c.p.

L’imputato ricorre in Cassazione e contesta la carenza di motivazione della sentenza in relazione al requisito della convivenza, in quanto presupposto necessario per la configurazione del reato di maltrattamenti.

No ai maltrattamenti se il rapporto è di mutuo soccorso

La Cassazione accoglie la doglianza dell’imputato con la quale contesta l’assenza del requisito della convivenza. Esso è infatti richiesto dall’art. 572 c.p, che punisce i maltrattamenti verso persone e familiari.

Nel caso di specie la Cassazione rileva l’esistenza di un mero “rapporto di mutuo soccorso” tra l’imputato e la persona offesa. La loro coabitazione era caratterizzata dall’accordo fondato sul contributo di entrambi alle spese comuni.

L’imputato ha dichiarato di “essersi preso cura di una persona fragile, incapace di determinarsi e che necessitava di essere stimolato e spronato e di essere aiutato durante la malattia: lo stesso imputato non prospetta una mera coabitazione, ma una condivisione di vita ben più ampia […] con condivisione di una comune esperienza lavorativa […], ulteriore manifestazione di condivisione di progetti futuri.”

La Corte Costituzionale in relazione al requisito della convivenza del reato di maltrattamenti ha avuto modo di precisare che si deve chiarire se tra imputato e persona offesa sussista una relazione in grado di considerare la persona offesa come parte della “famiglia” dell’imputato o se in alternativa un rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nellabitazione dell’altro possa già considerarsi, alla stregua dell’ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di convivenza.” 

Convivenza: coabitazione tra soggetti con comuni aspettative di vita

A questo proposito la Cassazione intende seguire l’interpretazione secondo cui: “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 572 cod. pen., integra il requisito della convivenza soltanto la coabitazione tra individui legati da una relazione qualificata da comunanza materiale e spirituale di vita e da aspettative di reciproca solidarietà, non già la contingente condivisione di spazi abitativi, priva di connotati affettivi e solidali, dovuta a mera amicizia.”

I concetti di famiglia e convivenza devono essere interpretati in senso restrittivo. Gli stessi devono essere caratterizzati da una radicata e stabile relazione affettiva. In essa entrambe le parti devono nutrire reciproche aspettative di assistenza e mutua solidarietà. Il tutto deve essere fondato su un rapporto coniugale, di parentela o di condivisione stabile dell’abitazione comune, anche discontinua.

Nel caso di specie imputato e persona offesa erano semplici coinquilini, tra i quali non sussisteva alcun vincolo affettiva, ma fondato solo sulle necessitò comuni della vita quotidiana, che quindi non può essere qualificato come convivenza.

In difetto di questa condizione soggettiva richiesta dall’articolo 572 c.p la sentenza impugnata va annullata. Il reato di maltrattamenti infatti non si configura perché il fatto non sussiste.

 

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