corso d'inglese ai figli

Corso d’inglese ai figli: è spesa ordinaria, nessun obbligo di consenso La Cassazione chiarisce: il corso d'inglese per i figli è una spesa ordinaria, non serve il preventivo assenso dell’altro genitore

Corso d’inglese ai figli: rientra tra le spese ordinarie

Corso d’inglese ai figli: con l’ordinanza n. 17017/2025, la Cassazione ha ribadito un principio importante in materia di separazione e responsabilità genitoriale: le spese per i corsi di lingua inglese, sebbene possano sembrare “straordinarie”, rientrano a pieno titolo tra le spese ordinarie e prevedibili, e pertanto non necessitano del preventivo assenso dell’altro genitore.

Spese ordinarie e straordinarie: quando serve l’accordo?

In generale, il genitore collocatario può sostenere spese legate ai figli senza dover ottenere un accordo preliminare, purché si tratti di esborsi ripetitivi e prevedibili nella vita del minore, come:

  • spese scolastiche ricorrenti,

  • cure mediche di routine,

  • attività sportive o didattiche integrative di comune diffusione.

Il preventivo assenso è invece richiesto per le spese straordinarie, ovvero quelle non usuali, imprevedibili o economicamente rilevanti, tali da incidere significativamente sull’equilibrio patrimoniale o educativo del minore.

Il corso d’inglese è “ordinario” per la società attuale

Nel caso specifico, il genitore collocatario aveva iscritto il figlio a un corso di lingua inglese senza informare l’ex coniuge. La Corte ha ritenuto tale scelta conforme al superiore interesse del minore, riconoscendo che oggi l’apprendimento dell’inglese costituisce una necessità formativa, radicata nel contesto sociale e lavorativo contemporaneo.

L’insegnamento dell’inglese non solo rafforza il percorso scolastico, ma prepara il minore agli studi universitari e all’ingresso nel mondo del lavoro. Per questo motivo, tale spesa, se pur apparentemente “straordinaria”, assume un carattere ordinario e prevedibile.

Rimborso possibile anche senza consenso, se c’è utilità per il figlio

Un altro aspetto fondamentale chiarito dalla Cassazione è che, anche laddove una spesa possa rientrare tra quelle straordinarie, l’assenza di accordo preventivo non preclude il diritto al rimborso da parte dell’altro genitore. La condizione è che il giudice ne valuti:

  • la rispondenza all’interesse del minore,

  • la congruità con il tenore di vita familiare precedente.

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Bonus mamme 2025

Bonus mamme 2025 Bonus mamme 2025: dall’esonero contributivo parziale della legge di bilancio ai 40 euro mensili erogati dall’INPS del decreto omnibus

Bonus mamme 2025: sgravio contributivo nella legge di bilancio

La legge di bilancio 2025 n. 207/2024 ai commi 219 e 220 ha introdotto un bonus mamme 2025 che siano anche lavoratrici. Il bonus, in base a questa normativa, consiste in un esonero parziale contributivo relativo ai contributi previdenziali a carico delle lavoratrici per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

Dal bonus sono esclusi i rapporti di lavoro domestico. Beneficiano del bonus invece:

  • le lavoratrici dipendenti;
  • le lavoratrici autonome che percepiscono uno dei seguenti redditi: da lavoro autonomo; d’impresa in contabilità ordinaria e semplificata; da partecipazione e che non hanno optato per il regime forfettario.

Per queste lavoratrici autonome iscritte all’assicurazione generale obbligatoria INPS e alla Gestione separata INPS l’esonero è parametro al valore del livello minimo di reddito previsto dall’art. 1, co. 3, della legge n. 233/1990.

Per beneficiare di questo bonus le lavoratrici devono essere mamme di due o più figli. L’esonero contributivo spetta fino al compimento del decimo anno di età del figlio minore.

Dal 2027 il bonus spetta alle lavoratrici madri di tre o più figli fino al compimento del 18°anno di età del figlio minore.

Per il 2025 e il 2026 le mamme lavoratrici che beneficiano di questo bonus sono escluse dal bonus che prevede l’esonero contributivo totale previsto dalla legge di bilancio 2024 n. 213/2023.

Il contributo è condizionato alla titolarità di un reddito o di una retribuzione annua non superiore a 40.000 euro.

Cosa cambia con il decreto omnibus

Il Consiglio dei Ministri del 20 giugno 2025, ha sostituito la misura prevista dalla legge di bilancio con il decreto omnibus.

Il bonus mamme 2025, nella sua nuova formulazione, è previsto in favore delle lavoratrici autonome e delle dipendenti a tempo determinato. L’accesso è previsto per le mamme con almeno due figli e fino al compimento del 10° anno di età del figlio minore. Il reddito e la retribuzione annua non deve superare i 40.000 euro.

Questo bonus mamme 2025 non prevede alcun sgravio contributivo, come previsto dalle legge di bilancio, ma il riconoscimento di un importo mensile di 40 euro (a partire dal 1° gennaio 2025) e per ogni mese lavorato che verrà riconosciuto dall’INPS in una soluzione unica di 480 euro.

Si resta in attesa del decreto attuativo dello sgravio contributivo totale previsto dalla legge di bilancio 2024 per le madri di due figli e assunte con contratto a tempo indeterminato per dare il via al loro bonus mamme.

 

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spese straordinarie figli

Spese straordinarie figli, le linee guida del tribunale di Milano Il Tribunale di Milano aggiorna le regole sulle spese straordinarie dei figli in caso di separazione o divorzio. Cosa include l’assegno di mantenimento, quando serve l’accordo tra genitori e le novità per i figli con disabilità

Spese straordinarie figli: nuove regole

Il Tribunale di Milano, in collaborazione con la Corte d’appello, l’Ordine degli avvocati e l’Osservatorio sulla giustizia civile, ha aggiornato nel 2025 le linee guida per la gestione delle spese straordinarie dei figli in caso di separazione o divorzio. Le indicazioni riguardano i figli minori, i maggiorenni non economicamente autosufficienti e quelli con disabilità, e hanno lo scopo di ridurre i conflitti tra genitori, promuovendo chiarezza e uniformità.

Le nuove regole definiscono cosa è incluso nell’assegno di mantenimento e quali spese richiedono l’accordo tra genitori separati. Previsti chiarimenti per le spese relative ai figli con disabilità e tempi certi per il rimborso. Obiettivo: ridurre i conflitti familiari e tutelare meglio i figli.

Vediamo nel dettaglio:

Cosa copre l’assegno di mantenimento

L’assegno di mantenimento comprende tutte le spese ordinarie, quali:

  • vitto;

  • abbigliamento ordinario (inclusi i cambi stagione);

  • spese per la casa (affitto, utenze, condominio);

  • materiale scolastico ricorrente;

  • medicinali da banco.

Quando è difficile per il genitore convivente ottenere il consenso dell’altro o il rimborso delle spese, l’assegno può comprendere anche voci normalmente considerate straordinarie.

Spese straordinarie: quando serve il consenso

Le spese che richiedono l’accordo preventivo tra i genitori devono essere documentate e riguardano, ad esempio:

  • cure dentistiche, oculistiche, omeopatiche e psicologiche private;

  • tasse scolastiche per istituti privati, corsi extra universitari e master;

  • attività extrascolastiche (lingue, sport, musica, viaggi di studio, patente, cellulare).

Spese straordinarie senza necessità di accordo

Sono ammesse senza consenso preventivo, ma sempre documentate:

  • visite specialistiche prescritte dal medico;

  • ticket e farmaci prescritti;

  • tasse scolastiche pubbliche, libri, dotazione informatica;

  • mensa scolastica, trasporti pubblici;

  • baby sitter fino alla scuola media, doposcuola, centri estivi.

Disposizioni specifiche per i figli con disabilità

Le nuove linee guida si adeguano al D.Lgs. n. 62/2024, prevedendo che non richiedano accordo spese come:

  • presidi sanitari, ausili per la deambulazione;

  • supporti nutrizionali o abbigliamento su misura;

  • assistenza domiciliare;

  • attività sportive e centri diurni;

  • veicoli adattati, patente e assicurazione;

  • cani guida.

Procedura per la richiesta e il rimborso

Il genitore che richiede una spesa straordinaria soggetta ad accordo deve ricevere eventuale dissenso motivato per iscritto entro 10 giorni; in assenza, si presume il consenso.

Le spese anticipate devono essere documentate e trasmesse all’altro genitore entro 30 giorni, il quale è tenuto al rimborso entro i successivi 15 giorni.

Quando una spesa supera il 10% del reddito netto mensile di uno dei genitori, essa va sostenuta da entrambi, secondo le percentuali previste dall’accordo o stabilite dal giudice.

assegno di divorzio

Assegno di divorzio: si può aumentare per le spese dei figli La Cassazione ammette la revisione dell’assegno di divorzio in caso di aumento delle spese per la crescita dei figli

Revisione assegno di divorzio per spese dei figli

Con l’ordinanza n. 16316/2025, la prima sezione civile della Cassazione ha chiarito che l’aumento delle spese legate alla crescita dei figli può giustificare la revisione dell’assegno di divorzio, anche in assenza di una formale domanda di modifica. L’obiettivo è tutelare il benessere dei minori e garantire l’equilibrio tra le risorse economiche dei genitori.

Il caso

Il caso nasce da un ricorso per cassazione contro una sentenza della Corte d’appello di Catanzaro. Quest’ultima, nel determinare le spese straordinarie a carico del padre, aveva escluso dal rimborso quelle relative alla scuola privata frequentata dai figli in Spagna, per via dell’elevato costo non più sostenibile dal genitore dopo il rientro in Italia e la perdita di benefici economici legati al lavoro all’estero.

La madre, tuttavia, aveva proposto appello incidentale chiedendo un aumento del contributo di mantenimento, inizialmente fissato in € 250,00 mensili per ciascun figlio, proprio per compensare l’esclusione delle spese scolastiche.

L’errore del giudice d’appello

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha erroneamente trattato l’appello incidentale come una richiesta di revisione ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio (L. 898/1970), trascurando che la madre aveva già chiesto un contributo più elevato (€ 1.000,00 totali) sin dall’originaria domanda di divorzio. Tale fraintendimento ha portato a un’errata applicazione dei criteri dell’art. 337-ter c.c., che richiedono un’analisi comparata e proporzionata delle risorse dei genitori.

Il principio affermato dalla Cassazione

La Suprema Corte ha affermato che, in materia di mantenimento dei figli, non è sufficiente richiamare il precedente assetto economico o proporre alternative ipotetiche (come l’iscrizione a scuole pubbliche). È necessario esaminare le esigenze attuali dei minori, le capacità economiche di entrambi i genitori e il tenore di vita mantenuto durante il matrimonio. Accogliendo il primo motivo di ricorso, la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, per un nuovo esame che tenga conto delle reali esigenze dei figli e delle risorse attuali di entrambi i genitori.

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congedo parentale

Congedo parentale: la guida Congedo parentale: cos'è, normativa, a chi spetta, durata, indennità, come si chiede, a ore, autonomi e gestione separata, contributi

Cos’è il congedo parentale

Il congedo parentale, conosciuto anche come “astensione facoltativa“, in base alle definizione contenuta dall’articolo 2 del Dlgs n. 151/2001 è un diritto riconosciuto a lavoratrici e lavoratori dipendenti, che permette di prendersi cura dei figli nei primi anni di vita. Si tratta di un istituto centrale nella tutela della genitorialità e nella promozione dell’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa.

Il congedo parentale è un periodo di astensione dal lavoro che i genitori possono richiedere nei primi dodici anni di vita del figlio (oppure entro dodici anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento). A differenza del congedo di maternità e paternità obbligatori, il congedo parentale è un diritto facoltativo che può essere fruito in modo frazionato o continuativo, su richiesta.

A chi spetta

Il congedo parentale spetta a entrambi i genitori, naturali o adottivi, che siano lavoratori:

  • dipendenti del settore pubblico o privato, a tempo determinato o indeterminato;
  • iscritti alla gestione separata INPS, con requisiti specifici, tra i quali la non titolarità di pensione e la non iscrizione ad altre forme di previdenza obbligatorie;
  • autonomi con precise limitazioni.

Durata del congedo parentale

Secondo l’articolo 32 D.lgs. n. 151/2001, che disciplina nello specifico il congedo parentale “Per ogni bambino, nei primi suoi dodici anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. I relativi congedi parentali dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo.”

Entro i limiti stabiliti, il diritto di astenersi dal lavoro per congedo parentale spetta a:

  • Madri lavoratrici: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, dopo aver terminato il periodo di congedo di maternità;
  • Padri lavoratori: possono richiedere un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi, a partire dalla nascita del figlio. Questo periodo può essere esteso a sette mesi nel caso specificato al comma 2, ossia nel caso in cui il lavoratore eserciti il diritto di astensione dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato per un periodo non inferiore a 3 mesi. In questo caso il limite complessivo dei congedi parentali è di 11 mesi.
  • Genitori singoli o con affidamento esclusivo: nel caso in cui vi sia un solo genitore, oppure un genitore al quale sia stato affidato il figlio in via esclusiva ai sensi dell’articolo 337-quater del Codice Civile, il congedo può durare per un periodo continuativo o frazionato non superiore a undici mesi. In quest’ultimo caso, l’altro genitore perde il diritto al congedo non ancora utilizzato. A tal fine, una copia del provvedimento di affidamento viene trasmessa all’INPS dal pubblico ministero.

Indennità e pagamento del congedo parentale

La retribuzione durante il congedo parentale è regolata dall’art. 34 del D.lgs. 151/2001 e varia in base all’età del figlio e alla durata della fruizione.

La norma stabilisce che, per i periodi di congedo parentale e fino al dodicesimo anno di vita del figlio a ogni genitore spetta:

  • per tre mesi, non trasferibili, un’indennità del 30% della retribuzione, che può essere elevata, in alternativa tra i genitori, per due mesi complessivi fino al sesto anno di vita del bambino nella misura dell’80% della retribuzione;
  • e per la durata massima di un altro mese fino al sesto anno di vita del bambino, all’80% della retribuzione.
  • In alternativa tra loro i genitori hanno diritto anche a un periodo ulteriore di congedo di 3 mesi al massimo. Per questi mesi l’indennità è del 30% della retribuzione.
  • Se il genitore è uno solo lo stesso ha diritto a un’indennità del 30% della retribuzione per un periodo massimo di nove mesi.
  • In caso di affidamento esclusivo a un solo genitore a questo spetta in via esclusiva l’indennità che spetterebbe alla coppia.

Come richiedere il congedo parentale

La richiesta deve essere presentata:

  1. al datore di lavoro con un preavviso di almeno 5 giorni (salvo casi di urgenza);
  2. all’INPS tramite i seguenti canali:
    • portale INPS con SPID, CIE o CNS;
    • contact center INPS;
    • patronato o intermediario abilitato.

Congedo parentale a ore

È possibile, previo accordo con il datore di lavoro, usufruire del congedo anche in forma orizzontale (ad ore). Questo permette una maggiore flessibilità per conciliare il lavoro con la genitorialità.

Lavoratori autonomi e iscritti alla gestione separata

Anche i lavoratori autonomi e gli iscritti alla gestione separata INPS possono fruire del congedo parentale, ma a condizioni più limitate.

I genitori che siano lavoratori autonomi hanno diritto a un congedo parentale massimo di tre mesi per ogni figlio, che possono utilizzare nel primo anno di vita del figlio o entro un anno dall’ingresso del minore adottato o in affido. Il congedo spetta però se il lavoratore autonomo abbia provveduto a versare i contributi relativi al mese che precede il congedo e a condizione che lo stesso si astenga effettivamente dal lavoro.

I lavoratori iscritti alla gestione separata hanno diritto al congedo parentale, a determinate condizioni, entro i primi dodici mesi di vita del bambino (dalla nascita o dall’ingresso del minore adottato o in affidamento). Ogni genitore ha diritto a 3 mesi di congedo indennizzato, che non può trasferire all’altro genitore. I genitori hanno diritto inoltre a altri tre mesi di congedo indennizzati in alternativa per un periodo complessivo di 9 mesi.

Congedo parentale e contribuzione figurativa

I periodi di congedo parentale sono coperti da contribuzione figurativa, ai fini pensionistici, solo per i periodi indennizzati. I periodi non retribuiti non generano contribuzione utile alla pensione, salvo il riscatto volontario.

 

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detrazione per figli a carico

Figlio maggiorenne: il genitore affidatario mantiene la detrazione La Cassazione conferma: la detrazione per figli a carico resta invariata al raggiungimento della maggiore età, senza bisogno di un nuovo accordo tra genitori separati

Detrazione per figli a carico maggiorenni

Detrazione per figli a carico: con l’ordinanza n. 15224/2025, la sezione tributaria della Cassazione ha stabilito un principio rilevante per le famiglie separate: il genitore affidatario può continuare a beneficiare della detrazione fiscale per i figli a carico anche dopo il compimento del diciottesimo anno di età del figlio, nella stessa misura prevista durante la minore età, senza necessità di stipulare un nuovo accordo con l’altro genitore.

Cartella esattoriale per detrazione “non condivisa”

Una madre, affidataria esclusiva dei figli, aveva fruito per intero della detrazione fiscale nella dichiarazione dei redditi, anche dopo che i figli avevano raggiunto la maggiore età. L’Agenzia delle Entrate le aveva contestato la mancata ripartizione del beneficio con l’ex coniuge, notificandole una cartella esattoriale da oltre mille euro.

La Commissione Tributaria Provinciale le aveva dato ragione, ma in appello la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva ribaltato il verdetto, affermando che – con la maggiore età dei figli – era necessario un nuovo accordo tra gli ex coniugi per regolare le detrazioni. La madre ha quindi presentato ricorso in Cassazione.

Nessuna norma impone un nuovo accordo

La Corte ha accolto il ricorso, censurando la tesi dell’Agenzia delle Entrate e della CTR. I giudici hanno chiarito che non esiste alcuna disposizione di legge che richieda un accordo tra genitori separati per continuare a fruire della detrazione al compimento della maggiore età del figlio.

Anzi, la Cassazione ha richiamato la prassi amministrativa della stessa Agenzia delle Entrate, la quale – con la circolare n. 15/E del 2007 e la successiva n. 34/E del 2008 – aveva già affermato che, in assenza di un diverso accordo, le detrazioni restano ripartite come in precedenza.

Detrazione per figli a carico: il principio della Cassazione

La Suprema Corte ha enunciato con chiarezza il seguente principio di diritto: “La detrazione fiscale per i figli a carico, prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è riconosciuta ai genitori, legalmente separati o divorziati, nella medesima misura in cui era ripartita nel periodo della minore età del figlio, quando quest’ultimo raggiunge la maggiore età, senza che sia necessario un accordo in tal senso tra i genitori”.

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casa familiare

La casa familiare Casa familiare: cos’è, cosa accade in caso di separazione e come funziona l’assegnazione

Cosa si intende per casa familiare

La casa familiare, spesso detta anche casa coniugale, è l’immobile in cui si è svolta la vita quotidiana della famiglia e dove sono stati costruiti gli affetti, le abitudini e la routine domestica. Quando una coppia si separa, la sorte di questo bene diventa spesso oggetto di conflitto, poiché incide direttamente sulla tutela dei figli minori o economicamente non autosufficienti.

L’ordinamento italiano, in un’ottica di protezione della prole, prevede regole specifiche in merito all’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 337-sexies del codice civile.

Occorre inoltre precisare che la casa familiare non è semplicemente un bene immobile: giuridicamente, è l’abitazione destinata alla vita della famiglia, indipendentemente dal regime patrimoniale scelto dai coniugi (comunione o separazione dei beni) o dall’intestazione del bene. L’assegnazione, quindi, non riguarda il diritto di proprietà, ma la destinazione d’uso dell’immobile in funzione dell’interesse superiore dei figli.

Normativa di riferimento: art. 337-sexies c.c.

L’art. 337-sexies c.c. stabilisce che:

“Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.”

Questo principio si applica nei procedimenti di:

  • separazione personale dei coniugi;
  • divorzio;
  • cessazione della convivenza more uxorio (anche per coppie non sposate con figli).

Il giudice può assegnare la casa familiare al genitore collocatario dei figli, anche se non è proprietario o intestatario dell’immobile, purché ciò sia ritenuto nell’interesse prevalente della prole.

Chi ha diritto alla casa familiare dopo la separazione

In caso di separazione o divorzio:

  • se ci sono figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti, la casa viene assegnata al genitore con cui i figli convivono stabilmente. Se la casa, ad esempio, è di proprietà esclusiva del padre, ma i figli vivono con la madre, la casa viene in genere assegnata alla madre per garantire la stabilità abitativa dei minori;
  • se non ci sono figli, l’assegnazione della casa segue i principi della proprietà, dell’uso o del possesso, salvo diversi accordi tra le parti.

Effetti dell’assegnazione della casa coniugale

L’assegnazione della casa non trasferisce la proprietà, ma comporta:

  • il diritto di abitazione gratuito per l’assegnatario;
  • la possibilità di registrare l’assegnazione nei pubblici registri immobiliari (art. 2643 c.c.);
  • il divieto per il proprietario di vendere o locare l’immobile in modo da pregiudicare il diritto dell’assegnatario.

Quando l’assegnazione può essere revocata

Il diritto all’uso della casa familiare non è eterno: può cessare quando:

  • I figli diventano economicamente autosufficienti o lasciano la casa;
  • cambiano le condizioni di affidamento (es. affidamento esclusivo all’altro genitore);
  • il genitore assegnatario convive con un nuovo partner in modo stabile, come riconosciuto dalla giurisprudenza di Cassazione.

La casa familiare nei rapporti patrimoniali

Per quanto riguarda il regime di ripartizione delle spese:

  • le spese di manutenzione ordinaria spettano al genitore assegnatario;
  • le spese straordinarie e le imposte gravano invece sul proprietario;
  • se la casa è in comproprietà, il coniuge non assegnatario può chiedere lo scioglimento della comunione, dopo la cessazione del diritto di abitazione.

Giurisprudenza di legittimità

La Cassazione è intervenuta più volte a sciogliere le questioni più controverse relative alla casa familiare.

Cassazione n. 308/2008: la casa familiare non è solo un luogo fisico, ma un vero e proprio centro di vita dove si coltivano affetti, interessi e abitudini quotidiane. Questo ambiente è fondamentale per la crescita e lo sviluppo della personalità dei figli. Di conseguenza, l’abitazione serve a proteggere i minori e a garantire il loro diritto di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico, come stabilito dagli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione.

Cassazione n. 18603 del 2021: l’assegnazione della casa familiare si discosta dalle logiche patrimoniali o di mantenimento del coniuge in caso di separazione o divorzio. Il suo scopo principale è esclusivamente la tutela degli interessi dei figli.

Cassazione n. 8764/2023: per decide se un ex coniuge ha diritto all’assegno di divorzio, occorre considerare il termine “patrimonio” in un senso molto ampio. Questo significa che è necessario valutare ogni fattore che possa aumentare le risorse economiche della famiglia o anche solo dell’ex coniuge. Tra questi fattori rientra anche l’assegnazione della casa familiare.

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bonus latte artificiale

Bonus latte artificiale  Bonus latte artificiale: cos’è, normativa, a chi spetta, requisiti reddituali e soggettivi, importo e come fare domanda

Cos’è il bonus latte artificiale

Il bonus latte artificiale è un contributo economico previsto per supportare le famiglie nell’acquisto di formule per lattanti in caso di accertata impossibilità dell’allattamento materno. Si tratta di una misura sanitaria e sociale introdotta per garantire pari opportunità di nutrizione ai neonati nei primi mesi di vita, nel rispetto delle linee guida pediatriche.

La normativa di riferimento

Il bonus è stato istituito con l’art. 1, comma 456 della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Legge di Bilancio 2020) e successivamente regolamentato con il Decreto del Ministero della Salute del 31 agosto 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 266 del 8 novembre 2021. L’erogazione del beneficio è subordinata all’individuazione delle risorse disponibili e all’attivazione delle procedure a livello regionale o aziendale (ASL).

A chi spetta il bonus latte artificiale

Il bonus può essere richiesto esclusivamente da madri:

  • residenti in Italia;
  • con indicazione medica di impossibilità all’allattamento al seno per motivi patologici (ad esempio infezioni croniche, terapie farmacologiche incompatibili, ipogalattia severa documentata, interventi chirurgici, patologie metaboliche o infettive, ecc.);
  • con un ISEE minorenni in corso di validità non superiore a 30.000 euro annui.

È importante evidenziare che il beneficio è rivolto a supportare l’alimentazione dei bambini nei primi sei mesi di vita, periodo ritenuto fondamentale per lo sviluppo neonatale.

Importo del contributo

L’importo massimo riconosciuto è di € 400 annui, da riproporzionarsi in base al numero di mesi in cui l’allattamento al seno è impossibile.

L’importo viene concesso una tantum, in relazione al periodo di impossibilità all’allattamento certificato dal medico specialista o dal pediatra di libera scelta.

Modalità di richiesta

Le modalità operative per ottenere il bonus latte artificiale variano leggermente da Regione a Regione. In generale, la domanda va presentata alla propria ASL di appartenenza, entro i primi sei mesi dalla nascita, allegando:

  1. il certificato medico attestante l’impossibilità di allattare per patologia, rilasciato da uno specialista del Servizio Sanitario Nazionale o da un pediatra;
  2. la certificazione ISEE in corso di validità;
  3. il documento di identità della madre richiedente;
  4. il codice fiscale del bambino;
  5. le ricevute fiscali o scontrini parlanti comprovanti l’acquisto del latte artificiale.

La richiesta può essere presentata in modalità cartacea o telematica, secondo le indicazioni fornite dalla ASL o Regione di appartenenza (come ASL Pescara, Regione Puglia, Regione Lazio ecc.).

Modalità di erogazione del bonus latte artificiale

L’ASL competente provvede a verificare la documentazione e ad autorizzare l’erogazione del contributo tramite:

  • rimborso delle spese già sostenute, su presentazione delle ricevute;
  • in alcuni casi, voucher o contributi diretti da utilizzare presso farmacie o punti vendita convenzionati.

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spese straordinarie

Reato non pagare le spese straordinarie per i figli Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare

Violazione obblighi di assistenza familiare

Il mancato pagamento delle spese straordinarie per i figli integra il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570-bis c.p.). La norma incriminatrice non si limita infatti all’assegno, ma include tutti gli “obblighi di natura economica in materia di affido dei figli”. Questo comprende sia le spese per i bisogni ordinari dei figli, ma prevedibili e ricorrenti, che quelle imprevedibili e rilevanti, ma indispensabili per il loro interesse. Queste spese, come l’assegno, sono fondamentali per il mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, garantendo il loro benessere. L’inadempimento quindi, se provato, è penalmente rilevante. Lo ha chiarito la Cassazione nella sentenza  n. 19715/2025.

Violazione degli obblighi di assistenza familiare

Un uomo viene condannato alla pena della reclusione di due anni per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 bis c.p. L’imputato non ha infatti adempiuto all’obbligo di corrispondere alla ex moglie l’assegno per il mantenimento dei figli e il 50% delle spese straordinarie.

Mancato pagamento delle spese straordinarie 

Nell’impugnare la sentenza l’imputato con il terzo motivo eccepisce la nullità della sentenza per violazione della legge penale. A suo dire il mancato pagamento delle spese straordinarie non integra il reato di cui è stato ritenuto responsabile. L’articolo 570 bis c.p. non si riferirebbe infatti alla violazione degli obblighi economici diversi da quelli relativi alla separazione dei coniugi e all’affido condiviso dei figli.

Spese straordinarie: principi civilistici

La Cassazione annulla senza rinvio la sentenza perché il reato è prescritto e respinge il terzo motivo relativo alle spese straordinarie. Questo il ragionamento della Corte.

Nel caso specifico, l’imputato è stato chiamato a rispondere del mancato pagamento delle spese straordinarie, pattuite al 50% con i provvedimenti di separazione e divorzio. Trattasi nello specifico di importi significativi, in gran parte legati a spese mediche, sanitarie o scolastiche.

Per la difesa il mancato versamento queste spese non costituisce reato, specialmente nel periodo in cui l’assegno di mantenimento e quello divorzile sono stati regolarmente corrisposti. Questa argomentazione difensiva però per gli Ermellini non è fondata.

Spese straordinarie imprevedibili e imponderabili

La Cassazione ricorda che la giurisprudenza civile ha sottolineato l’importanza delle spese straordinarie, dato che la normativa positiva non le definisce in modo esplicito. La giurisprudenza di legittimità ha inquadrato in particolare le spese straordinarie nel contesto del concorso negli oneri relativi all’educazione, istruzione e mantenimento della prole.

La stessa ha stabilito in particolare che le spese “straordinarie” sono quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità e imponderabilità, non rientrano nell’ordinaria gestione della vita dei figli. L’inclusione forfettaria di queste spese nell’assegno di mantenimento potrebbe, infatti, violare i principi di proporzionalità e adeguatezza del mantenimento, a discapito della prole (Cassazione n. 1562/2020).

Ai fini giuridici, è stata operata infatti una distinzione tra:

  • esborsi per bisogni ordinari che consistono nelle spese certe e prevedibili, che integrano l’assegno di mantenimento e sono azionabili in base al titolo originario (es. sentenza), con un calcolo puramente aritmetico;
  • spese imprevedibili e rilevanti che sono invece quelle che, per il loro ammontare e per l’imprevedibilità, richiedono un’autonoma azione di accertamento, rispettando l’adeguatezza alle esigenze del figlio e la proporzionalità del contributo del genitore (Cassazione n. 379/2021).

La Cassazione ricorda inoltre che il genitore collocatario non è obbligato a concordare preventivamente ogni spesa straordinaria, ma solo le “decisioni di maggiore interesse” (art. 337-ter c.c.). Negli altri casi, l’altro genitore è tenuto al rimborso, salvo validi motivi di dissenso (Cassazione n. 15240/2018).

Mancato pagamento spese straordinarie reato

Questi principi civilistici sulle spese straordinarie risultano applicabili anche in sede penale. Pertanto, il reato di cui all’art. 570-bis c.p. è integrato anche dal mancato pagamento delle spese straordinarie, sia quelle certe e prevedibili che integrano l’assegno, sia quelle imprevedibili ma indispensabili per l’interesse dei figli, purché previste da un titolo giudiziario o da un accordo tra i coniugi. L’art. 570-bis c.p. fa riferimento del resto non solo all’assegno, ma in generale agli obblighi di natura economica in materia di affido dei figli, nei quali rientrano anche le spese straordinarie, essenziali per garantire il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli come previsto dall’art. 147 c.c.

 

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cittadinanza italiana per matrimonio

Cittadinanza italiana per matrimonio Cittadinanza italiana per matrimonio: normativa, chi può chiederla e quali requisiti occorrono, tempi, procedura e rigetto dell'istanza

Cittadinanza italiana per matrimonio: acquisto

L’acquisizione della cittadinanza italiana per matrimonio è una delle modalità previste dalla legge per diventare cittadini italiani. Si tratta di una procedura amministrativa regolata dall’articolo 5 della Legge 5 febbraio 1992, n. 91, che consente al coniuge di un cittadino italiano di ottenere la cittadinanza a determinate condizioni di residenza, convivenza e regolarità giuridica.

Normativa di riferimento

La cittadinanza per matrimonio è disciplinata da:

  • Art. 5 della Legge n. 91/1992 (“Nuove norme sulla cittadinanza”);
  • Regolamento di attuazione DPR n. 572/1993;
  • Modifiche introdotte dal D.L. n. 113/2018 (Decreto Salvini), convertito in L. n. 132/2018;
  • Circolari ministeriali e aggiornamenti disponibili sul sito del Ministero dell’Interno.

Questa forma di acquisizione è facoltativa e subordinata alla presentazione di un’apposita istanza da parte dell’interessato, che deve dimostrare il possesso dei requisiti richiesti.

Chi può richiederla

Può richiedere la cittadinanza italiana per matrimonio:

  • il coniuge straniero o apolide di un cittadino italiano (anche naturalizzato), se il matrimonio è regolarmente trascritto nei registri di stato civile italiano;
  • il coniuge legalmente residente in Italia o all’estero.

Requisiti per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

I principali requisiti per presentare l’istanza sono:

  1. Durata del matrimonio:
    • se i coniugi risiedono in Italia, è necessario che siano trascorsi almeno 2 anni dalla celebrazione del matrimonio;
    • se risiedono all’estero, il termine è di 3 anni;
    • questi termini sono dimezzati ( 1 anno o 18 mesi) in presenza di figli nati o adottati dalla coppia.
  1. Residenza legale o iscrizione AIRE:
    • il richiedente deve essere regolarmente residente in Italia.
  1. Validità del matrimonio:
    • il vincolo matrimoniale deve essere ancora in essere al momento del giuramento;
    • non deve essere intervenuta la separazione legale, l’annullamento o il divorzio.
  1. Assenza di condanne penali gravi e di pericoli per la sicurezza della Repubblica.
  2. Conoscenza della lingua italiana
    • A partire dal 4 dicembre 2018, il richiedente deve dimostrare una conoscenza della lingua italiana almeno di livello B1, mediante certificazione rilasciata da enti riconosciuti (es. Università per Stranieri di Perugia o Siena, Dante Alighieri, CILS).

Presentazione dell’istanza

L’istanza deve essere presentata online tramite il portale del Ministero dell’Interno (ALI – https://portaleservizi.dlci.interno.it);

Va corredata da documentazione anagrafica, penale, certificato di conoscenza linguistica, versamento del contributo di 250,00 euro e marca da bollo di 16,00 euro.

Tempi per ottenere la cittadinanza italiana per matrimonio

La normativa prevede che il procedimento si concluda entro 24 mesi, prorogabili fino a 36 mesi nei casi più complessi, come stabilito dall’art. 9-ter della L. 91/1992 per le domande presentate dopo il 21 dicembre del 2020. l conteggio parte dalla data di completa ricezione della documentazione, non da quella di invio della domanda.

Tuttavia, nella prassi, i tempi possono risultare variabili, soprattutto in base alla Prefettura competente, alla completezza dell’istanza e all’eventuale necessità di integrazione documentale.

Fasi della procedura:

  1. presentazione dell’istanza online sul portale ALI;
  2. verifica dei documenti da parte della Prefettura (se residente in Italia) o del Consolato (se all’estero);
  3. istruttoria ministeriale e verifica dei requisiti;
  4. decreto di concessione della cittadinanza;
  5. giuramento di fedeltà alla Repubblica, da effettuare entro 6 mesi dalla notifica del decreto presso il Comune di residenza o l’autorità consolare.

Cause di rigetto della domanda

L’istanza può essere rigettata nei seguenti casi:

  • intervenuta separazione o scioglimento del matrimonio;
  • presenza di condanne penali rilevanti;
  • documentazione incompleta o falsa;
  • mancata conoscenza certificata della lingua italiana;
  • motivi di sicurezza dello Stato (parere negativo dei servizi di intelligence).

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