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Iscrizione ipotecaria beni coniuge obbligato mantenimento Il giudice ha il potere di sindacare nel merito l’iscrizione ipotecaria sui beni immobili del coniuge obbligato al mantenimento, al fine di verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di iscrizione ipotecaria, il giudice avanti al quale è proposta una istanza di cancellazione dell’ipoteca, disposta ai sensi dell’art. 156, comma 5, c.c., è tenuto a verificare la sussistenza o meno del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c. – Cass., Sez. I, 16 gennaio 2023, n. 1076.

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che riconosce al creditore il potere di espropriazione e di soddisfazione, con preferenza, rispetto agli altri creditori (art. 2808 c.c.). Viene definita giudiziale l’ipoteca che abbia il proprio titolo in una sentenza di condanna (art. 2818 c.c.).

Con specifico riguardo ai procedimenti di separazione e divorzio, rispettivamente l’art. 156, comma 5, c.c. e l’art. 8, comma 2, della L. 898/1970 recano l’iscrizione ipotecaria giudiziale sui beni del soggetto obbligato.

La pronuncia in esame scaturisce dal contrasto, sorto in giurisprudenza, tra l’orientamento, seguito da numerose Corti di merito, che predilige un’interpretazione letterale delle norme sopra indicate e l’orientamento, prevalso in sede di legittimità, che ritiene opportuno leggere sistematicamente le disposizioni in commento.

In particolare, la Corte di Appello, nel caso di specie, aderisce all’indirizzo minoritario, sostenendo che tali norme non richiedano espressamente una valutazione preventiva circa la pericolosità attuale o potenziale dell’inadempimento. Alla stregua di tale indirizzo, l’ex coniuge creditore può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del soggetto obbligato al mantenimento dei figli minori, in forza, sic et sempliciter, della sentenza che ne costituisce il titolo, senza che sia necessariamente sussistente il periculum di inadempimento.

Ciò in perfetta coerenza con l’art. 2818 c.c. secondo cui ogni sentenza che porta la condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca.

L’unico rimedio a disposizione del debitore potrebbe essere quello di chiedere al giudice una riduzione dell’ipoteca nel caso di iscrizione per un valore eccedente rispetto all’ammontare complessivo del mantenimento da garantire.

Il secondo orientamento, cui aderisce la Corte di Cassazione, dando spazio ad un’interpretazione sistematica delle norme in commento, ritiene che il giudice, avanti al quale è stata proposta istanza di cancellazione dell’ipoteca, sia tenuto a verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione dell’ordine di cancellazione.

Sia l’art. 156 c.c. che l’art. 8 della legge sul divorzio, elencano, infatti, una serie di rimedi parametrati all’entità dell’inadempimento: il sequestro scaturisce dalla inadempienza effettiva, l’iscrizione ipotecaria, invece, può essere imposta dal giudice nel caso in cui esista il pericolo che il coniuge possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di mantenimento.

L’opposto orientamento esporrebbe il debitore ad abusi da parte del creditore che, al fine di assicurare l’adempimento al credito, potrebbe decidere di effettuare l’iscrizione ipotecaria in via preventiva sui beni dell’ex coniuge.

Lobbligazioni derivanti dai provvedimenti di famiglia sono solitamente periodiche e destinate a durare per un numero elevato di anni, per cui un’iscrizione ad ipoteca che non abbia l’effettiva funzione di garantire il credito, per mancanza del pericolo, potrebbe piuttosto diventare solo un vincolo perpetuo ed eccessivo per i beni del debitore.

Se l’intento del legislatore, nella previsione di molteplici rimedi all’inadempimento, è quello di tutelare il beneficiario dell’assegno, che ha diritto alla corresponsione delle somme determinate dalla sentenza, dall’altro non può non tutelarsi anche la posizione del debitore, il cui patrimonio potrebbe soggiacere, qualora si aderisse all’orientamento dei giudici di merito, ad un’iscrizione ipotecaria perpetua, senza alcun fondamento pratico.

Per tale motivo la valutazione del creditore circa la sussistenza di siffatto pericolo è sindacabile nel merito, onde la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina l’estinzione della garanzia e la nascita del diritto del debitore ad ottenere dal giudice l’ordine di cancellazione.

Alla luce delle considerazioni esposte, il Supremo Consesso ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata che, aderendo all’orientamento minoritario, aveva disposto l’iscrizione ipotecaria senza alcun apprezzamento circa il rischio che il ricorrente potesse sottrarsi o meno all’adempimento stesso.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Trib. Milano 18 giugno 2009, n. 7941; Cass., sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309
Difformi:      Corte App. Firenze, sez. II, 25 febbraio 2017; Corte App. Milano, 18 maggio 2020, n. 1154
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Decreto ingiuntivo supercondominio L’amministratore di un supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, unicamente nei confronti di ciascun partecipante, oppure può agire direttamente nei confronti dell’amministratore del singolo condominio?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In presenza di un supercondominio ciascun condomino è obbligato a contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condomini di unità immobiliari o di edifici, in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante, sicché l’amministratore del supercondominio può ottenere un decreto ingiuntivo per la riscossione degli oneri condominiali, ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., unicamente nei confronti di ciascun partecipante, mentre è esclusa un’azione diretta nei confronti dell’amministratore del singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per il complessivo importo spettante a quest’ultimi. – Cass., sez. II, 16 gennaio 2023, n. 1141.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se l’amministratore di un supercondominio possa ottenere il decreto ingiuntivo nei confronti dell’amministratore di un singolo condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini e per l’importo globale delle somme oppure abbia l’obbligo di agire unicamente verso ogni singolo condomino.

Segnatamente, la vicenda processuale trae origine dall’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dall’amministratore di un condominio – rientrante, a sua volta, in un supercondominio – il quale contestava la legittimità dell’ingiunzione di pagamento delle spese condominiali intimatagli dall’amministratore del supercondominio in virtù della mancanza, in capo a sé, della qualifica di condomino. Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sul caso, confermava il decreto ingiuntivo opposto, rilevando che l’opponente era effettivamente un condomino e che, in quanto tale, avrebbe dovuto far valere le proprie ragioni attraverso una tempestiva impugnazione della delibera assembleare posta alla base del decreto ingiuntivo. Sulla stessa linea, anche la Corte di Appello, pur dichiarando inammissibile il ricorso ai sensi dell’art. 348bis c.p.c., accertava la presenza del condominio nel supercondominio.

L’amministratore di condominio, dunque, interponeva ricorso per Cassazione avverso la pronuncia di primo grado, affidato a due motivi inerenti all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e alla violazione e falsa applicazione di tredici norme di diritto, senza però, come afferma la Suprema Corte, dimostrare come le affermazioni contenute in sentenza fossero con queste contrastanti.

Nel dettaglio, con i due motivi di ricorso, analizzate le regole sul funzionamento del supercondominio, il ricorrente ribadiva che il condominio non fosse parte integrante il supercondominio: non esiste un rapporto di natura reale fra condominio e supercondominio in grado di escludere l’emissione di un decreto ingiuntivo ex art. 63 disp. att. c.c. in favore di quest’ultimo, stante la carenza della qualità di “condomino” in capo al ricorrente.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, si sofferma su alcuni interessanti profili giuridici riguardanti la soluzione della quaestio iuris e il rapporto tra condominio e supercondominio.

Anzitutto, benché il ricorrente non abbia specificamente argomentato in relazione ad alcun contrasto fra le norme richiamate e le affermazioni contenute nella sentenza gravata, la Corte ha ritenuto di dover comunque analizzare la fondatezza dei motivi di ricorso nell’esercizio del proprio potere di qualificazione in diritto della domanda definita e dei fatti già accertati nelle fasi di merito, individuando la questione giuridica nella verifica della sussistenza di una, legittimazione del supercondominio ad intimare all’amministratore di un condominio, a mezzo didecreto ingiuntivo, il versamento dei contributi non pagati dai singoli condomini.

Prima di entrare nel merito della questione giuridica, il Collegio ritiene doveroso svolgere due premesse: la prima riguardante la corretta individuazione della causa petendi in riferimento al contenuto della pronuncia impugnata; la seconda inerente all’impossibilità di estendere degli effetti del giudicato nei confronti dei singoli condomini ove non siano stati citati in giudizio.

Con riferimento alla prima considerazione, i giudici di legittimità rilevano che il Tribunale ha circoscritto l’oggetto del giudizio alla legittimazione passiva del condominio rispetto all’ingiunzione di pagamento ai sensi dell’art. 63 disp. att. c.c. richiesta dal supercondominio, sottolineando che la deliberazione assembleare alla base del decreto ingiuntivo non era stata impugnata ex art. 1137 c.c. dal ricorrente. Quanto precede produce un’inevitabile conseguenza anche in ordine alla seconda premessa: infatti, nel giudizio di opposizione volto alla riscossione dei contributi condominiali attivato unicamente contro l’amministratore, le questioni inerenti all’appartenenza o meno di una o più unità immobiliari di proprietà esclusiva ad un condominio, nonché la titolarità comune o individuale di una porzione dell’edificio costituiscono accertamenti meramente incidentali privi di efficacia di giudicato nei confronti dei diritti reali dei singoli condomini, i quali, per subirne gli effetti, dovrebbero essere legittimati passivi e litisconsorti necessari nel medesimo giudizio. Ne deriva che la statuizione del Tribunale relativa all’appartenenza di parti del condominio al supercondominio non può essere spesa in altre liti fra le stesse parti.

Compiute queste doverose premesse, la Suprema Corte richiama un proprio consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi per quelle fattispecie – come quella de quo – per cui non sono applicabili gli artt. 1117bis c.c. e 67 disp. att. c.c. commi 3 e 4, introdotti dalla L. 220/2012, in base al quale il c.d. supercondominio viene in essere “ipso iure et facto, ove il titolo non disponga altrimenti, in presenza di beni o servizi comuni a più condomìni autonomi, da cui rimane distinto. Da ciò deriva che il potere degli amministratori di ogni condominio di compiere gli atti indicati dagli artt. 1130 e 1131 c.c. è limitato alla facoltà di agire o resistere in giudizio con riferimento ai soli beni comuni all’edificio amministrato e non a quelli facenti parte del complesso immobiliare composto da più condomìni, che deve essere gestito unicamente attraverso le deliberazioni e gli atti assunti dai propri organi, quali l’assemblea di tutti i proprietari e l’amministratore del supercondominio, ove sia stato nominato (da ultimo Cass., sez. II, 20 dicembre 2021, n. 40857 e Cass., sez. II, 28 gennaio 2019, n. 2279).

La Corte sottolinea anche come recente giurisprudenza (Cass., sez. II, ord. 22 luglio 2022, n. 22954), si sia già pronunciata in merito ad analoga fattispecie ed abbia affermato come legittimati passivi al pagamento delle quote relative ai beni avvinti da vincolo supercondominiale siano non tanto i condomìni, quanto i singoli condòmini.

Ed è proprio sulla scorta di questa pronuncia che il Collegio si esprime.

Nello specifico, dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 1118, 1123 c.c. e 67, comma 3 e 68 disp. att. c.c., afferma come, in presenza di un supercondominio trovano applicazione le disposizioni di cui al Libro Terzo, Titolo VII, Capo II, del codice civile, secondo le quali ciascun condomino ha l’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione e il godimento delle parti comuni e per la prestazione dei servizi comuni a più condominii di unità immobiliari o di edifici in misura proporzionale al valore millesimale della proprietà del singolo partecipante. Nell’ipotesi in cui tale obbligo contributivo non venga adempiuto, l’amministratore del supercondominio può ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo volto alla riscossione dei suddetti contributi unicamente nei confronti di ciascun condomino per quanto da questo singolarmente dovuto, mentre, conclude la Corte, è esclusa ogni azione diretta verso l’amministratore del condominio in rappresentanza dei rispettivi condomini per l’importo globale delle somme da loro individualmente dovute.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello, la quale dovrà attenersi al principio evidenziato in massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 22 luglio 2022, n. 22954
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Revisione assegno divorzio e criteri di valutazione La richiesta di revisione dell’assegno di divorzio deve essere valutata sulla base di criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970, una volta accertata, in fatto, la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee, con riferimento alla fattispecie concreta, ad alterare l’assetto economico stabilito tra gli ex coniugi al momento della pronuncia sulle condizioni del divorzio, quale presupposto necessario per l’instaurazione del giudizio di revisione dell’assegno, il giudice deve procedere alla valutazione, in diritto, dei “giustificati motivi” che ne consentono la revisione sulla base del “diritto vivente”, tenendo conto della interpretazione giurisprudenziale delle norme applicabili corrente al momento della decisione. – Cass., sez. I, 19 gennaio 2023, n. 1645.

Nel caso di specie la Suprema Corte è chiamata a valutare se, una volta appurata la sopravvenienza di circostanze potenzialmente idonee a modificare la situazione di fatto e quindi ad alterare l’equilibrio economico esistente fra gli ex coniugi come accertato al momento della pronuncia di divorzio, la valutazione della domanda di revisione debba essere condotta sulla base dei criteri giurisprudenziali vigenti all’epoca del divorzio o alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione.

La vicenda processuale prende le mosse dal rigetto, in primo e in secondo grado, dell’istanza di modifica delle condizioni di divorzio presentata da uno degli ex coniugi ai sensi dell’art. 9, L. 898/1970. In particolare, secondo i giudici di merito, la revisione dell’assegno divorzile è possibile solo a fronte di un sopravvenuto mutamento delle condizioni economico-patrimoniali dell’uno e/o dell’altro coniuge; cambiamento, questo, che Secondo la Corte territoriale, non è avvenuto nel caso di specie.

Non solo. Anche il richiamo operato dal ricorrente ai principi sanciti in materia di assegno divorzile dalla recente giurisprudenza a Sezioni Unite (Cass. S.U. 18287/2018) sarebbe inconsistente, atteso che la presenza di un nuovo orientamento giurisprudenziale non può soddisfare il presupposto della sopravvenienza di “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9, L. 898/1970.

Avverso la pronuncia del gravame, viene proposto ricorso per Cassazione, contestando, fra gli altri motivi, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, L. 898/1970, in ragione del mutamento interpretativo dei criteri a presidio del riconoscimento dell’assegno divorzile.

In particolare, il ricorrente, per il tramite del proprio difensore, ha rilevato che, posto che l’ermeneutica riconduce il requisito dei “giustificati motivi” richiesto dall’art. 9 ai soli “fatti” nuovi sopravvenuti, materialmente intesi, una volta accertati i richiamati mutamenti fattuali, la valutazione sulla persistenza dell’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge e della sua entità non può prescindere anche da un’analisi del diritto alla luce dei criteri espressi dal più recente orientamento delle Sezioni Unite, che ne mutano la base di concessione e permanenza.

In buona sostanza, sebbene la pronuncia della Corte Territoriale si fondasse su un precedente del Supremo Collegio, secondo cui il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali attiene esclusivamente agli elementi di fatto – con la conseguenza che qualsiasi diversa interpretazione delle norme applicabili avallata dal diritto vivente giurisprudenziale sarebbe opzione esegetica non percorribile perché ricognitiva dell’esistenza e del contenuto di una “regola iuris”, e non creativa della stessa (Cass. S.U. 20 gennaio 2020, n. 1119) – non può ignorarsi che la funzione assistenziale e perequativa attribuita all’assegno divorzile incide inevitabilmente sulla considerazione e valutazione dei “fatti nuovi sopravvenuti”.

Esaminati i motivi in diritto e i propri precedenti giurisprudenziali, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso considerando il motivo fondato e assorbente, in quanto la pronuncia della Corte di Cassazione alla base della sentenza impugnata non è pertinente al caso di specie, essendo la situazione di fatto differente rispetto vista la sopravvenienza di nuove circostanze di fatto, idonee ad alterare l’equilibrio economico precedentemente esistente tra gli ex coniugi.

Detto altrimenti, a fronte della sopravvenienza di nuove circostanze fattuali in grado di alterare l’equilibrio economico-patrimoniale degli ex coniugi, la valutazione della domanda di revisione deve essere condotta alla stregua del “diritto vivente” al momento della decisione sulla domanda di revisione medesima: infatti, una volta che il giudice abbia concretamente accertato in fatto il sopravvenuto mutamento delle condizioni patrimoniali delle parti, è possibile procedere al giudizio di revisione dell’assegno divorzile da rendersi proprio alla luce dei rinnovati principi giurisprudenziali e alla stregua della funzione assistenziale e perequativa attribuita ermeneuticamente a detto assegno.

La Corte, dunque, da un lato, ribadisce la natura sia assistenziale che perequativo-conservativa dell’assegno divorzile – intesa come funzione equilibratrice tra il riconoscimento del ruolo e del contributo effettivamente fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio familiare –, e la sopravvenuta inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, accompagnata dall’impossibilità oggettiva di procurarseli ex se, e, dall’altro lato, ricorda che gli orientamenti del giudice delle leggi hanno carattere retroattivo, in forza della natura dichiarativa dei propri enunciati.

Dalle considerazioni che precedono deriva che, in relazione al caso di specie, i fatti alla base della nozione di “giustificati motivi”, di cui all’art. 9, comma 1, L. 898/1970, rilevano non in senso naturalistico, ma in virtù dell’evidenza giuridica delle norme implicate, secondo la lettura fornita dal diritto vivente nel momento in cui la decisione viene assunta. In altri termini, uno stesso fatto può rilevare diversamente in virtù del mutamento dell’orientamento nomofilattico della giurisprudenza di legittimità, con la conseguenza che una volta dato legittimamente ingresso alla valutazione dei fatti sopravvenuti, il giudice di merito dovrà uniformarsi alla diversa lettura interpretativa maturata nel tempo.

Di qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Corte Territoriale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 20 gennaio 2020, n. 1119
inammissibilità ricorso Cassazione

Inammissibilità ricorso Cassazione Il ricorso in Cassazione è inammissibile per diverse cause, alcune sancite dalla legge, altre dalla giurisprudenza

Definizione di inammissibilità

L’inammissibilità del ricorso in Cassazione richiede un chiarimento preventivo. Nel diritto processuale un atto è inammissibile quando non presenta i requisiti richiesti dalla legge. Tale vizio è considerato così grave da impedire al giudice di prendere in esame la richiesta avanzata dalla parte. Traslando questo concetto al ricorso in Cassazione, esaminiamo le ipotesi più emblematiche in cui la legge e la giurisprudenza sanciscono l’inammissibilità del ricorso in Cassazione.

Inammissibilità del ricorso in Cassazione: art. 360 bis c.p.c.

La prima norma che si occupa della inammissibilità del ricorso in Cassazione è l’articolo 360 bis c.p.c. Esso dispone, nello specifico, che il ricorso in Cassazione è inammissibile in due distinte ipotesi:

  • quando il provvedimento che viene impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo del tutto conforme all’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione e dall’esame dei motivi non emergono elementi che possano condurre alla conferma o al mutamento di detto orientamento;
  • quando la censura sollevata dal ricorrente relativa alla violazione dei principi che regolano il giusto processo risulta manifestamente infondata.

La norma, introdotta nel 2009, consente di effettuare una selezione rigorosa dei ricorsi con lo scopo di ridurre il carico di lavoro della Corte di Cassazione.

Sottoscrizione del difensore e procura speciale

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata espressamente dall’art. 365 c.p.c La norma richiede infatti che il ricorso diretto alla Corte di Cassazione sia sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un difensore iscritto nell’apposito albo degli avvocati Cassazionisti e che lo stesso sia munito di procura speciale che può avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata (art. 83 c.p.c).

Inammissibilità del ricorso per ragioni di contenuto

Un’altra causa di inammissibilità del ricorso in Cassazione è contemplata dall’art. 366 c.p.c che si occupa del contenuto di questo atto. La norma dispone infatti che il ricorso, a pena di inammissibilità, debba contenere i seguenti dati:

  • l’indicazione delle parti della controversia;
  • l’indicazione della sentenza oggetto del ricorso in Cassazione;
  • l’esposizione chiara dei fatti di causa che risultano essenziali per l’illustrazione dei motivi del ricorso;
  • l’esposizione chiara e sintetica dei motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza e l’indicazione delle norme sulle quali detti motivi si fondano;
  • l’indicazione della procura, se la stessa è stata conferita con un atto separato e del decreto con cui il ricorrente è stato ammesso al patrocinio gratuito;
  • l’indicazione specifica, per ogni motivo, degli atti del processo, dei documenti e dei contratti collettivi sui quali il motivo sollevato si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante di questi atti, documenti e contratti.

La necessità di produrre i documenti indicati dall’art. 366 c.p.c (anche in un momento successivo rispetto al ricorso) a pena di inammissibilità, è ribadita dall’art. 372 c.p.c. Questa norma precisa infatti che: “1. Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. 2. Il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, fino a quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio”. 

Cause giurisprudenziali di inammissibilità del ricorso in Cassazione

A queste cause di inammissibilità del ricorso in Cassazione se ne aggiungono di ulteriori, alcune delle quali precisate direttamente dalla Corte Suprema di legittimità. Vediamone alcune tra le più recenti.

Cassazione n. 3018/2024

L’inammissibilità del ricorso, spedito per la notificazione a mezzo posta, senza che risulti versato in atti l’avviso di ricevimento del piego raccomandato. Costituisce, invero, principio consolidato che << la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedito per la notificazione a mezzo del servizio postale è richiesta dalla legge in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio. In caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento ed in assenza di attività difensiva dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito (v. tra le altre, Cass. n.18361 del 2018).

Cassazione n. 3403/2024

E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U. n. Corte di Cassazione – copia non ufficiale 10 di 13 34476/2019; Cass. n. 29404/2017; Cass. n. 19547/2017; Cass. n.8758/2017; Cass. n. 16056/2016; Cass. n. 5987/2021).

Cassazione n. 4300/2023

Il ricorso è palesemente inammissibile per violazione dell’art. 366, cod. proc. civ., sotto il duplice profilo della mancanza di una sintetica esposizione del fatto processuale  (…)  la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; e per altro verso inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto ovvero anche quello di cui non occorre sia informata, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso.

doppia conforme

Doppia conforme e limiti al ricorso in Cassazione  Si ha doppia conforme quando la sentenza di secondo grado conferma per intero quella di primo grado, comportando limiti al ricorso per Cassazione

Doppia conforme: definizione

Il termine doppia conforme descrive l’ipotesi in cui le sentenze di primo e di secondo grado contengano in sostanza le stesse valutazioni dei fatti. La doppia conforme assume un rilievo particolare quando si vuole presentare un ricorso in sede di legittimità. Vediamo di comprenderne le ragioni.

Eliminato il filtro in appello

Dal punto di vista disciplinare la riforma Cartabia, eliminato il filtro di inammissibilità in sede di appello previsto dall’abrogato art. 348 ter c.p.c, ha però conservato le disposizioni contenute negli ultimi due commi di questa norma, spostandone il contenuto all’interno dell’art. 360 c.p.c, che precisa quali sono le sentenze e i motivi per i quali le stesse sono impugnabili in Cassazione.

Post riforma la norma di riferimento che si occupa della doppia conforme è pertanto l’art. 360 c.p.c.

Doppia conforme e motivi di impugnazione

Della doppia conforme in caso di ricorso in Cassazione si occupa, nello specifico, il comma 4 del suddetto articolo 360 c.p.c.

La disposizione, nello specifico, dispone che: “Quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui al primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4). Tale disposizione non si applica relativamente alle cause di cui all’articolo 70, primo comma”.

Dalla lettera della norma emerge che, se la sentenza di appello che la parte decide di impugnare in sede di Cassazione conferma la sentenza di primo grado per ragioni che si riferiscono agli stessi fatti (doppia conforme), l’impugnazione di legittimità può riguardare solo i seguenti motivi (1,2,3,e 4 comma 1 art. 360 c.p.c), fatta accezione per le cause in cui è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero:

  1. motivi di giurisdizione;
  2. violazione di norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  3. violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di contratti e di accordi collettivi nazionali di lavoro;
  4. nullità della sentenza o del procedimento.

Nel comma 5 appena analizzato il legislatore della riforma ha voluto specificare il riferimento alle “medesime ragioni inerenti i medesimi fatti” per descrivere in dettaglio le caratteristiche della “doppia conforme”, limitando i casi di inammissibilità del ricorso proposto al motivo indicato al n. 5) ai soli casi in cui la sentenza di secondo grado confermi per intero la pronuncia del grado di giudizio precedente.

L’esclusione del motivo di impugnazione in Cassazione indicato al n. 5, che riguarda “l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” è evidente. In presenza di una doppia conforme, ossia di due pronunce emesse in due diversi gradi di giudizio che concordano pienamente sull’analisi e sulla valutazione degli elementi probatori” la Cassazione non può, proprio perché giudice delle leggi, invalidarne le conclusioni fornendo prospettive nuove e alternative rispetto a quelle dei giudici di merito.

nullità notifica decreto ingiuntivo

Nullità della notifica del decreto ingiuntivo La nullità della notifica del decreto ingiuntivo va fatta valere in sede di opposizione al decreto. Differenze tra nullità e inesistenza della notifica

Il termine per la notifica del decreto ingiuntivo

Il decreto ingiuntivo emesso dal giudice ai sensi dell’art. 641 c.p.c. dev’essere notificato unitamente al ricorso (entrambi gli atti in forma di copia autentica) al debitore entro il termine di sessanta giorni a pena di inefficacia dello stesso (art. 644 c.p.c.).

L’eventuale nullità della notifica del decreto ingiuntivo può essere fatta valere dal debitore con l’opposizione al decreto ex art. 645 c.p.c. o con l’opposizione tardiva di cui all’art. 650, fornendo la dimostrazione che non si è avuta la tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo in conseguenza della nullità della notifica.

Inesistenza e nullità della notifica del decreto ingiuntivo

È importante distinguere tra nullità della notifica del decreto ingiuntivo e inesistenza della stessa. Solo in quest’ultimo caso, infatti, il destinatario dell’atto può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto stesso.

In particolare, l’inesistenza della notifica si ha quando il vizio della notifica sia talmente grave da privarla dei suoi caratteri essenziali (ad esempio, quando sia compiuta da soggetto non legittimato, oppure in caso di mancanza totale della notifica), mentre in tutti gli altri casi (ad esempio, consegna in un luogo diverso da quelli individuati dalla legge, ma comunque ricollegabile alla persona del destinatario) si deve parlare di nullità.

Solo in caso di inesistenza della notifica il soggetto interessato può agire per far dichiarare l’inefficacia del decreto, ex art. 188 disp. att. c.p.c. In caso contrario, la nullità dev’essere fatta valere solo in sede di opposizione.

Infatti, le cause di nullità della notifica integrano ipotesi in cui l’attività posta in essere dal creditore, pur irregolare, vale come manifestazione dell’intenzione di quest’ultimo di far valere il decreto ingiuntivo precedentemente ottenuto dal giudice, a differenza di quanto succede in caso di inesistenza della notifica.

Nullità della notifica ed effetto sanante della costituzione

Altro aspetto da evidenziare è che la nullità della notifica del decreto ingiuntivo non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione o di opposizione agli atti esecutivi (di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c.), potendo essere rilevata solo davanti al giudice competente per l’opposizione a decreto ingiuntivo ex art. 645 o per l’opposizione tardiva ex art. 650.

In tal senso, la Corte di Cassazione ha rilevato che la nullità della notificazione del decreto ingiuntivo non determina in sé l’inesistenza del titolo esecutivo e, pertanto, non può essere dedotta mediante opposizione a precetto o all’esecuzione, “con la conseguenza che, qualora l’ingiunto, opponente tardivo, non abbia, con l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 650 c.p.c., dedotto altre ragioni ulteriori rispetto a quelle della nullità della notificazione, quest’ultima risulta sanata per effetto dell’opposizione stessa” (v. Cass., sez. VI Civ., ord. n. 29729/19).

riforma Cartabia processo civile

Riforma Cartabia processo civile La riforma Cartabia del processo civile e i correttivi in fase di approvazione per rendere la procedura ancora più efficiente 

Riforma Cartabia e correttivi

La riforma Cartabia del processo civile è stata attuata con il decreto legislativo n. 149 del 2022. La legge di bilancio 2023 n. 127/2022 ha anticipato l’entrata in vigore di molte disposizioni della riforma, che ha modificato in modo organico il processo civile.

A meno di un anno dalla sua entrata in vigore, il Ministro della Giustizia Nordio ha già presentato una serie di correttivi alla Riforma Cartabia per velocizzare e alleggerire la procedura, soprattutto attraverso una maggiore digitalizzazione.

In attesa dell’approvazione definitiva dei correttivi, ricordiamo in breve le principali modifiche apportate dalla Cartabia al codice di procedura civile.

Modifiche alle disposizioni generali

Ampliata la competenza per valore del Giudice di Pace, che è stata innalzata a 10.000,00 euro per le cause relative a beni mobili e a 25.000,00 euro per le cause risarcitorie che riguardano i danni prodotto dalla circolazione stradale.

Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione ora può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, mentre il difetto del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o di altri giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei gradi di impugnazione il difetto può essere rilevato solo se oggetto di un motivo specifico. L’attore però non può impugnare la sentenza per denunciare la giurisdizione del giudice a cui si è rivolto.

In presenza di cause connesse relative a cause accessorie, di garanzia, accertamento incidentale o eccezione di compensazione, se una di esse è soggetta al rito semplificato di cognizione e l’altra a un rito speciale, le cause devono essere trattate con il rito semplificato di cognizione.

Cambiano le regole del regolamento di competenza. Chi propone l’istanza deve depositare il ricorso e i documenti a corredo della stessa nel termine perentorio di 20 giorni, che decorre dalla data dell’ultima notificazione alle parti. I processi nel cui ambito viene richiesto il regolamento di competenza sono sospesi dal giorno in cui la copia del ricorso notificato vene depositata davanti al giudice  innanzi al quale pende la causa o dal giorno in cui viene emessa l’ordinanza con cui il giudice chiede il regolamento di competenza.

Il Tribunale in composizione collegiale non decide più le cause indicate nei punti 5 e 6 dell’art. 50 bis c.p.c tra le quali figurano:

  • le impugnazioni alle delibere assembleari;
  • le cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione della legittima.

A causa delle imponenti modifiche che hanno investito la normativa dedicata alle persone e alla famiglia l’art. 78 c.p.c limita la nomina del curatore speciale ai soli casi in cui viene rilevata l’urgenza di avere una persona che assista o rappresenti un incapace, una persona giuridica o una associazione, in attesa che venga nominato il soggetto che ne assuma la rappresentanza o lo assista. La nomina del curatore è prevista inoltre se c’è conflitto di interessi tra rappresentato e rappresentante.

Chi si comporta male in giudizio, nei casi contemplati dall’art. 96 c.p.c (responsabilità aggravata), viene raggiunto anche da una sanzione pecuniaria che varia da un minimo di 500 a un massimo di 5.000 euro.

Aggiunto un nuovo comma all’art. 101 c.p.c, dedicato al principio del contraddittorio, che  prevede l’adozione di provvedimenti opportuni nel caso in cui il giudice rilevi una lesione del diritto di difesa.

Il nuovo art. 121 c.p.c, nel sancire la libertà della forme per gli atti per i quali la legge non prevede forme determinate, per tutti gli atti del processo sancisce il rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità.

Introdotta la possibilità di svolgere le udienze da remoto, mediante collegamenti audiovisivi, come previsto dal nuovo art. 127 bis c.p.c. e di sostituire l’udienza con il deposito di note scritte come prevede il nuovo art. 127 ter c.p.c.

Tante le novità che hanno investito le notifiche, con conseguente modifica degli articoli 137, 139, 147 e 149 bis c.p.c. Eliminate le comunicazioni a mezzo telefax, nessun limite orario per le notifiche a mezzo pec, che l’UG esegue ai destinatari obbligati di munirsi di un indirizzo di posta elettronica.

Le novità del processo di cognizione

La parte introduttiva del giudizio di cognizione cambia notevolmente. Modificato il contenuto dell’atto di citazione art. 163 c.p.c, modificati i termini per comparire art. 163 bis, le regole di costituzione dell’attore art. 165 c.p.c e del convenuto art. 166 c.p.c.

Le attività che le parti svolgevano a causa già iniziata con le memorie art. 183 c.p.c vengono ora anticipate all’interno delle memorie integrative art. 171 ter da produrre prima della prima udienza, la cui disciplina, contenuta nell’art. 183 c.p.c è stata completamente riformulata.

Eliminata l’udienza 184 c.p.c dedicata all’assunzione dei mezzi di prova, la riforma ha modificato anche l’art. 188 c.p.c. In base alla nuova formulazione di questa norma il giudice, una volta completata l’istruttoria, rimette le parti davanti al Collegio per la decisione, assegnando termini per note e comparse o dopo la discussione orale art. 275 bis c.p.c.

Cambiate le regole per la remissione della causa dal Collegio al Giudice monocratico e viceversa e introdotto il procedimento semplificato di cognizione per le cause “pronte”per la decisione.

Cambiato anche il procedimento davanti al giudice di Pace, che viene avviato con ricorso e al quale si applicano, in quanto compatibili, le stesse norme del procedimento semplificato di cognizione.

Il giudizio di appello è stato in gran parte riformato. Modificato l’art. 342 c.p.c sulla forma dell’atto di appello e l’art. 343 c.p.c sui modi e termini dell’appello incidentale, che deve essere proposto a pena di decadenza almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata dall’appellante. Cambiate le regole sulla improcedibilità dell’appello, che ora viene dichiarata con sentenza. Completamente riformato l’art. 348 bis c.p.c sulla inammissibilità e manifesta infondatezza dell’appello. Torna il giudice istruttore in appello se il procedimento si svolge davanti alla Corte, cambia la trattazione in appello e anche la fase decisionale, che avviene alternativamente in base alle regole dell’art. 350 bis c.p.c dopo la discussione orale o in base a quanto previsto dall’art. 352 c.p.c, che prevede la decisione dopo la concessione di termini per note e comparse.

Il giudizio davanti alla Cassazione viene rinnovato attraverso la previsione di nuovi casi di ricorso e del nuovo rinvio pregiudiziale per la risoluzione di questioni di diritto. Cambiato anche il contenuto del ricorso e i termini di deposito del controricorso e del ricorso incidentale. Distribuiti diversamente anche i casi in cui la Cassazione può pronunciarsi in udienza pubblica o in camera di consiglio.

Il processo esecutivo è stato rinnovato con l’eliminazione della formula esecutiva da apporre sul titolo, sostituita dalla copia attestata conforme all’originale. Riformata la norma sul pignoramento in generale e l’art. 492 bis c.p.c sulla ricerca telematica dei beni da  pignorare. Introdotto ex novo l’art. 568 bis c.p.c che consente al debitore di procedere alla vendita diretta dell’immobile pignorato alle condizioni stabilite dall’art. 569 bis c.p.c.

proprietà fiduciaria

Proprietà fiduciaria Nella proprietà fiduciaria un soggetto trasferisce la titolarità di un bene ad un altro soggetto, con il vincolo di usarlo per soddisfare l’interesse di un beneficiario

La proprietà fiduciaria nel nostro ordinamento

Con la locuzione “proprietà fiduciaria” si suole indicare una particolare configurazione del diritto di proprietà, che postula l’intestazione di un bene in capo a una persona con il vincolo di utilizzarlo per la soddisfazione di un particolare interesse a favore di un altro soggetto, detto beneficiario.

Solitamente, l’istituto che meglio rappresenta lo schema della proprietà fiduciaria è il trust, figura di origine anglosassone, che si sostanzia in un negozio giuridico unilaterale con cui il disponente trasferisce un bene a una persona di fiducia, il trustee, che ha l’obbligo di amministrarlo con lo scopo di favorire in un determinato modo il beneficiario.

Solo negli ultimi decenni la figura del trust, e più in generale il concetto di proprietà fiduciaria, si è fatto largo nell’ordinamento italiano, vincendo soprattutto le riserve di chi vi scorge – con fondati timori – soprattutto un modo per eludere i diritti dei creditori.

Uno dei principali tratti distintivi della proprietà fiduciaria è infatti quello di costituire un patrimonio separato da quello del suo intestatario, quindi non aggredibile dai creditori.

Il trust e l’art. 2645-ter del codice civile

L’art. 2645-ter del codice civile, introdotto nel 2005, disciplina nel nostro ordinamento i c.d. patrimoni di destinazione, caratterizzati dall’amministrazione di fiducia di un bene operata dal soggetto a cui tale bene viene intestato.

In particolare, tale articolo, rubricato “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (…)”, riguarda gli atti pubblici con cui beni immobili o mobili registrati vengono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

Con riferimento a tali beni, è possibile operare una trascrizione nei pubblici registri al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione.

È inoltre previsto che, per la realizzazione di tali interessi può agire in giudizio, oltre al disponente, qualsiasi interessato, anche durante la vita del disponente stesso.

Proprietà fiduciaria e contratto fiduciario: differenze

Le caratteristiche appena descritte, proprie dei patrimoni di destinazione, valgono a distinguere la proprietà fiduciaria dal contratto fiduciario.

Quest’ultimo, infatti, non integra una particolare configurazione di un diritto reale, ma individua un normale negozio giuridico; ed infatti, in tal caso, legittimato ad agire per la soddisfazione dell’interesse del beneficiario è solo il disponente/contraente, e non qualsiasi interessato.

Inoltre, la trascrizione del vincolo di destinazione prevista nelle ipotesi di proprietà fiduciaria fa sì che il vincolo di destinazione “segua” il bene in ogni caso di trasferimento della proprietà di quest’ultimo e sia, pertanto, opponibile agli aventi causa del fiduciario.

Nel caso di negozio fiduciario, invece, agli aventi causa del fiduciante che abbia venduto contravvenendo al contratto, quest’ultimo non può essere opposto, ferma restando la possibilità per il disponente di ottenere il risarcimento del danno dal fiduciario.

Trascrizione del vincolo e tutela dei creditori

Infine, rileva la norma posta dall’ultimo periodo dell’articolo 2645-ter c.c., in base alla quale i beni conferiti dal disponente e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione solo per debiti contratti per tale scopo.

Ciò, comunque, a condizione che, se si tratta di beni immobili o mobili registrati, la trascrizione dell’atto che comporta il vincolo di indisponibilità sia stata trascritta prima del pignoramento, come stabilito dall’art. 2915 c.c., primo comma. È evidente la finalità che ha tale norma di evitare che il patrimonio destinato sia istituito con lo scopo di sottrarre dei beni del disponente all’aggredibilità da parte dei creditori (v. art. 2740 c.c.: “il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”).

mediatore immobiliare

Mediatore immobiliare non iscritto L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria e, in caso di reiterazione, può portare a sanzioni penali

Esercizio abusivo dell’attività di mediatore

L’esercizio abusivo dell’attività di mediatore è punito dalla legge con una consistente sanzione amministrativa pecuniaria, e in caso di reiterazione della violazione, può portare all’applicazione di sanzioni di carattere penale, come vedremo in questa breve guida.

Come noto, l’attività del mediatore consiste nel mettere in contatto due parti affinché queste concludano un affare. La figura del mediatore è disciplinata dalla legge, in particolare, per quanto riguarda i requisiti che il soggetto che voglia svolgere tale attività deve possedere e gli adempimenti che portano all’iscrizione nei registri tenuti dalle Camere di Commercio (CCIAA).

Il mediatore immobiliare non iscritto in tali registri è passibile delle sanzioni cui si accennava più sopra, e che adesso analizzeremo più nel dettaglio.

Mediatore immobiliare requisiti e iscrizione alle CCIAA

In base all’art. 2 della legge n. 39 del 1989, per svolgere l’attività di mediatore occorre possedere una serie di requisiti, attinenti in particolare al possesso del diploma, alla formazione professionale e all’assenza di cause ostative quali il fallimento o la condanna per alcuni determinati reati.

In origine, il possesso di tali requisiti era il presupposto per l’iscrizione nel ruolo dei mediatori (più precisamente, “degli agenti di affari in mediazione”) tenuto dalle CCIAA. Oggi tale ruolo è stato soppresso, per espressa disposizione del d.lgs. 59 del 2010.

Tale decreto dispone, attualmente, che l’attività di mediatore può esercitarsi a seguito di presentazione alla Camera di Commercio competente di una semplice segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), accompagnata da apposita certificazione (o autocertificazione) che dimostri il possesso dei requisiti sopra citati.

Questi ultimi danno diritto, oggi, all’iscrizione del mediatore nel registro delle imprese, se l’attività è svolta in forma di impresa, oppure nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA), se si tratta di persona fisica. In entrambi casi, l’iscrizione è subordinata al controllo sui requisiti da parte della CCIAA.

Le sanzioni per il mediatore immobiliare non iscritto

Alle Camere di Commercio è demandata la vigilanza sull’attività dei mediatori, con potere di erogare sanzioni disciplinari in caso di violazione degli obblighi e doveri connessi con l’esercizio di tale attività.

Inoltre, la Camera di Commercio ha il potere di punire l’esercizio abusivo dell’attività posta in essere dal mediatore immobiliare non iscritto nei registri, irrogando il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal primo comma dell’art. 8 della legge n. 39/1989 sopra citata, sanzione che consiste nel pagamento di una somma da € 7.500 a € 15.000.

Inoltre, il mediatore immobiliare abusivo non ha diritto ad alcuna provvigione: pertanto, egli è tenuto alla restituzione in favore delle parti della provvigione eventualmente già percepita.

Ma le conseguenze per l’esercizio abusivo della mediazione non finiscono qui, perché, come anticipato, vi possono essere anche delle sanzioni di carattere penale.

Infatti, in caso di reiterazione della condotta di mediazione abusiva, e quindi dopo la seconda sanzione amministrativa erogata dalla Camera di Commercio, quest’ultima è tenuta ad inoltrare apposita denuncia all’ Autorità Giudiziaria competente, per consentire l’applicazione della relativa sanzione penale.

Il secondo comma dell’art. 8 della l. 39/1989, infatti, prevede che, in tal caso, si applicano le sanzioni previste dall’articolo 348 del codice penale e dall’articolo 2231 del codice civile.

Tali norme prevedono, rispettivamente, quanto segue: l’art. 348 c.p. punisce l’esercizio abusivo di una professione con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

L’art. 2231 c.c., invece, sanziona sul piano civilistico l’esercizio di un’attività professionale in mancanza d’iscrizione, prevedendo che la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà il diritto di agire in giudizio per ottenere il pagamento del compenso.

usucapione buona fede

Usucapione e buona fede Per aversi usucapione la buona fede è richiesta solo nelle c.d. forme speciali, mentre l’usucapione ordinaria esige solo il possesso e il decorso di un certo periodo di tempo

L’usucapione come modo di acquisto della proprietà

L’usucapione è un particolare modo di acquisto della proprietà a titolo originario (cioè, indipendente dal diritto del precedente titolare), che, nella sua configurazione ordinaria, ha come elementi costitutivi il possesso e il decorso di un determinato periodo di tempo.

Il codice civile individua anche altre ipotesi di usucapione, cosiddette abbreviate o speciali, che esigono la sussistenza di due ulteriori elementi: la buona fede del possessore e l’esistenza di un titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà.

Perché si verifichi l’usucapione la buona fede non è pertanto sempre indispensabile. In questa breve guida proponiamo un esame delle varie ipotesi in cui il possesso di un bene, unitamente ad altri elementi, determina l’acquisto della proprietà.

Usucapione di buona fede e ordinaria

La principale ipotesi ordinaria di usucapione è quella prevista dall’art. 1158 c.c., secondo cui la proprietà su beni immobili si acquista con il possesso ventennale del bene. Come si vede, in questo caso la buona fede non è un elemento richiesto perché si verifichi l’acquisto della proprietà.

Sempre riguardo ai beni immobili, l’art. 1159 c.c. descrive le condizioni per l’usucapione abbreviata. Rimane indispensabile il possesso del bene, ma i termini sono abbreviati a dieci anni, se sussistono anche i seguenti ulteriori elementi: l’acquisto in buona fede da un soggetto diverso dal proprietario, in forza di un titolo idoneo a trasferire la proprietà che sia stato trascritto nei registri immobiliari.

La trascrizione, diversamente da quanto accade di solito, ha in questo caso valenza costitutiva ai fini dell’esistenza del diritto: i dieci anni necessari all’usucapione di buona fede iniziano a decorrere, infatti, proprio dalla trascrizione del titolo.

L’usucapione di beni mobili

Sotto diversi aspetti, l’usucapione di buona fede ha molti punti in comune con la disciplina prevista dall’art. 1153 con riferimento ai beni mobili, con la differenza che in quest’ultimo caso per l’acquisto a non domino non è richiesto il decorso di un certo periodo di tempo (in ciò si integra la c.d. regola “possesso vale titolo”, che non vale per i beni immobili, universalità di mobili e mobili registrati, per i quali è prevista solo l’usucapione).

Ancora diversa è l’usucapione di beni mobili, disciplinata dall’art. 1161 c.c., secondo cui, anche quando manchi un titolo idoneo a trasferire la proprietà, il possesso del bene può comportare l’acquisto della proprietà se fu acquistato in buona fede e sia continuato per dieci anni.

In mancanza di buona fede al momento dell’acquisto del possesso, l’usucapione del bene mobile si acquista con il possesso continuato per venti anni.

Giova ricordare che, per aversi buona fede, è necessario che l’accipiente ignori che il bene non appartiene al soggetto da cui ha (rectius: suppone di aver) acquistato il bene.

Altri casi di usucapione con buona fede

Analoga distinzione tra usucapione ordinaria e usucapione di buona fede è individuata dall’art. 1159-bis con riferimento ai fondi rustici con annessi fabbricati (in tal caso il periodo di tempo richiesto è, rispettivamente, di quindici e di cinque anni).

L’usucapione di universalità di mobili si compie parimenti in venti anni, mentre in via abbreviata sono sufficienti dieci anni se c’è buona fede (art. 1160; in tali casi, come noto, non è prevista la trascrizione del titolo).

L’art. 1162, infine, disciplina l’acquisto per usucapione dei beni mobili registrati (navi, automobili, etc.), che si compie in soli tre anni dalla trascrizione del titolo, se vi è buona fede, altrimenti in dieci anni se sussiste il solo possesso ma manca il titolo o la buona fede.