omessa notifica fissazione udienza

Omessa notifica fissazione udienza: scatta la nullità La Cassazione ricorda che l'omessa notifica dell'avviso della fissazione dell'udienza integra una nullità di ordine generale

Mancata comunicazione udienza

L’omessa notifica dell’avviso della fissazione dell’udienza integra una nullità di ordine generale assoluta e insanabile. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 22266/2024 decidendo il ricorso di un condannato avverso l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza. 

La vicenda

L’uomo eccepiva la nullità del provvedimento per omessa notifica dell’avviso dell’udienza camerale (allo stesso e al difensore). La mancata conoscenza del procedimento, sosteneva, “avrebbe determinato l’assenza dell’interessato e del proprio difensore di fiducia, per come desumibile dal verbale di udienza”.
Per la Cassazione, il ricorso è fondato.

Il principio di diritto

Dall’esame della documentazione risultava effettivamente che l’udienza era stata tenuta nonostante l’omessa notifica del decreto di citazione al condannato e al suo difensore. “E’ stata preclusa al ricorrente – afferma quindi la S.C. – ogni difesa, in violazione del diritto al contraddittorio”.
Deve, pertanto, essere fatta applicazione del principio, consolidatosi per effetto dell’intervento delle Sezioni Unite, per cui «l’omessa notificazione dell’avviso della fissazione dell’udienza, in quanto equiparabile al
decreto di citazione nel procedimento ordinario e attinente all’intervento dell’interessato e alla sua assistenza tecnica, integra una nullità di ordine generale, assoluta e insanabile, dell’udienza e degli atti successivi, compresa l’ordinanza conclusiva, ai sensi del combinato disposto degli artt. 178, comma 1, lett. C), e 179, comma 1, cod. proc. pen.» (tra le altre, Sez. U, n. 24630/2015, n. 2418/1998).

L’annullamento, concludono gli Ermellini, deve essere disposto con rinvio in adesione all’orientamento
più recente secondo cui «in tema di ricorso per cassazione, ove li provvedimento impugnato sia affetto da nullità assoluta per violazione del contraddittorio, deve disporsi l’annullamento con rinvio, dovendosi applicare la regola generale di cui al combinato disposto degli artt. 623, comma 1, lett. b) e 604, comma 4, cod. proc. pen., che prevede l’adozione di tale provvedimento qualora venga accertata una causa di nullità ex art. 179 cod. proc, pen.» (cfr., tra le altre, Cass. n. 14568 del 21/12/2021).

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phishing

Phishing: cos’è e come tutelarsi Phishing: truffa informatica che sfrutta le paure dei navigatori del web per rubare i dati e mettere in atto diversi illeciti penali

Phishing: cos’è

Il phishing è un attacco informatico che ha la finalità di rubare i dati e le informazioni personali dei navigatori di Internet.

Il phishing inganna psicologicamente l’utente, sfruttando i suoi timori, per sottrargli ad esempio i dati di accesso ai conti correnti o ai documenti di identità. Il criminale impiega poi questi dati per compiere illeciti penali, senza che la vittima se ne accorga, salvo nel momento in cui si sente accusare di condotte penalmente rilevanti.

Come si realizza

Il mezzo preferito per carpire le informazioni altrui è senza dubbio la posta elettronica.

In genere le e-mail presentano un logo o un indirizzo che richiama quello di enti od organizzazioni attendibili, come istituti di credito o servizi postali. Per rubare i dati le e-mail segnalano di solito l’esistenza di un problema di sicurezza relativo all’account della banca o della posta di cui la vittima è titolare. C’è quindi un invito a cliccare un link per la risoluzione del problema. L’utente è quindi portato a inserire i propri dati personali, che vengono immediatamente indirizzati sul sito falso del criminale. Una volta che l’utente entra nel sito del cracker subisce in genere anche un danno al proprio divella a causa di virus, trojan e malware.

Phishing: quali reati può configurare

Il phishing è quindi una condotta illecita che può realizzare diverse fattispecie criminose.

Il primo è il reato di sostituzione di persona contemplato dall’articolo 494 c.p. C’è poi l’accesso abusivo in un sistema informatico o telematico previsto e disciplinato dall’articolo 615 ter c.p. La condotta però può anche configurare il reato di falsificazione di comunicazione telematica di cui all’articolo 617 sexies c.p, la truffa di cui all’articolo 640 c.p o la frode informatica punito dall’articolo 640 ter c.p. L’articolo 167 del Codice in materia di protezione dei dati personali contenuto nel decreto legislativo n. 196/2003 e riformato per adeguare questo testo di legge al regolamento UE 2016/679 punisce infine il trattamento illecito di dati che prevede l’intervento del PM e del Garante Privacy.

Come tutelarsi

La prima strategia per evitare che i dati personali vengano rubati per commettere illeciti consiste nel prestare molta attenzione alla creazione dei datti, ma soprattutto al loro utilizzo e alla loro diffusione.

Occorre poi stare attenti al tono di email e SMS. Il phishing, come anticipato, sfrutta le paure degli utenti della rete, per cui tendono ad avere sempre un tono allarmistico.

Prima di aprire una e-mail è sempre bene controllate l’indirizzo del mittente. In genere è possibile rendersi conto subito che si tratta di indirizzi fasulli.  Questi indirizzi e-mail infatti spesso non contengono neppure il nome dell’ente o della banca che lo invia e, se lo contengono, presentano caratteri particolari, da cui è facile intuire che non sono ufficiali.

Una volta aperta la e-mail evitare di aprire qualsiasi link contenuto al suo interno. Per un controllo veloce è possibile passare il mouse sopra il link o inserirlo nella barra in cui si inserisce l’indirizzo del motore di ricerca.

Un altro aspetto molto importante da considerare è rappresentato dalla connessione. Meglio scegliere connessioni sicure ed evitare connessioni Wi-Fi sconosciute o senza password. Verificare inoltre la presenza del protocollo HTTPS e il nome del dominio.

Come sporgere denuncia

Le vittime del raggiro tramite il phishing che hanno subito il furto dei propri dati possono fare denuncia attraverso il servizio dedicato del sito Commissariato della Polizia di Stato.

Lo sportello per la sicurezza degli utenti del web può essere utilizzato per denunciare o segnalare tutta una serie di reati informatici come il phishing appunto, ma anche il cyberbullismo, il romance scam, la violazione del diritto d’autore, lo spamming, il cyberstalking, la pedofilia online, il cyberstalking e tante altre condotte criminali online.

La denuncia che viene inviata tramite questo sito è seguita dall’apertura di un fascicolo, che viene poi inviato alla Procura della Repubblica per poter procedere.

giurista risponde

Nesso di causalità e interruzione da concause successive Il nesso di causalità che collega le condotte omissive o commissive dell’imputato all’evento lesivo prodotto, può essere interrotto da concause successive idonee a determinare l’evento?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Con riferimento al nesso di causalità, fermo il principio della c.d. equivalenza delle cause o della conditio sine qua non, le cause sopravvenute intanto possono giudicarsi atte ad interrompere il nesso di causalità con la precedente azione o omissione dell’imputato, in quanto diano luogo ad una sequenza causale completamente autonoma da quella determinata dall’agente, ovvero ad una linea di sviluppo dell’azione precedente del tutto autonoma ed imprevedibile, ovvero ancora nel caso in cui si prospetti un processo causale non totalmente avulso da quello antecedente, ma caratterizzato da un percorso totalmente atipico, di carattere assolutamente autonomo ed eccezionale ovverosia integrato da un evento che non si verifica se non in fattispecie del tutto imprevedibili, tali non essendo ad esempio, l’eventuale errore medico. – Cass., sez. IV, 14 marzo 2024, n. 10656.

L’art. 41 c.p. afferma a tal proposito, il principio dell’equivalenza delle cause, stabilendo da un lato la responsabilità del soggetto agente seppure in presenza di cause indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, qualora sia provato che l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato a prescindere da esse. Dall’altro la non responsabilità del soggetto agente innanzi a cause sopravvenute del tutto eccezionali, atipiche ed anomale rispetto al decorso dei fatti, in base ad un giudizio prognostico e controfattuale.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte omissive dell’agente e l’evento morte del soggetto leso, tenuto conto delle cause determinanti la morte. In primo e secondo grado era stata riconosciuta la responsabilità dell’imputato, in considerazione di una ricostruzione dei fatti che vedeva l’imputato aver posto in essere una condotta omissiva causativa dell’incidente mortale, senza la quale la preesistente condizione medica dell’infortunato non sarebbe degenerata a tal punto da causarne il decesso. Per tutto il giudizio di merito infatti, la dinamica dell’infortunio non è mai stata oggetto di contestazione, ad esserlo invece è stato il nesso di causalità che ricollega l’evento morte alle condotte dell’agente, non potendosi escludere – a dire del ricorrente – che il decesso fosse sopraggiunto per causa anomala ed indipendente rispetto alle lesioni di cui all’infortunio.

Viene proposto quindi ricorso per Cassazione, contestando violazione di legge penale e vizio di motivazione quanto al ritenuto nesso causale tra la condotta dell’imputato e il decesso della vittima. Il prevalente e consolidato orientamento interpretativo del disposto dell’art. 41, comma 2 c.p., più volte riaffermato dalla giurisprudenza di legittimità e sopra riportato è stato ripreso nella decisione de qua della Corte che, ritenendo il motivo infondato ha rigettato il ricorso.

Contributo in tema di “Nesso di causalità, condotte omissive e commissive e interruzzione da concause successive”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

detenuto farsi sopracciglia

Il detenuto non può farsi le sopracciglia Il presunto diritto all'estetica è mero interesse di fatto privo di tutela vista la pericolosità dello strumento vietato in tutti gli istituti

Carcere duro

Non lede il diritto alla cura della persona negare al detenuto al carcere duro la possibilità di tenere delle pinzette per sopracciglia in metallo anzichè di plastica. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 22967/2024.

La vicenda

Nella vicenda, un detenuto presso la Casa Circondariale di Spoleto in regime di sorveglianza speciale ex art. 41 bis ord. pen., presentava reclamo avverso il diniego oppostogli per ragioni di sicurezza dal D.A.P. alla richiesta di acquistare una pinzetta per ciglia in metallo, in luogo di quella in plastica che gli era consentito di detenere.
Il magistrato di sorveglianza rigettava il reclamo «trattandosi di oggetto non consentito per ragioni di sicurezza e preso atto che non viene in evidenza la violazione di diritti».
Il difensore dell’uomo presentava reclamo ex art. 35 bis ord. pen., evidenziando che la giurisprudenza di merito aveva in più occasioni valutato positivamente la possibilità di consegnare ai soggetti ristretti in regime ex art. 41 bis ord. pen. pinzette in metallo.
Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, tuttavia, rigettava il reclamo, rilevando che l’art. 6 della circolare D.A.P. .n 3676/1626 autorizzava l’uso di pinzette esclusivamente in plastica, ritenendo potenzialmente pericolose quelle in metallo, e ritenendo altresì che non venissero in rilievo né concreti pregiudizi al diritto alla salute nè irragionevoli disparità di trattamento, poiché le pinzette in metallo erano state ritirate a tutti i detenuti.

Il ricorso

La questione approdava innanzi al Palazzaccio, dove l’uomo, per il tramite del proprio difensore, si doleva della carenza di motivazione del provvedimento, “non essendo stata fornita risposta alle doglianze articolate in sede di reclamo, relative all’inefficacia dello strumento in plastica fornito dal’Amministrazione penitenziaria, «ritenuto insufficiente a sopperire alle esigenze di igiene personale», all’assenza di pericolosità dello strumento in metallo, soprattutto ove si consideri che ai detenuti è consentito detenere rasoi e forbicine, ed alla circostanza che in più occasioni la giurisprudenza di merito ha valutato positivamente la possibilità di consegnare ai soggetti ristretti al 41 bis pinzette in metallo”.

Diritto all’estetica privo di tutela

Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi. Intanto, premettono i giudici la circolare 2017 del DAP citata prevede espressamente che ai detenuti possono essere consegnate esclusivamente pinzette in plastica. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di statuire che “non è configurabile la lamentata violazione di legge per la lesione del diritto alla salute derivante dalla impossibilità di attendere ala cura della persona, mancando li potere dell’Amministrazione di limitare l’uso di tali strumenti non diversi da altri, parimenti pericolosi, ma pur tuttavia ammessi (cfr. Cass. n. 32947/2022).

Il provvedimento impugnato, proseguono da piazza Cavour, “non ha confuso il diritto alla salute con un presunto diritto alla estetica della persona. Si tratta, infatti, di un mero interesse di fatto, privo di tutela; invero, con l’impugnazione non si contesta che l’introduzione di tali strumenti è vietata, per ragioni di sicurezza, in tutti gli istituti; si tratta di una legittima misura precauzionale da cui non deriva alcuna lesione di diritti soggettivi”.

La decisione

Appare, quindi, evidente che, nel caso di specie, concludono dalla S.C., “non sussiste una situazione soggettiva tutelabile, né una concreta lesione di un diritto soggettivo e che quindi avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza non poteva essere proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza e neppure ricorso per cassazione”.
Per cui il ricorso è inammissibile con conseguente onere per il ricorrente di sostenere le spese del procedimento oltre a versare 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

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pratiche di mutilazione

Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili Nozione e oggetto giuridico del reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili ex art. 583bis c.p.

Il reato ex art. 583-bis c.p.

Il reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili è previsto e punito ai sensi dell’art. 583bis, il quale dispone che risponde penalmente: “a) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili (comma 1); b) chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al comma 1, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente (comma 2)”.

Legge n. 7/2006

Trattasi di fattispecie introdotta dalla L. 9-1-2006, n. 7, nel novero di un complesso di misure finalizzate a «prevenire, contrastare e reprimere le pratiche di mutilazione genitale femminile quali violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine» (art. 1, L. 7/2006 cit). Configurando una ipotesi speciale del delitto di lesione personale, con essa condivide l’oggetto giuridico, essendo posta a tutela dell’incolumità della persona (cui va aggiunto l’interesse statuale all’integrità fisica e psichica dei cittadini). Con tale norma il legislatore mira, infatti, alla repressione di condotte lesive degli apparati connessi alla funzione sessuale, dunque gravemente pregiudizievoli dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo, della sua dignità personale, nonché della stessa vita di relazione.

Il reato negli altri Paesi europei

L’opportunità di tale intervento legislativo è, altresì, evidenziata dal fatto che già altri Paesi europei hanno provveduto ad introdurre fattispecie ad hoc (ad esempio, in Svezia, sin dal 1983, è sanzionata penalmente qualsiasi forma di mutilazione dei genitali femminili, pur se solo con un massimo di due anni di reclusione, ma con una pena maggiore se dalla mutilazione deriva pericolo di morte; in Gran Bretagna, sin dal 1985, costituisce reato, fra l’altro, «tagliare, infibulare o in qualsiasi modo mutilare le grandi e piccole labbra in tutto o in parte e la clitoride»). Il ripudio di tali inammissibili aggressioni dell’integrità fisica è, peraltro, ricavabile, in modo più o meno chiaro e cogente, dalle previsioni normative di numerose dichiarazioni, patti e convenzioni internazionali, ratificati in Italia, fra le quali la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1969), la Convenzione contro la tortura (1984), la Convenzione contro ogni forma di discriminazione contro le donne (1979, nota con l’acronimo «Cedaw»), cui vanno aggiunti la Dichiarazione ed il Programma di azione adottati a Pechino il 15-9-1995 nella quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, nonché, a livello di legislazione «interna», gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, alla cui attuazione è «consacrata» la L. 7/2006. Tale provvedimento è, altresì, in linea con quanto affermato dal Parlamento europeo nel settembre 2001, considerando le mutilazioni genitali come «gravissima lesione della salute fisica, mentale e riproduttiva delle donne e delle bambine», ed invitando gli Stati membri a considerarle come «reato all’integrità della persona».

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 1

Il comma 1 della previsione in commento sanziona penalmente il cagionare una mutilazione di organi genitali femminili, specificando (per vero pleonasticamente) che la condotta rileva penalmente solo ove non trovi giustificazione in esigenze terapeutico-curative della vittima.

È lo stesso comma 1 a precisare che, nel concetto di «pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili» rientrano «la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo».

Secondo le definizioni mutuate dalla scienza medica tradizionale, la clitoridectomia (o escissione), chiamata anche in arabo Tahara (purificazione) o Khefad (riduzione), consiste nella rimozione dell’intero clitoride e delle adiacenti labbra. L’infibulazione (dal latino fibula, spilla), è, invece, una mutilazione genitale femminile praticata in molte società di stampo patriarcale dell’Africa, del sud della penisola araba e del sud-est asiatico. Con tale pratica (nota anche come escissione faraonica) il clitoride viene rimosso insieme alle piccole labbra e parte delle grandi (circa i 2/3), ed al termine dell’operazione, l’apertura viene ricucita con una sutura o con spine, lasciando solo un piccolo spazio per il passaggio delle urine e del sangue mestruale. Trattasi, come evidente, di una pratica che, se pur saldamente ancorata in talune tradizioni culturali, è totalmente inammissibile in ordinamenti i cui precetti pongono al centro di ogni previsione la salvaguardia dell’integrità e della dignità dell’individuo, specie se si considera che i rapporti sessuali, attraverso questa pratica, vengono impossibilitati fino alla defibulazione (che in queste culture, viene effettuata direttamente dallo sposo prima della consumazione del matrimonio), che dopo ogni parto viene effettuata una nuova infibulazione per ripristinare la situazione prematrimoniale, e che la pratica dell’infibulazione faraonica ha lo scopo di conservare e di indicare la verginità al futuro sposo e di rendere la donna una specie di oggetto sessuale incapace di provare piacere nel sesso.

Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui vengono realizzate le orride mutilazioni di cui alla norma. Quanto all’elemento soggettivo, la fattispecie è punibile a titolo di dolo generico, richiedendosi esclusivamente la cosciente e volontaria realizzazione delle condotte produttive delle mutilazioni, a prescindere dalle finalità perseguite concretamente dal reo.

Struttura oggettiva e soggettiva della fattispecie ex comma 2

La norma completa la tutela della sfera genitale femminile sanzionando penalmente chiunque cagioni lesioni ad organi genitali femminili diverse da quelle prima descritte, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, al fine di menomare le funzioni sessuali, anche in tale ipotesi (come detto, ovviamente) al di fuori del caso in cui sussistano esigenze terapeutico-curative.

Nel tentativo, peraltro, di configurare in tale fattispecie una ipotesi «speciale» di lesione personale, il legislatore ne ha riprodotto la equivoca struttura oggettiva, sanzionando le lesioni (agli organi genitali femminili, elemento specializzante) da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente. Anche in tale occasione, dunque, è possibile elevare le critiche mosse dalla migliore dottrina (Antolisei, Mantovani) e dalla prevalente giurisprudenza, in relazione all’analogo disposto dell’art. 582 c.p. Dalla lettura di tale ultimo articolo, infatti, sembra ipotizzarsi la necessità di un duplice evento naturalistico: la lesione organica conseguente alla condotta umana, e la malattia fisica o mentale in conseguenza dell’evento-lesione. In realtà, si obiettò che l’evento è unico, e consiste nella malattia corporea o mentale conseguente alla condotta criminosa.

È possibile, dunque, concludere che tale comma sia diretto a sanzionare chiunque cagioni una qualunque alterazione anatomico-funzionale a carico degli organi genitali femminili, che comporti la necessità di un processo di reintegrazione curativa, sia pur di breve durata. L’adesione alla tesi dell’unicità dell’evento, consistente, appunto, nella malattia, consente, altresì, di dedurre che la condotta criminosa (a differenza della fattispecie di cui al comma 1) non debba necessariamente consistere in una azione violenta, e debba (come la fattispecie-madre di lesioni) considerarsi configurabile anche in forma omissiva impropria.

Quanto al momento consumativo, si identifica con il prodursi dell’evento naturalistico della fattispecie, consistente nella malattia.

Quanto al tipo di malattia cagionabile, si è osservato che, se il riferimento alla patologia mentale ha un senso rispetto alle lesioni personali comuni, difficilmente è configurabile in relazione ad una fattispecie nella quale si richiede il prodursi di una malattia ad organi genitali, se non quale conseguenza ulteriore rispetto alla patologia «corporea».

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto, a differenza della configurazione di cui al comma 1, è punibile a titolo di dolo specifico, richiedendosi la coscienza e volontà di cagionare la lesione, al fine di menomare le funzioni sessuali (finalità il cui mancato conseguimento non incide sulla consumazione del reato, rispetto al quale, come detto, rileva esclusivamente il prodursi della malattia). Poco opportuna, sotto il profilo interpretativo, appare, inoltre, la previsione di una circostanza attenuante ad effetto speciale, sancita dall’ultimo periodo del comma in esame, per il caso in cui la lesione sia di lieve entità, in quanto rimette al giudice una non agevole (dunque potenzialmente disuniforme) valutazione, contrapposta alla «chiarezza» delle nozioni «comuni» di lesione lieve o lievissima, connesse alla durata della patologia prodotta, evincibili dall’art. 582 c.p.

Circostanze aggravanti

Il comma 3 della norma in commento prevede due configurazioni aggravate delle fattispecie appena descritte, consistenti nel caso in cui il fatto sia commesso a danno di un minore o per fini di lucro.

Totalmente condivisibile risulta tale opzione normativa, se si ha riguardo del fatto che, eccettuati rari casi posti in essere su donne in età «da marito» ed, addirittura, su neonate, l’età tipica per praticare le mutilazioni di cui alla norma oscilla dai 6 ai 10 anni, e che la sussistenza nell’agente di un becero animus lucrandi, in luogo degli, sia pur inammissibili, intenti derivanti da convincimenti ideologico-religiosi, rende ancor più socialmente intollerabile la realizzazione di tali pratiche, fondando l’aggravio sanzionatorio.

Inoltre, a seguito dei correttivi effettuati sull’art. 585 c.p. dal cd. «Pacchetto sicurezza» (L. 15-7-2009, n. 94), il delitto in commento è aggravato se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 576 c.p. (pena aumentata da un terzo alla metà) e dall’art. 577 c.p. (pena aumentata fino a un terzo), come anche nel caso in cui il fatto sia commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite.

Pene e istituti processuali

La pena, per l’ipotesi di cui al comma 1, è la reclusione da 4 a 12 anni; per la fattispecie di cui al comma 2 è la reclusione da 3 a 7 anni (ridotta fino a due terzi in caso di lesione di lieve entità, ed incrementata di un terzo nell’ipotesi aggravata.

La pena accessoria di cui al comma 4

Dispone il comma 4 dell’articolo in esame (neointrodotto dalla L. 172/2012) che la condanna, anche se patteggiata, per il reato in commento comporta, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, rispettivamente la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale e l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. Tale disposto non costituisce previsione inedita (salvo che per il riferimento alla pena patteggiata), ma trova corrispondenza nell’art. 602bis (conseguentemente soppresso).

L’art. 583-ter c.p.

Ai sensi dell’art. 583ter, la condanna contro l’esercente una professione sanitaria per taluno dei delitti previsti dall’art. 583bis importa la pena accessoria dell’interdizione dalla professione da tre a dieci anni (per tal via energicamente stigmatizzando, quasi con un «marchio di infamia», quanti si rendano responsabili delle lesioni in oggetto, ad un tempo suggellando plasticamente la gravità del reato e neutralizzando il reo). Della sentenza di condanna è data comunicazione all’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (evidentemente in vista dell’applicazione di sanzioni disciplinari; si tenga, infatti, conto del fatto che l’art. 50 del Codice di deontologia medica, nel precludere al medico ogni forma di collaborazione, partecipazione o semplicemente presenza al compimento di atti di tortura o di trattamenti crudeli, disumani o degradanti, vieta, altresì, espressamente al medico di praticare qualsiasi forma di mutilazione sessuale femminile).

Aspetti procedurali

La fattispecie di cui al comma 1 è di competenza del Tribunale collegiale, mentre quella di cui al comma 2 del Tribunale monocratico. Si procede d’ufficio, l’arresto in flagranza è facoltativo ed il fermo consentito (salvo che per la seconda ipotesi attenuata).

Infine, l’ultimo comma dell’art. 583bis estende l’applicabilità delle relative disposizioni al caso in cui il fatto sia commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia.

 

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riforma penale nordio legge

Legge Nordio: in vigore dal 25 agosto In vigore dal 25 agosto la legge Nordio sulla giustizia che interviene sulle intercettazioni, elimina l’abuso d’ufficio e modifica l’informazione di garanzia

Legge Nordio in vigore dal 25 agosto 2024

La legge Nordio, il disegno di legge per la riforma della giustizia  presentato dal Ministro della giustizia Carlo Nordio é in vigore. La Camera ha approvato in via definitiva il testo nella mattinata di mercoledì 10 luglio 2024. Il testo (legge n. 114/2024) è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 10 agosto per entrare in vigore il 25 agosto.

Dall’abuso d’ufficio alle intercettazioni: le novità

Il testo, che interviene sul codice penale, sul codice di procedura penale, sull’ordinamento giudiziario e su quello militare, abolisce il reato di abuso d’ufficio, modifica la disciplina sulle intercettazioni, limitando i poteri di pubblicazione e introduce importanti novità per quanto riguarda il reato di traffico di influenze illecite. Analizziamo le novità più significative della riforma Nordio.

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Eliminato il reato di abuso d’ufficio

L’eliminazione del reato di abuso d’ufficio contenuto nell’articolo 323 del Codice penale e commesso dai pubblici ufficiali o dai soggetti incaricati dello svolgimento di un pubblico servizio  rappresenta una delle modifiche più significative del disegno di legge, approvata dalla Camera diversi giorni prima dell’approvazione definitiva.

Modificato il reato di traffico di influenze illecite

Il reato contemplato dall’art. 346 bis c.p subisce delle restrizioni applicative, lo stesso viene limitato infatti alle condotte particolarmente gravi. La pena minima viene innalzata a un anno e sei mesi e le relazioni tra mediatore e pubblico ufficiale devono essere “utilizzate, non vantate. L’utilità data o promessa al posto del denaro infine deve essere solo economica.

Intercettazioni: limiti alla pubblicazione

Il testo prevede una maggiore tutela per le comunicazioni che intercorrono tra il difensore e l’imputato. L’autorità giudiziaria non potrà acquisire le comunicazioni tra i soggetti suddetti, fatta eccezione per la corrispondenza, a meno che non ritenga che si tratti di corpo del reato.

Introdotto il divieto di pubblicazione, anche solo di una parte del contenuto delle intercettazioni, qualora non venga riprodotto dal giudice all’interno della motivazione di un provvedimento giudiziale o impiegato nel dibattimento.

Impossibile infine il rilascio di copie delle intercettazioni quando non possono essere pubblicate, se la domanda proviene da un soggetto terzo rispetto al difensore e alle parti a meno che i risultati delle intercettazioni debbano essere utilizzati in un altro procedimento.

Informazione di garanzia

Nell’informazione di garanzia si dovrà descrivere il fatto in modo sommario, indicando data e luogo del reato. La pubblicazione sarà vietata fino a quando non saranno concluse le indagini preliminari e la notifica dovrà essere effettuata in modo da tutelare l’indagato da conseguenze improprie.

Interrogatorio preventivo rispetto alla misura cautelare

La persona sottoposta alle indagini verrà sottoposta all’interrogatorio preventivo nei casi in cui on sia necessario  adottare un provvedimento cautelare a sorpresa, al fine di garantire il principio del contraddittorio preventivo. Qualora si renda necessaria l’applicazione della misura cautelare in carcere durante lo svolgimento delle indagini preliminari la decisione dovrà essere adottata collegialmente.

Limiti all’appello del PM

La riforma prevede che il pubblico Ministero non possa appellare le sentenze di proscioglimento emesse in relazione a reati di “contenuta gravità”, come quelli individuati dall’art. 550 c.p.p per i quali è prevista la citazione diretta.

Ordinamento giudiziario e magistrati

In virtù della novità rappresentata dalla composizione collegiale del giudice per le indagini preliminari vengono modificate le tabelle infradistrettuali e i criteri per l’assegnazione degli affari penali.

Aumenta il numero dei magistrati destinati alle funzioni giudicanti di primo grado.

Per scongiurare il rischio di nullità per i processi i mafia e di terrorismo si recisa che il limite di età di 65 anni stabilito per i giudici popolari delle Corti di Assise si riferisce al momento in cui il giudice viene chiamato per prestare servizio all’interno del collegio.

Ordinamento militare

Con la riforma l’avanzamento di carriera dei militari non sarà ostacolato in caso di rinvio a giudizio ma solo se raggiunto da una sentenza di condanna di primo grado in quanto primo atto di condanna, purché non definitivo.

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Revenge porn: come fare una segnalazione Revenge porn: come funziona il servizio di segnalazione online del Garante Privacy per prevenire il fenomeno del Revenge porn

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Revenge porn: il Garante Privacy ha reso disponibile il servizio online per effettuare una segnalazione, oltre ad un’utile scheda informativa per prevenire e difendersi da questo tipo di fenomeni proteggendo e gestendo correttamente i propri dati personali.

Cos’è il revenge porn

Il revenge porn, si ricorda, consiste nell’invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione, da parte di chi li ha realizzati o sottratti e senza il consenso della persona cui si riferiscono, di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati. Tale diffusione avviene di solito a scopo vendicativo (ad esempio per “punire” l’ex partner che ha deciso di porre fine ad un rapporto amoroso), per denigrare pubblicamente, ricattare, bullizzare o molestare. Si tratta quindi di una pratica che può avere effetti drammatici a livello psicologico, sociale e anche materiale sulla vita delle persone che ne sono vittime.

Protezione dati personali

La prima e più importante forma di difesa, ricorda il Garante, sono sempre la consapevolezza e la prudenza. Spesso accade che i dati personali vengano immessi dagli stessi interessati nel circuito di messaggistica e social network, sfuggendo così ogni controllo e rendendone impossibile la cancellazione una volta diffusi.

Per proteggere i dati personali eventualmente presenti nei tuoi dispositivi (smartphone, pc o tablet), occorre utilizzare sempre adeguate misure di sicurezza: ad esempio, password che proteggono i dispositivi e/o le cartelle in cui conservi i file, sistemi di crittografia per rendere illeggibili i file agli altri, sistemi anti-virus e anti-intrusione per i dispositivi.

Se si ricevono foto o immagini a contenuto sessualmente esplicito che riguardano altre persone, il Garante consiglia di evitare “di essere complice di comportamenti illeciti nei confronti delle stesse” di non diffonderle, cancellarle e se si ritiene di fare una segnalazione alla Polizia postale.

A maggior ragione quando tali fenomeni riguardano i minori, come vittime o destinatari di contenuti.

“Se sei un genitore – consiglia il Garante – evita di far utilizzare dispositivi digitali ai tuoi figli piccoli se sono da soli, monitora il loro comportamento online e spiega con chiarezza perché è bene evitare di interagire con sconosciuti e diffondere informazioni personali, soprattutto foto e filmati, tramite messaggi e social network (vedi anche la pagina informativa www.gpdp.it/minori).

Come prevenire il Revenge porn

Nel caso in cui si abbia un fondato timore che immagini a contenuto sessualmente esplicito possano essere diffuse senza il proprio consenso è possibile presentare una segnalazione al Garante ai sensi degli art. 144-bis del Codice in materia di protezione dei dati personali e 33-bis del regolamento n. 1/2019 del Garante.

Per farlo è possibile utilizzare l’apposito form reso disponibile nel sito istituzionale dell’Autorità, in cui dovranno essere indicate le piattaforme di condivisione di contenuti (social network, messaggistica, ecc.) attraverso le quali si teme la diffusione, nonché le ragioni che fondano il timore che la condotta pregiudizievole possa essere posta in essere.

Dovranno poi essere trasmesse all’Autorità – tramite un link che sarà comunicato dopo la presentazione della segnalazione – le immagini o i contenuti sessualmente espliciti dalla cui divulgazione ci si intenda tutelare.

Il Garante, in presenza dei presupposti indicati dalle norme di riferimento, adotterà un provvedimento, che sarà notificato alle piattaforme coinvolte nel tentativo di contrastare la temuta diffusione.

Questo strumento può essere utilizzato non solo dagli adulti, ma anche dai minori.

Si ricorda che alla tutela che accorda il Garante può sempre aggiungersi quella prestata dalla Polizia Postale, alla quale è possibile rivolgersi per denunciare situazioni in cui siano ravvisabili gli estremi di una condotta penalmente rilevante (come nel caso in cui si subiscano minacce o richieste estorsive).

Infine, rammenta l’autorità, il più importante accorgimento “è tenere alto il livello di prudenza nel condividere materiale a contenuto sessualmente esplicito, in quanto l’intervento del Garante non è in grado di assicurare, in termini assoluti, che l’evento temuto non si verificherà: la persona malintenzionata, ad esempio, potrebbe detenere immagini anche solo parzialmente diverse da quelle comunicate alla piattaforma vanificando così la misura adottata”.

giurista risponde

Scriminante legittima difesa per chi ha provocato la situazione di pericolo È possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, quando il soggetto che la invoca abbia lui stesso provocato la situazione di pericolo o si sia alla stessa volontariamente esposto pur avendo la possibilità di sottrarsi?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non è possibile riconoscere la scriminante della legittima difesa, nemmeno putativa, quando il soggetto che la invoca ha provocato lui stesso la situazione di pericolo, ovvero ha “accettato la sfida” innescando una sorta di duello con l’avversario, e nemmeno è invocabile quando il soggetto si è volontariamente esposto al pericolo, pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso in presenza di un commodus discessus. La legittima difesa è, infatti, configurabile, solo quando l’autore del fatto versi in una situazione di pericolo attuale per la propria incolumità, tale da rendere necessitata e priva di alternative la sua reazione all’offesa mediante aggressione. – Cass., sez. I, 5 marzo 2024, n. 9435.

L’imputato propone ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari e confermata dal Tribunale del Riesame, lamentando l’errata applicazione delle norme sul riconoscimento della scriminante della legittima difesa, anche putativa.

Il fatto storico ha ad oggetto una lite condominiale tra due famiglie iniziata con ingiurie ed offese reciproche scambiate dai balconi delle rispettive abitazioni. A seguito delle aggressioni verbali, l’imputato era sceso nell’androne del palazzo armato di coltello e, una volta raggiunto dalla vittima, si scagliava contro la stessa colpendola più volte all’addome, provocandone la morte.

La difesa evidenzia il vizio di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale del Riesame che – erroneamente – non ha riconosciuto la scriminante della legittima difesa, almeno putativa, in considerazione del fatto che l’indagato aveva temuto che la vittima avesse con sé una pistola che già in precedenti occasioni aveva minacciato di voler usare. Non solo. Sostiene la difesa che i giudici non avrebbero considerato che, secondo la giurisprudenza costante, la scriminante può essere riconosciuta anche se il pericolo è stato volontariamente causato dall’aggressore che non poteva evitarlo con la fuga, circostanze, queste, ritenute sussistenti nella fattispecie de qua.

Il Tribunale del Riesame, invece, ha escluso l’applicazione della scriminante perché l’aggressione nell’androne era iniziata per volontà dell’imputato contro la vittima, perché non era stata provata la circostanza che quest’ultima potesse avere con sé una pistola, ma soprattutto perché l’imputato si era volontariamente esposto al pericolo e, quindi, ad una possibile reazione della vittima quando, invece, ben avrebbe potuto rifugiarsi nella propria abitazione o andare in strada dove c’erano molte persone.

La Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dalla difesa ritenendo che la decisione impugnata sia perfettamente conforme ai consolidati principi giurisprudenziali.

Smentendo, infatti, l’affermazione del difensore dell’imputato, la Corte evidenzia che è pacifico e consolidato in giurisprudenza che la scriminante della legittima difesa, reale o putativa, non può essere riconosciuta quando il soggetto che la invoca abbia causato, o abbia concorso a causare, la situazione di pericolo; nemmeno può essere riconosciuta quando il soggetto si sia volontariamente esposto al pericolo pur avendo la possibilità di sottrarsi ad esso senza pregiudizio o quando il soggetto abbia “accettato la sfida” con il proprio avversario perché in tal caso manca la convinzione di dover agire per lo scopo difensivo.

Contributo in tema di “Scriminante della legittima difesa invocata da chi ha provocato la situazione di pericolo”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

abrogazione abuso ufficio

Abrogazione abuso d’ufficio: Mattarella firma il ddl Nordio Il presidente della Repubblica ha promulgato in extremis il ddl Nordio che contiene l'abrogazione dell'abuso d'ufficio. Il testo si avvia ora in Gazzetta Ufficiale per diventare legge dello Stato

Abuso d’ufficio, promulgato il ddl Nordio

Abrogazione abuso d’ufficio: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il ddl Nordio che, tra l’altro, contiene la discussa abrogazione del reato di cui all’art. 323 del codice penale.

Il via libera del Quirinale è arrivato in extremis: il testo infatti era stato approvato in via definitiva dalla Camera il 10 luglio scorso e il presidente aveva un mese di tempo a disposizione per valutare i testi.

Il provvedimento che ora si avvia alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per diventare a tutti gli effetti legge dello Stato, si ricorda, oltre all’abrogazione dell’abuso d’ufficio, reca modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare.

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Truffa contrattuale per chi riduce i chilometri dell’auto venduta Per la Cassazione, integra truffa contrattuale il ridurre i km reali presenti sul cruscotto dell'auto usata venduta, anche se non viene modificato il prezzo

Truffa contrattuale

Scatta la truffa contrattuale per chi riduce i chilometri dell’auto venduta, anche se la circostanza non modifica il prezzo dell’auto sul mercato dell’usato. Ciò perchè, se l’acquirente avesse conosciuto il reale chilometraggio, non avrebbe proceduto all’acquisto. E’ quanto statuito dalla seconda sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 25283/2024.

La vicenda

Nella vicenda, la Corte d’appello di Bologna confermava la decisione emessa dal Tribunale di Ferrara che aveva riconosciuto la responsabilità dell’imputato per il reato di truffa contrattuale a lui ascritto, condannandolo alla sanzione penale ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso l’imputato, lamentando tra l’altro vizio esiziale di motivazione (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), non avendo la Corte argomentato sul motivo di gravame con il quale si era dedotta l’inconsistenza del profitto del reato di truffa, atteso che il prezzo pagato dall’acquirente (euro 5.800) per un’auto non recente, cui l’imputato avrebbe ridotto il numero dei chilometri percorsi, era comunque di gran lunga inferiore a quello medio indicato dalle riviste di settore per autovetture di quell’anno con quelle particolari caratteristiche.

Truffa contrattuale: quando ricorre

Per la S.C., i motivi di ricorso sono inammissibili per loro manifesta infondatezza ed assoluta aspecificità.
Dalla lettura del testo della sentenza impugnata si evince che la Corte territoriale ha espressamente motivato circa la consistenza e l’univocità delle evidenze documentali che hanno condotto ad affermare la responsabilità dell’alienante in relazione all’indicazione contraffatta del numero di chilometri percorsi dalla vettura oggetto di alienazione. I motivi di ricorso relativi si risolvono, pertanto, nella mera riproposizione delle argomentazioni già prospettate al giudice della revisione nel merito e da questi motivatamente respinte, senza svolgere alcun ragionato confronto con le specifiche argomentazioni spese in motivazione.

Del resto, la Corte di merito aveva già precisato che, “al di là del diminuito valore commerciale del veicolo alienato, la natura contrattuale della truffa contestata era stata dimostrata dalla circostanza che l’acquirente, ove avesse conosciuto le reali condizioni di uso della vettura alienanda non avrebbe acquistato il bene registrato. Il che integra il tipo contestato, senza che possano rilevare altri argomenti.

“La cosiddetta truffa contrattuale ricorre – aggiungono infatti gli Ermellini – in tutti i casi nei quali l’agente ponga in essere artifici e raggiri, aventi ad oggetto anche aspetti negoziali collaterali, accessori o esecutivi del contratto risultati rilevanti al fine della conclusione del negozio giuridico, e per ciò tragga in inganno il soggetto passivo che è indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, a nulla rilevando lo squilibrio oggettivo delle controprestazioni) relativi alla effettività della deminutio patrimonii (cfr. Cass. n. 18778/2014).

La decisione

Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di 3mila euro in favore della Cassa delle ammende.

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