giurista risponde

Natura pubblicistica ente Al fine di individuare la natura pubblicistica di un ente deve farsi ricorso ad una concezione formalistica o sostanzialistica?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

Ai fini della individuazione della natura pubblica di un ente, ciò che rileva è la natura pubblica delle finalità perseguite con la specifica attività, rispetto alla quale la veste giuridica dell’ente può al più costituire un indice sintomatico non esclusivo. Deve pertanto essere avallata la concezione sostanziale e non formalistica, al pari di quanto accade nell’ambito del diritto amministrativo. – Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, n. 3078.

La questione afferente alla definizione della natura pubblicistica o meno di un ente è propedeutica alla configurazione di talune fattispecie di reato previste dall’ordinamento, quale, a titolo esemplificativo, il delitto di turbativa d’asta di cui all’art. 353 c.p. Tale rilevanza può aversi tanto con riferimento all’individuazione del soggetto attivo o passivo del reato, quanto per quel che attiene ad altri elementi costitutivi della fattispecie: si pensi in questo senso ad una normativa di settore che può trovare applicazione solo se ricorre la natura pubblicistica dell’ente. Specularmente, dalla natura pubblica può ricavarsi altresì la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio del singolo agente.

Il tema si intreccia inevitabilmente con il settore del diritto amministrativo, naturale sedes materiae, ragion per cui occorre comprendere se ed in che termini sia possibile una “contaminazione” tra istituti rilevanti per i due rami dell’ordinamento.

Interrogata sul punto, la Corte di Cassazione precisa preliminarmente che detta contaminazione è sì possibile, ma non in maniera automatica: essa infatti deve essere realizzata senza perdere di vista quella che è la finalità ultima dell’operazione ermeneutica, ossia la definizione dell’ambito applicativo della fattispecie penale. In questo senso, dunque, il ricorso alla normativa e alla giurisprudenza amministrativa non può avvenire sic et simpliciter, ma deve tener conto dell’esigenza di ricostruzione del reato.
Fatta tale premessa, alla luce di quali criteri occorre far riferimento per qualificare, sul piano penalistico, un ente come pubblico?

Per il diritto amministrativo, il carattere pubblicistico va individuato non in relazione alla qualità dei soggetti componenti l’ente, bensì alla natura degli atti posti in essere, sicché eventuali strutture adottate – associative o consortili – rilevano esclusivamente sul piano organizzativo.

Analogamente, la Corte di Cassazione, negli anni, ha affermato che ciò che rileva per dirimere il dubbio interpretativo in esame è la natura pubblica delle finalità perseguite dall’ente con la specifica attività.

In particolare, ha evidenziato come l’obbligatorietà del ricorso alla procedura ad evidenza pubblica sia indice sintomatico del carattere pubblicistico dell’attività svolta, soprattutto laddove si tratti di settori strategici e speciali, quali ad esempio quello dell’energia o dei servizi di informazione, motivo per cui i dipendenti di tali società rivestono la qualifica di incaricati di pubblico servizio.

Da ciò consegue, dunque, che ai fini dell’individuazione della natura pubblica di un ente rileva non la veste giuridica adottata – la quale, peraltro, se può costituire un indice sintomatico, certamente però non assume la stessa incidenza di altri dati, quali la disciplina applicata –, bensì la finalità perseguita tramite la propria attività.

Alla luce di tali argomentazioni, deve ritenersi quindi superato il precedente indirizzo ermeneutico che, a seguito della privatizzazione di molti enti pubblici, aveva escluso, sposando il criterio formalistico, la natura pubblica di tali società sulla base della sola veste giuridica. Ciò peraltro creava delle antinomie di non poco conto, in quanto se da un lato l’ente veniva considerato un soggetto di diritto privato, dall’altro però i suoi dipendenti ben potevano assumere la qualità di incaricati di pubblico servizio o di pubblici ufficiali.

L’evoluzione giurisprudenziale ha messo in evidenza l’inadeguatezza di tale approccio interpretativo, anche a fronte di una legislazione che non sempre consente di ricavare in maniera secca ed immediata la natura dell’ente. Per tali ragioni, si è affermato che allo scopo di individuare gli indici di riconoscimento dell’ente pubblico occorre far riferimento alla nozione di organismo pubblico, la quale avalla una lettura sostanzialistica, peraltro in piena conformità anche alle norme ed alla giurisprudenza di fonte europea.

Del resto, la concezione sostanzialistica è più coerente con la ratio delle norme penali, che è quella di evitare che attraverso l’impiego di particolari forme societarie per il perseguimento di interessi pubblici possano essere perpetrate condotte elusive dei sistemi di controllo e delle relative sanzioni, con ciò determinando un arretramento di tutela dell’interesse generale.

Posta così la questione, la Corte conclude affermando che anche un consorzio di enti pubblici locali, costituito per l’approvvigionamento di energia elettrica, sia un soggetto pubblico, come tale tenuto al rispetto della normativa in tema di gare ad evidenza pubblica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    ex multis: Cass., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28299;
Cass., sez. VI, 12 novembre 2015, n. 6405;
Commissione c. Spagna; 15 maggio 2003, causa C-214/00
Difformi:      ex multis: Cass., sez. V, 5 aprile 2005, n. 38071;
Cass., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 49759
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Furto in abitazione e presenza occasionale È escluso il reato di furto in abitazione, ex art. 624bis c.p., in caso di presenza meramente occasionale all’interno di un luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

La mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze è insufficiente a configurare la fattispecie di furto in abitazione ex art. 624bis c.p. – Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 3716.

Nel caso di specie il furto oggetto del ricorso aveva riguardato una caldaia a pellet posta all’interno del locale taverna sito al piano terra di una villetta sottoposta ad opera di ristrutturazione. La finalità per le quali l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Le Sezioni Unite, già in precedenza chiamate a comporre il contrasto applicativo tra gli artt. 624 e 624bis c.p. avevano optato per una nozione molto rigorosa di privata dimora. Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave reato previsto dall’art. 624bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.

Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione.

Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipotesi di reato in esame: a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (così le S.U. 31345/2017).

La giurisprudenza successiva ha sottolineato l’irrilevanza che il fatto sia commesso in un’abitazione disabitata quando siano in corso dei lavori di ristrutturazione. Quello che viene in rilievo è, infatti, il rapporto di stabilità che lega il luogo fisico con la vita privata del titolare.

La dimora, quindi, deve possedere una concreta connotazione che la possa ricondurre alla vita del proprietario (Cass., sez. IV, 1782/2018).

Inoltre, ai fini della configurazione del furto in abitazione, è necessario che sussista il nesso finalistico, e non un mero collegamento occasionale, tra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile.

L’art. 624bis c.p. così recita: «Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa».

L’espressione “mediante introduzione”, pertanto, deve essere letta nel senso che l’introduzione nell’edificio deve coincidere con il mezzo per commettere il reato. Non si tratta, infatti, della pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luoghi, uffici o stabilimenti, come diversamente avviene nelle circostanze aggravanti di cui all’art. 625, n. 6 e 7, c.p.

Deve sussistere un rapporto di strumentalità tra l’introduzione nell’edificio e l’azione predatoria posta in essere.

Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Cass., sez. V, 13582/2010), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614 c.p., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo”.

Nel caso concreto, la finalità per la quale l’agente si era introdotto nell’abitazione era quella di ristrutturare, su incarico del proprietario, l’immobile all’interno del quale si trovava il bene sottratto.

Per tali ragioni, la Suprema Corte di cassazione, con sent. 3716/2023, mancando il nesso finalistico necessario a configurare l’art. 624bis c.p., ha accolto parzialmente il ricorso proposto dal ricorrente e ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e rinviato alla Corte di appello di Perugia anche per la verifica della sussistenza della condizione di procedibilità ed eventuale rideterminazione della pena.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 giugno 2017, n. 31345; Cass., sez. IV, 16 gennaio 2018, n. 1782;
Cass., sez. V, 1° aprile 2014, n. 21293
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Discarica abusiva e deposito incontrollato di rifiuti In quali casi ricorre il reato di discarica abusiva e non il differente illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti?

Quesito con risposta a cura di Silvia Mattei, Consuelo Nicoletti e Francesca Ricci

 

In tema di deposito incontrollato di rifiuti, ove esso si realizzi con plurime condotte di accumulo, in assenza di attività di gestione, la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata si fonda principalmente sulle dimensioni dell’area occupata e sulla quantità di rifiuti depositati. – Cass., sez. III, 19 gennaio 2023, n. 4241.

Si può, quindi, affermare che in presenza di un’area vasta di occupazione e una ingente quantità di rifiuti eterogenei ivi depositati si configuri il reato di discarica abusiva.

Il problema che si era posto nel caso di specie riguardava se in assenza di un’attività di gestione dei rifiuti, in considerazione delle dimensioni dell’area occupata e della quantità di rifiuti depositata, la condotta potesse essere qualificata quale illecito amministrativo di deposito incontrollato di rifiuti, valutato anche che il ricorrente non era né titolare di imprese, né responsabile di enti. Considerato, inoltre, che i rifiuti erano ammassati in una sola porzione dell’area interessata.

A far presupporre che si trattasse di discarica abusiva gli elementi sintomatici del reato presi in considerazione sono stati: l’accumulo (più o meno sistematico) ma comunque non occasionale di rifiuti in un’area determinata, l’eterogeneità dei beni accantonati, la condizione di degrado dello stato dei luoghi, con evidente dismissione senza alcuna possibilità di riutilizzo.

La Terza sezione penale della Corte di cassazione, con la sent. 4214/2023, considera tutti i motivi di impugnazione manifestamente infondati. La corretta qualificazione del reato di discarica abusiva, configurata dai giudici della Corte d’Appello di Cagliari, può essere dedotta dalla trasformazione dello stato dei luoghi realizzata attraverso plurimi conferimenti di rifiuti di vario genere (lastre e frammenti di eternit, tubature in ferro, lavabi, sanitari dismessi, materiale plastico ferroso, pneumatici usati, materiale di risulta di cantieri edili e tegole ecc.) sparsi dappertutto e alla rinfusa sul fondo della proprietà per un’estensione complessiva di 500 mq.

Per la Giurisprudenza di legittimità, infatti, “ai fini della configurabilità del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata è sufficiente l’accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante che manchino delle attività di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata” (Cass., sez. III, 39027/2018; Cass., sez. III, 18399/2017; Cass., sez. III, 47501/2013; Cass., sez. III, 27296/2004).

Dunque, si può affermare che si ha discarica abusiva tutte le volte in cui, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività.

La realizzazione di una discarica può, quindi, effettuarsi attraverso il ripetitivo accumulo nello stesso luogo di sostanze oggettivamente destinate all’abbandono, o anche mediante un unico conferimento di ingenti quantità di rifiuti, che faccia assumere alla zona interessata l’inequivoca destinazione di ricettacolo di rifiuti. Diversamente, il deposito incontrollato di rifiuti si considera prodromico ad una successiva fase di smaltimento o di recupero del rifiuto stesso.

La gestione di una discarica si identifica, invece, in un’attività autonoma, successiva alla realizzazione della prima condotta, che può essere compiuta dallo stesso autore di quest’ultima o da altri soggetti.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 10 giugno 2019, n. 25548; Cass., sez. III, 28 agosto 2018, n. 39027; Cass., sez. III, 11 aprile 2017, n. 18399
appropriazione indebita leasing

Appropriazione indebita leasing L’appropriazione indebita nel contratto di leasing si realizza quando chi utilizza il bene, pur non pagando il canone, lo trattiene, anche se il concedente ne chiede la restituzione

Appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing

Il reato di appropriazione indebita commesso in relazione al contratto di leasing è oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali, che hanno chiarito i dettagli di questo illecito penale.

Per comprendere alcune delle più recenti e interessanti pronunce che si sono occupate di questo reato è necessario analizzare separatamente e brevemente il reato di appropriazione indebita e il contratto di leasing per individuare al meglio le caratteristiche di questo reato.

Il reato di appropriazione indebita

L’appropriazione indebita è un illecito penale punito dall’articolo 646 del codice penale.

La norma punisce nello specifico chi, per procurare a se stesso a ad altri soggetti un profitto ingiusto, si appropri di denaro o di cose mobili di altri soggetti che ne abbiano il possesso a qualsiasi titolo.

Questo illecito è punito a condizione che la persona offesa presenti querela. Le pene previste sono la reclusione da due a cinque anni e la multa da 1000 a 3000 euro.

Se il fatto viene commesso su cose che sono possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata.

Il contratto di leasing

Il contratto di leasing, noto anche come locazione finanziaria, è un accordo che coinvolge tre soggetti diversi: l’utilizzatore, il concedente e il produttore o fornitore

Il concedente è il soggetto che, su specifica indicazione dell’utilizzatore, ordina la produzione di un bene o lo acquista direttamente dal produttore, pagandone il prezzo. Il bene viene quindi viene messo a disposizione dal concedente all’utilizzatore per un periodo di tempo determinato. Per l’uso di questo bene l’utilizzatore è tenuto a pagare al concedente un canone periodico. Quando l’accordo giunge a scadenza, in base a quanto concordato tra le parti, l’utilizzatore può acquistare il bene pagando il prezzo residuo. I canoni già pagati infatti vengono scomputati dal prezzo complessivo del bene. L’utilizzatore decide invece di non acquistare il bene deve restituirlo al concedente.

Cassazione: appropriazione indebita leasing

Una prima precisazione sulla configurabilità del reato di appropriazione indebita in relazione al contratto di leasing la fornisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 34911/2023.

La pronuncia chiarisce che in presenza di un contratto di leasing, affinché si configuri il reato di appropriazione indebita, devono sussistere le seguenti condizioni:

  • chi utilizza il bene non paga i canoni concordati;
  • il contratto contempla la risoluzione dell’accordo;
  • il debitore deve conoscere la volontà del concedente di rientrare nel possesso del bene che a tal fine deve intimarne la restituzione;
  • l’utilizzatore deve comportarsi come uti dominus, non restituendo il bene senza giustificazione.

Per quanto riguarda il momento consumativo del reato di appropriazione indebita del bene di cui l’utilizzatore ha la materiale disponibilità in virtù del contratto di leasing, la Cassazione nella sentenza n. 3100/2023 chiarisce che: “il reato di appropriazione indebita di un bene in “leasing” è integrato dalla mera interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta “uti dominus” non restituendolo senza giustificazione, così da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato, e non da quando il contratto deve intendersi risolto a.causa dell’inadempimento nel pagamento dei canoni. L’applicazione del sopra esposto principio al caso in esame comporta proprio affermare la fondatezza del motivo poiché, avendo l’imputato ricevuto la risoluzione del contratto e la richiesta della restituzione del bene il 12 agosto 2005, è da tale data che deve ritenersi consumato il fatto di appropriazione indebita; con la conseguenza che il termine prorogato di anni 7 e mesi 6 decorreva il 12 febbraio 2013 e quindi antecedentemente la pronuncia di appello”. 

Dalle due pronunce analizzate emerge che, per integrare il reato di appropriazione, è necessaria l’interversione del possesso, che si realizza quando l’autore del reato del reato si comporti uti dominus, non provvedendo a restituire il bene senza giustificazione alcuna, così da concretizzare l’elemento soggettivo del reato. Nella sentenza n. 39791/2021 la Cassazione si è soffermata su quest’ultimo aspetto precisando che l’interversione del possesso “sussiste anche nel caso di una detenzione qualificata, conseguente all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa, al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato la condotta appropriativa nella ritenzione di un autoveicolo, utilizzato “uti dominus” nonostante la risoluzione del contratto di “leasing” e la richiesta di restituzione del bene)”. 

omessa denuncia di armi

Omessa denuncia di armi L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale previsto dall’articolo 697 del codice penale per tutelare la sicurezza pubblica

Omessa denuncia di armi: reato art. 697 c.p.

L’omessa denuncia di armi è un reato contravvenzionale contemplato dall’articolo 697 del codice penale, intitolato “Detenzione abusiva di armi”. La norma punisce nello specifico due condotte diverse.

  1. Il primo comma punisce chiunque detenga armi o caricatori per i quali la legge richiede la denuncia ai sensi dell’articolo 38 del TU della pubblica sicurezza, oppure munizioni senza averne fatto denuncia all’Autorità, quando questa formalità è necessaria.
  2. Il comma 2 invece sanziona chi, avendo notizia che in luogo da lui abitato si trovino armi o munizioni, ometta di farne denuncia alle autorità.

Arresto e ammenda per i trasgressori

L’illecito penale previsto dal primo comma dell’art. 697 c.p è punto con l’arresto da tre a dodici mesi e con l’ammenda fino a 371 euro.

La violazione di quanto previsto dal comma 2 invece è punita con la pena dell’arresto fino a due mesi e con l’ammenda fino a 258 euro.

Denuncia art. 38 TU pubblica sicurezza

Il presupposto di questo reato, come emerge dalla norma, è l’obbligo di denunciare il possesso delle armi e di quanto occorre al loro utilizzo presso le autorità di pubblica sicurezza competenti, come previsto dall’art. 38 del Tu di pubblica sicurezza, da ultimo riformato ad opera del decreto legislativo n. 104/2018.

La versione attuale della norma dispone infatti che chi detiene armi o parti di esse (art. 1 bis comma 1 lette b) del dlgs n. 527/1992) così come munizioni finite o materie esplodenti di qualsiasi genere, deve denunciarle a mezzo pec entro 72 ore da quando ne abbia acquisito la materiale disponibilità presso l’ufficio locale di pubblica sicurezza.

In alternativa, se questo ufficio manca, è possibile fare denuncia presso il comando locale dei carabinieri o presso la questura competente.

La denuncia è necessaria anche se la detenzione riguarda caricatori in grado di contenere più di 10 colpi per le armi lunghe e più di 20 per le armi corte.

La denuncia di detenzione deve essere presentata nuovamente ogni volta che il possessore trasferisca l’arma in un luogo diverso rispetto a quello che aveva indicato nella precedente denuncia. Chi ha la sola detenzione dell’arma deve assicurare che il luogo in cui è custodita presenti adeguate garanzie di sicurezza.

Soggetti esonerati dall’obbligo di denuncia

L’omessa denuncia di armi non è reato per determinate categorie di soggetti, che sono esonerati da questo obbligo. Si tratta in particolare di quei soggetti che, per motivi di lavoro, devono detenere e usare le armi e gli accessori necessari al loro funzionamento. Si tratta in particolare dei seguenti soggetti:

  • gli appartenenti alle forze armate;
  • le società di tiro a segno;
  • le istituzioni autorizzate in relazione alla detenzione degli oggetti destinati nei luoghi deputati allo scopo;
  • i soggetti che possiedono raccolte autorizzate di armi antiche, rare e di valore artistico;
  • le persone che, per una loro qualità permanente, hanno diritto di circolare armate nei limiti di quanto loro consentito.

Obbligo della certificazione medica

La detenzione di armi da parte di soggetti che non sono esonerati dall’obbligo di denunciare le armi in loro possesso e da parte di coloro che sono autorizzati a detenerle senza licenza, richiede, oltre all’obbligo di denuncia, anche quello di presentare specifica certificazione medica ogni 5 anni. Detto temine, se il detentore ha la licenza scaduta, decorre dalla data della scadenza, a meno che non l’abbia rinnovata.

Al  soggetto obbligato alla presentazione della certificazione medica, che trasgredisce, il prefetto può vietare di detenere le armi denunciate.

Prostituzione minorile: reato art. 600 bis c.p. Il reato di prostituzione minorile è contemplato dall’art. 600-bis del codice penale a tutela della salute fisica e psichica dei minori

Il reato di prostituzione minorile

La prostituzione minorile contemplata dall’articolo 600 bis è un reato che il nostro legislatore ha inserito nel codice penale con la legge n. 269 del 3 agosto 1998 per adeguare la normativa italiana agli impegni assunti nelle sedi internazionali, finalizzati a tutelare il minore nella sua salute fisica e psichica.

L’art. 600-bis del codice penale

Passando all’analisi della norma, l’articolo 600 bis del codice penale, al primo comma, punisce chiunque recluta o induce, ossia arruola o spinge alla prostituzione una persona che non ha ancora compiuto i diciotto anni di età.

Il reato si configura però anche quando un soggetto qualsiasi favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di una persona che ancora non ha compiuto diciotto anni o ne trae profitto in altro modo.

La norma punisce pertanto sia le condotte finalizzate a convincere un minore a prostituirsi sia quelle che facilitano in qualche modo l’esercizio dell’attività di prostituzione da parte del minore.

Emerge pertanto che si tratta di un reato:

  • di pura condotta, è sufficiente infatti che il soggetto agente tenga una delle condotte previste dalla norma affinché si configuri il reato;
  • comune, ossia che chiunque può commettere.

Reclusione e pene pecuniarie

Chi tiene una delle condotte sopra elencate è punito con la pena della reclusione, che varia da un minimo di sei anni fino a una massimo di dodici anni e con una pena pecuniaria il cui importo varia da un minimo di 15.000 euro fino a un massimo di 150.000 euro. 

Atti sessuali con i minori

L’art. 600 bis del codice penale al comma 2 punisce anche chi compie atti sessuali con un minore, di età compresa tra i 14 anni e i 18 anni, offrendo o promettendo in cambio denaro o altre utilità, a meno che il suo comportamento non configuri un reato più grave.

Del resto, come ha chiarito anche la Cassazione nella SU n. 4616/2021, non c’è alcun dubbio che la volontà del minore venga fortemente condizionata dall’offerta di un corrispettivo in denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessa.

Da chiarire in ogni caso che, in questa ipotesi, affinché si configuri il reato, non è necessario che il soggetto abbia un rapporto sessuale completo con il minore. E’ sufficiente infatti un semplice contatto con la sfera sessuale del minore.

L’ignoranza dell’età della persona offesa

E’ necessario ricordare che, in relazione ai delitti contro la personalità individuale, nei quali è ricompreso la prostituzione minorile, l’articolo 602 quater del codice penale dispone che, quando gli stessi vengono commessi ai danni di un soggetto che non abbia ancora compiuto i 18 anni di età, il colpevole non può invocare a propria discolpa di non conoscere l’età della persona offesa, a meno che si tratti di ignoranza inevitabile, ossia non rimproverabile.

Su questa scusante la Cassazione nella sentenza n. 13312/2023 ha chiarito che: “il principio per cui, in tema di prostituzione minorile, il fatto tipico scusante previsto dall’art. 602-quater cod. pen. in relazione all’ignoranza inevitabile circa l’età della persona offesa è configurabile solo se l’agente, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia stato indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne fosse maggiorenne; ne consegue che non sono sufficienti, al fine di ritenere fondata la causa di non punibilità, elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti; così Sez. 3, n. 12475 del 18/12/2015, dep. 2016, G., Rv. 266484 – 01, che ha anche precisato che l’imputato ha l’onere di provare non solo la non conoscenza dell’età della persona offesa, ma anche di aver fatto tutto il possibile al fine di uniformarsi ai suoi doveri di attenzione, di conoscenza, di informazione e di controllo, attenendosi a uno standard di diligenza direttamente proporzionale alla rilevanza dell’interesse per il libero sviluppo psicofisico dei minori”.

gps auto ex moglie

Marito installa gps nell’auto dell’ex: non è lesa la sua vita privata L’auto, in quanto spazio destinato al trasporto dell’uomo o di oggetti, non è luogo di privata dimora, per cui non può ritenersi configurato il reato ex art. 615- bis c.p.

Installazione di un gps nell’auto dell’ex moglie

La vicenda in esame vede protagonista un uomo che aveva installato nell’auto dell’ex moglie un gps, dotato di microfono, per procurarsi notizie attinenti alla vita privata della stessa. Tale apparecchio consentiva all’ex marito di ascoltare le conversazioni intervenute all’interno del veicolo.

Rispetto a tali eventi, il Tribunale di Taranto aveva condannato l’ex marito alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 615-bis c.p., oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile. Tale decisione veniva poi riformata nel secondo grado di giudizio, nell’ambito del quale la Corte distrettuale aveva assolto l’imputato perché il fatto non sussiste.

Avverso la decisione del Giudice di seconde cure, l’ex moglie aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione.

Concetto di privata dimora

La ricorrente, con un unico motivo d’impugnazione, ha dedotto il vizio di erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 615-bis c.p. Invero, la moglie ha sostenuto che “la giurisprudenza più recente avrebbe recepito una nozione più ampia del concetto di privata dimora e, con specifico riferimento al reato di cui all’art. 615-bis cod. pen., avrebbe espressamente ritenuto rilevante, al fine della configurazione del reato, l’installazione di una microspia all’interno di un’automobile. Nel caso in esame, l’autovettura della persona offesa andrebbe sicuramente ritenuta quale luogo di privata dimora, atteso che all’interno di essa la vittima intratteneva colloqui non solo personali, ma anche di carattere professionale, legati all’attività, di avvocato svolta dalla medesima”.

La Corte di cassazione, investita della suddetta questione, con sentenza n. 3446-2024, ha rigettato il ricorso, ritenendo il motivo proposto dalla ricorrente non fondato.

Sul punto, la Corte ha ritenuto che “L’abitacolo di un’autovettura, in quanto spazio destinato naturalmente al trasporto dell’uomo o al trasferimento di oggetti da un posto all’altro e non ad abitazione, non può essere considerato luogo di privata dimora, salvo che, a differenza di quanto dedotto nel caso in esame (…) esso, sin dall’origine, sia strutturato (…) come tale, o sia destinato, in difformità dalla sua naturale funzione, ad uso di privata abitazione”.

Il Giudice di legittimità ha proseguito, ricordando che, in un caso analogo a quello oggetto del ricorso in esame, la Corte stessa aveva già affermato che “non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis cod. pen.) la condotta di colui che installi nell’auto di un soggetto (nella specie ex fidanzata) un telefono cellulaere (…) in modo da consentire la ripresa sonora di quanto accade nella predetta auto, in quanto, oggetto della tutela di cui all’art. 615-bis cod. pen. è la riservatezza della persona in rapporto ai luoghi indicati nell’art. 614 cod. pen. (…) tra i quali non rientra l’autovettura che si trovi in pubblica via”.

Sulla scorta di quanto sopra rappresentato, la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla moglie.

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richiesta di riesame

Richiesta di riesame ex art. 309 c.p.p. La richiesta di riesame è un rimedio a disposizione dell’imputato e del suo difensore per impugnare l’ordinanza con cui sia stata disposta una misura cautelare

Misure cautelari e richiesta di riesame

Le misure cautelari si sostanziano in limitazioni di carattere personale o reale, che vengono disposte dal giudice con ordinanza, in presenza di gravi indizi di colpevolezza o di pericolo di compromissione delle indagini.

Le misure cautelari personali si dividono in misure coercitive (come, ad esempio, il divieto di espatrio, l’obbligo di dimora o gli arresti domiciliari) e misure interdittive (ad es., la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o il divieto temporaneo di esercitare una professione).

Le misure cautelari reali, invece, sono il sequestro conservativo (previsto a garanzia del pagamento delle spese del processo) e il sequestro preventivo di cose pertinenti al reato.

Contro l’ordinanza che dispone una misura cautelare (limitatamente a determinati tipi, come vedremo tra breve), l’imputato e il suo difensore possono fare richiesta di riesame. Al pubblico ministero, invece, residua la possibilità di proporre appello contro la decisione del giudice relativa all’applicazione della misura cautelare (a condizione che si tratti di misura di carattere personale, cfr. art. 310 c.p.p., primo comma).

Richiesta di riesame e appello: differenze

Il riesame, quindi, rappresenta un rimedio più rapido, e per ciò stesso più efficace, rispetto all’appello, a disposizione dell’imputato.

La richiesta di riesame prevista dall’art. 309 c.p.p. può essere proposta solo contro misure cautelari personali a carattere coercitivo.

La richiesta va proposta entro dieci giorni dall’esecuzione o notificazione del provvedimento, presso la cancelleria del tribunale di competenza.

È importante notare che, in base al comma sesto dell’articolo citato, l’indicazione dei motivi in base ai quali si propone la richiesta è solo facoltativa, a differenza di quanto avviene quando si propone appello contro l’ordinanza in materia di misure cautelari, ipotesi nella quale l’indicazione dei motivi è invece obbligatoria, a pena di inammissibilità.

Con la richiesta di riesame, inoltre, l’imputato può anche chiedere di comparire personalmente davanti al giudice competente.

La decisione sulla richiesta di riesame

Il tribunale decide sulla richiesta di riesame in composizione collegiale, entro dieci giorni dalla ricezione della stessa e con procedimento svolto in camera di consiglio, a cui può partecipare il pubblico ministero che aveva richiesto l’applicazione della misura.

Il collegio non è vincolato alle motivazioni contenute nell’ordinanza impugnata, né ai motivi indicati dall’imputato nella richiesta di riesame. Ciò significa che la misura può anche essere confermata per motivi diversi da quelli originari, o annullata per motivi diversi da quelli indicati dall’imputato.

La decisione del collegio può essere di tre tipi: conferma del provvedimento, riforma o annullamento.

Il mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 309 c.p.p. comporta la perdita di efficacia dell’ordinanza che ha disposto la misura cautelare, che non può essere rinnovata salve eccezionali esigenze cautelari.

Riesame delle misure cautelari reali

La disciplina della richiesta di riesame si completa con la previsione dell’art. 324 c.p.p., che prevede la possibilità di avanzare analoga richiesta in caso di applicazione di misure cautelari reali.

In particolare, il procedimento previsto da tale articolo si applica in caso di richiesta di riesame contro l’ordinanza che dispone il sequestro conservativo (art. 318), che può essere avanzata da chiunque ne abbia interesse, e contro l’ordinanza che dispone il sequestro preventivo (art. 322), che può essere proposta dall’imputato, dal suo difensore, dalla persona alla quale le cose sono state sequestrate o da quella che avrebbe diritto alla loro restituzione.

In entrambi i casi, la richiesta di riesame non sospende l’esecuzione del provvedimento.

particolare tenuità del fatto

Punibile la madre che impedisce al padre di vedere i figli Per la Cassazione, l'impedimento sistematico impedisce l'applicazione della non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Particolare tenuità del fatto

Non si può applicare la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. nei confrontoi della madre che impedisce al padre in modo sistematico di vedere i figli. Così la seconda sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 47882-2023.

La vicenda

Nella vicenda, la donna ricorreva al Palazzaccio avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno che, in funzione di giudice del rinvio, dichiarava l’imputata colpevole del reato ex art. 388, comma 2, c.p., per non aver consentito per quattro mesi al marito separato di vedere i figli a lei affidati, in violazione degli accordi fra coniugi recepiti nel decreto di omologa della consensuale, condannandola alla pena di trecento euro di multa oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile.

La donna proponeva ricorso chiedendo l’annullamento della sentenza in particolare per l’omessa applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Lamentava, nello specifico, che la sentenza impugnata non aveva indicato le ragioni per cui il reato era stato ritenuto sussistente, avendo valorizzato soltanto le dichiarazioni della parte civile e ignorando quelle rese dalla stessa, ed escludendo “la causa di non punibilità sulla base di due indimostrate circostanze, costituite dagli impegni di lavoro che avrebbero impedito al marito di essere puntuale agli appuntamenti fissati e dal presunto interesse della stessa a privilegiare il rapporto con il nuovo compagno a discapito del diritto del padre di incontrare i figli, in assenza di episodi indicativi di tale fatto, non riferiti neppure dalla persona offesa”.

La decisione

Per la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile perchè proposto con motivi non consentiti o manifestamente infondati. Già nella sentenza di appello, sostengono i giudici della S.C., era stato già accertato che la donna, “con sistematicità” aveva impedito l’incontro tra l’ex marito e i figli “in termini del tutto ingiustificati” rispetto a quanto previsto nel provvedimento giudiziale di omologazione della separazione (così la sentenza rescindente). Il giudice del rinvio, successivamente, “ha escluso che le modalità della condotta elusiva, protrattasi per un periodo apprezzabile, nonchè il danno cagionato al padre dei figli minori consentissero di ritenere l’offesa di particolare tenuità”.

Per cui, affermano ancora da piazza Cavour, la motivazione, seppur sintetica “risulta immune dai vizi denunciati dalla ricorrente”. All’inammissibilità dell’impugnazione, segue di conseguenza anche la condanna della donna al pagamento delle spese del procedimento nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende.

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teste de relato

Teste de relato: analisi dell’art. 195 c.p.p. La figura del teste de relato è prevista dall’art. 195 c.p.p. che disciplina l’utilizzo delle dichiarazioni rese dal testimone indiretto nel processo penale

Chi è il teste de relato?

Il teste de relato è il testimone che racconta un fatto, non per averlo appreso direttamente, ma per averne acquisito conoscenza da un altro soggetto.

Vediamo in che modo il codice di procedura penale disciplina questa figura, ma soprattutto quale valore riconosce alle dichiarazioni di questo soggetto.  

Teste de relato nel processo penale: l’art. 195 c.p.p.

Il codice di procedura penale definisce la testimonianza de relato come testimonianza indiretta nell’art. 195 c.p.p.

  • Il primo comma di questa norma dispone che quando il testimone si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice, a richiesta di parte, dispone che queste siano chiamate a deporre.”
  • Il secondo comma, a integrazione del primo, dispone che l’esame delle persone che hanno conoscenza diretta dei fatti, possa essere richiesto non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio direttamente dal giudice.
  • Il terzo comma precisa poi che, se non si osserva la regola contenuta nel primo comma, le dichiarazioni sui fatti di cui il testimone abbia avuto conoscenza da terze persone non siano utilizzabili a meno che sia impossibile procedere all’esame del testimone diretto perché defunto, irreperibile o infermo.
  • Le regole contenute nell’art. 195 c.p.p si applicano anche quando il testimone indiretto abbia avuto la comunicazione del fatto in una forma diversa da quella orale.

Limiti per agenti e ufficiali di polizia giudiziaria

Il comma 4 della norma pone poi un limite alla testimonianza indiretta, che si rivolge nello specifico agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria. Questi soggetti non possono infatti deporre su quanto appreso dai testimoni in sede di acquisizione di sommarie informazioni o nel momento in cui raccolgono denunce, querele, istanze orali, sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee della persona indagata.

Testimonianza de relato e segreto professionale e d’ufficio

Il comma 6 dell’art. 195 c.p.p. pone un limite ulteriore all’utilizzo della testimonianza indiretta. Questa disposizione vieta infatti l’esame del testimone del relato se i fatti da loro appresi provengono da soggetti che sono tenuti al segreto professionale ai sensi dell’art. 200 c.p.p. o al segreto d’ufficio di cui all’art. 201 c.p.p. in relazione alle circostanze previste da questi due articoli, a condizione che i soggetti tenuti al segreto non abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano divulgati in un altro modo.

Inutilizzabilità per rifiuto o ignoranza

L’ultimo comma dell’art. 195 c.p.p. prevede infine che le dichiarazioni del testimone de relato non siano utilizzabili se il soggetto si rifiuti o non sia comunque in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia che riguarda i fatti oggetto d’esame.

Questa disposizione, come l’intero articolo 195 c.p.p., hanno la finalità primaria di vietare le testimonianze anonime.

La Cassazione sulla testimonianza de relato

Vediamo ora, alcune recenti sentenze della Cassazione sulla testimonianza de relato:

Cassazione n. 3488/2024

La disciplina prevista in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 cod. proc. pen. non trova applicazione quando la fonte di riferimento sia costituita da un soggetto che rivesta la qualità di imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso.

Cassazione n. 34818 /2023

Gli unici casi testualmente previsti di inutilizzabilità della testimonianza de relato trovano il loro fondamento nel fatto che il teste si rifiuti o non sia in grado di indicare la propria fonte di conoscenza (comma 7 dell’art. 195 c.p.p.) o nel fatto che, pur richiestone, il giudice non chiami a deporre le persone alle quali il teste abbia fatto riferimento per la conoscenza dei fatti (comma 3, in relazione al comma 1 dell’art. 195 cod. proc. pen.).

Cassazione n. 47531/2023

In tema di testimonianza indiretta, possono formare oggetto della testimonianza de relato del personale di polizia giudiziaria i risultati dell’individuazione fotografica poiché essa consiste in una dichiarazione ricognitiva resa da un teste della propria percezione visiva ove la difesa non abbia richiesto l’esame della fonte diretta (Sez. 5, n. 5701 del 05/11/2021, dep. 2022, Rv. 282779 – 01), così implicitamente rinunciando ad avvalersi del diritto a procedere al suo esame (ex 7 Corte di Cassazione – copia non ufficiale multis, Sez. 6, n. 12982 del 20/02/2020, Rv. 279259 – 01; Sez. 5, n. 50346 del 22/10/2014, Rv. 261316 – 01).