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Tribunale per le famiglie: rinviato a ottobre 2025 Rinviata di un anno l'entrata in vigore del tribunale per le famiglie. La norma contenuta nel decreto carcere sicuro ne fa slittare l'operatività ad ottobre 2025

Slitta di un anno il tribunale per le famiglie

Il decreto “carcere sicuro” approvato il 3 luglio 2024 dal Consiglio dei ministri, su proposta del guardasigilli Carlo Nordio e del presidente del consiglio Giorgia Meloni, oltre alla serie di misure dedicate al personale penitenziario e ai detenuti, contiene anche una norma che rinvia di un anno l’entrata in vigore del Tribunale delle persone e della famiglia previsto dalla Riforma Cartabia.

La decisione è stata presa dopo aver ascoltato le doglianze della magistratura e dell’avvocatura che hanno rilevato, tra i vari problemi attuativi della riforma, l’assenza di fondi sufficienti.

Proroga per carenza di fondi e personale

Si ritiene che la proroga ad ottobre del 2025 consentirà di porre rimedio agli aspetti più critici della riforma messe in luce anche dai magistrati dei minori.

Alla carenza dei fondi necessari si accompagna infatti la carenza di personale necessaria per fronteggiare i cambiamenti introdotti, sia in relazione ai provvedimenti ordinari che a quelli urgenti.

Incremento magistrati specializzati

L’ex ministro Cartabia aveva infatti previsto la necessità di incrementare di 292 unità i magistrati, di 2130 le unità di personale amministrativo e di 47le  unità addette ai ruoli dirigenziali.

Un altro problema segnalato dagli addetti ai lavori è rappresentato dalla mancata specializzazione dei magistrati in materia e dalla abolizione di decisioni collettive sulla responsabilità genitoriale.

obbligo mantenimento e carcere

Il mantenimento non viene meno col carcere La Cassazione ricorda che lo stato di detenzione carceraria non rappresenta una causa di forza maggiore che consente di non corrispondere il mantenimento ad ex e figli

Obbligo di mantenimento e carcere

Lo stato di detenzione in carcere non è certo una scriminante per la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento all’ex coniuge e ai figli, poichè la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato. Lo ha stabilito la prima sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 12478-2024.

La vicenda

Nella vicenda, è il marito a ricorrere innanzi al Palazzaccio avverso la sentenza d’appello che aveva confermato a suo carico l’addebito della separazione, con affidamento esclusivo dei figli alla madre nonchè l’obbligo di contribuire al mantenimento degli stessi e della ex. L’uomo lamenta, tra le tante doglianze, che la circostanza incontestata di essere detenuto presso la casa circondariale non prestando alcuna attività lavorativa, non può che far restare sospeso ogni obbligo di mantenimento. A supporto richiama la stessa giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. n. 31651/2019) secondo la quale “lo stato di detenzione dell’obbligato, può configurarsi quale scriminante a condizione che li periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti e  l’obbligato non abbia percepito comunque dei redditi”.

La giurisprudenza della Cassazione

Per la Cassazione, il motivo è infondato e va respinto.

Infatti, la giurisprudenza menzionata dalla Cassazione penale, con riferimento allo stato di detenzione, “non esclude affatto la debenza dell’obbligo contributivo ma pone in discussione soltanto l’accertamento se tutto ciò comporti la scusabilità penale della condotta astrattamente criminosa”. Infatti, come osservato da Cass. Sez. 6, Sentenza n. 41697 del 15/09/2016: “In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perdura per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non è dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato”.

Anche la più recente pronuncia della Sez. 6 n. 13144 del 01/03/2022 afferma che: “In tema di violazione degli
obblighi di assistenza familiare, lo stato di detenzione dell’obbligato non può considerarsi causa di forza maggiore giustificativa dell’inadempimento, in quanto la responsabilità per l’omessa prestazione non è esclusa dall’indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato, ma può rilevare ai fini della verifica della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato”.

La decisione

Alla luce dei richiamati principi, il ricorso per la S.C. è del tutto infondato e va respinto, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.

Allegati

figli separazione trasferimento padre

I figli dei separati non possono essere trasferiti La Cassazione ha affermato che il trasferimento della madre in località molto distante da quella del padre “potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”

La richiesta di trasferimento dei figli minori

Il caso che ci occupa trae origine da un giudizio in materia di scioglimento del matrimonio, nell’ambito del quale la moglie aveva chiesto di essere autorizzata trasferirsi, unitamente ai figli minori, presso una località distante molti chilometri da quella di residenza del padre.

Il Tribunale di Napoli aveva accolto tale richiesta e la Corte territoriale aveva confermato tale decisione.

Avverso il provvedimento emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, il marito aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Il trasferimento ostacola la frequentazione con il padre

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12282-2024, ha accolto, in merito alla contestazione sul trasferimento avanzata dal marito, il ricorso dallo stesso proposto e ha cassato il provvedimento impugnato rinviando la causa alla Corte d’appello di Napoli.

In particolare, la Corte ha affermato che “il trasferimento dei tre figli in località distante di parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli” anche se al padre sia stata riconosciuta la possibilità di vedere i figli e di tenerli con sé.

Notevole distanza dal padre

La fondatezza della doglianza lamentata dal padre, ha spiegato la Corte dipende, nel caso di specie, dalla notevole distanza tra le due città “che non consente frequentazioni giornaliere”, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio. Inoltre, ha proseguito il Giudice di legittimità, i figli sono occupati con i vari impegni scolastici, sportivi ecc., rendendo ancora più difficoltose e sporadiche le frequentazioni con il padre.

Violazione diritto alla bigenitorialità

In questo senso, la Corte ha concluso il proprio esame sul punto ritenendo che “il trasferimento potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità”.

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divorzio affini cariche politiche

Affini del sindaco: col divorzio cadono le incompatibilità La Corte Costituzionale ha stabilito che con lo scioglimento del matrimonio, da cui deriva vincolo di affinità, viene meno l'incompatibilità a ricoprire incarichi in giunta e come vicesindaco

Divorzio e affinità

Con lo scioglimento del matrimonio da cui deriva un vincolo di affinità con il sindaco, viene meno l’incompatibilità a ricoprire la carica di componente della giunta municipale e quella di vicesindaco. Così ha deciso la Corte Costituzionale con la sentenza n. 107-2024, depositata oggi, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 64, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) nella parte in cui prevede l’incompatibilità per gli affini entro il terzo grado del sindaco, o del presidente della Giunta provinciale, a far parte della relativa Giunta, e a essere nominati rappresentanti del comune o della provincia, ove il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è stato determinato sia cessato.

La qlc

La questione era stata sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 51 Cost., dalla prima sezione civile della Cassazione, che aveva ravvisato la violazione, ad opera della suddetta norma, del diritto all’elettorato passivo e la irragionevolezza intrinseca di una previsione che, in modo incoerente con il sistema, sortisce l’effetto di consentire l’accesso ad un ufficio pubblico politico all’ex coniuge di un amministratore locale, ma non all’ex affine.

Il caso riguardava il coniuge divorziato della sorella del sindaco di un comune, il quale aveva proposto ricorso nei confronti della sentenza d’appello di Napoli che, in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato l’incompatibilità a partecipare alla giunta municipale e a ricoprire la carica di vicesindaco dell’ex coniuge della sorella del sindaco.

Le censure della Cassazione

Nella specie, risulta manifestamente irragionevole, secondo la Corte, che, “mentre l’ex coniuge del sindaco non è soggetto alle incompatibilità in esame, lo sia l’affine anche dopo che il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è derivato sia cessato, così sganciandosi del tutto la sussistenza della causa di incompatibilità dal rapporto di riferimento”.

In realtà, la Cassazione aveva censurato l’art. 78, terzo comma, c.c. – che stabilisce in via generale l’incidenza sul vincolo di affinità degli eventi della morte del coniuge e della dichiarazione di nullità del matrimonio senza occuparsi degli effetti del divorzio – «implicitamente richiamato dall’art. 64, comma 4, T.U.E.L.».

Il giudice delle leggi ha ritenuto, invece, per l’«elevato grado di specificità» della disciplina dettata in punto di incompatibilità, di circoscrivere il proprio sindacato all’art. 64 citato, quale specifica declinazione di una regola che non vive se non nei diversi contesti di riferimento. Poiché nelle varie situazioni previste dall’ordinamento lo status di affine può, di volta in volta, produrre effetti di attribuzione o di limitazione di un diritto, cui corrisponde di volta in volta un bilanciamento operato dal legislatore, la Corte costituzionale afferma che le censure sulla legittimità delle norme in contestazione devono essere portate direttamente alla disciplina specialistica di settore.

La decisione

Ciò posto, il giudice delle leggi ha ritenuto, si legge nella nota stampa ufficiale, “che l’art. 64, comma 4, citato, nella parte in cui prevede l’incompatibilità per gli affini entro il terzo grado del sindaco, o del presidente della Giunta provinciale, a far parte della relativa Giunta, e a essere nominati rappresentanti del comune o della provincia, anche se il rapporto di coniugio dal quale il vincolo di affinità è stato determinato sia cessato, si ponga in contrasto con l’art. 51 Cost., che disciplina il diritto di elettorato passivo, da ricondurre alla sfera dei diritti inviolabili sanciti dall’art. 2 Cost., e in relazione al quale le cause di incompatibilità sono conformi a Costituzione solo nella misura in cui non introducano differenze di trattamento tra categorie omogenee di soggetti che non siano manifestamente irragionevoli e sproporzionate”.

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assegno inclusione indicazioni inps

Assegno di inclusione: le indicazioni INPS L'istituto fornisce le indicazioni per i nuclei familiari beneficiari: l'obbligo di presentazione deve avvenire entro 120 giorni dalla sottoscrizione del PAD

Assegno inclusione: presentazione nuclei familiari

cognome paterno

Cognome paterno aggiunto ma non in automatico La Cassazione ha affermato che, in tema di attribuzione del cognome al figlio, occorre prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome paterno

Aggiunta del cognome paterno a quello materno

Il caso in esame prende avvio dalla decisione assunta dalla Corte d’appello di Ancona che aveva stabilito che, a seguito del riconoscimento della paternità, al nome del minore venisse aggiunto il cognome del padre da posporre a quello della madre, già attribuitogli dalla nascita.

Avverso tale decisione la madre aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, contestando, per quanto qui rileva, l’erroneità della decisione del Giudice di secondo grado in ordine all’assunzione del cognome, da parte del figlio, del cognome del padre che aveva tardivamente riconosciuto il figlio nato fuori dal matrimonio.

L’assunzione del cognome del padre non è automatica

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15654-2024, ha accolto la contestazione formulata dalla madre in punto di attribuzione del cognome paterno al figlio.

In particolare, la Corte ha riportato il quadro normativo e giurisprudenziale sull’argomento, soffermandosi su quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 131 del 2002 in tema di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio.

In tale occasione il Giudice delle leggi, ha ricordato la Corte, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, comma 1, c.c., nella parte in cui non prevedeva “che il figlio assume il cognome del padre, anziché prevedere che il figlio assume i cognomi dei genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo l’accordo, al momento del riconoscimento, per attribuire il cognome di uno di loro soltanto”.

Ciò posto, Giudice di legittimità ha ritenuto che la Corte d’appello avesse errato nel non applicare i suddetti principi espressi dalla Consulta alla fattispecie in esame, del tutto diversa, di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 262 c.c.

Rispetto a tale fattispecie, ha proseguito la Corte “nel presupposto che il diritto al nome costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun individuo (…), la individuazione del cognome che il minore va ad assumere non è connotata da automatismo, ma è rimessa al prudente apprezzamento del giudice”, prescindendo, in questo senso, “da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome paterno”.

Sulla scorta di tali argomentazioni la Corte di cassazione ha pertanto accolto il motivo d’impugnazione proposto dalla madre in tema di assegnazione del cognome al figlio.

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separazione assegnazione casa familiare

Separazione: la casa va al padre malato In tema di separazione, il Tribunale di Perugia ha affermato che, in caso di padre gravemente malato, la soluzione maggiormente conforme all'interesse dei minori sia quella che consente al marito di continuare a vivere nella casa coniugale

Separazione e assegnazione della casa familiare

Il caso in esame prende avvio dalla richiesta di separazione personale presentata dalla moglie nei confronti del marito, dal cui matrimonio erano nati due figli.

In particolare, la moglie aveva esposto che la famiglia aveva vissuto nella casa di proprietà del suocero, concessa in comodato d’uso alla coppia già prima del matrimonio. La moglie, dopo aver rappresentato che il marito aveva avuto una relazione extraconiugale, aveva riferito di aver indugiato nella richiesta di separazione in quanto, nel frattempo, il marito si era ammalato.

La moglie aveva fatto presente che, a causa dello stato di malattia, il marito era sottoposto a frequenti cicli di chemioterapia, limitando fortemente la sua capacità di gestione dei figli minori.

La moglie aveva poi concluso chiedendo la pronuncia di separazione con addebito al marito, l’affidamento condiviso dei figli minori, con collocazione prevalente presso di sé e conseguente l’assegnazione a sé della casa coniugale, oltre all’assegno di mantenimento.

Il marito, che si era costituito in giudizio, dopo aver riferito del proprio grave stato di salute, aveva negato di avere intrattenuto relazioni extraconiugali, riferendo che era stata semmai la moglie ad intrattenerne in passato e ad intrattenerne attualmente una stabile. Inoltre, in ragione dell’asserito comportamento vessatorio della moglie, il marito aveva avanzato a propria volta domanda di addebito della separazione alla moglie ed aveva chiesto assegnarsi a sé, in considerazione delle proprie condizioni di salute, la casa coniugale, con collocamento paritario dei bambini e mantenimento diretto nei rispettivi tempi di permanenza.

L’assegnazione della casa in caso di coniuge gravemente malato

Il Tribunale di Perugia, con ordinanza del 22 marzo 2024, ha disposto, per quanto qui rileva, l’assegnazione della casa al marito malato.

Il Tribunale, nell’affrontare la propria decisone in tema di assegnazione della casa coniugale, ha anzitutto rilevato che il marito “è affetto da una gravissima malattia (…), per la quale si sottopone a cicli ripetuti di chemioterapia. Dall’assegnazione alla (moglie) della casa coniugale deriverebbe la necessità per il (marito), di spostarsi a vivere in altra abitazione; evenienza, questa, che potrebbe pregiudicare gravemente la sua serenità, meritevole di essere preservata e tutelata proprio in considerazione delle difficili condizioni di salute. Al cambiamento di ambiente domestico -che per un malato oncologico in stadio avanzato può già essere di grave pregiudizio – si aggiungerebbe la difficoltà di reperire una abitazione adatta alle sue necessità, dunque posta al piano terra, che abbia spazi adeguati per i figli, nelle immediate vicinanze delle quale deve essere agevole parcheggiare e dalla quale non sia complicato muoversi per recarsi in ospedale o per far transitare eventuali altri mezzi”.

In tal senso, ha aggiunto il Giudice di primo grado, l’interesse dei figli minori non si pone in contrasto con quello del padre “ma ad esso si affianca, nella misura in cui si consideri che condizioni di vita quanto più possibile serene e stabili per il padre sono le uniche che consentiranno ai figli di essere esposti il meno possibile alla sofferenza inevitabilmente connessa alla malattia del genitore e di condividere con lui momenti di vita “normale””.

Sulla scorta di quanto sopra riferito e per quanto qui rileva il Tribunale ha ritenuto che, allo stato attuale, “la soluzione maggiormente conforme all’interesse dei minori sia quella che consente al padre di continuare a vivere nella casa coniugale. Qualunque altra soluzione, tale da imporre al (marito) di lasciare la casa coniugale, rischierebbe di pregiudicare grandemente le sue già difficili condizioni di vita e di salute, pregiudicando quindi inevitabilmente anche l’andamento del rapporto con i minori. La casa coniugale deve dunque rimanere nella disponibilità del(padre), alla quale va provvisoriamente assegnata”.

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dipendente assegnazione vicino figli

Statali con figli piccoli: assegnati vicino alla famiglia La Consulta ha stabilito che il dipendente pubblico con figli fino a 3 anni di età può chiedere l'assegnazione temporanea nel luogo dove è fissata la residenza familiare

Figli piccoli e assegnazione temporanea

“Il dipendente pubblico con figli fino a tre anni di età, può chiedere di essere temporaneamente assegnato ad una sede di servizio della provincia o regione in cui è fissata la residenza familiare”. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 99-2024, depositata oggi, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 42˗bis, comma 1, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui prevede che il trasferimento temporaneo del dipendente pubblico, con figli minori fino a tre anni di età, possa essere disposto «ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa», anziché «ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale è fissata la residenza della famiglia o nella quale l’altro genitore eserciti la propria attività lavorativa».

Trasferimento temporaneo: la ratio

La Corte ha innanzitutto chiarito che “il trasferimento temporaneo dei dipendenti pubblici che siano genitori di figli minori di tre anni, proponendosi di favorire la ricomposizione dei nuclei familiari nei primissimi anni di vita dei figli nel caso in cui i genitori si trovino a vivere separati per esigenze lavorative, è chiaramente preordinato alla realizzazione dell’obiettivo costituzionale di sostegno e promozione della famiglia, dell’infanzia e della parità dei genitori nell’accudire i figli”.

Proprio alla luce di una simile ratio dell’istituto, “non risulta ragionevole – e quindi in contrasto con l’art. 3 Cost. – consentire il trasferimento temporaneo solo nella provincia o regione in cui lavora l’altro genitore: una simile limitazione non assicura, infatti, una tutela adeguata in favore di quei nuclei familiari in cui entrambi i genitori lavorano in regioni diverse da quelle in cui è stata fissata la residenza familiare” ha sentenziato il giudice delle leggi.

Smart working e velocità dei trasporti

D’altronde, ha concluso la Consulta, “si tratta di un’ipotesi che nella realtà è divenuta sempre meno rara, anche alla luce delle trasformazioni che hanno investito sia le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative (attraverso le nuove tecnologie), sia i sistemi di trasporto”.

In relazione a tali casi, appare pienamente rispondente alla finalità dell’istituto consentire almeno a uno dei genitori di lavorare, nel primo triennio di vita del figlio, in una sede che si trova nella regione o nella provincia in cui è stata fissata la residenza della famiglia e in cui è domiciliato il minore (ai sensi dell’art. 45, comma secondo, del codice civile).

Secondo la Corte costituzionale, infine, “un simile ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto dell’assegnazione temporanea, oltre a risultare coerente con la finalità di protezione della famiglia e di sostegno all’infanzia, risponde all’esigenza di preservare la più ampia autonomia dei genitori nelle scelte concernenti la definizione dell’indirizzo familiare”.

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violazione obbligo mantenimento figli

Mantenimento figli: nessun reato per il padre in difficoltà La Cassazione ha ritenuto che non siano violati gli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p., nel caso in cui il genitore obbligato, versando in obiettive difficoltà economiche, venga parzialmente meno ai propri obblighi

Obbligo di mantenimento e reato di cui all’art. 570 c.p.

Il caso in esame prende avvio dalla decisione emessa dalla Corte d’appello di Napoli la quale, riformando la sentenza di primo grado, aveva assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 570, comma 2, n. 2 c.p. e per l’effetto aveva revocato la condanna al risarcimento dei danni in precedenza statuita in favore della parte civile.

Avverso tale sentenza la parte civile aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, per quanto qui rileva, le conclusioni cui era giunto il Giudice di secondo grado il quale non avrebbe fornito una valida motivazione alla propria decisione. La ricorrente aveva altresì sottolineato, in punto di fatto, che l’imputato non aveva corrisposto gli alimenti a partire dal 2010, conseguendone l’irrilevanza della circostanza secondo cui lo stesso nel 2012 aveva perso il lavoro, essendo a quell’epoca già inadempiente rispetto ai propri doveri genitoriali.

Difficoltà economiche e obbligo di mantenimento del genitore

La Cassazione, con sentenza n. 21069-2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Nella specie, la Corte ha rilevato come il Giudice di secondo grado aveva “sottolineato come l’imputato, invalido al 50%, aveva perso la precedente occupazione (…) e non aveva fonti di reddito alternative e adeguate a far fronte alle ordinarie necessità proprie e della famiglia”.

La Corte ha proseguito il proprio esame mettendo in evidenza quanto riportato dal Giudice di merito, ovvero che l’imputato era sostanzialmente rimasto privo di occupazione e svolgeva saltuariamente prestazioni di ausilio agli anziani per poche decine di euro alla settimana; nonostante tale situazione, egli aveva continuato a versare “con sufficiente regolarità” la somma di 200 euro al mese in favore dei figli, conformemente a quanto previsto dall’accordo sottoscritto con l’ex coniuge.

Ne consegue, secondo il Giudice di legittimità, che la ricostruzione offerta dalla Corte d’appello fosse immune da censure, difettando nel caso di specie l’elemento soggettivo del reato contestato, dal momento che è risultata costante la volontà dell’obbligato di far fronte agli oneri di mantenimento sullo stesso ricadenti in favore dei figli, ai quali è parzialmente venuto meno in concomitanza delle obiettive difficoltà economiche dallo stesso subite.

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addebito separazione

Addebito della separazione: basta una sola violenza La Cassazione afferma che ai fini dell’addebito della separazione personale è principio generale quello secondo cui il giudice deve verificare se siano stati compiuti comportamenti in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio

Violazione dei doveri coniugali e crisi dei coniugi

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 12662-2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal marito e condannato lo stesso al pagamento delle spese processuali.

Per quanto qui rileva, il ricorrente ha contestato la decisione del Giudice di merito nella parte in cui la separazione personale era stata addebitata al marito in ragione della lesione personale contestata dalla moglie e consistente in un piccolo ematoma sul labbro inferiore.

Sul punto, la Corte ha rilevato che è principio generale quello secondo cui il giudice deve verificare, alla stregua delle risultanze acquisite con l’istruttoria, se siano stati compiuti comportamenti in violazione dei doveri nascenti dal matrimonio ex art 143 c.c., nonché accertare la sussistenza del nesso causale tra questi ultimi ed il verificarsi della situazione d’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Ne consegue, ha riferito il Giudice di legittimità che “la pronunzia di addebito della separazione non solo presuppone la violazione dei doveri coniugali, ma anche il nesso causale in ordine alla determinazione della crisi coniugale”.

La rilevanza dell’unico episodio violento

Ciò posto, la Corte ha precisato che i comportamenti del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge rappresentano, anche quando venga provato un unico episodio violento, “causa determinante dell’intollerabilità della convivenza”.

Invero, il comportamento sopra descritto, spiega la Corte è idoneo “a sconvolgere definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona”.

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte non ha pertanto accolto il ricorso dell’ex marito e ha confermato, per quanto rileva nella presente trattazione, le argomentazioni e gli esiti cui era giunto il Giudice di merito.

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