giurista risponde

Incidente stradale e danno morale In tema di danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale, il danno morale va riconosciuto come autonoma voce di pregiudizio o come componente nel risarcimento da danno biologico? Come va formulata la liquidazione del danno patrimoniale per persona che al momento del fatto non era in età da lavoro?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

La voce di danno morale è autonoma e non conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale si distingue sia dal danno biologico stricto sensu, in quanto non suscettibile di accertamento medico-legale, sia dalla personalizzazione per incidenza su specifici aspetti dinamico-relazionali; sicché è meritevole di un compenso aggiuntivo.

Se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. – Cass. III, ord. 9 novembre 2022, n. 32935.

Nel caso in esame, la Cassazione ha definito il “danno morale” uno stato d’animo di sofferenza interiore che prescinde dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato, che pure può influenzare, ed è insuscettibile di accertamento medico-legale, sicché, ove dedotto e provato, deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione rispetto al danno biologico.

Si evidenzia, inoltre, che il positivo riconoscimento e la concreta liquidazione, in forma monetaria, dei pregiudizi sofferti dalla persona a titolo di danno morale mantengono la propria autonomia rispetto ad ogni altra voce del c.d. danno non patrimoniale, non essendone in alcun modo giustificabile l’incorporazione nel c.d. danno biologico, trattandosi, con riguardo al danno morale, di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per la compromissione degli aspetti puramente dinamico-relazionali della vita individuale.

La decisione si è anche occupata del danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa; in particolare si è precisato che tale danno, sofferto da un soggetto adulto che al momento dell’infortunio non svolgeva alcun lavoro remunerativo, va liquidato con equo apprezzamento delle circostanze del caso ai sensi dell’art. 2056 c.c. Diversamente se il danno è patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa e quello della liquidazione e capitalizzando i redditi futuri in base al coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al tempo della liquidazione. Nel caso analizzato la vittima, al momento del fatto era quindicenne e privo di reddito, e frequentava un istituto tecnico per diventare meccanico riparatore di vetture da turismo e che, a seguito dei postumi invalidanti derivanti dal sinistro è stato costretto a interrompere il percorso di studi intrapreso. La Corte ha altresì affermato che il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell’integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. III, 12 dicembre 2008, n. 29191; Cass. S.U. 14 gennaio 2009, n. 557;
Cass. III, 13 maggio 2009, n. 11059; Cass. III, 10 marzo 2010, n. 5770;
Cass. 12 settembre 2011, n. 18641; Cass. III, 17 gennaio 2018, n. 901
Difformi:      Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972
giurista risponde

Interposizione fittizia e proprietà In tema di interposizione fittizia personale, l’accoglimento della domanda proposta dal terzo creditore dell’interponente acquirente in ordine alla dichiarazione della simulazione relativa soggettiva di una compravendita immobiliare comporta il conseguente ed automatico accertamento della proprietà del bene in favore dell’interponente?

Quesito a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, è diretta anche alla verifica dell’effettiva produzione dell’effetto traslativo del bene in favore del medesimo interponente, per effetto del concluso accordo simulatorio; conseguenza, quest’ultima, che scaturisce in via automatica e immediata dalla dichiarazione di simulazione relativa soggettiva ex art. 1414, comma 2, c.c. Il terzo creditore dell’interponente, effettivo acquirente, ha lo specifico interesse, infatti, a far valere la reale appartenenza del bene al suo debitore, ai fini di poterne aggredire il patrimonio e soddisfare così il suo credito. – Cass. II, 11 novembre 2022 n. 33367.

In tema di interposizione fittizia personale, la simulazione incide sul piano dei soggetti, ossia degli autori del regolamento negoziale. In tal caso, l’accordo negoziale ha il precipuo effetto di attribuire la qualità di destinatario degli effetti dell’atto ad un soggetto diverso da colui il quale figura come tale (interposto), determinando, pertanto, uno sdoppiamento tra parte apparente e parte effettiva del rapporto. Generalmente, l’interposizione fittizia di persona si verifica nei casi in cui un soggetto intenda acquistare un bene e, tuttavia, non voglia rendere noto a terzi il suo diritto di proprietà. L’interponente, infatti, si accorda con altro soggetto (interposto), affinché questi figuri formalmente quale acquirente, ma rimanga, in realtà, del tutto estraneo rispetto agli effetti del contratto, i quali si produrranno in via esclusiva in capo al primo (interponente). Ciò posto, sia l’effetto traslativo (acquisto della titolarità del diritto), sia le conseguenze obbligatorie della compravendita (obbligo del pagamento del corrispettivo), non ricadranno sul simulato acquirente, bensì sull’interponente. È indispensabile, tuttavia, perché la fattispecie si realizzi, che l’accordo simulatorio intercorra tra tre soggetti, coinvolgendo, oltre al soggetto interposto ed all’interponente, anche il terzo contraente (alienante). L’attività negoziale posta in essere dall’interposto dispiega direttamente i suoi effetti nei confronti dell’interponente, il quale risulta l’unico e reale destinatario degli effetti dell’atto. Sono sufficienti, pertanto, due negozi per la realizzazione della suddetta fattispecie: da un lato, l’accordo simulatorio, intercorrente tra interposto, interponente e terzo; dall’altro, il contratto simulato, fittiziamente stipulato tra interposto e terzo, ma in realtà destinato a produrre i suoi effetti nei confronti dell’interponente.

Tanto premesso, nel caso in esame, il Giudice del gravame, confermando il percorso motivazionale della sentenza di prime cure, ha ritenuto dimostrata dal terzo creditore dell’acquirente reale l’esistenza di un accordo simulatorio trilatero, raggiunto tra l’interponente acquirente, l’alienante dell’immobile e l’interposto acquirente; ben disponendo, dunque, la titolarità della proprietà del bene in favore dell’interponente, come naturale e diretta conseguenza della dichiarazione della simulazione dell’atto di alienazione. La Cassazione evidenzia, nel caso di specie, la funzione dichiarativa dell’azione del terzo, creditore del dissimulato compratore. Tale azione non mira a far riconoscere l’esistenza degli elementi costitutivi di un negozio diverso da quello voluto, bensì ad accertare nei confronti delle parti di una compravendita con interposizione fittizia di persona, che, per effetto della simulazione relativa del contratto, l’immobile compravenduto è “passato in proprietà” al debitore.

Nel caso in esame, trattandosi di una simulazione relativa soggettiva, azionata dal terzo creditore dell’acquirente reale, non viene richiesta ai fini probatori la tipica controdichiarazione scritta, come da combinato disposto degli artt. 1417 e 2725 c.c. poiché i creditori o i terzi sono soggetti estranei al negozio e, dunque, non in grado di fornire le suddette prove ut supra; ciò posto, viene loro riconosciuta la prova per testi o per presunzioni. Diversamente, laddove la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi viene ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c. quando il contraente perda senza colpa il documento, ovvero quando la prova sia diretta a far valere l’illiceità del negozio, ai sensi dell’art. 1417 c.c.

La circostanza, inoltre, che l’acquirente effettivo interponente, costituitosi in giudizio, abbia aderito alla domanda del terzo creditore e abbia ammesso la realizzazione della simulazione relativa soggettiva, chiedendo, in via riconvenzionale, l’accertamento della proprietà in suo favore, non implica alcuna conseguenza, ne’ in termini di necessaria chiamata del terzo nei confronti dell’interposto, ne’ in termini probatori sulla necessaria allegazione di controdichiarazione scritta, posto che la domanda che ha trovato accoglimento è stata quella spiegata dal terzo creditore, domanda attorea principale, rispetto alla quale la pretesa di accertamento della proprietà avanzata dal convenuto interponente ha avuto una mera valenza adesivo-rafforzativa; sicché per il terzo creditore la dimostrazione della simulazione per interposizione fittizia di persona è ammissibile solamente per testimoni e presunzioni.

Sulla scorta di tali argomentazioni, la Cassazione ha accolto il ricorso di parte attrice.

L’accoglimento della domanda di simulazione per interposizione fittizia nei confronti dell’interponente acquirente, proposta dal terzo creditore, ha comportato anche la dichiarazione dell’effetto traslativo del bene in favore dell’interponente, reale acquirente e proprietario. Infine, l’interposizione fittizia di persona, seppur rientri fra i casi di simulazione relativa, non richiede, tuttavia, che la prova dell’accordo simulatorio risulti da atto scritto, bensì da testimoni o presunzioni, in quanto nel caso in esame l’istituto de quo non è stato fatto valere nei rapporti tra le parti, ma da terzi creditori.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 gennaio 1988, n. 587; Cass. II, 4 maggio 2007, n. 10240;
Cass. VI, 2 luglio 2015, n. 13634
giurista risponde

Divisione ereditaria e usucapione Il coerede che sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi senza bisogno di interversione del possesso?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

Il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso. A tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune. – Cass. civ., sez. VI, 3 novembre 2022, n. 32413.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza in esame torna a occuparsi del compossesso ereditario e della possibilità per il coerede, rimasto nel possesso del bene ereditario, di usucapire la quota degli altri coeredi.

Nel caso di specie il ricorso è stato proposto avverso la decisione, con cui la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Gaeta, che aveva riconosciuto l’usucapione di uno dei coeredi su un bene ereditario.

I giudici di primo e secondo grado hanno infatti ritenuto che il coerede, che aveva richiesto l’accertamento dell’usucapione, avesse esercitato il possesso esclusivo sui beni in questione.

Avverso tale decisione viene proposto ricorso per Cassazione da parte di uno dei coeredi, che ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141 e 1144 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c, dell’art. 2697 c.c. oltre al travisamento dei fatti e all’omessa motivazione su un fatto decisivo per il giudizio.

Nello specifico, infatti, viene contestato che la Corte di merito non abbia dato giusto rilievo al fatto che la disponibilità del bene comune era dovuta a ragioni di carattere familiare e, soprattutto, alla circostanza che colui che ha usucapito il bene era stato per quattro anni protutore del ricorrente.

Secondo quest’ultimo, in altri termini, non è stato adeguatamente dimostrata nel corso del giudizio l’esclusione dei familiari dal godimento del bene e dunque il conseguente esercizio del possesso uti dominus.

I giudici della Corte di Cassazione ritengono fondato il ricorso e cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Roma.

Nell’accogliere le doglianze del ricorrente, la Corte di Cassazione, ribadendo un consolidato orientamento, afferma che il coerede che, dopo la morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto a estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune.

A tal proposito viene chiarito che la coabitazione con il de cuius e la disponibilità delle chiavi non sono indici di un possesso esclusivo dell’immobile.

La Suprema Corte rileva come nel caso di specie non siano state indicate da parte dei giudici di merito le modalità con cui il coerede avrebbe esteso il proprio possesso sul bene ereditario al punto tale da esercitarlo in termini di esclusività.

Tale carenza motivazionale è peraltro resa più evidente se si considera la particolarità dei rapporti intercorrenti tra gli interessati, essendo stato uno dei coeredi protutore del ricorrente.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. II, 25 marzo 2009, n. 7221; Cass. II, 13 novembre 2014, n. 24214;
Cass. II, 22 gennaio 2019, n. 1642; Cass. II, 9 settembre 2019, n. 22444
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Nullità compravendita per mancanza di titolo abilitativo Ai fini della validità della compravendita immobiliare e della conseguente commerciabilità del bene immobile, la nullità comminata dall’art. 40, comma 2, L. 47/1985 opera solo in caso di mancanza degli estremi del titolo abilitativo o anche nel caso di difformità della costruzione?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

Ai fini della validità della compravendita immobiliare, la nullità comminata dal D.P.R. 380/2001, art. 46, e dalla L. 47/1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell’ambito dell’art. 1418, comma 3, c.c. di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ed atti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile proprio a quell’immobile; in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato. – Cass. II, 17 ottobre 2022, n. 30425.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha richiamato i principi espressi dalle S.U. 8230/2019 in cui, nell’affrontare il tema della rilevanza, ai fini della validità della compravendita immobiliare, dei profili attinenti alla regolarità urbanistica del bene oggetto del contratto, sono pervenute a una nozione testuale, e non virtuale, di nullità negoziale, dichiarando applicabile l’art. 1418, comma 3, c.c. Per l’effetto, si è dunque esclusa l’esistenza di una norma imperativa, rilevante quale nullità virtuale, e di un generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili. Tali principi risultano altresì applicabili nel caso di costruzione iniziata anteriormente al 1° settembre 1967, per i quali la L. 47/1985, art. 40, comma 2, prevede, in luogo della menzione in atto degli estremi della concessione, la dichiarazione da parte del proprietario o altro avente titolo, nella forma sostitutiva dell’atto notorio, attestante che l’opera risulta iniziata in data anteriore. In presenza di tale dichiarazione, la nullità comminata dalla legge urbanistica può ritenersi esistente solo nel caso in cui tale dichiarazione non risulti riferibile all’immobile oggetto dell’atto traslativo ovvero che quanto dichiarato non corrisponda alla realtà. Sussistendo tale dichiarazione nell’atto di compravendita (come nel caso di specie), restano irrilevanti, sotto il profilo della validità dell’atto, eventuali difformità del bene, rispetto allo stato di fatto originario, che non incidano sulla riferibilità ad esso della dichiarazione sostitutiva, difformità che potranno produrre le loro conseguenze unicamente sul terreno della responsabilità contrattuale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. S.U. 22 marzo 2019, n. 8230
Difformi:      Cass. II, 17 ottobre 2013, n. 23591
giurista risponde

Usufrutto e contributi condominiali Ove un’unità immobiliare sia oggetto di diritto di usufrutto, qual è il soggetto passivamente legittimato in caso di azione giudiziale dell’amministratore per il recupero dei contributi condominiali? E come vengono ripartite le spese tra nudo proprietario ed usufruttuario?

Quesito con risposta a cura di Carolina Giorgi, Corina Torraco e Incoronata Monopoli

 

In caso di azione giudiziale dell’amministratore del condominio per il recupero della quota di spese di competenza di una unità immobiliare, è passivamente legittimato l’effettivo condomino, e cioè il proprietario o il titolare di altro diritto reale su detta unità (e non anche chi possa apparire tale), poggiando la responsabilità “pro quota” dei condomini sul collegamento tra il debito e l’appartenenza del diritto reale condominiale, emergente dalla trascrizione nei registri immobiliari. – Cass. 19 ottobre 2022, n. 30877.

Invero, le obbligazioni condominiali si considerano obbligazioni propter rem, in quanto originano dalla contitolarità del diritto sulle cose, sugli impianti e sui servizi comuni. Per tale ragione, l’amministratore di condominio, al fine di ottenere il pagamento della quota per spese comuni, ha l’onere di controllare preventivamente i registri immobiliari per accertare la titolarità della proprietà, non potendo trovare applicazione, in questo caso, l’apparentia iuris.

Il principio dell’apparenza, infatti, si applica solo quando sussistono uno stato di fatto difforme rispetto a quello di diritto, e un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo al secondo; inoltre, l’apparenza rileva giuridicamente al solo fine di individuare il titolare di un diritto e non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di chi non sia debitore. Ne deriva che in caso di unità immobiliare oggetto di diritto di usufrutto, sarà legittimato passivo, in caso di azione giudiziale da parte dell’amministratore, il nudo proprietario; l’ente di gestione condominiale non può, infatti, addurre di essere incolpevolmente ignaro della reale titolarità del diritto dominicale sull’appartamento, avendo l’usufruttuario in precedenza provveduto al pagamento degli oneri condominiali, senza mai aver informato l’amministratore della sua posizione di diritto.

Quanto al riparto delle spese, essendo i fatti di specie antecedenti all’entrata in vigore dell’art. 67, ultimo comma, disp. att. c.c. (introdotto dalla legge di riforma del condominio 220/2012) che, com’è noto, prevede la solidarietà passiva nei confronti del condominio tra proprietario ed usufruttuario, trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 1004 e 1005 c.c. per cui il titolare dell’usufrutto risponde delle spese di amministrazione e di manutenzione ordinaria, mentre sono a carico del nudo proprietario le spese per le riparazioni straordinarie. Ne consegue che l’assemblea deve ripartire le spese tra nudo proprietario e usufruttuario in base alla loro funzione e al loro fondamento, ed altrimenti spettando all’amministratore, in sede di esecuzione, ascrivere i contributi, secondo la loro natura, ai diversi soggetti obbligati. Qualora i fatti, invece, siano successivi all’entrata in vigore della riforma, gli artt. 1004 e 1005 c.c. trovano applicazione solo nei rapporti interni tra proprietario ed usufruttuario, mentre nei confronti del condominio l’operatività dell’art. 67, ultimo comma, disp. att. c.c. fa si che ciascuno di essi possa, indifferentemente essere chiamato a rispondere per l’intero degli oneri condominiali.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:
Cass. S.U. 8 aprile 2002, n. 5035; Cass. II, 3 agosto 2007, n. 17039;
Cass. II, 25 gennaio 2007, n. 1627; Cass. VI, 9 ottobre 2017, n. 23621
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Algoritmo e motivazione provvedimento amministrativo Il ricorso all’algoritmo all’interno del procedimento amministrativo implica il rispetto dell’obbligo di motivazione del provvedimento ex art. 3, L. 241/1990?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Il ricorso all’algoritmo all’interno del procedimento amministrativo non può mai comportare un abbassamento del livello delle tutele procedimentali e in particolare dell’obbligo di motivazione del provvedimento ex art. 3, L. 241/1990, il quale, al contrario, in questi casi appare rafforzato.

Il processo automatizzato deve essere reso non solo conoscibile nei suoi aspetti tecnici, ma anche comprensibile, mediante una spiegazione che lo traduca nella “regola giuridica” ad esso sottesa, così rendendolo intellegibile ai suoi destinatari. Ciò al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., e dall’altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo. – TAR Napoli, sez. VII, 14 novembre 2022, n. 7003.

 

I Giudici ribadiscono che il tema dell’ammissibilità e dei limiti del ricorso alla c.d. decisione algoritmica già da alcuni anni viene affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, in ragione del sempre più frequente ricorso allo strumento algoritmico all’interno dei procedimenti amministrativi, soprattutto se caratterizzati da procedure seriali o standardizzate dove occorre gestire un numero notevole di istanze, per la cui elaborazione l’impiego dello strumento algoritmico consente una maggiore velocità ed efficienza.

Si ribadisce, inoltre, l’utilità dello strumento che, applicato alla scelta amministrativa, porta sempre ad un risultato imparziale, senza che alcun margine di soggettività.

L’algoritmo consiste, infatti, in una sequenza finita e ordinata di operazioni elementari e chiare di calcolo che permettono di risolvere, in maniera determinata, un problema.

La prospettiva, dunque, non è solo quella della semplificazione ma anche quella della buona amministrazione; alle tecnologie si guarda non solo in vista del miglioramento del processo decisionale ma anche della qualità della decisione.

Ciò premesso, il TAR ricorda che è sempre necessario controbilanciare le spinte semplificatorie ed acceleratorie con la garanzia di un constante controllo umano del procedimento al fine di verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare.

Si richiama a tal riguardo quanto già ha avuto modo di precisare il Consiglio di Stato sul tema, chiarendo che il ricorso alla funzione algoritmica all’interno del procedimento amministrativo non è vietato di per sé, neppure in relazione ai procedimenti caratterizzati da discrezionalità, anche tecnica, a condizione che si rispettino determinati requisiti, derivanti sia dai principi di diritto interno che dalle norme del diritto europeo.

Ne deriva che il ricorso all’algoritmo, in funzione integrativa e servente della decisione umana, ovvero anche in funzione parzialmente decisionale nei procedimenti a basso tasso di discrezionalità, non può mai comportare un abbassamento del livello delle tutele garantite dalla legge sul procedimento amministrativo, ed in particolare di quelle sulla individuazione del responsabile del procedimento, sull’obbligo di motivazione, sulle garanzie partecipative, e sulla cd. non esclusività della decisione algoritmica.

Tra le indicate garanzie assume primaria importanza il rispetto del principio di trasparenza, che, com’è noto, trova un immediato corollario nell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi ex art. 3, L. 241/90 e che non può essere soppresso né ridotto sol per la presenza di un algoritmo all’interno dell’iter procedimentale.

Invero, il fatto che il provvedimento venga emanato sulla scorta di una complessa operazione di calcolo produce l’opposto effetto di rafforzare, per certi versi, l’obbligo motivazionale in capo all’Amministrazione, la quale dovrà rendere la propria decisione finale non solo conoscibile, ma anche comprensibile.

Occorre spostare l’attenzione a monte, sulla costruzione dell’algoritmo, su come i parametri dell’algoritmo vengono scelti e come si combinano tra loro e ancor prima su come i termini assunti quale parametro siano stati realizzati.

La questione dell’individuazione dei termini da assumersi per la costruzione dell’algoritmo indica il momento in cui si opera la scelta caratterizzata da discrezionalità, sì che a queste fasi preliminari alla nascita dell’algoritmo devono essere anticipate le garanzie che devono accompagnare ogni scelta dell’amministrazione.

Fondamentale è a tal fine la garanzia di trasparenza, volte ad assicurare la conoscibilità della costruzione dell’algoritmo, anche, eventualmente, in funzione del sindacato sull’atto adottato sulla base dello stesso.

Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti.

Dunque, il rispetto del principio di trasparenza impone un indefettibile obbligo motivazione a carico della pubblica amministrazione, che si declina nella conoscibilità e nella comprensibilità del meccanismo algoritmico utilizzato, al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dall’altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo.

Altro principio, affermato in sede europea, è quello di non esclusività della decisione algoritmica (art. 22 GDPR), il quale attribuisce al destinatario degli effetti giuridici di una decisione automatizzata il diritto a che tale decisione non sia basata unicamente sul processo automatizzato, affidando al funzionario responsabile il compito di controllare, e quindi validare o, al contrario, smentire la decisione automatica.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 881;
Cons. Stato, sez. VI, 13 dicembre 2019, nn. 8472 e 8473;
Id., 8 aprile 2019, n. 2270; TAR Lazio, sez. IIIbis, 19 aprile 2019, n. 5139
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Attività amministrativa: quale prova per il risarcimento Che tipo di prova richiede la domanda risarcitoria derivante da illegittimo esercizio dell’attività amministrativa?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Ai sensi dell’art. 1223 c.c. sono risarcibili i soli pregiudizi patrimoniali che siano conseguenza diretta e immediata dell’evento sul piano della causalità giuridica, con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi.

Tali pregiudizi devono essere allegati e provati dal danneggiato poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento. – Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092.

 

Il Consiglio di Stato ricorda che, per consolidata giurisprudenza, la prova dell’ esistenza del danno da parte del danneggiato deve essere rigorosa e in particolare si evidenzia che: “a) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, ovvero, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, che siano conseguenza diretta e immediate dell’evento sul piano della causalità giuridica; b) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell’art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile; c) una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 cod. civ., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità, invece operante solo per la responsabilità da inadempimento ex art. 1225 cod. civ., con l’eccezione del caso di dolo; d) ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., richiamato dall’art. 2056 cod. civ., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta», con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi; e) in questo ambito, resta fermo l’onere di allegazione e prova da parte del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); f) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno; g) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7
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Notifica avvocatura dello Stato e patrocinio La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato deve ritenersi nulla o inesistente?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato è nulla e non inesistente.

La nullità della notificazione del ricorso introduttivo di primo grado comporta, in appello, la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 148 del 2021. – Cons. Stato, Sez. VII, 17 novembre 2022, n. 10111. 

Ha chiarito il Consiglio di Stato che, agli enti pubblici autonomi, nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, bensì quello facoltativo o autorizzato, sono inapplicabili le regole del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti appunto per le sole amministrazioni dello Stato.

Deve quindi essere considerata affetta da nullità la notifica del ricorso ad una Università, ove effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato.

A fronte di una notifica nulla, il vizio di nullità riscontrato può ritenersi sanato non già fornendo la prova dell’avvenuta conoscenza, comunque, dell’atto, bensì con la costituzione in giudizio della parte convenuta o intimata.

La tardiva costituzione processuale di colui il quale lamenti di non avere regolarmente ricevuto la comunicazione dell’atto introduttivo del giudizio, infatti, se, da un lato, sana il vizio di notifica ai sensi dell’art.156, comma 3, c.p.c. (a fronte della paventata volontà del convenuto di partecipare al processo e della desumibile prova di avvenuto raggiungimento dello scopo dell’attività di notifica espletata), dall’altro, legittima la rimessione in termini, ove chiesta, al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa mediante il riconoscimento della facoltà di compiere tutte quelle attività processuali che sarebbero formalmente precluse dalle decadenze, nelle more, maturate, senza colpa, a carico dell’interessato.

Quanto alla qualificazione del vizio inficiante il procedimento di notifica i Giudici chiariscono le differenze tra nullità e inesistenza e le relative conseguenze.

Qualora, infatti, la notificazione del ricorso introduttivo si ritenesse inesistente, il giudizio si concluderebbe con la declaratoria di inammissibilità non essendo applicabile la disciplina contemplata dall’art. 44, comma 4, c.p.a. in quanto concernente i (diversi) casi di nullità e non anche quelli di inesistenza della notifica.

Diversamente, qualora si propendesse per la tesi della nullità, il giudizio andrebbe rimesso al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., essendo possibile la rinnovazione della notificazione in conformità alla disciplina prevista dall’art. 44, comma 4, cit., così come censurata dalla Corte Costituzionale con la sent. 148/2021.

Ciò premesso, richiamando la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione formatasi in tema di notificazione degli atti processuali, si precisa che: “L’inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. A tali fini, il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto ed i vizi relativi alla individuazione di detto luogo, anche qualora esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto (Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2462)”.

Alla stregua del richiamato indirizzo giurisprudenziale, la notificazione non può, dunque, essere ritenuta inesistente, qualora il procedimento di notifica si sia comunque perfezionato, configurandosi eventuali difformità rispetto al modello tipizzato dal legislatore ipotesi di nullità processuale, suscettibili di sanatoria, in via retroattiva, per effetto della costituzione della parte intimata.

Nello specifico caso esaminato, si conclude, pertanto, per la qualificazione del vizio inficiante la notifica del ricorso come nullità, con conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5484;
Cons. Stato, sez. IV, 18 settembre 2019, n. 6231;
Cass. civ., sez. VI, ord. 9 febbraio 2018, n. 3240;
Cass. civ. sez. V, 15 marzo 2017, n. 6678;
Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778;
Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2014, n. 5046
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Accesso agli atti ed esame della PA A fronte di un’istanza di accesso presentata ai sensi dell’art. 22, L. 241/1990, l’Amministrazione deve esaminarla anche con riferimento alla disciplina dell’accesso civico generalizzato?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Qualora l’interessato abbia fatto inequivoco riferimento alla disciplina dell’accesso oggetto della L. 241/1990, l’Amministrazione deve esaminare l’istanza unicamente sotto i profili dettati da tale ultima legge e non anche con riferimento all’accesso civico generalizzato.

In caso di mancata risposta dell’Amministrazione sull’istanza di accesso ai sensi della L. 241/1990 si forma, pertanto, il silenzio diniego, che l’interessato ha l’onere di impugnare entro il termine di decadenza, non potendo proporre l’azione ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. – Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2022, n. 10275.

I Giudici ricordano che, qualora nella presentazione di un’istanza di accesso si sia fatto inequivoco riferimento alla disciplina dell’accesso documentale ex art. 22, L. 241/1990, l’Amministrazione destinataria della richiesta non è tenuta a valutare anche la sussistenza dei presupposti legittimanti l’accesso civico generalizzato ex art. 5, comma 2 del D.Lgs. 33/2013.

Come già chiarito dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del 2 aprile 2020, n. 10, solo nel caso in cui alla Pubblica Amministrazione sia rivolta un’istanza di accesso a documenti amministrativi che sia formulata in modo generico (ossia senza riferimento all’accesso c.d. tradizionale oppure all’accesso civico generalizzato) ovvero che contempli il richiamo di entrambi i predetti istituti (c.d. istanza cumulativa), questa ha il potere-dovere di esaminarla nella sua interezza e, dunque, anche con riferimento alla disciplina dell’accesso civico generalizzato.

Tale regola non deve, invece, essere seguita nel caso in cui l’interessato abbia fatto inequivoco riferimento alla disciplina dell’accesso oggetto della L. 241/1990: in tale ipotesi l’istanza dovrà essere esaminata unicamente sotto i profili dettati da tale ultima legge e non anche con riferimento all’accesso civico generalizzato.

Da tale premessa i Giudici fanno discendere, quale logica conseguenza, l’impossibilità per chi abbia formulato un’istanza di accesso documentale di azionare il rimedio di cui all’art. 117 c.p.a.

E infatti, il silenzio formatosi a fronte di un’istanza di accesso documentale, essendo un’ipotesi di silenzio-diniego, deve essere eventualmente impugnato con le forme e nei termini di cui all’art. 116 c.p.a.

Infine, si osserva che l’accesso chiesto da un’impresa per la difesa dei propri interessi in giudizio, in relazione ai procedimenti civili, penali e amministrativi pendenti a suo carico diretti a verificare eventuali impatti dell’attività gestita sulle matrici ambientali circostanti, non può essere qualificato come accesso alle informazioni ambientali di cui all’art. 1, D.Lgs. 195/2005.

Quest’ultimo, infatti, è finalizzato a far conoscere al pubblico e quindi alla collettività le informazioni che riguardano l’ambiente in un’ottica di trasparenza e di massima diffusione.

La ratio che lo caratterizza è, quindi, garantire un controllo diffuso sulla qualità dell’ambiente, circostanza che non si ravvisa a fronte di una richiesta espressamente finalizzata alla difesa degli interessi dell’impresa istante.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10; CGARS, 9 giugno 2021, n. 122;
Cons. Stato, Sez. VI, ord., 13 aprile 2021, n. 3006