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Bancarotta distrattiva per fatti già puniti: violazione del ne bis in idem? Integra violazione del ne bis in idem la contestazione del reato di bancarotta distrattiva per fatti già puniti, con sentenza divenuta irrevocabile, a titolo di truffa aggravata?

Quesito con risposta a cura di Andrea Bonanno, Claudia Caselgrandi e Federica Colantonio

 

Nel caso di sentenza irrevocabile di condanna per il delitto di truffa aggravata non integra violazione del ne bis in idem una successiva condanna per il reato di bancarotta distrattiva essendo le due condotte strutturalmente diverse e non essendo integrato il concetto di «stesso fatto» di cui all’art. 649 c.p.p. – Cass. IV, 21 dicembre 2022 n. 48360.

Nel caso di specie ad un imprenditore veniva contestato il delitto di bancarotta a seguito della distrazione della somma di 200.000 euro ottenuta, con artifizi e raggiri, a titolo di caparra per l’alienazione di un immobile di cui la società non era proprietaria, fatto per il quale già era stato condannato per il reato di truffa aggravata.

Con l’unico motivo, il ricorrente deduceva violazione di legge e vizio di motivazione quanto al principio del ne bis in idem, che, regolamentato all’art. 649 c.p.p., vieta che si possa essere puniti più volte per lo stesso fatto.

Secondo una prima tesi il concetto di «fatto» di cui al richiamato articolo andrebbe inteso in senso giuridico, con la possibilità, dunque, di subire una seconda condanna qualora i fatti oggetto della prima venissero diversamente qualificati in un differente titolo di reato.

Tuttavia, la giurisprudenza ormai maggioritaria, attribuisce al fatto un’accezione materiale, facendo riferimento alla condotta concretamente posta in essere a prescindere dalla qualifica giuridica che alla stessa può essere data. Si afferma, infatti, che altrimenti il divieto di cui all’art. 649 c.p.p. potrebbe essere facilmente eluso attraverso una diversa qualifica giuridica dello stesso fatto.

Particolare è l’ambito applicativo del divieto in esame nel caso di concorso formale di reati, in cui, cioè, il soggetto agente integra con un’unica condotta più fattispecie illecite.

In tal caso si è posto il problema della compatibilità tra il divieto del ne bis in idem e l’istituto del concorso formale di reati il quale, punendo più volte la stessa condotta, sembra porsi ontologicamente in conflitto con il primo.

Tale problema, come affermato da Corte cost. 21 luglio 2016, n. 200, è in realtà solo apparente.

Quando si discute della possibilità di procedere ad una seconda contestazione nei confronti di colui già destinatario di una pronuncia di condanna per un reato posto in essere con la medesima condotta, il concetto di «stesso fatto», di cui all’art. 649 c.p.p., dovrà essere inteso relativamente alla triade condotta-nesso causale-evento. Ciò posto, qualora la seconda contestazione inerirà, ad esempio, un evento diverso da quello oggetto della fattispecie già accertata con giudicato, il divieto del ne bis in idem dovrà ritenersi rispettato.

In applicazione di tali principi al caso oggetto della pronuncia in commento la Cassazione ha proceduto mediante una verifica sostanziale dei rapporti di interferenza tra le due fattispecie.

Al soggetto già condannato per il reato di truffa aggravata, a seguito dell’acquisizione di una somma a titolo di caparra confirmatoria da parte del ricorrente, quale legale rappresentante della società successivamente fallita, mediante la stipula di un contratto preliminare di vendita di un immobile di cui la società non era proprietaria, veniva ora contestato il reato di bancarotta distrattiva per aver prelevato e destinato a fini extrasociali tali risorse, in violazione della garanzia patrimoniale generica.

Nella fattispecie in disamina, pertanto, diversa è la condotta: la truffa consiste nell’induzione in errore determinante l’atto dispositivo e, la bancarotta per distrazione, nella destinazione della medesima somma per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall’entità dell’indebita prestazione erogata a seguito di artifizi e raggiri) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per i creditori, oltre al nocumento dell’affidabilità dei terzi.

Siffatti principi sono stati più volte riaffermati dalla Cassazione, che ha ribadito come il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti (nella specie mediante truffe), atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima, ed altresì che i beni provenienti da reato, fino a quando non siano individuati e separati dagli altri facenti parte di un determinato patrimonio, non possono considerarsi ad esso estranei.

Nel caso in esame, dunque, essendo diversa la stessa condotta dei due reati il disposto di cui all’art. 649 c.p.p. non può ritenersi violato.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., S.U., 34655/2005; Cass. pen. 27594/2019
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Sfruttamento dei lavoratori e confisca del profitto In base a quali parametri si valuta l’applicazione della confisca del profitto derivante dal delitto di cui all’art. 603bis del Codice Penale in tema di illecito sfruttamento dei lavoratori?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il reato di sfruttamento dei lavoratori costituisce un cd. “reato contratto” (e non “in contratto”), trattandosi di un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito (come tale nullo e non semplicemente annullabile), con la conseguenza che, nella specie, deve trovare applicazione il condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui dal profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto di lavoro illecito. – Cass. pen., sez. IV, 16 novembre 2022, n. 43470.

Il delitto di cui all’art. 603bis cod. pen. punisce le condotte, distorsive del mercato del lavoro, di reclutamento e intermediazione, le quali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, sono caratterizzate dallo sfruttamento di questi ultimi anche mediante violenza o minaccia.

Avendo come obiettivo politico-criminale la repressione del fenomeno del “caporalato”, la norma colpisce il “reclutamento”, ossia il complesso delle operazioni con le quali si provvede alla selezione di manodopera lavorativa. Il reclutatore sanzionato, id est il caporale, svolge un’attività di vera e propria intermediazione fra i prestatori d’opera e il datore di lavoro. A connotare la condotta criminosa è l’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori, scegliendo per la raccolta dei prodotti agricoli nelle campagne sia immigrati talvolta irregolari sia cittadini con difficoltà economiche.

Sono molteplici gli indici presuntivi dello sfruttamento fissati dalla disposizione: sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o sproporzionato rispetto a quantità e qualità del lavoro svolto; reiterata violazione della normativa sull’orario di lavoro, riposo settimanale e ferie; inosservanza della normativa in materia di sicurezza e igiene; sottoposizione del lavoratore a condizioni particolarmente degradanti e metodi di sorveglianza.

Costituiscono, inoltre, aggravanti: il reclutamento di un numero di lavoratori superiore a tre; l’età non lavorativa dei soggetti; l’esposizione dei lavoratori a grave pericolo.

Si evince dai tratti qualificanti della fattispecie delittuosa che si tratta di un “reato contratto” in cui il “pactum sceleris” è penalmente stigmatizzato: il disvalore è concentrato sulla conclusione del contratto. Non può, dunque, rientrare nella categoria dei “reati in contratto” in cui la legge sanziona non il fatto dell’accordo, bensì il comportamento violento o fraudolento, tenuto dal reo durante la stipulazione del contratto.

Con riferimento al profitto del reato, occorre innanzitutto chiarire che esso va inteso quale “vantaggio di natura economica”, “beneficio aggiunto di natura patrimoniale, “utile conseguito dall’autore del reato in seguito alla commissione del reato”.

Per consolidata giurisprudenza, la confisca del profitto, la quale risponde a esigenze di giustizia e di prevenzione generale e speciale, può essere applicata in base al criterio discretivo della pertinenzialità al reato del profitto stesso e non, invece, secondo parametri valutativi di tipo aziendalistico.

I giudici di legittimità hanno tracciato una distinzione marcata fra profitto conseguente a un “reato contratto” e quello derivante da un “reato in contratto”.

Nel caso del profitto afferente a un “reato contratto”, qual è l’art. 603bis cod. pen., “si determina un’immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca”.

Nella diversa ipotesi del profitto del “reato in contratto”, si è stabilito invece che “è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes (ed eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente”.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, adita con ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame, ha annullato tale provvedimento con cui il profitto confiscabile del reato di cui all’art. 603bis cod. pen. è stato calcolato tenendo conto della nozione aziendalistica di profitto netto. Il giudice del riesame, dall’importo complessivo dei vantaggi economico-patrimoniali derivanti dal delitto commesso da un imprenditore agricolo ha, infatti, detratto l’importo totale dei presunti costi sostenuti per la retribuzione dei lavoratori assunti illecitamente.

Sicché, il Tribunale del riesame dovrà attenersi ai principi di diritto indicati dai giudici di legittimità nella determinazione del profitto confiscabile: “il profitto derivante dall’illecito sfruttamento dei lavoratori è conseguenza immediata e diretta del reato ed è, pertanto, interamente assoggettabile a confisca, indipendentemente dai costi sostenuti per la consumazione del reato, per definizione estranei alla nozione (penalistica e non aziendalistica) di profitto che qui rileva”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio 2015, n. 9988; Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008, n. 26654; Cass. pen., S.U., 24 maggio 2004, n. 29951; Cass. pen., S.U., 25 ottobre 2005, n. 41936
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Concorso anomalo nel furto e rapina impropria Come si atteggia il concorso anomalo rispetto al furto che si sviluppa nella rapina impropria?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

L’eventuale uso di violenza o minaccia da parte di uno dei concorrenti nel reato di furto per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o per procurare a sé o ad altri l’impunità costituisce il diverso reato di rapina quale logico e prevedibile sviluppo della condotta finalizzata alla commissione del furto, avendo il reo, unitamente al proprio complice, usato un’energia fisica che ha limitato la persona offesa nei propri movimenti, consentendo – quale effetto – l’impossessamento definitivo del bene alla medesima sottratto. – Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2022, n. 43424.

Nel concorso anomalo, disciplinato dall’art. 116 del Codice penale, taluno dei concorrenti, nell’eseguire un programma criminoso o un accordo, pone in essere un reato differente da quello concordato o voluto dagli altri correi.

Dalla norma si evincono due profili. Da un lato, emergono la consapevolezza e la volontà di concorrere con altri nella realizzazione del reato che era oggetto dell’accordo; non si configura, quindi, responsabilità qualora il concorrente versi in errore sul fatto rispetto al reato stabilito inizialmente. Dall’altro lato, sussiste il nesso di causalità tra la condotta attiva od omissiva e il differente reato realizzato.

È stata, peraltro, superata quella parte di dottrina che inquadrava il concorso anomalo nell’alveo della responsabilità oggettiva, secondo cui si estendeva al concorrente la responsabilità a titolo di dolo per il reato non voluto sulla base del solo nesso materiale tra l’azione od omissione del soggetto che volle il reato meno grave e l’evento diverso posto in essere da un altro concorrente.

La tesi prevalente, al contrario, afferma che la norma in esame risponde al principio di colpevolezza in ragione della causalità psichica, la quale giustifica l’imputazione del reato diverso a coloro che non lo vollero. Si tratta di un requisito che non si ricava dalla formulazione letterale della disposizione, poiché è stato introdotto in via interpretativa.

In particolare, l’adesione psichica va intesa quale nesso psicologico in termini di prevedibilità del più grave reato commesso da parte del compartecipe: nella psiche dell’agente, cioè, il reato diverso e più grave può astrattamente rappresentarsi come sviluppo logicamente e concretamente prevedibile di quello voluto.

Occorre, pertanto, valutare la prevedibilità in concreto dell’evento diverso non voluto attraverso un giudizio ex post che analizzi sia le modalità concrete ed effettive di esecuzione del reato sia altre circostanze del fatto ritenute rilevanti. In tale prospettiva, la responsabilità è qualificata come “anomala”, in quanto il ricorrente è chiamato a rispondere a titolo di dolo sulla base di un atteggiamento che viene ricostruito come colposo.

Con riferimento alla rapina impropria di cui al comma 2 dell’art. 628 cod. pen., l’agente, immediatamente dopo la sottrazione della res, adopera la violenza o la minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso del bene sottratto o per procurare l’impunità a sé o ad altri.

Si osserva che la violenza o la minaccia possono essere esercitate sia contro la vittima sia contro un terzo che comunque potrebbe determinare la perdita del possesso della cosa sottratta, come ad esempio gli agenti della forza pubblica. Il requisito della immediatezza della violenza e della minaccia, inoltre, non va interpretato in senso rigorosamente letterale, senza l’intercorrere di alcun lasso di tempo, bensì come uno stretto legame psicologico e temporale. Infine, al concetto di impunità va attribuito un significato ampio, tale da comprendere l’attività volta a sottrarsi a tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso.

Nel caso di specie, l’agente, in concorso con persona rimasta ignota, immediatamente dopo aver sottratto un autocarro, speronava sia il veicolo della persona offesa sia l’auto di servizio della Polizia di Stato per assicurarsi il possesso della cosa sottratta e l’impunità. In particolare, per le circostanze di tempo e di luogo e in relazione al principio dell’id quod plerumque accidit, per i due correi risultava prevedibile l’inseguimento scaturito dal furto dell’autocarro, poiché era altamente probabile che sarebbero accorsi vigilanti o forze dell’ordine.

Sicché, la Corte di Cassazione ha statuito che il soggetto “quand’anche non avesse in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto tranquillamente rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2016, n. 45446, Di Pasquale, rv. 268564;
Cass. pen., sez. II, 18 giugno 2013, n. 32644, Alic, rv. 256841;
Cass. pen., sez. II, 3 gennaio 2018, n. 49443, Jamarishvili, rv. 274467;
Cass. pen., sez. V, 18 novembre 2020, n. 306, rv. 280489;
Cass. pen., sez. I, 15 novembre 2011, n. 4330, n. 2012, Camko, rv. 251849
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Turbata libertà incanti e bando di gara Il delitto di turbata libertà degli incanti presuppone il condizionamento del contenuto del bando di gara?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Il delitto di cui all’art. 353 c.p. non richiede che “il contenuto del bando venga effettivamente modificato in modo tale da condizionare la scelta del contraente, né, a maggior ragione, che la scelta del contraente venga effettivamente condizionata. È sufficiente, invece, che si verifichi un turbamento del processo amministrativo, ossia che la correttezza della procedura di predisposizione del bando sia messa concretamente in pericolo, attraverso l’alterazione o lo sviamento del suo regolare svolgimento, e con la presenza di un dolo specifico qualificato dal fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della Pubblica Amministrazione”. – Cass., sez. VI, 28 ottobre 2022, n. 41094.

Nel caso in esame, gli imputati sono stati accusati di aver influito indebitamente sul procedimento amministrativo finalizzato all’aggiudicazione del servizio di gestione degli impianti sportivi comunali. Il giudice di primo ha ritenuto sussistente la responsabilità penale degli imputati, mentre la Corte di appello è pervenuta all’assoluzione.

In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che l’art. 353 c.p. delinei un reato di evento che, come tale, non punisce le mere irregolarità formali che non incidano sul contenuto del bando di gara. Il Procuratore generale presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di assoluzione.

La Corte premette alcune considerazioni in tema di turbata libertà degli incanti. In primo luogo, la Cassazione precisa che “l’art. 353 cod. pen. configura un reato di evento di pericolo”.

In particolare, si tratta di un reato di evento in senso naturalistico, in quanto “è necessario accertare il verificarsi dell’impedimento della gara o del suo turbamento, e quindi la potenziale incidenza di una simile fraudolenta condotta sul futuro risultato della gara”.

Allo stesso tempo, si può definire un reato di pericolo “nel senso che il reato sussiste anche senza l’effettivo conseguimento del risultato perseguito dai soggetti agenti colludenti, essendo sufficiente che gli accordi collusivi siano idonei a influenzare l’andamento della gara”.

In altri termini, ciò che rileva è il verificarsi di un “turbamento”, cioè un disturbo del normale iter procedimentale, finalizzato ad inquinare il futuro contenuto del bando.

La Corte dunque ribadisce che il delitto in esame non richiede “un danno effettivo alla regolarità della gara”. Al contrario, è sufficiente che la condotta produca un “danno mediato e potenziale”, cioè l’idoneità degli atti ad influenzare l’andamento della gara, senza che sia necessario alternarne i risultati.

Tuttavia, l’impostazione descritta corre il rischio di attribuire rilievo penale a qualsiasi condotta in grado di perturbare lo svolgimento del procedimento. Per evitare tale rischio, la Corte precisa che “la condotta tipica deve essere idonea a ledere i beni giuridici protetti dalla norma, che si identificano non solo con l’interesse pubblico alla libera concorrenza, ma anche con l’interesse pubblico al libero gioco della maggiorazione delle offerte, a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione”.

In conclusione, la fattispecie delineata dall’art. 353 c.p. consiste “nel turbare mediante atti predeterminati il procedimento amministrativo di formazione del bando, allo scopo di condizionare la scelta del contraente. Poiché il condizionamento del contenuto del bando è il fine dell’azione, è evidente che il reato si consuma indipendentemente dalla realizzazione del fine medesimo”.

In base alle considerazioni sopra sintetizzate, la Corte ha accolto il motivo di ricorso presentato dalla Procura generale e dunque ha annullato la sentenza di assoluzione, rimettendo la causa alla Corte di appello per un nuovo giudizio che tenga conto dei principi enunciati.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. VI, 8 marzo 2019, n. 10272; Cass., sez. II, 13 febbraio 2019, n. 7013; Cass., sez. VI, 22 gennaio 2019, n. 2989
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Ubriachezza abituale e cronica intossicazione da alcool Quale differenza sussiste tra l’ubriachezza abituale di cui all’art. 94 c.p. e la cronica intossicazione da alcool di cui all’art. 95 c.p.?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Nei reati commessi dall’ubriaco abituale, “l’ubriachezza, in quanto transitoria e consapevole, non è mai causa della condotta delittuosa o di asseriti impulsi incontrollabili, ma al più è amplificatrice delle modalità e degli esiti delle violenze”. – Cass., sez. VI, 19 ottobre 2022, n. 39578.

Nel caso in esame l’imputato è stato condannato per il delitto di maltrattamenti aggravati (art. 572, comma 2, c.p.), commesso a danni della moglie e del figlio minorenne. I giudici di merito hanno ritenuto altresì sussistenti gli elementi costitutivi dell’aggravante dell’ubriachezza abituale.

La difesa dell’imputato ha presentato ricorso avverso la condanna ritenendo, tra gli altri motivi, che l’utilizzo di sostanze alcoliche da parte dell’imputato fosse indice di una cronica intossicazione da alcool, ai sensi dell’art. 95 c.p.

Nel caso in esame, dunque, la Corte è stata chiamata ad affrontare la questione della distinzione tra l’ubriachezza abituale e lo stato di cronica intossicazione da alcool. Il tema è particolarmente rilevante in quanto il legislatore associa alle due condizioni discipline opposte.

In caso di ubriachezza abituale, l’art. 94 c.p. prevede una circostanza aggravante, giustificata dalla maggiore pericolosità sociale dell’autore del reato. Al contrario, in caso di cronica intossicazione da alcool, l’art. 95 c.p. rinvia alla disciplina dettata in materia di vizio di mente, di cui agli artt. 88 e 89 c.p., che prevede l’esclusione dell’imputabilità o la diminuzione della pena.

Il legislatore definisce “ubriaco abituale” colui che “è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza”. Tuttavia, tali caratteri possono ben ricorrere anche per il soggetto in stato di intossicazione, il quale, con ogni probabilità, si trova nelle medesime condizioni dettate dall’art. 94 c.p.

La ricostruzione dei rapporti tra le due norme è stata quindi affidata alla giurisprudenza. Sul punto è consolidato l’orientamento secondo cui ricorre l’intossicazione cronica quando vi è uno stato patologico nel contesto del quale l’assunzione di alcool ha determinato irreversibili e permanenti alterazioni del sistema nervoso. Pertanto, le condizioni psichiche del soggetto sono alterate a prescindere dall’utilizzo di sostanze alcoliche.

In altri termini, si tratta di un mutamento non transitorio dell’equilibrio biochimico del soggetto, privo di prospettive di miglioramento, tale da determinare un vero e proprio stato patologico psicofisico. Ciò determina una corrispondente alterazione dei processi intellettivi e volitivi, con la conseguenza che viene meno, in tutto o in parte, l’imputabilità del soggetto. In tal senso si giustifica l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 88 e 89 c.p.

L’ubriachezza abituale, invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità dell’agente, in quanto non collegata ad uno stato patologico ma ad una libera scelta. In questo prospettiva si giustifica l’aggravamento di pena collegato alla maggiore pericolosità sociale del soggetto, tale peraltro da comportate anche l’applicazione della misura di sicurezza (cfr. artt. 206 e 221 c.p.).

Sul punto, la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la colpevolezza della persona in stato di ubriachezza deve essere indagata secondo gli ordinari criteri di valutazione dell’elemento psicologico. Di conseguenza, il giudice può accertare la sussistenza del dolo o della colpa al momento del fatto, nonostante lo stato di alterazione alcolica (Cass., sez. IV, 7 luglio 2021, n. 25758). Tale assetto normativo è stato positivamente vagliato dalla Corte costituzionale in un’ottica di prevenzione generale.

Peraltro, nell’impostazione originaria del codice, la maggiore pericolosità sociale dell’ubriaco abituale era frutto di una presunzione, oggi sostituita ad un accertamento da effettuarsi in concreto in conformità all’art. 27 Cost.

In applicazione dei principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha dichiarato manifestamente infondato il motivo di ricorso presentato dall’imputato, confermando la sentenza di condanna.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. V, 14 luglio 2016, n. 45997; Cass., sez. IV, 22 maggio 2008, n. 38513
Difformi:      non constano precedenti rilevanti

 

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Reato di riciclaggio e occultamento del bene Vi è reato di riciclaggio se l’operazione di occultamento del bene è evidentemente ed immediatamente tracciabile?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

 

Il reato di riciclaggio è integrato in presenza di operazioni volte anche solo ad ostacolare la tracciabilità dei beni proventi di attività illecita, non essendo necessario il definitivo impedimento della stessa tracciabilità. In ciò esso si differenzia dal reato di ricettazione, il quale punisce la condotta di chi si limita a ricevere il bene provento di delitto senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della propria provenienza. – Cass. 3 novembre 2022, n. 43420. 

La Suprema Corte si è pronunciata in merito all’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 648bis c.p., con riferimento alla condotta di un imputato che in qualità di dipendente di una società addetta ai servizi postali, sostituiva n. 25 buoni postali fruttiferi di vecchio tipo, proventi di furto, con n. 3 buoni postali di nuovo tipo, apponendo falsamente sui medesimi la firma della vittima del furto ed intestandoli a sé stesso.

I ricorrenti adducevano l’inapplicabilità della fattispecie di riciclaggio alla luce della evidente tracciabilità dell’operazione, peraltro confermata dalle testimonianze che avevano agevolmente ricostruito la vicenda delittuosa mediante una semplice consultazione del sistema informatico della società, che confermava che i buoni erano stati anche incassati dall’imputato. Dunque, a parere della difesa, non vi sarebbe un occultamento della provenienza del bene, ma un semplice incasso del provento del diverso delitto di truffa, per il quale, tuttavia, il Tribunale aveva già dichiarato il “non doversi procedere”.

Il Collegio giudicante, nel ritenre il ricorso inammissibile, ha rammentato che il delitto di riciclaggio si connota di un elemento oggettivo consistente nell’idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene e all’elemento soggettivo costituito dal dolo generico di trasformare il bene per impedirne l’identificazione. A parere della Corte non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso del provento di reato, ma è ben sufficiente che essa sia solo ostacolata.

Infatti, in relazione a casi analoghi, la giurisprudenza di ultimo grado ha ritenuto integrato il delitto di riciclaggio finanche nella condotta di chi deposita in banca denaro di provenienza illecita poiché, stante la natura fungibile del bene, in tal modo esso viene automaticamente sostituito con “denaro pulito”.

Pertanto, nel caso in oggetto, la condotta del reo è stata correttamente ritenuta punibile ex art. 648bis in quanto essa configurava un ostacolo all’identificazione del provento di reato.

Infine, la Corte ha ritenuto di dover perimetrare il reato di riciclaggio rispetto a quello di ricettazione, evidenziando che quest’ultimo si compendia nella diversa condotta di chi si limiti a ricevere il provento di illecito senza modificarlo né ripulirlo delle tracce della sua provenienza.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass., sez. VI, 3 ottobre 2018, n. 13085
Difformi:      Cass., sez. VI, 22 marzo 2018, n. 24941
giurista risponde

Desistenza volontaria In quali casi la desistenza di cui all’art. 56, comma terzo, c.p. può dirsi “volontaria”?

Quesito con risposta a cura di Federico Cavalli, Nicolò Pignalosa, Vincenza Urbano

 

Per applicarsi l’ipotesi della desistenza volontaria è necessario che la mancata consumazione del delitto dipenda dalla libera volontà dell’agente. La scelta è volontaria quando non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa. – Cass. 3 novembre 2022, n. 41345

I ricorrenti hanno sollecitato il Collegio in merito alla sussistenza della volontarietà nella condotta del reo che, nell’intento di commettere un furto in abitazione, aveva desistito dall’azione criminosa per l’assenza di strumenti idonei all’effrazione delle grate poste a presidio delle unità abitative individuate per l’attività delittuosa.

La Suprema Corte, nel giudicare prive di pregio le istanze di parte, ha rammentato che l’applicabilità dell’ipotesi della desistenza volontaria richiede che la mancata consumazione del delitto sia dipendente dalla volontà dell’agente. Non è necessario che la rinuncia all’azione criminosa sia espressione di un intimo ravvedimento ma è essenziale che la scelta sia volontaria, cioè non imposta da circostanze esterne che rendano irrealizzabile o troppo rischioso il proseguimento dell’attività quali, ad esempio, la resistenza della vittima, l’intervento o la presenza della polizia giudiziaria o l’esistenza di difficoltà in executivis dell’azione criminosa.

In tal senso, la Corte ha richiamato il dictum di un’altra Sezione giudicante in materia di tentato furto,

nel qual caso era stata esclusa la desistenza volontaria nella condotta degli imputati che, dopo aver compiuto atti idonei e diretti a commettere il delitto, si erano allontanati a causa della presenza di una lastra di metallo che impediva lo sfondamento del muro e dal sopraggiungere degli agenti di polizia.

La Corte ha ravvisato che l’idoneità degli atti richiesta per la configurabilità del reato tentato deve essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze in cui opera l’agente e delle modalità dell’azione; invece, la desistenza volontaria presuppone la costanza della possibilità di consumazione del delitto, per cui, qualora tale possibilità non vi sia più, può ricorrere unicamente l’ipotesi di tentativo, purché ne sussistano i presupposti.

Per tali ragioni, il Collegio ha escluso la volontarietà della scelta del reo di rinunciare alla condotta criminosa ritenendola, invece, imposta da una circostanza esterna quale la difficoltà in executivis dell’azione furtiva caratterizzata dall’indisponibilità di strumenti in grado di vincere la resistenza opposta dalle grate volte a presidiare le abitazioni individuate ai fini del delitto, ritenendo non sussistente la fattispecie di cui all’art. 56, comma 3, c.p.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. 28 novembre 2018, n. 17518; Cass. 13 febbraio 2018, n. 12240
Difformi:      non constano precedenti rilevanti
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Malato e con pacemaker: resta in carcere Per la Cassazione, il detenuto in precarie condizioni di salute e con pacemaker può restare in carcere. Rileva anche la pericolosità sociale data la condanna per reati sessuali

Gravi motivi di salute e detenzione carceraria

Resta in carcere il detenuto anche se in precarie condizioni di salute e con pacemaker. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 3332-2024, ha respinto il ricorso di un uomo condannato ad 8 anni di carcere per reati di natura sessuale.

Nella vicenda, il tribunale di sorveglianza di Palermo respingeva l’istanza di differimento facoltativo della pena per grave infermità, anche nelle forme della detenzione domiciliare, visti i gravi motivi di salute del detenuto affetto da ipertensione con impianto di pacemaker e in attesa di ricovero per sospetta fibrosi polmonare.

Il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto che le condizioni di salute dell’uomo non integrassero gli estremi di gravità tali da comportare l’incompatibilità con il regime carcerario, in quanto le esigenze diagnostiche e terapeutiche del condannato erano gestibili anche in regime detentivo.

Da qui il ricorso in Cassazione, in cui la difesa ribadiva l’incompatibilità delle condizioni di salute dell’uomo ormai anziano, e peraltro di recente sottoposto ad intervento chirurgico, con la detenzione carceraria.

Per gli Ermellini, però, il ricorso è infondato e va respinto.

Bilanciamento interesse condannato e sicurezza collettività

In punto di diritto, affermano i giudici della S.C., “la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini dell’accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell’art. 147, comma primo, n. 2, cod. pen., non è necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019, Nobile, Rv. 276413)”. È necessario però, proseguono dal Palazzaccio, che “la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre ni pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr. Cass. n. 17947/2004).

La decisione

Nella fattispecie, la valutazione negativa, alla quale è giunta l’impugnata ordinanza, non è censurabile in sede di legittimità e, peraltro, concludono dalla S.C. rigettando il ricorso, risulta coerente con quanto richiede la giurisprudenza, “sia sotto il profilo della compiuta valutazione delle condizioni di salute dell’istante in rapporto alle potenzialità di cura offerte dal carcere in cui questi è ristretto”, sia con riguardo al profilo del “bilanciamento tra li diritto alla salute del condannato e le esigenze di sicurezza della collettività, evidenziando la cospicua pericolosità sociale del detenuto in espiazione di una condanna per gravi delitti di natura sessuale”.

Allegati

Art. 187 C.d.S.

Art. 187 C.d.S. giurisprudenza Guida in stato di alterazione psicofisica causata dall’assunzione di sostanze stupefacenti: analisi dell’articolo 187 C.d.S. e giurisprudenza

Cosa prevede l’art. 187 C.d.S.

L’articolo 187 del Codice della Strada contempla e punisce il reato di guida in stato di alterazione psico fisica causato dall’assunzione di sostanze stupefacenti.

Le pene base previste per questo reato sono l’ammenda da 1.500 euro a 6.000 euro e l’arresto che va da sei mesi fino a un anno.

A queste sanzioni penali si affianca sempre quella di natura amministrativa che prevede la sospensione della patente per un periodo che varia da uno a due anni.

Se il soggetto che commette il reato guida il veicolo di un’altra persona, che non ha nulla a che fare con il reato commesso, allora la durata di sospensione della patente viene raddoppiato, pertanto la stessa varierà da due a quattro anni.

La sentenza di condanna comporta sempre anche la confisca del veicolo con cui il responsabile ha commesso il reato, a meno che il mezzo non appartenga a una terza persona.

La patente invece viene sempre revocata quando a commettere il resto è il conducente di veicoli particolari, come gli autobus per esempio.

Le pene base sono raddoppiate se chi guida in tale stato di alterazione provoca un incidente stradale. In questo caso, salvo eccezioni, è prevista la revoca della patente.

La pena dell’ammenda viene invece aumentata da 1/3 alla 1/2 se il reato viene commesso tra le ore 22.00 e prima delle 7.00 del mattino.

Gli Organi della Polizia stradale possono sottoporre i conducenti ad accertamenti, purché non invasivi e rispettosi della riservatezza, anche avvalendosi di apparecchiature specifiche.

L’esito positivo di questi test legittima la richiesta di sottoporre i conducenti ad accertamenti ulteriori e più approfonditi di natura clinico tossicologica, che possono essere eseguiti anche presso strutture sanitarie fisse, se non è possibile eseguire diversamente il prelievo o se il conducente si oppone.

Effettuati i test le strutture sanitarie rilasciano apposita certificazione. Copia del refero viene trasmessa al prefetto del luogo in cui la violazione è stata commessa. Il conducente viene quindi sottoposto a visita medica e la patente viene sospesa in via cautelare.

La sanzione della pena detentiva irrogata può essere sostituita con il decreto penale di condanna o con il lavoro di pubblico utilità, il cui svolgimento effettivo viene verificato dall’ufficio locale di esecuzione penale. L’esito positivo del lavoro di pubblica utilità comporta l’estinzione del reato e la riduzione alla metà della durata della sospensione della patente e la revoca della confisca.

Qualora invece il lavoro di pubblica utilità non venga svolto in base agli obblighi che comporta, il giudice, su richiesta, può disporre la revoca della pena sostitutiva con quella prevista in origine, così come sospendere la patente e confiscare il veicolo, come previsto in origine.

Giurisprudenza della Cassazione sull’art. 187  C.d.S.

La norma analizzata si presenta complessa e strutturata. Tanti gli spetti giuridici che hanno richiesto chiarimenti da parte della giurisprudenza. Si riportano per questa ragione le massime di alcune recenti sentenze su alcuni degli aspetti più significativi della norma.

Cassazione 4606/2023: prova dello stato di alterazione

Affinché si configuri il reato contravvenzionale di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti   “lo stato di alterazione del conducente dell’auto non deve essere necessariamente accertato attraverso l’espletamento di una specifica analisi medica”. Il giudice può desumerla infatti anche   dagli accertamenti biologici capaci di dimostrare la precedente assunzione dello stupefacente, “unitamente all’apprezzamento delle deposizioni raccolte e del contesto in cui il fatto si è verificatoNel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che la Corte di appello abbia correttamente ritenuto sufficiente, per accertare l’assunzione di cannabinoidi “il riscontro dell’analisi compiuto sulle urine in associazione ai dati sintomatici rilevati al momento del fatto sul conducente, costituiti da pupille dilatate, stato di ansia ed irrequietezza, difetto di attenzione, ripetuti conati di vomito, detenzione di involucri contenenti hashish”. 

Cassazione n. 40842/2023: consenso agli esami del sangue

In relazione al consenso all’esame ematico, la Cassazione rileva che i giudici territorialmente competenti abbiano applicato correttamente al caso di specie, principi consolidati per l’accertamento del tasso alcolemico,, ossia che il prelievo di campioni biologici (sangue ovvero urine e saliva) compiuto presso una struttura sanitaria non per motivi terapeutici, ma esclusivamente su richiesta della polizia giudiziaria, al solo fine di accertare il tasso alcolemico del soggetto per la ricerca della prova della sua colpevolezza, non richiede uno specifico consenso dell’interessato, oltre a quello eventualmente richiesto dalla natura delle operazioni sanitarie strumentali a detto accertamento”. 

Cassazione n. 31247/2023: violazione degli obblighi del lavoro di pubblica utilità

La Cassazione chiarisce che se il comportamento del condannato inadempiente che tuttavia non si è sottratto completamente al lavoro di pubblica utilità “ma ne abbia violato gli obblighi dopo una prima fase esecutiva caratterizzata da svolgimento regolare” comporta:

  • l’applicazione della sanzione penale per il reato commesso ai sensi dell’art. 56 D.Lgs. n. 274/2000;
  • il prolungamento della durata della pena originaria che è stata sostituita per effetto della revoca. Al fine di scongiurare un inasprimento senza motivo del trattamento punitivo, in contrasto con la finalità rieducativa del reo a cui tende anche il lavoro di pubblica utilità occorre applicare il seguente principio di diritto: “l’inosservanza degli obblighi inerenti il lavoro di pubblica utilità può comportarne la revoca, ma l’adozione di tale provvedimento impone al giudice, quanto agli effetti della revoca stessa, di tener conto del periodo di lavoro espletato sino al momento della commessa trasgressione e, previa effettuazione del ragguaglio dei giorni di lavoro non prestato con la pena detentiva sostituita secondo i criteri di cui al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 58, di scomputarlo dalla restante pena ancora da eseguire nelle forme ordinarie”.