danno emergente e lucro cessante

Danno emergente e lucro cessante Danno emergente e lucro cessante: cosa sono, differenze, normativa, come si provano e sentenze della Cassazione

Danno emergente e lucro cessante: voci di danno

Il danno emergente e il lucro cessante nel diritto civile italiano, rappresentano le voci primarie di danno patrimoniale conseguenti a un illecito o a un inadempimento contrattuale, in favore di chi ha subito un pregiudizio patrimoniale

Queste due voci risarcitorie hanno finalità riparative differenti: il primo risarcisce la perdita già subita, il secondo compensa il guadagno non realizzato a causa dell’evento dannoso.

Normativa danno emergente e lucro cessante

La base normativa per la liquidazione del danno patrimoniale si trova in due disposizioni fondamentali del codice civile:

  • Art. 1223 c.c.: “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore (danno emergente) come il mancato guadagno (lucro cessante), in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
  • Art. 2056 c.c., applicabile in materia di responsabilità extracontrattuale, rinvia ai criteri degli articoli precedenti in tema di danno da inadempimento. In dettaglio la norma dispone infatti che: “Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223 12261227.2. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.”

Queste disposizioni richiedono che il danno sia causato direttamente e immediatamente dall’evento lesivo, escludendo i pregiudizi indiretti o meramente eventuali.

Cos’è il danno emergente

Il danno emergente rappresenta la perdita effettiva subita dal patrimonio del danneggiato. È una voce di danno concreto, attuale e dimostrabile, legata a costi sostenuti, spese affrontate o beni danneggiati.

Esempi tipici:

  • spese mediche e farmaceutiche sostenute a seguito di un sinistro;
  • riparazione o sostituzione di beni danneggiati;
  • costi per consulenze tecniche o legali;
  • perdita di beni materiali (es. distruzione di merci, macchinari o strumenti di lavoro);
  • costi per trasferimenti o per rimediare ai danni subiti.

Come si prova

È necessario fornire documentazione probatoria come:

  • fatture, ricevute e scontrini;
  • contratti e perizie tecniche;
  • testimonianze o relazioni di professionisti.

Cos’è il lucro cessante

Il lucro cessante indica invece il mancato guadagno che il danneggiato avrebbe potuto conseguire in assenza dell’illecito o dell’inadempimento. È un danno futuro e potenziale, ma risarcibile purché sia prevedibile e ragionevolmente certo.

Esempi tipici:

  • perdita di ricavi da un’attività commerciale temporaneamente interrotta;
  • mancato profitto derivante da un contratto non concluso;
  • minore fatturato a seguito della lesione di un bene produttivo (es. fermo impianti);
  • perdita di opportunità professionali o di mercato.

Come si prova

La prova del lucro cessante è più complessa, poiché riguarda eventi non verificatisi, ma astrattamente prevedibili. La giurisprudenza richiede una prova rigorosa, basata su:

  • documenti contabili e bilanci pregressi;
  • stime economiche di esperti;
  • contratti sfumati o ordini non evasi;
  • indicatori economici coerenti con il tipo di attività.

Differenze tra danno emergente e lucro cessante

Elemento

Danno emergente

Lucro cessante

Natura

Perdita già subita

Guadagno non realizzato

Temporalità

Attuale e concreta

Futuro e potenziale

Prova

Oggettiva (ricevute, fatture)

Prospettica (stime, dati economici)

Finalità risarcitoria

Ripristino del patrimonio

Compensazione del mancato arricchimento

Esigibilità

Generalmente più semplice

Richiede elevata attendibilità delle previsioni

Come si calcolano

Per il danno emergente, il calcolo è di norma analitico, basato sulle spese effettivamente sostenute.

La quantificazione del danno secondo criteri equitativi riguarda soprattutto il lucro cessante e può essere effettuata dal giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., quando non sia possibile la prova precisa del danno. Ai fini del calcolo del lucro cessante, si applicano in genere i seguenti criteri:

  • proiezioni storiche (es. media dei profitti passati);
  • studi di settore e perizie economico-finanziarie;
  • elementi oggettivi di confronto tra periodo precedente e successivo all’evento.

Sentenze su danno emergente e lucro cessante

Negli anni la Cassazione ha sancito importanti principi generali in materia di risarcimento del danno:

Cassazione n. 17670/2024

Il danno patrimoniale si articola in danno emergente (perdita effettiva) e lucro cessante (mancato guadagno). Queste categorie generali comprendono una molteplicità di specifiche voci di danno che possono o meno presentarsi in un determinato caso di illecito o inadempimento. Spetta al giudice di merito esaminare attentamente il caso concreto per accertare l’effettiva sussistenza di queste specifiche ripercussioni negative subite dal creditore o danneggiato, a prescindere dall’etichetta che viene loro attribuita. Il suo compito è garantire un integrale risarcimento di tutti i danni effettivamente provati. È fondamentale che il giudice consideri e risarcisca tutte le voci di danno patrimoniale esistenti e provate, senza tralasciarne alcuna, per rispettare il principio del risarcimento integrale. Tuttavia, questo principio è strettamente correlato al fatto che il responsabile è tenuto a risarcire solo i danni direttamente causati dal suo illecito o inadempimento, evitando così ingiustificate duplicazioni risarcitorie.

Cassazione n. 9277/2023

La facoltà del giudice di quantificare il danno in via equitativa (come previsto dagli articoli 1226 e 2056 del Codice Civile) è una manifestazione del suo più ampio potere discrezionale sancito dall’articolo 115 del Codice di Procedura Civile. Il giudice può esercitare questo potere autonomamente, senza bisogno di una specifica richiesta delle parti, basandosi su un principio di “equità giudiziale” che mira a correggere o integrare la valutazione del danno. Tuttavia, questo potere ha un limite fondamentale: non può supplire alla mancanza di prova né della responsabilità del debitore né dell’esistenza stessa del danno. In altre parole, il giudice non può inventare la responsabilità o l’esistenza del danno se queste non sono state provate. L’equità interviene solo nella quantificazione del danno la cui esistenza e la cui responsabilità siano già state accertate.

 

Leggi anche: Occupazione sine titulo e danno in re ipsa

giurista risponde

Arricchimento senza causa e nullità del contratto per difetto di forma scritta Nell’ambito dei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione, risulta ammissibile l’azione di arricchimento senza causa in caso di nullità del contratto per difetto di forma scritta?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Vanno rimesse alle Sezioni Unite le seguenti questioni: in riferimento al principio affermato dalla recente sentenza Cass., Sez. Un., 5 dicembre 2023, n. 33954, avuto riguardo alla residualità dell’azione di arricchimento senza causa ex art. 2042 c.c. ed ove non risulti opportuna la definizione della nozione di “giusta causa” in carenza della quale è data l’azione in parola, l’ipotesi di nullità del contratto della p.a. per difetto di forma scritta rientri o meno nelle cause di nullità per violazione di norme imperative o per contrarietà all’ordine pubblico, qualificate ostative all’ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c.; se, ancora in riferimento al suddetto principio, il giudizio sull’ammissibilità dell’azione possa essere declinato diversamente, in caso di declaratoria di nullità del contratto per difetto di forma scritta, qualora, come nella specie, il soggetto “impoverito” sia la stessa p.a. e non la sua controparte privata; se, infine e sempre in riferimento al suddetto principio, ove al quesito di cui sub 1) si risponda nel senso dell’ammissibilità dell’azione, abbia rilievo la circostanza che il contratto dichiarato nullo abbia ad oggetto prestazioni di dare, stante quanto previsto – quale possibile azione alternativa, offerta dall’ordinamento già sul piano astratto – dagli artt. 2033 ss. c.c. in tema di ripetizione d’indebito oggettivo (Cass., sez. III, ord. 20 gennaio 2025, n. 1284).

La vicenda trae origine da una fornitura di acqua, senza un contratto scritto, da parte del Comune di Bojano, il quale promuove un’ordinanza di ingiunzione nei confronti del titolare di una ditta individuale, per il pagamento di oltre centomila euro per i canoni rimasti insoluti. Pur venendo dichiarata nulla in primo grado l’ingiunzione di pagamento, in appello viene accolta una domanda subordinata di arricchimento senza causa, che obbliga l’utente a versare una somma considerevole. La Terza Sezione individua tre questioni centrali che meritano un chiarimento nomofilattico, tale da fornire un quadro più chiaro e organico dei rimedi esperibili in caso di nullità dei contratti con la P.A., definendo i confini tra i singoli istituti.

La prima riguarda il tema della compatibilità tra la nullità per difetto di forma scritta nei contratti della P.A. e il recente orientamento delle Sezioni Unite che esclude l’azione di arricchimento in caso di nullità per violazione di norme imperative. L’ordinanza evidenzia, infatti, che le norme sulla forma scritta dei contratti pubblici hanno natura imperativa. Si ravvisa, in particolare, come l’indennizzo spettante all’impoverito non possa costituire il corrispettivo di una prestazione resa in forza di un contratto nullo, altrimenti si opererebbe una sorta di “fictio”, considerando il contratto come esistente e valido. L’ordinanza solleva critiche a una recente interpretazione della Cassazione che esclude le nullità formali dei contratti pubblici dalle violazioni di norme imperative. In tal modo, infatti, il rischio è quello di creare un paradosso giuridico e forme di diseguaglianza rispetto alla posizione del privato, atteso che la violazione delle regole sulla forma scritta potrebbero addirittura avvantaggiare l’amministrazione inadempiente, che otterrebbe con l’azione ex art. 2041 c.c. più di quanto conseguirebbe stipulando il contratto.

La seconda questione concerne la peculiarità del caso in esame, dal momento che la P.A. assume il ruolo di soggetto “impoverito”, mentre nei precedenti, in tema di rapporto tra declaratoria di nullità dei contratti della P.A. per difetto di forma e l’ammissibilità della domanda di arricchimento senza causa, era il privato ad assumere le vesti di attore.

La terza problematica attiene, infine, al rapporto tra l’azione di arricchimento e la ripetizione dell’indebito ex art. 2033 c.c. La Corte si interroga se la disponibilità del rimedio della ripetizione non precluda, per il principio di sussidiarietà, il ricorso all’azione di arricchimento. Il chiarimento richiesto alle Sezioni Unite sarà cruciale, oltre che per stabilire quale sia il rimedio più adeguato per risolvere il caso concreto, anche per definire l’equilibrio tra la tutela degli interessi pubblici e la necessità di non creare ingiustificate disparità di trattamento con i soggetti privati.

 

(*Contributo in tema di “Arricchimento senza causa”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

servitù di panorama

La servitù di panorama Servitù di panorama: definizione, riferimenti normativi, differenze rispetto al diritto di veduta e sentenze della Cassazione

Cos’è la servitù di panorama

La servitù di panorama è un diritto reale su cosa altrui che consente al titolare del fondo dominante di mantenere una vista libera e panoramica da un determinato punto del proprio immobile, limitando la facoltà del proprietario del fondo vicino (fondo servente) di costruire o modificare in modo tale da ostruire la visuale.

Diversamente dal diritto di veduta (che riguarda il diritto di affacciarsi e guardare sul fondo altrui), la servitù di panorama si riferisce alla possibilità di godere di una visuale aperta – ad esempio verso il mare, una vallata, un parco o un centro storico – e alla conseguente tutela dell’interesse estetico o economico connesso alla visuale stessa.

La servitù di panorama nel codice civile

Il codice civile italiano non contiene una disciplina espressa di questa servitù. Tuttavia, essa può essere ricondotta alla categoria delle servitù atipiche previste dall’art. 1027 c.c., secondo cui: “La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.”

La servitù di panorama, dunque, rientra tra le servitù prediali purché:

  • sia costituita per iscritto (o per usucapione nei casi ammessi);
  • ci sia un fondo dominante e un fondo servente, entrambi identificabili;
  • l’utilità sia duratura e oggettiva, non meramente personale o estetica.

Differenze rispetto al diritto di veduta 

Spesso si confonde la servitù di panorama con il diritto di veduta, ma i due istituti hanno natura e disciplina differenti:

Caratteristica

Diritto di veduta

Servitù di panorama

Fonte

Normativa espressa (art. 907 c.c. e ss.)

Servitù atipica ex art. 1027 c.c.

Oggetto

Affacciarsi e guardare sul fondo altrui

Mantenere una vista panoramica libera

Costituzione

Anche per usucapione

Solo per titolo scritto o usucapione se evidente e continuata

Limitazioni

Distanze minime da rispettare

Divieto di costruire che ostacoli la visuale

Natura

Servitù apparente o non apparente

Generalmente non apparente

Il diritto di panorama, per essere tutelato, deve essere costituito formalmente come servitù, altrimenti il proprietario del fondo vicino ha piena libertà di edificazione entro i limiti urbanistici e civilistici.

Costituzione e tutela 

La servitù di panorama può essere costituita:

  • per contratto: mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata;
  • per testamento;
  • per usucapione: se l’esercizio della servitù è continuo, pacifico e inequivoco per almeno venti anni, e l’esistenza della servitù è “visibile” (ad esempio per l’esistenza di parapetti o terrazze dedicate).

Una volta costituita, la servitù vincola il fondo servente a non costruire o sopraelevare in modo da pregiudicare la visuale panoramica del fondo dominante.

In assenza di servitù, non si può impedire al vicino di costruire: il solo fatto di godere di una bella vista non attribuisce un diritto acquisito alla sua conservazione.

Servitù di panorama: Cassazione

La Corte di Cassazione nel tempo ha fornito importanti precisazioni sul contenuto e sulle modalità di acquisto della servitù di panorama:

Cassazione n. 17922/2023: il diritto di veduta panoramica si configura come una servitù che, a seconda dei casi, si traduce in un divieto di costruire (non aedificandi) o di sopraelevare (altius non tollendi). Questo diritto può essere acquisito tramite contratto (a titolo derivativo), per destinazione del padre di famiglia o per usucapione (a titolo originario). Tuttavia, queste ultime modalità richiedono, oltre alla specifica destinazione data dall’originario unico proprietario o all’esercizio prolungato per oltre vent’anni di attività corrispondenti alla servitù, anche la presenza di opere visibili e permanenti che siano ulteriori rispetto a quelle che semplicemente consentono la vista.

Cassazione n. 2973/2012: la servitù di panorama, che valorizza la piacevolezza di un fondo grazie alla vista che offre, è un tipo di servitù “altius non tollendi” che limita sia le costruzioni che la crescita degli alberi. Per poterla acquisire tramite la destinazione del padre di famiglia o l’usucapione, è necessario che esistano opere visibili e permanenti ulteriori rispetto a quelle che permettono semplicemente la veduta. In altre parole, tali opere devono essere specificamente destinate all’esercizio della servitù di panorama invocata, altrimenti quest’ultima sarebbe sempre implicita nella servitù di veduta.

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clausola compromissoria

La clausola compromissoria Clausola compromissoria: cos'è, a cosa serve, normativa di riferimento, tipologie, giurisprudenza e formula

Cos’è la clausola compromissoria

La clausola compromissoria è una disposizione contrattuale, che può essere predisposta anche in un atto  separato, con cui le parti stabiliscono che eventuali controversie che dovessero insorgere proprio in virtù del contratto stipulato, saranno risolte tramite arbitrato, anziché davanti ai tribunali ordinari. Questa clausola permette di evitare lunghi processi giudiziari, favorendo una risoluzione più rapida ed efficace delle dispute.

Normativa di riferimento

Essa è regolata dagli artt. 806-808 ter del Codice di Procedura Civile, che disciplinano l’arbitrato e la sua applicabilità nei contratti.

L’art. 808 c.p.c. stabilisce che la stessa:

  • deve essere redatta per iscritto, ossia nella forma prevista per il compromesso di cui all’articolo 807 c.p.c;
  • può fare riferimento a controversie future relative al contratto;
  • può prevedere un arbitrato rituale o irrituale.

Tipologie di clausola compromissoria

Queste le tipologie:

1. Clausola compromissoria semplice

Prevede che le controversie siano risolte tramite arbitrato, senza specificare dettagli sull’organo arbitrale.

2. Clausola compromissoria con arbitrato amministrato

Indica un’istituzione arbitrale specifica (es. Camera Arbitrale di Milano) che regolerà il procedimento.

3. Clausola compromissoria con arbitrato ad hoc

Le parti stabiliscono le regole dell’arbitrato senza affidarsi a un’istituzione.

4. Clausola compromissoria con arbitrato irrituale

L’arbitro emette una decisione che ha valore contrattuale, e non una sentenza esecutiva.

Giurisprudenza 2025

Riportiamo alcune sentenze significative di merito sull’argomento che aiutano a comprenderne il contenuto e il funzionamento.

Tribunale di Torino n. 43/2025

In assenza di una diversa intenzione contrattuale, la clausola compromissoria va intesa come estesa a tutte le dispute che trovano la loro ragione d’essere nel contratto a cui si riferisce, escludendo unicamente quelle che nel contratto hanno solo un fondamento storico.

Tribunale di Brescia n. 270/2025

In presenza di una clausola compromissoria che attribuisce al collegio arbitrale la decisione sulle controversie relative all’interpretazione o all’applicazione di un contratto, tale competenza si estende anche alle questioni di inadempimento o risoluzione del contratto stesso. Ciò si giustifica con l’interpretazione estensiva che deve essere data a tale patto in mancanza di una chiara volontà contraria, comprendendo tutte le controversie che trovano la loro origine nel contratto.

Tribunale di Messina n. 141/2025

L’esistenza di una clausola compromissoria non preclude la possibilità di ottenere un decreto ingiuntivo dal giudice ordinario per un credito derivante dal contratto. Tuttavia, l’intimato conserva il diritto di sollevare l’eccezione di competenza arbitrale in fase di opposizione al decreto, con la conseguenza che il giudice dell’opposizione dovrà revocare il decreto e rinviare le parti al giudizio arbitrale.

In assenza di una diversa intenzione contrattuale, la clausola va intesa come estesa a tutte le dispute che trovano la loro ragione d’essere nel contratto a cui si riferisce, escludendo unicamente quelle che nel contratto hanno solo un fondamento storico.

Formula clausola compromissoria

“Tutte le controversie derivanti dal presente contratto o ad esso collegate saranno risolte mediante arbitrato ai sensi degli articoli 806 e seguenti del Codice di Procedura Civile. L’arbitrato sarà amministrato dalla  __________________ [Nome dell’Istituzione], secondo il suo regolamento vigente alla data della controversia. La sede dell’arbitrato sarà [Luogo], la lingua dell’arbitrato sarà [Lingua] e il numero di arbitri sarà [Numero]. La decisione arbitrale sarà definitiva e vincolante per le parti”.

 

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testamento valido

Testamento valido anche con monosillabi La Cassazione chiarisce che il testamento è valido anche se ci sono gravi limitazioni motorie ma sussiste la capacità di intendere e di volere

Validità del testamento

Testamento valido anche con monosillabi: la seconda sezione civile della Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 9534/2025, ha confermato la validità di un testamento pubblico redatto in presenza di un testatore affetto da gravi limitazioni motorie, che si era espresso unicamente attraverso monosillabi e movimenti del capo.

La vicenda

Nel caso esaminato, i fratelli del de cuius avevano contestato il testamento pubblico con cui erano stati istituiti erede universale e legatari i convenuti chiedendo che fosse dichiarata l’invalidità delle disposizioni di ultima volontà per incapacità naturale o per inosservanza delle formalità di redazione del testamento stesso. In corso di causa gli attori proponevano querela di falso, deducendo che il notaio aveva ricevuto le volontà del de cuius in assenza di testi ed aveva falsamente attestato che il testatore non era in grado di firmare l’atto.

Il Tribunale ha respinto tutte le domande con sentenza integralmente confermata in appello. Il giudice distrettuale infatti aveva evidenziato che l’incapacità del de cuius era prevalentemente motoria e non incideva sulla capacità di intendere e di volere. Il testatore era apparso, inoltre, in possesso della facoltà mentali nel corso del giudizio di interdizione, conclusosi con pronuncia di inabilitazione, e all’esame diretto da parte del CTU e dei medici curanti.

La questione approdava innanzi alla Cassazione, la quale tuttavia confermava la correttezza della sentenza impugnata.

La decisione

La S.C. ha chiarito che l’incapacità naturale del disponente che, ai sensi dell’art. 591 c.c., “determina l’invalidità del testamento non si identifica in una generica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, richiedendo che, a causa dell’infermità, il soggetto, al momento della redazione del testamento, sia assolutamente privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi”.

Nella specie, il de cuius era affetto da deficit motorio e dell’espressione verbale, ma capace di intendere e di volere, rispondendo in maniera pertinente alle domande che gli venivano rivolte, mostrando di comprenderne il contenuto e di articolare risposte congruenti.

La circostanza che si fosse espresso a monosillabi o con gesti espressivi del capo non inficiava, dunque per i giudici, la validità del testamento, essendo tali modalità le uniche coerenti con le sue condizioni di salute, “caratterizzate da un deficit motorio tale da non incidere sulle capacità, né sulla possibilità di esprimere in maniera intellegibile la propria volontà, non potendosi negare che il consenso così esternato fosse stato validamente manifestato, né potendosi contestare la genuinità e la pienezza dell’espressione di volontà che il giudice di merito ha riscontrato in concreto, con motivazione esente da vizi”.

Allegati

giurista risponde

Contratto preliminare di compravendita e mutuo Come si qualifica, in un preliminare di vendita, la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento di un mutuo da parte del promissario acquirente per il pagamento del prezzo?

Quesito con risposta a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli

 

Va qualificata come mista la condizione con cui le parti subordinano gli effetti di un contratto di compravendita immobiliare all’ottenimento da parte del promissario acquirente di un mutuo da un istituto bancario, al fine di provvedere al pagamento del prezzo pattuito (Cass., sez. II, ord. 7 gennaio 2025, n. 243 – Contratto preliminare di compravendita e mutuo).

Il caso trattato trae origine dalla citazione in giudizio di una società nei confronti di un’altra, con cui la prima chiedeva l’accertamento della verificazione della “condizione risolutiva espressa” apposta al contratto preliminare di compravendita immobiliare, che l’esponente aveva stipulato in qualità di promissario acquirente. Tale contratto, infatti, era stato subordinato, fra l’altro, all’approvazione del leasing con la specifica che, in caso della sua mancata approvazione l’acconto versato doveva essere restituito. Non essendo stato approvato il leasing nei termini prestabiliti, il promissario acquirente aveva adito il Tribunale, chiedendo che fosse accertato l’avveramento della condizione risolutiva espressa con conseguente condanna della convenuta, promittente alienante, alla restituzione dell’acconto e che fosse annullato l’accordo. Il Tribunale adito, in accoglimento della domanda attorea, ha dichiarato risolto il contratto e condannato la convenuta a pagare l’acconto. Tuttavia, la Corte di Appello disattendeva la decisione di primo grado, qualificando la condizione come potestativa mista. Questa stabiliva, infatti, che, poiché detta condizione era stata inserita nell’interesse di entrambe le parti, era la società acquirente a dover provare di aver agito correttamente per ottenere l’approvazione del leasing. La Corte decideva, pertanto, di accogliere l’impugnazione proposta dalla promittente alienante, disponendo il trasferimento immobiliare, ai sensi dell’art. 2932 c.c.

La Corte di Cassazione, successivamente adita, cassava con rinvio la sentenza d’appello impugnata, soffermandosi sulla natura delle condizioni apposte dalle parti nei contratti di compravendita immobiliare. Per la Suprema Corte, in particolare, nella circostanza in cui le parti subordinino gli effetti di un contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione che il promissario acquirente ottenga un mutuo da un istituto bancario, per poter pagare in tutto o in parte il prezzo pattuito, la relativa condizione è da qualificare come “mista”. La decisione, ha altresì specificato che detta concessione dipende anche dal comportamento del promissario acquirente nell’approntare la relativa pratica, ma la mancata erogazione comporta le conseguenze previste dal contratto senza che rilevi, ai sensi dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del promissario acquirente.

Ai fini dell’art. 1359 c.c., infatti, il comportamento omissivo del promissario acquirente non incide poiché l’omissione di attività in tanto può ritenersi contraria a buona fede e costituisce fonte di responsabilità, in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, da escludere per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo di una condizione mista.

In conseguenza, a differenza di quanto affermato dalla Corte di appello ligure, non è consentito sostenere che al promissario acquirente possa addebitarsi il mancato avveramento della condizione per non aver assolto al preteso onere della prova su costui gravante.

Ciò premesso, la Corte ha cassato la sentenza con rinvio e pronunciato il seguente principio di diritto: «la controversia intercorsa tra promittente alienante e promissario acquirente a riguardo del mancato avveramento di una condizione potestativa mista, apposta nell’interesse di entrambe le parti, non può essere risolta facendo applicazione del generale principio regolante l’onere della prova nei contratti sinallagmatici. Ma deve accertarsi, sulla scorta delle emergenze di causa e in concreto, se sia individuabile una parte inadempiente o, comunque, prevalentemente inadempiente (nel caso gli adempimenti fossero reciproci), per avere mancato di comportarsi secondo buona fede, avuto riguardo alla condizione apposta al negozio e in pendenza di essa».

 

(*Contributo in tema di “Contratto preliminare di compravendita e mutuo”, a cura di Francesca Alfieri e Claudia Crisafulli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 83 / Marzo 2025 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

adozione del maggiorenne

Adozione del maggiorenne: il cognome non si cambia La Corte costituzionale conferma la legittimità del divieto di sostituire il cognome dell’adottato maggiorenne con quello dell’adottante, tutelando il diritto all’identità personale e garantendo coerenza con il sistema normativo

Adozione del maggiorenne e cambio cognome

Adozione del maggiorenne: il cognome dell’adottato non può essere sostituito con quello dell’adottante. Con la sentenza n. 53 del 2025, la Corte costituzionale ha respinto le questioni di legittimità sollevate in merito all’articolo 299, primo comma, del codice civile, che disciplina gli effetti dell’adozione nei confronti dei soggetti maggiorenni. Secondo la Consulta, non viola gli articoli 2 e 3 della Costituzione la norma che consente l’aggiunta o l’anteposizione, ma non la sostituzione del cognome dell’adottato con quello dell’adottante, anche qualora vi sia il consenso di entrambi.

Cognome e identità personale

La Corte ha richiamato la propria precedente pronuncia, sentenza n. 135/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità della norma nella parte in cui non permetteva di aggiungere (anziché soltanto anteporre) il cognome dell’adottante a quello del maggiorenne adottato, qualora entrambi avessero espresso consenso in tal senso. Tale modifica era finalizzata a tutelare il diritto all’identità personale, che si sviluppa anche attraverso la continuità del cognome originario.

Di contro, una sostituzione integrale del cognome rappresenterebbe un’eliminazione di un elemento identitario consolidato, che ha accompagnato l’individuo per almeno diciotto anni. Una tale possibilità, secondo la Corte, potrebbe inoltre esporre l’adottato a condizionamenti indebiti, soprattutto in considerazione dei vantaggi patrimoniali che derivano dall’adozione in età adulta, in particolare in ambito successorio.

Nessuna disparità irragionevole con l’adozione

La Consulta ha escluso che vi sia una disparità di trattamento tra l’adozione del maggiorenne e l’adozione legittimante del minore. Le due ipotesi, pur potendo presentare analogie in casi specifici (ad esempio quando l’adottante è stato in passato affidatario), rimangono ontologicamente distinte nella ratio e nella struttura normativa.

Cambio del cognome: già previsti strumenti adeguati

La Corte ha infine evidenziato che, in presenza di specifiche ragioni personali, l’adottato maggiorenne può comunque ricorrere alla procedura di cambiamento del cognome prevista dall’art. 89, comma 1, del d.P.R. n. 396/2000. Tale norma consente a chiunque vi abbia interesse di presentare apposita istanza al prefetto, illustrando i motivi alla base della richiesta, anche laddove il cognome sia ritenuto lesivo della propria identità o rivelatore dell’origine naturale.

clausola risolutiva espressa

Clausola risolutiva espressa Clausola risolutiva espressa art. 1456 c.c.: cos'è, come funziona, differenze rispetto alla condizione risolutiva e giurisprudenza

Cos’è la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è una clausola contrattuale che prevede la risoluzione automatica del contratto in caso di inadempimento di uno degli obblighi  che gravano su una delle parti. In altre parole, se una delle parti non adempie agli obblighi stabiliti nel contratto, l’altra parte può considerare il contratto risolto senza necessità di intervento giudiziale.

Questa clausola è esplicitamente indicata nel contratto e deve essere concordata dalle parti al momento della stipula.

Normativa di riferimento: art. 1456 c.c.

La norma che prevede e disciplina la clausola risolutiva espressa è l’articolo 1456 c.c. Esso dispone in particolare che: “1. I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.”

Dal tenore letterale della norma emerge che la risoluzione del contratto non richiede l’intervento di un giudice, ma è automatica, in quanto le parti hanno esplicitamente previsto l’inadempimento come causa di risoluzione. La clausola risolutiva espressa è quindi uno strumento di protezione per le parti contraenti, per evitare lunghe procedure legali per risolvere un contratto in caso di inadempimento.

Funzionamento della clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa è un meccanismo automatico di risoluzione, che scatta nel momento in cui si verifica un inadempimento da parte di una delle parti. Tuttavia, affinché la risoluzione si realizzi, è necessario che la clausola sia esplicitamente prevista nel contratto, che l’inadempimento sia di entità tale da giustificare la sua attivazione e che la parte interessata dichiari all’altra parte di volersene avvalere.

Un esempio pratico utile a chiarire

Supponiamo che due parti stipulino un contratto di locazione con una clausola risolutiva espressa che preveda la risoluzione del contratto nel caso in cui una delle parti non paghi il canone entro 30 giorni dalla scadenza. Se il conduttore non paga il canone per un mese, il locatore può ritenere risolto il contratto senza bisogno di una causa legale, comunicando l’intenzione al conduttore di volersi avvalere della clausola. La risoluzione avviene  quindi automaticamente, sulla base di quanto concordato nel contratto. La parte che ha subito l’inadempimento non ha quindi bisogno di rivolgersi al tribunale per chiedere la risoluzione del contratto, proprio perché la clausola prevede già l’eventualità di un effetto automatico a fronte di un comportamento inadempiente.

Differenze con la condizione risolutiva

Molti tendono a confondere la clausola risolutiva espressa con la condizione risolutiva, ma ci sono differenze significative tra le due. Vero che entrambe portano alla risoluzione del contratto, ma la modalità e i presupposti sono diversi.

Cos’è la condizione risolutiva

La condizione risolutiva, come definita dal Codice Civile (Art. 1359), è un evento futuro e incerto che determina la cessazione di un contratto. Il contratto esiste già e ha effetti, ma si risolve automaticamente al verificarsi di una condizione che è incerta e non dipende dall’inadempimento di una delle parti. La condizione risolutiva può essere legata a eventi esterni (ad esempio, l’approvazione di un finanziamento, l’ottenimento di una licenza) e il contratto si risolve solo se tali eventi si verificano. La risoluzione avviene senza bisogno di un’azione delle parti, ma dipende dall’evento specifico concordato.

La differenza con la clausola risolutiva espressa

La clausola risolutiva espressa, invece, dipende direttamente dall’inadempimento di una delle parti e prevede una risoluzione automatica del contratto, senza la necessità di un evento futuro e incerto. Il contratto è già in vigore e, se una parte non adempie ai suoi obblighi, il contratto viene risolto in base a quanto stabilito nella clausola. L’inadempimento, quindi, è la causa scatenante, non un evento esterno.

Giurisprudenza  

La giurisprudenza italiana ha esaminato numerosi casi riguardanti la clausola risolutiva espressa e la sua applicazione nei contratti. Ecco alcune sentenze significative:

Cassazione n. 23287/2024: per avvalersi della clausola risolutiva espressa (ex art. 1456 c.c.), l’inadempimento deve essere effettivo; altrimenti, si rischierebbe un abuso del diritto. La buona fede, sancita dagli artt. 1175 e 1375 c.c., guida l’interpretazione per evitare condotte pretestuose e abusi. La giurisprudenza sottolinea che, se il comportamento del debitore è conforme alla buona fede, anche se rientra nei fatti previsti dalla clausola, non può essere considerato inadempimento. Questo principio tutela entrambe le parti da azioni ingiustificate.

Cassazione n. 14195/2022: la tolleranza del creditore (come l’accettazione di pagamenti parziali o tardivi) non elimina la clausola risolutiva espressa né implica una tacita rinuncia ad avvalersene, purché il creditore, contestualmente o successivamente, dichiari l’intenzione di utilizzarla in caso di ulteriori inadempimenti. Secondo la giurisprudenza (Cass. 2005, 2013, 2018), la tolleranza rende temporaneamente inoperante la clausola, ma questa riprende efficacia se il creditore richiama il debitore all’adempimento puntuale delle sue obbligazioni con una nuova manifestazione di volontà.

Cassazione n. 23879/2021: la clausola risolutiva espressa è invalida se non indica specificamente le obbligazioni contrattuali a cui si riferisce. È necessario individuare con precisione gli obblighi la cui violazione giustifica lo scioglimento immediato del contratto. Durante la redazione, è essenziale definire chiaramente le circostanze che possono provocare la risoluzione automatica, evitando riferimenti generici a tutte le obbligazioni contrattuali. In questo modo le parti possono identificare, sin dall’inizio, le violazioni gravi che impediscono la prosecuzione del rapporto, riducendo tempi e costi rispetto a un accertamento giudiziale.

 

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interdizione e inabilitazione

Addio a interdizione e inabilitazione? Interdizione e inabilitazione a rischio: un emendamento del Governo al ddl AS n. 1192 vuole superare questi istituti in favore dell'AdS

Interdizione e inabilitazione

Interdizione e inabilitazione a rischio. L’emendamento del Governo alla legge di semplificazione annuale (ddl AS n. 1192) prevede l’accorpamento degli istituti dell’inabilitazione e dell’interdizione nell’amministrazione di sostegno.

L’emendamento delega l’Esecutivo a rivedere gli istituti di tutela suddetti al fine di superarli gradualmente e accorpare la tutela dei disabili nell’amministrazione di sostegno, dopo una attenta rimodulazione.

Interdizione e inabilitazione: deboli a rischio?

Insorge l’avvocatura sottolineando l’importanza dell’assistenza professionale per i soggetti deboli. Il superamento degli istituti tradizionale di tutela pare del tutto inopportuno. Le modifiche al vaglio rischiano inoltre di compromettere la ratio dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

Condivisibile l’obiettivo di superare istituti anacronistici, ma occorre considerare anche la possibile regressione delle garanzie dei diritti fondamentali dei soggetto più deboli.

L’emendamento rischia anche di minacciare i patrimoni, appare  quindi necessario proporre livelli di formalità diversi per patrimoni e redditi maggiori.

Gli istituti dell’amministrazione di sostegno, dell’inabilitazione e interdizione inoltre sono diversi. L’amministrazione di sostegno è più elastica e adatta a situazioni temporanee. L’inabilitazione e all’interdizione invece hanno funzione stabile e duratura.

Occorrono criteri stringenti e definiti per l’applicazione dell’Amministrazione di sostegno, garanzie di controllo giurisdizionale e partecipazione attiva del beneficiario. Necessario a tal fine   il coinvolgimento delle professioni legali e del terzo settore.

Aiga: serve una riforma giusta ed equilibrata

Aiga ritiene che l’emendamento comprometta la tutela dei più fragili, ne riduca le garanzie e ne indebolisca la protezione patrimoniale.

Nel suo comunicato stampa del 9 aprile 2025 ricorda anche la propria proposta di legge finalizzata a:

  • riconoscere la professionalità degli amministratori di sostegno;
  • garantire un compenso equo e dignitoso a questi soggetti;
  • definirne chiaramente le responsabilità;
  • rafforzarne la tutela fiscale e legale.

Il legislatore deve adottare un approccio responsabile, tutelare i diritti dei soggetti fragili e garantire la dignità professionale degli amministratori di sostegno.

avviso di giacenza

Avviso di giacenza Cos’è l’avviso di giacenza, come funziona la compiuta giacenza degli atti giudiziari: guida con giurisprudenza

Cos’è l’avviso di giacenza

L’avviso di giacenza è un documento che il servizio postale lascia nella cassetta delle lettere quando non è possibile consegnare un atto o una raccomandata direttamente al destinatario. Questo avviso informa che il plico è disponibile per il ritiro presso l’ufficio postale entro un determinato periodo.

Disciplina della compiuta giacenza degli atti giudiziari

Nel contesto degli atti giudiziari, la “compiuta giacenza” si riferisce al periodo dopo il quale un atto non ritirato si considera comunque notificato al destinatario.

Secondo l’articolo 140 del Codice di Procedura Civile, se la consegna di un atto non può essere effettuata per irreperibilità, incapacità o rifiuto del destinatario, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto presso la casa comunale e ne dà comunicazione tramite raccomandata con avviso di ricevimento.

La notifica si considera completata quando sono trascorsi dieci giorni da quando il destinatario, non trovato al suo domicilio, ha ricevuto l’avviso di deposito dell’atto presso il comune tramite raccomandata. Trascorsi infatti dieci giorni dalla data di deposito senza che il destinatario ritiri l’atto, la notifica si considera perfezionata per “compiuta giacenza”.

È importante notare che, anche se l’atto rimane in giacenza per un periodo più lungo (fino a 180 giorni per gli atti giudiziari), gli effetti legali della notifica si producono al decimo giorno dalla data di deposito.

Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 8895/2022 sancendo il seguente principio: In materia di notifiche di atti tributari tramite servizio postale, la validità della notifica è garantita anche in caso di assenza del destinatario. Se il postino non trova il destinatario a casa infatti lascia un avviso di giacenza nella cassetta postale, se poi il destinatario non ritira l’atto entro 10 giorni, la notifica si considera perfezionata. Questo vale anche se il destinatario ha ricevuto l’avviso di deposito (CAD) ma non è andato a ritirare l’atto. In questi casi, si presume che il destinatario abbia avuto conoscenza dell’atto, in base all’articolo 1335 del codice civile. Questo perché l’avviso di giacenza è stato consegnato all’indirizzo del destinatario, dandogli la possibilità di ritirare l’atto. La notifica quindi raggiunge il suo scopo quando l’avviso di giacenza entra nella sfera di conoscibilità del destinatario. Se  il destinatario sceglie di non ritirare l’atto, la notifica è comunque valida.

Come riconoscere il contenuto dell’avviso di giacenza

L’avviso di giacenza contiene informazioni utili per identificare il tipo di atto o comunicazione non consegnata. Ad esempio, il colore dell’avviso può fornire indicazioni preliminari: un avviso di colore verde è spesso associato a comunicazioni ufficiali o atti giudiziari. Inoltre, sull’avviso sono presenti codici numerici che identificano la natura del documento. Codici come 75, 76, 77, 78 e 79 indicano generalmente atti giudiziari o comunicazioni da parte di enti pubblici.

Queste informazioni permettono al destinatario di avere un’idea del contenuto della comunicazione e dell’ente mittente.

Giurisprudenza rilevante

La giurisprudenza ha più volte affrontato il tema della “compiuta giacenza” e degli effetti della notifica:

Cassazione n. 31724/2019: Se uno degli adempimenti richiesti dall’art. 140 c.p.c. viene omesso, la notificazione è nulla, ma può essere sanata se raggiunge comunque il suo scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. Ciò vale anche quando il destinatario riceve l’avviso di raccomandata riguardante il deposito del plico presso l’ufficio postale, ma decide di non ritirarlo, facendo scattare la compiuta giacenza. Tuttavia, la presunzione di conoscenza prevista dall’art. 1335 c.c può essere superata solo se il destinatario dimostra di essere stato, senza sua colpa, impossibilitato a prendere visione dell’atto.

Cassazione n. 32201/2018: Nella notificazione a destinatario irreperibile ex art. 140 c.p.c., l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa non deve necessariamente attestare la consegna o la scadenza del termine di giacenza, né contenere tutte le annotazioni previste per le notifiche postali. Tuttavia, in base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010, deve emergere l’eventuale trasferimento, decesso o altro impedimento che renda l’avviso non conoscibile dal destinatario.

 

 

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