giurista risponde

Accesso agli atti ente di diritto privato Sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse?

Quesito con risposta a cura di Claudia Buonsante

 

Sì, sono accessibili gli atti di un ente di diritto privato che svolge attività di pubblico interesse, limitatamente a tali attività. – Cons. Stato, sez. V, 20 marzo 2024, n. 2694.

Preliminarmente con riguardo alla vicenda in esame, la quinta Sezione del Consiglio di Stato ricorda che l’art. 22, comma 1, lett. e), della L. 241/1990, ammette l’accesso agli atti “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”.

L’interesse all’ostensione degli atti inerenti all’attività di pubblico interesse può discendere da notizie di stampa, le quali devono ritenersi idonee, in assenza di dati ed elementi conoscitivi più specifici e dettagliati, a radicare l’interesse, concreto e attuale all’accesso degli atti richiesti, potendo essere i medesimi potenzialmente idonei a consentire la violazione delle prescrizioni di legge che impongono di remunerare le prestazioni professionali con un equo compenso.

Nel caso in esame la Sezione ha ritenuto che, pur muovendo dalla natura privatistica di ASMEL (Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali – è un’associazione senza scopo di lucro costituita da comuni e altri enti pubblici, tra i cui scopi rientra, tra l’altro, quello “di implementare soluzioni per il conseguimento di obiettivi di semplificazione amministrativa e di contenimento della spesa nell’ambito dei procedimenti di acquisizione di beni e servizi”), l’attività dalla stessa posta in essere, nel sottoscrivere l’accordo quadro di cui è stata chiesta l’ostensione, sia di pubblico interesse. Ha statuito che sono ostensibili l’accordo quadro e tutti gli altri atti, nella disponibilità della stessa, richiesti dall’ordine degli avvocati di Roma, quale ente esponenziale della categoria degli avvocati.

*Contributo in tema di “Accesso agli atti”, a cura di Claudia Buonsante, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Contratti di fideiussione e antitrust È possibile per il giudice rilevare d’ufficio la nullità in caso di contratti di fideiussione che riproducono clausole violative della disciplina antitrust?

Quesito con risposta a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi

 

Nel caso di contratti di fideiussione che abbiano recepito clausole nate da intese anticoncorrenziali la sanzione predisposta è quella della nullità parziale. Il generale favore per la conservazione degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale, tuttavia, comporta l’eccezionalità dell’estensione all’intero contratto della nullità che colpisce la singola clausola. In conseguenza di ciò è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero atto. – Cass., sez. III, 13 marzo 2024, n. 6685.

La sentenza in commento aderisce, confermandolo, all’orientamento giurisprudenziale avallato da Cass., Sez. Un., 30 dicembre 2021, n. 41994 la quale ha affermato, in esito ad una puntuale ricognizione della normativa nazionale e comunitaria, che i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate nulle in relazione alle clausole contrastanti con la normativa antitrust sono, a loro volta, parzialmente nulli. Tale nullità parziale è, tra le diverse opzioni di tutela riconoscibili in capo al cliente fideiussore, quella che perviene a risultati più in linea con le finalità e gli obiettivi della normativa antitrust apparendo anche idonea a salvaguardare il generale principio di conservazione del contratto.

Sulla base di ciò la Cassazione ha disatteso il motivo di ricorso che postulava la violazione dell’art. 1421 c.c. affermando che, mentre il giudice davanti al quale viene proposta la domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne d’ufficio la nullità solo parziale, ad esso è precluso rilevare la nullità totale in mancanza di dimostrazione dell’interdipendenza dell’ intero contratto dalla parte o dalla clausola nulla.

Il ricorrente, poi, invoca la mancata considerazione del comportamento della società di leasing che, in spregio del principio di buona fede e correttezza, avrebbe gestito il contratto senza preoccuparsi di non ledere gli interessi del fideiussore, evidenziando la violazione delle garanzie di cui agli artt. 1955 e 1956 c.c. La Cassazione, tuttavia, ricorda che la non correttezza della società concedente non porta, da sola, alla liberazione del fideiussore. Occorre, infatti, che da essa sia derivato un pregiudizio non solo economico ma propriamente giuridico che si sostanzia nella perdita del diritto di surrogazione ex art. 1949 c.c. o di regresso ex art. 1950 c.c. non essendo sufficiente la mera maggiore difficoltà di attuarlo derivante dalle diminuite capacità satisfattive del debitore (così anche Cass. 19 febbraio 2020, n. 4175).

*Contributo in tema di “Contratti di fideiussione e antitrust”, a cura di Carmela Qualiano e Davide Venturi, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Recidiva qualificata e circostanza ad effetto speciale Il limite dell’aumento della pena correlato al riconoscimento della recidiva qualificata previsto dall’art. 99, comma 6, c.p., incide sulla qualificazione della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., come circostanza ad effetto speciale?

Quesito con risposta a cura di Alessia Bruna Aloi, Beatrice Doretto, Antonino Ripepi, Serena Suma e Chiara Tapino

 

Il limite all’aumento di cui alla previsione dell’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla qualificazione della recidiva, come prevista dal secondo e dal quarto comma del già menzionato articolo, quale circostanza ad effetto speciale, e non influisce sui termini di prescrizione determinati ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p., come modificati dalla L. 251/2005. – Cass. Sez. Un., 29 luglio 2022, n. 30046

Nel caso di specie la Suprema Corte, riunita in Sezioni Unite, è stata chiamata a valutare la incidenza del limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., rispetto alla qualificazione di circostanza ad effetto speciale della recidiva prevista dall’art. 99, commi 2 e 4, c.p., nonché la eventuale influenza dello stesso ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

La questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite si fonda invero su due distinti profili.

Il primo profilo attiene alla natura qualificata della recidiva, che comporta un aumento della pena fino alla metà, della metà o di due terzi ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., eventualmente contestata con l’applicazione della disposizione di cui all’art. 99, comma 6, c.p. quando determina un aumento della pena in misura pari o inferiore ad un terzo.

Il secondo profilo attiene agli effetti dell’applicazione del limite dell’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p. sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo, ai sensi dell’art. 157 c.p., quanto massimo, dovuto all’ulteriore aumento stabilito dall’art. 161, comma 2, c.p., attesa la presenza di atti interruttivi nel corso del processo.

Le Sezioni Unite a tal proposito hanno evidenziato i due contrapposti orientamenti riconoscibili nella giurisprudenza di legittimità sul tema oggetto della questione rimessa.

Secondo l’orientamento maggioritario, la contestazione di una circostanza qualificata ai sensi dell’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., comporta che di essa, parificata alla circostanza ad effetto speciale, debba tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p. Tuttavia, il suddetto calcolo prescrizionale dovrebbe tener conto altresì del limite quantitativo all’aumento di pena, di cui la previsione dell’art. 99, comma 6, c.p. svolge effetto mitigatore (Cass., sez. V, 24 settembre 2019, n. 44099).

Contrariamente, il limite fissato dall’art. 99, comma 6, c.p. ai fini della determinazione della pena, non incide sulle modalità di calcolo del termine massimo di prescrizione, di cui all’art. 161, comma 2, c.p., in quanto tale computo avviene secondo aumenti secchi fissati nella misura della metà o di due terzi.

Secondo il contrario orientamento giurisprudenziale, l’applicazione del limite di aumento di cui all’art. 99, comma 6, c.p., ai fini del computo della pena, comportando un aumento della stessa pena base in misura pari o inferiore ad un terzo, inciderebbe sulla natura della recidiva, escludendone la qualificazione di circostanza ad effetto speciale ai fini del computo del termine di prescrizione di cui all’art. 157 c.p.

In relazione al primo punto della questione, la Suprema Corte ha ricordato quanto stabilito da plurime pronunce giurisprudenziali delle Sezioni Unite, che hanno riconosciuto la natura di circostanza ad effetto speciale alle suddette recidive qualificate, in quanto le stesse soggiacciono ad una valutazione comparativa con eventuali circostanze attenuanti e rientrano nel novero delle circostanze ad effetto speciale di cui all’art. 649bis c.p. (Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585).

Inoltre, secondo una ulteriore pronuncia giurisprudenziale cui le Sezioni Unite aderiscono, la natura di una circostanza, tanto comune quanto ad effetto speciale, non può derivare dal meccanismo relativo all’aumento di pena previsto dall’art. 63 c.p. per le circostanze ulteriori rispetto a quella più grave, in quanto ispirato al criterio del cumulo giuridico (Cass. Sez. Un. 8 aprile 1998, n. 16). Se così non fosse, la medesima circostanza cambierebbe natura, da circostanza comune a circostanza ad effetto speciale, a seconda se contestata da sola o dalla posizione assunta nell’ordine di gravità delle circostanze concorrenti.

Pertanto, l’aumento di pena in conseguenza dell’applicazione del limite di cui all’art. 99, comma 6, c.p., in misura pari o inferiore ad un terzo, non incide sulla natura della recidiva qualificata di cui all’art. 99, commi 2, 3 e 4, c.p., la cui natura di circostanza aggravante ad effetto speciale rimane immutata.

In relazione al secondo punto, le Sezioni Unite hanno analizzato la riscrittura della disciplina codicistica effettuata dalla L. 251/2005 in tema di calcolo del temine minimo e massimo di prescrizione di cui agli artt. 157, comma 2, c.p. e 161, comma 2, c.p., evidenziando come il momento del computo della pena ai fini del calcolo del termine di prescrizione, che si effettua secondo criteri oggettivi, generali e astratti, vada tenuto distinto dal momento di determinazione della pena da irrogare al condannato, che si fonda su criteri concreti e soggettivi. Inoltre, pur essendo circostanza soggettiva del reato, in quanto inerente alla persona del colpevole, la recidiva qualificata è espressione del maggior disvalore del fatto di reato in senso oggettivo, tale da giustificare un regime più severo nel computo del decorso dei termini di prescrizione.

Le Sezioni Unite hanno infine richiamato quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, la quale ha individuato un parallelismo tra le disposizioni dettate dall’art. 157, comma 2, c.p. e dall’art. 161, comma 2, c.p., in quanto la recidiva qualificata, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo, incide sul termine ordinario di prescrizione del reato (Corte Cost. ord. 34/2009).

Pertanto, la Suprema Corte ha stabilito che il limite all’aumento di pena di cui all’art. 99, comma 6, c.p., non rileva in ordine alla natura della recidiva qualificata quale circostanza ad effetto speciale e non influisce sul calcolo del termine di prescrizione, tanto minimo ai sensi di cui all’art. 157, comma 2, c.p., quanto massimo ai sensi dell’art. 161, comma 2, c.p., discostandosi dall’orientamento maggioritario.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass. Sez. Un. 25 ottobre 2018, n. 20808; Cass. Sez. Un. 24 settembre 2020, n. 3585
Difformi:      Cass., sez. III, 3 novembre 2020, n. 34949
giurista risponde

Reato di corruzione: come provarlo L’accertamento dell’avvenuta dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale è sufficiente a provare il reato di corruzione o ne costituisce un mero indizio?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Ai fini dell’accertamento del reato di corruzione, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione.

La prova della dazione indebita di un’utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento anti-doveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. – Cass., sez. VI, 22 gennaio 2024, n. 2749.

Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in materia di corruzione in atti giudiziari ai sensi degli artt. 318, 319ter, 321 c.p. L’indagato, titolare di un’impresa e accusato di un reato fiscale in separato procedimento, aveva ricevuto, da un tenente colonnello della guardia di finanza di sua conoscenza, consigli, consulenze tecniche, nonché una sollecitazione telefonica alla Procura della Repubblica in suo favore. Il contatto tra l’imprenditore e il pubblico ufficiale verteva sulla possibilità, per il primo, di ottenere il dissequestro di alcune somme di denaro: tale provvedimento veniva poi legittimamente emesso dal Pubblico Ministero, alla luce della sussistenza del diritto alla restituzione del suddetto importo.

Successivamente veniva disposta la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’indagato, al quale si addebitava un’ipotesi di corruzione in atti giudiziari, sotto forma di corruzione impropria. Si riteneva, infatti, che l’aiuto fornito dal colonnello avesse avuto come corrispettivo la disponibilità di un immobile di proprietà dell’imprenditore. Tale utilità era stata ottenuta sia prima, sia dopo la descritta condotta del pubblico ufficiale.

L’ordinanza veniva confermata dal Tribunale e, avverso la stessa, veniva proposto ricorso per Cassazione. In primo luogo, si riteneva insussistente l’asservimento della funzione, dal momento che il contegno del pubblico ufficiale sarebbe stato rispettoso del dovere della pubblica amministrazione di segnalare al contribuente anche gli elementi a suo favore – nel caso di specie, la possibilità di presentare istanza di restituzione dei soldi. In secondo luogo, si riteneva che l’ordinanza fosse viziata quanto alla motivazione circa il nesso di sinallagmaticità tra il comportamento del pubblico ufficiale e la disponibilità dell’immobile dallo stesso ottenuta. Dell’appartamento, infatti, egli aveva goduto in momenti del tutto lontani rispetto ai fatti oggetto del procedimento e, inoltre, si sarebbe trattato di un vantaggio sproporzionato per difetto rispetto alla ritenuta controprestazione.

La Corte di Cassazione ha giudicato il ricorso fondato, alla luce delle motivazioni che seguono. In via preliminare è stato ribadito che il reato di corruzione in atti giudiziari è in rapporto di specialità rispetto alle fattispecie di corruzione propria e impropria, dal momento che essa si caratterizza per il compimento del fatto corruttivo con la finalità di favorire o danneggiare una parte in un processo (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208).

I Supremi Giudici hanno poi ricostruito le modifiche introdotte dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, in particolare quelle dell’art. 318 c.p. Il riferimento al compimento di uno o più atti amministrativi aveva, infatti, creato difficoltà in passato per tutti i casi diversi dal mercimonio di specifici atti e caratterizzati, piuttosto, dall’asservimento sistemico della parte pubblica a favore del soggetto privato. Di conseguenza, con l’intervento legislativo è stato eleminato il requisito dell’adozione di un atto amministrativo legittimo — che, in concreto, può anche del tutto mancare — a favore della specificazione per cui, nel caso di corruzione cosiddetta impropria, il patto criminoso ha ad oggetto la funzione pubblica nel suo complesso. Ad essere punito, cioè, è l’accordo con cui il pubblico ufficiale vende il ruolo da lui rivestito, attraverso la presa in carico degli interessi della parte privata che, a sua volta, crea un inquinamento diffusivo, con conseguenze non preventivabili.

Per quanto concerne i confini rispetto alla corruzione propria, invece, la Cassazione sottolinea come, prima della citata riforma, fosse possibile constatare una riduzione del campo di applicazione dell’art. 318 c.p., a favore dell’art. 319 c.p., per i casi di attività discrezionale. La giurisprudenza maggioritaria, infatti, riteneva che il fatto oggettivo di aver ricevuto denaro o altra utilità valesse a contaminare il processo decisionale del pubblico ufficiale: ne derivavano un’implicita violazione del principio di imparzialità, l’illegittimità dell’atto adottato e, conseguentemente, l’integrazione dell’art. 319 c.p. e non dell’art. 318 c.p. La sentenza in esame non si sofferma espressamente sugli effetti prodotti dalla riforma del 2012 su questo punto, ma è possibile constatare la presenza di due diverse interpretazioni: ad un orientamento in linea con la lettura prevalente in passato se ne contrappone un altro, secondo il quale occorre verificare se la presa in carico dell’interesse del privato da parte del pubblico ufficiale abbia davvero contaminato la cura dell’interesse pubblico. In caso di risposta negativa, il fatto deve essere ricondotto all’art. 318 c.p., con ciò evitando ragionamenti presuntivi (così Cass., sez. VI, 30 aprile 2021, n. 35927).

I Supremi Giudici hanno poi proseguito sottolineando che la corruzione, reato a concorso necessario, si caratterizza per la presenza di due condotte in reciproca saldatura e condizionamento. Da ciò viene fatta derivare la necessità che la realizzazione del contegno del pubblico ufficiale sia la giustificazione causale della dazione di denaro o di altra utilità, sebbene non ci sia, tra l’una e l’altra, un ordine cronologico inderogabile. La prova della dazione indebita, quindi, può costituire soltanto un indizio della realizzazione di un fatto di corruzione ed esso va valutato, come impone l’art. 192 c.p.p., unitamente ad altre circostanze di fatto che vadano nella stessa direzione ricostruttiva.

Nel caso di specie, i Giudici hanno ritenuto che il Tribunale non avesse sufficientemente motivato in ordine alla sussistenza di tale nesso causale: non era emerso in modo chiaro, infatti, il collegamento tra la condotta del pubblico ufficiale e il fatto che lo stesso avesse avuto, in alcune occasioni, la disponibilità dell’appartamento dell’indagato. A rendere poco evidente tale legame erano, in particolar modo, la non chiara corrispondenza temporale tra i due dati e, altresì, l’assenza di proporzionalità tra gli stessi.

Per questi motivi, la Cassazione ha accolto il ricorso, con annullamento dell’ordinanza impugnata e rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale.

*Contributo in tema di “ Reato di corruzione ”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Sproporzione tra retribuzione e previsioni del contratto collettivo Quando la sproporzione tra la retribuzione corrisposta e la diversa previsione del contratto collettivo determina sfruttamento del lavoro?

Quesito con risposta a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli

 

Per cogliere la sproporzione nel caso concreto il raffronto non va effettuato semplicemente tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e, quindi, tenendo conto dell’attività, delle complessive condizioni di lavoro e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. – Cass., sez. IV, 22 gennaio 2024, n. 2573 (sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo).

 Nel caso di specie la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la logicità dell’interpretazione, fatta dai giudici di merito, dell’art. 603bis, comma 3, n. 1 c.p. In primo e in secondo grado gli imputati erano stati condannati per il reato di sfruttamento del lavoro, ai sensi del comma 1, n. 2 della citata disposizione, per avere reiteratamente conferito a quattro lavoratori extracomunitari una paga ritenuta sproporzionata per difetto rispetto alle previsioni del CCNL. Con il primo motivo i ricorrenti lamentavano, al contrario, l’insussistenza di suddetta caratteristica, con i conseguenti vizi di erronea applicazione della legge penale e di motivazione contraddittoria: le retribuzioni erogate non erano, infatti, di molto inferiori rispetto agli importi formalmente previsti dal contratto collettivo applicabile.

La Cassazione, dopo aver specificato che l’accertamento della palese difformità e della sproporzione della retribuzione è una valutazione riservata al giudice di merito, ha verificato l’assenza di contraddizioni nelle conclusioni tratte in primo e in secondo grado. In via preliminare la Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, alla luce della quale i vari indicatori delle condizioni di sfruttamento del lavoro, elencati nei n. 1)-4) della disposizione, disegnano insieme il perimetro del concetto stesso di sfruttamento. Ciascun indicatore è in sé sufficiente ma non necessario, essendo alternativo agli altri. Tali indici, inoltre, non sono tassativi: estranei al fatto tipico, valgono come linee guida per l’interprete nell’individuazione di condotte distorsive del mercato del lavoro anche a partire da circostanze di fatto diverse rispetto a quelle elencate (così anche Cass., sez. IV, 30 novembre 2022, n. 9473; Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Più nello specifico, la Corte ha poi chiarito, in linea con le proprie precedenti pronunce, che per retribuzione deve intendersi tutto ciò che è dovuto per la prestazione lavorativa, comprese le indennità da riconoscere a vario titolo. In passato è stato, infatti, stabilito che, ad esempio, costituiscono spie di un abuso anche le detrazioni operate in qualunque modo sulla retribuzione del lavoratore, tra le quali quelle per remunerare il locatore dell’alloggio o l’operatore del servizio di trasporto al luogo di lavoro (Cass., sez. IV, 22 dicembre 2021, n. 46842).

Per evitare disparità di trattamento, inoltre, il parametro in esame deve essere applicato non soltanto ai lavoratori subordinati ma a qualsiasi attività lavorativa accettata in uno stato di bisogno, quale che sia la formale qualificazione giuridica della stessa. Si deve, inoltre considerare che tale retribuzione, a decorrere dall’entrata in vigore della L. 29 ottobre 2016, n. 199, deve essere reiterata e non necessariamente sistematica. Di conseguenza, sottolineano i Supremi Giudici, la paga sproporzionata può anche non essere costante, bastando una seconda retribuzione per superare la soglia della punibilità.

Per quanto concerne, più da vicino, il grado di discostamento dai contratti collettivi applicabili a ciascun settore, la disposizione statuisce che debba trattarsi di una palese difformità. Il datore di lavoro, avvantaggiandosi del bisogno altrui, impone una retribuzione al ribasso rispetto alle prescrizioni del CCNL. In merito, invece, alla seconda parte della disposizione in oggetto, essa prevede che il giudice debba, in ogni caso, verificare se la paga sia proporzionata rispetto alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. I Supremi Giudici hanno specificato, anzitutto, che si tratta di un corollario diretto dell’art. 36 Cost., stante l’obiettivo di garantire equità e dignità al lavoratore; in secondo luogo, hanno statuito che tale limite debba prevalere in ogni caso, cioè anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l’abbia rispettato. In questa evenienza, si può considerare che una parte della dottrina ha, tuttavia, sollevato dubbi circa la possibilità di provare il dolo del datore di lavoro che abbia fatto affidamento su un contratto collettivo qualificato.

In forza di queste premesse, la Cassazione ha concluso che l’inadeguatezza della paga e la sua natura abusiva non possono essere accertate ponendo l’attenzione esclusivamente sulla differenza tra somme corrisposte al lavoratore e importo astrattamente previsto dal contratto collettivo di riferimento. Bisogna, infatti, sempre completare l’indagine attraverso il vaglio della quantità e della qualità del lavoro prestato alla luce dell’attività in concreto svolta, delle complessive condizioni di lavoro e del confronto tra le ore effettivamente prestate rispetto alle previsioni contrattuali.

Con il secondo e con il terzo motivo di ricorso, invece, i ricorrenti lamentavano l’incompletezza della motivazione della sentenza in relazione alla pertinenzialità, rispetto al reato commesso, dei beni confiscati ai sensi dell’art. 603bis.2 c.p. I lavoratori sfruttati erano stati impiegati su terreni di proprietà di terzi, mentre oggetto di confisca erano stati appezzamenti diversi dai primi e di proprietà degli imputati. Al riguardo la Cassazione ha concluso nel senso che, poiché la confisca diretta ha ad oggetto tutti i beni funzionali a commettere il reato o da cui ne deriva un’utilità, il nesso di pertinenzialità non viene interrotto se i terreni oggetto di sequestro e di confisca sono diversi da quelli indicati in imputazione. Si tratta, infatti, pur sempre di fondi agricoli del medesimo compendio aziendale, nel quale e per l’utilità del quale i quattro lavoratori africani erano sfruttati.

In base alle considerazioni esposte, la Cassazione ha rigettato i ricorsi degli imputati.

*Contributo in tema di “ Sproporzione tra retribuzione corrisposta e previsioni del contratto collettivo”, a cura di Annachiara Forte e Caterina Rafanelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 72 / Marzo 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Clausole esonero spese condominiali Quando possono considerarsi vessatorie le clausole del costruttore di esonero dalle spese condominiali?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita dell’unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell’ art. 33, comma 1, D.Lgs. 206/2005, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente. Al contrario, resta di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano. – Cass. II, ord. 21 giugno 2022, n. 20007.

Il contratto che intercorre tra il professionista costruttore del fabbricato e il consumatore acquirente di una delle unità immobiliari in esso compreso è, di regola, una compravendita. Dal contratto di compravendita di una unità immobiliare compresa in un edificio condominiale non discende, quindi, all’evidenza, un obbligo per il venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano; tale obbligo discende, piuttosto, dagli artt. 1118 e 1123 c.c. e può essere oggetto, tuttavia, di “diversa convenzione” ai sensi del comma 1 dell’art. 1123 c.c. Infatti, in base agli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. posso essere derogati da una convenzione stipulata tra tutti i condomini, come anche da una deliberazione presa dagli stessi con l’unanimità dei consensi dei partecipanti. L’autonomia negoziale può anche prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese condominiali.

Secondo la decisione in esame, diversamente da quanto riferito nella pronuncia impugnata, l’esonero dei condòmini dagli obblighi collegati alla contitolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni, eventualmente inserita nel contenuto contrattuale del regolamento condominiale, costituisce vicenda negoziale autonoma e distinta rispetto al contratto di vendita dell’unità immobiliare intercorsa tra costruttore proprietario originario e singolo condomino acquirente, seppure tale “diversa convenzione” ex art. 1123 c.c. sia oggetto di espresso richiamo nei titoli di compravendita di ciascun appartamento dell’edificio comune. Quindi, affinché una clausola della convenzione sulle spese condominiali sia valutata ai fini dell’art. 33 del Codice del Consumo occorre, allora, che la stessa provochi un significativo squilibrio (non ex se negli obblighi di contribuzione derivanti dagli artt. 1118 e 1123 c.c., ma) dei diritti e degli obblighi derivanti, ai sensi degli artt. 1476 e 1498 c.c., dal contratto di compravendita concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente.

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, occorre procedere a un accertamento della vessatorietà della “clausola”, la quale esonera la costruttrice dal pagamento delle spese condominiali, valutando non lo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento di Condominio, il quale non è un contratto di consumo, quanto lo squilibrio dell’intero rapporto contrattuale sinallagmatico e dunque della complessiva operazione economica intercorsi tra il singolo acquirente consumatore e il professionista venditore. L’eventuale accertamento della vessatorietà della clausola nell’ambito del rapporto di consumo “a vantaggio del consumatore” ripercuoterà la sua incidenza sulla validità della adesione alla convenzione ex art. 1123, comma 1, c.c.

Alla luce di tali premesse, la pronuncia conclude affermando il principio di diritto anticipato supra nella risposta.

giurista risponde

Applicazione automatica pene accessorie e reati tentati e non consumati L’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. può essere estesa anche alle fattispecie di reato tentate e non consumate?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

In assenza di specifica previsione normativa, considerata la pervasività delle pene accessorie e la diversificata gamma di reati sessuali, non è possibile estendere l’applicazione automatica delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p. alle fattispecie tentate. La questione è, comunque, oggetto di contrasto giurisprudenziale. – Cass., sez. III, 5 marzo 2024, n. 9312.

A seguito di una condanna inflitta in primo grado con rito alternativo per i reati di maltrattamenti e tentata violenza sessuale aggravata ai danni della moglie, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso in Cassazione denunciando l’asserita violazione di legge per la mancata applicazione automatica all’imputato delle pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., sostenendo la compatibilità di tale disposizione anche con le fattispecie tentate (e non solo consumate).

La Suprema Corte non ha condiviso la doglianza ed ha, pertanto, ritenuto infondato il ricorso.

Preliminarmente la Corte rileva che l’art. 609nonies c.p. si riferisce ai “delitti” da intendersi come consumati e non tentati; evidenzia, inoltre, che il delitto tentato costituisce una figura autonoma rispetto alla fattispecie consumata, distinguendosi da questa perché caratterizzata da un minor grado di offensività, pur essendo perfetta in tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza). L’autonomia dogmatica del tentativo, pertanto, comporta che gli effetti giuridici previsti dalla norma penale per la consumazione del reato non possono estendersi automaticamente anche alla sua figura, a fortiori se manca una disposizione di legge che lo preveda.

E’ proprio da questo vulnus normativo che è sorta una divergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza. La prima ritiene, pressoché in modo stabile da oltre quarant’anni, che il problema debba essere affrontato in base al singolo caso concreto, escludendo a monte la possibilità di una soluzione univoca e generalizzata. La giurisprudenza, invece, anche al di fuori delle ipotesi relative ai reati sessuali, ha pressoché risolto positivamente la questione rinvenendo, nella punibilità del tentativo, la medesima ratio repressiva dell’applicazione della pena nei delitti consumati.

Il tema è tuttora dibattuto e non risolto ed è, peraltro, oggetto di contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche tra le Sezioni della Corte di Legittimità.

Nel caso di specie, la Corte, nella propria motivazione, ha richiamato e condiviso le argomentazioni della sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite Suraci (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28910) in cui è stata evidenziata la distinzione tra le pene principali e quelle accessorie: mentre le prime hanno una funzione retributiva, di prevenzione generale e speciale, oltre che rieducativa, quelle accessorie, specialmente quelle interdittive e inabilitative, hanno una funzione prettamente specialpreventiva, oltre che di rieducazione personale, perché mirano a realizzare il forzoso allontanamento del reo dal contesto professionale, operativo e/o sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, per impedirgli di reiterare in futuro la sua condotta criminosa. Proprio in virtù dello specifico finalismo preventivo, è necessario modulare l’applicazione delle pene accessorie al disvalore del fatto e alla personalità del reo così che, in relazione allo specifico caso concreto, non necessariamente la durata della pena accessoria deve riprodurre quella della pena principale, così come prevede l’art. 37 c.p. Il Supremo Consesso, sulla base di queste considerazioni, ha espresso il seguente principio di diritto: “Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.

Aderendo a tali considerazioni, la Corte ritiene che, in mancanza di una disposizione espressa, e in ragione della forte invasività che caratterizza le pene accessorie previste dall’art. 609nonies c.p., non è possibile la loro automatica applicazione anche alle ipotesi solo tentate.

Così decidendo, pertanto, la Sezione Terza della Cassazione si è posta in continuità con uno dei suoi precedenti giurisprudenziali nel quale ha affermato che le misure di sicurezza personali previste, dall’art. 609nonies, comma 3, c.p., in caso di determinati reati consumati aggravati, sono applicabili solo nel caso di condanna a fattispecie consumate ivi previste, e non alle ipotesi tentate. Tale interpretazione si impone non solo in virtù della littera legis della disposizione, ma anche al fine di evitare il paradosso che la tentata violenza sessuale aggravata venga punita più gravemente rispetto ad una violenza sessuale consumata ma non aggravata. – Cass., sez. III, 24 maggio 2017, n. 25799.

*Contributo in tema di “Applicazione automatica delle pene accessorie”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Prescrizione azione di ripetizione per somme illegittimamente addebitate In caso di somme illegittimamente addebitate al cliente dalla banca, da quando decorre il dies a quo del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

La ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Il dies a quo della prescrizione inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo. – Cass., sez. I, 26 febbraio 2024, n. 5064.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’iniziativa giudiziaria di una società nei confronti della banca presso la quale aveva acceso un rapporto di conto corrente fin dall’anno 1981. La correntista chiedeva la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dall’istituto di credito a titolo di interessi anatocistici. La banca eccepiva la prescrizione in relazione agli addebiti aventi natura di rimesse solutorie effettuati sul conto in data anteriore al decennio dalla notifica della citazione. Il Tribunale rigettava l’eccezione della banca ritenendo che la stessa non avesse indicato le rimesse solutorie e accoglieva la domanda dell’attrice provvedendo alla rideterminazione del saldo in seguito ad una c.t.u. contabile.

La decisione veniva riformata dal giudice del gravame sul presupposto che incombesse sulla correntista produrre in giudizio tutti gli estratti conto a partire dalla data di apertura del contratto.

Secondo la Corte di Appello solo attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti si sarebbe potuti pervenire alla determinazione dell’eventuale credito della correntista e alla quantificazione degli importi da espungere, non essendo sufficienti a tale fine gli estratti conto scalari in quanto rappresentativi dei soli conteggi degli interessi attivi e passivi, senza possibilità di individuare le operazioni alla base delle annotazioni degli interessi e dei movimenti effettuati nell’arco di tempo considerato.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione lamentando in prima battuta l’erronea statuizione riguardo la ripartizione degli oneri probatori con riferimento all’eccezione di prescrizione considerando che l’onere probatorio di un fatto estintivo incombe sul soggetto che lo eccepisce.

Secondariamente si è censurata l’erronea valutazione dei fatti costituivi posti a fondamento della domanda, posto che la ragione della produzione degli estratti conto scalari con riferimento ad un limitato periodo di tempo del conto corrente dipendeva dalla domanda, limitata a quell’intervallo temporale, con esplicita rinuncia a qualsiasi contestazione quanto ai periodi per i quali non vi era documentazione contabile. Si aggiungeva, altresì, l’assenza di una motivazione per il mancato accoglimento delle risultanze espresse nella consulenza tecnica.

In ultimo, veniva contestata la natura migliorativa della capitalizzazione degli interessi introdotta dalla delibera del Cicr del 9 febbraio del 2000 rispetto alla clausola anatocistica precedentemente applicata.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ricorda preliminarmente come in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte anteriore (così anche Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895 – termine di prescrizione estintiva).

Tuttavia, ricorda la Corte che il principio opera solo sul versante dell’onere di allegazione ammettendo una simmetria, in quanto così come il correntista può limitarsi a indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione previa verifica del saldo del conto, anche la banca può a sua volta limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore per il tempo necessario alla prescrizione.

Ciò posto, il problema delle rimesse solutorie si sposta sul piano dell’onere probatorio per cui all’allegazione consegue la prova della parte su cui, per legge, incombe il relativo onere, anche facendo luogo a una c.t.u., cosicché le relative risultanze probatorie vengano valutate dal giudice.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva disatteso le risultanze della consulenza tecnica sul presupposto di una non idonea documentazione in grado di evidenziare l’esistenza di rimesse con funzione solutoria, sostenendo come il conto corrente era contraddistinto dalla mancanza di affidamenti e ricavandone la funzione solutoria per tutte le rimesse, salvo prova contraria della correntista.

Tale motivazione viene ritenuta affetta da un’incongruenza logica in quanto, nel caso in cui un cliente citi in giudizio l’istituto di credito domandando la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi anatocistici, relativamente ad un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, “la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Questo si rende necessario ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, termine che inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo” (termine di prescrizione per l’azione di ripetizione).

Spostandosi sul versante dell’onere probatorio a carico della correntista censurato dalla Corte di Appello, la Cassazione afferma che una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi anatocistici a carico della stessa, occorre distinguere il caso in cui essa è convenuta da quella in cui sia attrice. In quest’ultimo caso, invero, l’accertamento del dare e dell’avere può aversi tramite l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete tese a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, in quanto l’estratto è un documento formato e proveniente dalla banca.

Da ciò deriva che è possibile ricostruire l’effettività del saldo finale partendo dai documenti esibiti dal correntista e provenienti dalla banca, anche tramite elaborazioni tecniche dei dati risultanti dai riassunti scalari così come anche statuito da Cass., sez. I, 18 aprile 2023, n. 10293.

Nel caso in esame, essendo il correntista ad agire in giudizio per la rideterminazione del saldo e la correlata ripetizione delle somme indebitamente considerate, ed avendo egli prodotto il primo degli estratti conto scalari con un saldo iniziale a suo debito, è legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni o diano giustificazione di un saldo diverso nel periodo di riferimento per effetto della eliminazione delle voci o delle competenze illegittimamente applicate fino a quel momento. In tal modo, la base di calcolo può essere determinata proprio sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, dato che questo costituisce un documento redatto dalla controparte in funzione riassuntiva delle movimentazioni del conto corrente, e rimane, nel quadro delle risultanze di causa, il dato più sfavorevole alla stessa parte attrice.

Su tali assunti, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà uniformarsi ai principi esposti.

*Contributo in tema di “ termine di prescrizione per l’azione di ripetizione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Estorsione e richiesta di rinunciare a parte della retribuzione La condotta del datore di lavoro che, al momento dell’assunzione, prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdita dell’opportunità di lavoro è estorsione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

Non integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che al momento dell’assunzione prospetta agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione, oppure la perdita dell’opportunità di lavoro. In particolare, pur realizzandosi un ingiusto profitto per il datore di lavoro grazie alle prestazioni d’opera sottopagate, per il lavoratore rispetto ad una precedente situazione di disoccupazione non è possibile dimostrare che l’occupazione conseguita possa recare un danno. – Cass., sez. II, 2 febbraio 2024, n. 9823.

Il reato di estorsione infatti, come riconosce la Cassazione, può essere integrato solo nel contesto delle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, e non nella fase genetica della sua creazione. Pertanto non grava sul datore di lavoro “alcun obbligo giuridico di assumere le persone offese che, infatti, risultano essersi spontaneamente rivolte alla medesima società chiedendo l’assunzione: se, pertanto, la pretesa della società di subordinare questa ad una rinuncia a parte dello stipendio comportava per la parte datoriale l’ingiusto profitto del conseguimento di prestazione d’opera sottopagata, non risulta la prova del danno ingiusto arrecato al lavoratore al momento dell’assunzione, giacché non vi è prova che il conseguimento di un lavoro, per quanto sottopagato, abbia arrecato […] un danno rispetto alla situazione preesistente di mancanza di lavoro”.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso la sentenza della Corte di Appello che confermando la sentenza del GIP presso il tribunale della stessa città, condannava il ricorrente alla pena di giustizia per il delitto di cui all’art. 629 c.p. In particolare il motivo di doglianza atteneva alla violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’erronea qualificazione della condotta ascritta in termini estorsivi. La difesa rilevava nello specifico come sul tema difettasse qualsiasi motivazione, tenuto conto delle modalità consensuali con le quali si addiveniva all’accordo tra imputato (datore di lavoro offerente la posizione lavorativa) e lavoratori, al momento genetico costitutivo il rapporto di lavoro. La Corte ha ritenuto fondato tale motivo, ritenendo assorbiti i successivi, attesa in primo luogo, una libera adesione ab origine dei lavoratori alla proposta lavorativa caratterizzata da retribuzione inferiore rispetto a quella prevista dalla contrattazione collettiva, non intaccando in alcun modo una pretesa giuridicamente tutelata. Infatti, come sottolinea la Suprema Corte, ai fini dell’integrazione della fattispecie estorsiva, deve apparire in primo luogo provato l’elemento centrale delle condotte, quale nel caso di specie la minaccia volta all’ottenimento dell’ingiusto profitto. Come già censurato con specifico motivo di appello, le condizioni di lavoro oggetto di accertamento non sono mai state imposte nel corso del rapporto di lavoro mediante minaccia, ma oggetto di specifico e previo accordo antecedente all’inizio effettivo del rapporto lavorativo, prima dunque dell’assunzione. Di conseguenza, non appare emergere alcuna minaccia in relazione alla determinazione della retribuzione, già oggetto di esplicito accordo tra le parti al momento della conclusione del contratto di assunzione. In secondo luogo i giudici di legittimità hanno riconosciuto la natura apparente e contraddittoria della motivazione della sentenza di appello, dove si afferma che l’imputato abbia approfittato della necessità di lavoro dei dipendenti per imporre condizioni retributive sfavorevoli ed inferiori alle previsioni della contrattazione collettiva, riferendosi però in questo modo alla fase iniziale e dunque genetica del rapporto di lavoro, senza specificare invece in che momento del rapporto lavorativo già in essere la minaccia anche implicita avesse avuto luogo. Pertanto la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello competente che dovrà verificare, colmando la carenza motivazionale evidenziata, se tra le parti sia intercorso un mero accordo antecedente alla concreta fase di espletamento dell’attività lavorativa in cui è stato determinato (ed accettato) il quantum della retribuzione, o se siano state poste in essere ulteriori condotte da provare puntualmente in sede di merito, attraverso cui si sia integrata la minaccia di licenziamento a carico dei lavoratori durante il corso delle attività lavorative nell’ambito dell’azienda del ricorrente, al fine di contrastare le loro legittime pretese contrattuali, eventualmente integrando la contestata estorsione.

*Contributo in tema di “ reato di estorsione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

giurista risponde

Favoreggiamento e associazione mafiosa È configurabile il delitto di favoreggiamento rispetto al delitto di associazione mafiosa o costituisce una forma di concorso esterno?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

È configurabile il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo di cui all’art. 416bis c.p. nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni dell’autorità e non dalla volontà di prendere parte, con “animus sodi”, all’azione criminosa. – Cass., sez. V, 29 febbraio 2024, n. 8928.

Con la sentenza in commento, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al rapporto tra il reato di favoreggiamento e il concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare la Corte, ha ribadito principi già espressi in materia ricordando quanto, in caso di concorso esterno in associazione mafiosa, sia fondamentale la sussistenza nel nesso eziologico che colleghi direttamente l’evento (integrato dalla conservazione, agevolazione o rafforzamento di un organismo criminoso già operante) con la condotta atipica del concorrente. L’accertamento postumo operato sulle condotte quindi, è diretto alla verifica dell’idoneità causale delle stesse che in virtù del mantenimento dell’operatività del sodalizio criminoso, devono tradursi in un contributo percepibile al mantenimento in vita dell’organismo stesso (ex mulitis, Cass., sez. I, 14 settembre 2023, n. 49790).

In termini di “misurazione” dell’apporto del soggetto agente ai fini dell’integrazione del concorso esterno, la Corte afferma che integra il reato in esame la condotta dell’imprenditore che pur non essendo inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e pur privo della “affectio societatis”, instauri con la cosca un rapporto che si nutre di reciproci vantaggi, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e per l’organizzazione mafiosa di ottenere risorse, servizi o utilità anche in forma di corresponsione di una percentuale sui profitti ottenuta dal concorrente esterno (Cass., sez. I, 16 novembre 2021, n. 47054).

In parallelo alla definizione delle condotte rilevanti in termini concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte si è poi occupata di evidenziare i criteri che distinguono la condotta di favoreggiamento da quella del partecipe e da quella del concorrente esterno rispetto all’associazione mafiosa. In linea con quanto prima detto, prima di tutto risponde di concorso esterno e non favoreggiamento, colui che, esterno al sodalizio agisce con l’intento non di fornire un singolo aiuto (ad esempio per eludere le indagini), ma un contributo alla capacità operativa del sodalizio stesso, alla sua conservazione e alla crescita dello stesso per la realizzazione di future imprese criminali. Diversamente, si configura il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo ex art. 416 bis c.p., nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni delle autorità e non dalla volontà di prendere parte con animus socii all’azione criminosa.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da Tizio avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Palermo che confermava l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari, applicando all’imputato la misura della custodia cautelare in carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Avverso tale ordinanza dunque ha proposto ricorso l’indagato, adducendo tre motivi di doglianza: il primo riferito a violazione e vizio di motivazione quanto alla sussistenza della gravità indiziaria in relazione alla condotta contestata al ricorrente; il secondo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto; il terzo relativo a violazione di legge e vizio di motivazione quanto alle esigenze cautelari e alla scelta della misura applicata. Il ricorso a giudizio della Corte è apparso infondato nel suo complesso. Il primo e secondo motivo sono stati dichiarati manifestamente infondati, non confrontandosi con le approfondite motivazioni contenute nell’ordinanza che ha operato a parere della corte “un buon governo e corretta applicazione dei principi di questa Corte”, qualificando correttamente la condotta dell’imputato in termini di concorrente esterno in associazione mafiosa ai sensi degli artt. 110, 416bis c.p., considerate le condotte di stretta vicinanza, partecipazione ad operazioni immobiliari, messa a disposizione delle proprie attività commerciali ad esponenti del clan, nonché ripetuti e monitorati incontri dell’imputato. Il terzo motivo appare invece generico, rappresentando una doglianza aspecifica a fronte del contenuto dell’ordinanza impugnata, che al contrario ha fornito puntuale risposta alle censure relative all’adeguatezza della misura inframuraria. Per queste ragioni il ricorso è stato rigettato dalla Corte, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

*Contributo in tema di “Favoreggiamento e associazione mafiosa”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 74 / Maggio 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica