Erede e prova della simulazione La Cassazione chiarisce che affinché l’erede possa provare la simulazione per testi o per presunzioni, presupposto necessario è l’avvenuta lesione della propria quota di legittima

Prova per presunzione della simulazione

Nel caso di specie, l’erede, all’esito dei giudizi di merito, aveva adito la Corte di Cassazione, dolendosi, tra i diversi motivi d’impugnazione, della violazione degli artt. 342, 346, 359 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.

Nella vicenda, il ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello aveva errato nel dichiarare inammissibile la richiesta di ammissione delle prove orali richieste dall’erede.

In ordine all’ammissibilità della prova per interrogatorio, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15043-2024, ha accolto il suddetto motivo di ricorso e ha cassato la sentenza in relazione allo stesso, rinviando la causa alla Corte d’appello di L’Aquila.

Sul punto, la S.C. ha anzitutto precisato che, anche conformemente alla giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, l’erede-legittimario può provare la simulazione anche per testimoni o presunzioni, purché la domanda sia stata proposta sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima.

Erede: prova della simulazione per testi o presunzioni

In questi termini, l’erede, affinché possa provare la simulazione per testi o per presunzioni ai sensi dell’articolo 1417 del c.c., senza soggiacere ai limiti fissati dagli articoli 2721 e 2729 del Codice civile, deve essere individuato come legittimario e deve aver subito una lesione della propria quota di legittima,.

La Suprema Corte ha precisato che il legittimario, al ricorrere delle condizioni sopra rappresentate, deve essere considerato terzo e come tale è ammesso a provare la simulazione di una vendita fatta dal “de cuius” per testimoni e presunzioni, purché, come detto, tale simulazione sia fatta valere per un’esigenza strumentale alla tutela della quota di riserva.

Il Giudice di merito ha pertanto errato, ha riferito la Corte, a non attribuire all’erede la veste di terzo, negando di conseguenza l’ammissibilità della prova anche per presunzione con riferimento alla simulazione relativa compiuta dal defunto.

Legittimario e ammissione prova della simulazione

In definitiva, la Corte ha affermato che il Giudice di merito in sede di rinvio dovrà conformarsi al principio secondo cui “il legittimario è ammesso a provare la simulazione di una vendita anche fatta dal de cuius nella veste di terzo, senza soggiacere ai limiti fissati dagli articoli 2721 e 2729 del Codice civile, a condizione che la simulazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia. In questo senso il legittimario deve essere considerato terzo anche quando l’accertamento della simulazione sia preordinato solamente all’inclusione del bene, oggetto della donazione dissimulata, nella massa di calcolo della legittima, in conformità a quanto dispone l’art. 553 c.c.”.

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Clausole esonero spese condominiali Quando possono considerarsi vessatorie le clausole del costruttore di esonero dalle spese condominiali?

Quesito con risposta a cura di Danilo Dimatteo, Elisa Succu, Teresa Raimo

 

La clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita dell’unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi dell’ art. 33, comma 1, D.Lgs. 206/2005, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente. Al contrario, resta di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano. – Cass. II, ord. 21 giugno 2022, n. 20007.

Il contratto che intercorre tra il professionista costruttore del fabbricato e il consumatore acquirente di una delle unità immobiliari in esso compreso è, di regola, una compravendita. Dal contratto di compravendita di una unità immobiliare compresa in un edificio condominiale non discende, quindi, all’evidenza, un obbligo per il venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano; tale obbligo discende, piuttosto, dagli artt. 1118 e 1123 c.c. e può essere oggetto, tuttavia, di “diversa convenzione” ai sensi del comma 1 dell’art. 1123 c.c. Infatti, in base agli artt. 1118, comma 1, e 1123 c.c. posso essere derogati da una convenzione stipulata tra tutti i condomini, come anche da una deliberazione presa dagli stessi con l’unanimità dei consensi dei partecipanti. L’autonomia negoziale può anche prevedere l’esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall’obbligo di partecipare alle spese condominiali.

Secondo la decisione in esame, diversamente da quanto riferito nella pronuncia impugnata, l’esonero dei condòmini dagli obblighi collegati alla contitolarità del diritto di proprietà sulle cose comuni, eventualmente inserita nel contenuto contrattuale del regolamento condominiale, costituisce vicenda negoziale autonoma e distinta rispetto al contratto di vendita dell’unità immobiliare intercorsa tra costruttore proprietario originario e singolo condomino acquirente, seppure tale “diversa convenzione” ex art. 1123 c.c. sia oggetto di espresso richiamo nei titoli di compravendita di ciascun appartamento dell’edificio comune. Quindi, affinché una clausola della convenzione sulle spese condominiali sia valutata ai fini dell’art. 33 del Codice del Consumo occorre, allora, che la stessa provochi un significativo squilibrio (non ex se negli obblighi di contribuzione derivanti dagli artt. 1118 e 1123 c.c., ma) dei diritti e degli obblighi derivanti, ai sensi degli artt. 1476 e 1498 c.c., dal contratto di compravendita concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente.

Al riguardo, secondo la Suprema Corte, occorre procedere a un accertamento della vessatorietà della “clausola”, la quale esonera la costruttrice dal pagamento delle spese condominiali, valutando non lo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal regolamento di Condominio, il quale non è un contratto di consumo, quanto lo squilibrio dell’intero rapporto contrattuale sinallagmatico e dunque della complessiva operazione economica intercorsi tra il singolo acquirente consumatore e il professionista venditore. L’eventuale accertamento della vessatorietà della clausola nell’ambito del rapporto di consumo “a vantaggio del consumatore” ripercuoterà la sua incidenza sulla validità della adesione alla convenzione ex art. 1123, comma 1, c.c.

Alla luce di tali premesse, la pronuncia conclude affermando il principio di diritto anticipato supra nella risposta.

notifica telematica riforma cartabia

La notifica telematica dopo la Riforma Cartabia Il ruolo dell’avvocato nell’attività di notifica telematica degli atti dopo la Riforma Cartabia. L’obbligo di notifica via PEC e il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario

L’obbligo di notifica telematica dopo la Riforma Cartabia

La notifica telematica degli atti giudiziari e stragiudiziali è una modalità di notifica introdotta negli ultimi anni, di pari passo con lo sviluppo del c.d. processo telematico, fino a divenire, con le novità normative introdotte dalla Riforma Cartabia, la principale modalità di notifica degli atti, a scapito delle modalità più tradizionali quali la consegna a mano e la spedizione via posta cartacea.

Particolarmente significativa è l’innovazione normativa in tema di notifica relativa all’aspetto soggettivo: come vedremo tra breve, l’art. 137 c.p.c. individua nella figura dell’avvocato il soggetto principalmente deputato all’attività di notifica, mentre ha perso la sua centralità, a questo riguardo, l’ufficiale giudiziario.

L’avvocato e la notifica a mezzo PEC

Iniziamo col ricordare in cosa consiste la notifica di un atto giudiziario: è quell’attività con la quale si intende portare a conoscenza del destinatario l’atto, con modalità prescritte dalla legge, che, una volta osservate, comportano la c.d. conoscenza legale dell’atto (che è cosa diversa dalla conoscenza effettiva: una volta eseguita la notificazione nei termini prescritti dalla legge, l’atto si intende conosciuto dal destinatario).

Orbene, la legge n. 221 del 2012 ha modificato l’art. 3-bis della l. n. 53 del 1994, prevedendo che anche gli avvocati potessero procedere alla notifica degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, utilizzando la posta elettronica certificata.

Con la recente Riforma Cartabia, attuata con il d.lgs. n. 149 del 2022, si è andati ancora oltre, arrivando, come si diceva, a rendere centrale la figura dell’avvocato nel procedimento di notifica e relegando la notifica tramite ufficiale giudiziario ad evento residuale.

I rapporti tra avvocato e ufficiale giudiziario nell’attività di notifica ex art. 137 c.p.c.

Il nuovo secondo comma dell’art. 137 c.p.c., infatti, affianca espressamente l’avvocato all’ufficiale giudiziario tra i soggetti che eseguono la notificazione.

Ma la vera novità è rappresentata dall’aggiunta degli ultimi due commi. Il sesto pone l’accento sulla figura dell’avvocato, disponendo che questi esegue le notificazioni nei casi e con le modalità previste dalla legge (vedi paragrafo seguente).

Il settimo ed ultimo comma sancisce, invece, il ruolo residuale dell’ufficiale giudiziario, il quale esegue la notificazione su richiesta dell’avvocato, qualora questi non abbia l’obbligo di eseguirla a mezzo PEC o con altra modalità prevista dalla legge, o quando, sussistendo tale obbligo, l’avvocato non dichiari che la notificazione con tali modalità non sia possibile.

Pertanto, il quadro attuale della notifica degli atti è il seguente: è l’avvocato a doverla eseguire, e di regola deve utilizzare la PEC. Quando ciò non sia possibile, l’avvocato può rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che provvederà alla consegna a mani o per posta cartacea.

Una precisazione importante è che, nel caso appena descritto, in cui l’avvocato si rivolga all’ufficiale giudiziario perché la notifica via PEC non è andata a buon fine, di tale circostanza deve essere dato atto nella relazione di notificazione (anche detta relata di notifica) dell’ufficiale giudiziario.

Va ricordato anche che, come stabilisce il terzo comma dell’art. 137, se l’atto da notificare è un documento informatico e il destinatario non possiede una casella PEC, l’ufficiale giudiziario consegna una copia cartacea dell’atto, dichiarandola conforme all’originale (viceversa, l’avvocato crea una copia informatica quando l’atto originale da notificare sia cartaceo, attestandone la conformità: v. art. 3-bis l. 53/94, secondo comma).

Le modalità di notifica telematica ex art. 3-bis legge 53/1994

Quanto alle modalità della notifica telematica, la norma cardine è rappresentata dall’art. 3-bis della legge n. 53 del 1994, in base al quale la notifica a mezzo PEC va effettuata necessariamente all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nei confronti dei soggetti (persone fisiche e giuridiche) che siano tenuti ad iscrivervi il proprio recapito telematico o che, pur non essendovi tenuti, abbiano scelto di effettuare tale iscrizione.

La notifica telematica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione, mentre per il destinatario si perfeziona quando viene generata la ricevuta di avvenuta consegna.

Quanto all’orario della notifica telematica, non vi sono limiti orari per effettuarla, ma è da precisare che l’invio della PEC dopo le ore 21 vale a individuare il perfezionamento della notifica per il destinatario alle ore 7 del giorno successivo.

nuovo processo cognizione

Nuovo processo di cognizione: va rispettato il contraddittorio La Corte Costituzionale si è pronunciata sul nuovo processo ordinario di cognizione introdotto dalla riforma Cartabia

Nuovo processo di cognizione e contraddittorio

Nel nuovo processo ordinario di cognizione, la previsione secondo cui il giudice decide con decreto in ordine alle verifiche preliminari, prima dell’udienza di comparizione, va inteprretata in modo che sia rispettato il principio del contraddittorio. E’ quanto ha affermato la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 96-2024, pronunciandosi sulle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 171-bis cod. proc. civ., introdotto dal d.lgs. n. 149 del 2022 (riforma Cartabia), che prevede, nell’ambito della nuova disciplina del processo ordinario di cognizione, l’emanazione di un decreto di fissazione dell’udienza da parte del giudice, prima del deposito delle memorie illustrative delle parti e della comparizione delle stesse; decreto con cui il giudice, prima dell’udienza stessa e senza sentire le parti, decide in ordine alle “verifiche preliminari”.

Non fondata la qlc

La Corte ha ritenuto, innanzi tutto, non fondata la denunciata violazione della legge di delega (art. 76 Cost.), considerando che le “verifiche preliminari” compiute dal giudice nella fase iniziale della controversia sono riconducibili alla finalità di realizzare la concentrazione processuale nell’ottica della ragionevole durata del processo.

La Consulta ha altresì escluso che vi sia una ingiustificata disciplina differenziata (art. 3 Cost.), nell’ambito delle questioni rilevabili d’ufficio con il decreto di fissazione dell’udienza, tra quelle che il giudice può decidere, già in tale decreto, e quelle che lo stesso giudice si limita a segnalare alle parti stesse affinché possano trattarle già nelle memorie di cui all’art. 171-ter cod. proc. civ.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 24 Cost. – prospettata sotto il profilo dell’attribuzione al giudice del potere di emanare provvedimenti fuori udienza e senza alcun contraddittorio preventivo con le parti – la Corte ha ritenuto non fondata la prospettata questione a condizione che si dia un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

L’importanza del contraddittorio

Ribadita la fondamentale importanza del contraddittorio «quale primaria e fondamentale garanzia del giusto processo» che «chiama in causa non solo la dialettica tra le parti nel corso del processo, ma riguarda anche la partecipazione attiva del giudice», il giudice delle leggi ha svolto una serie di considerazioni in chiave di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

Innanzitutto, il giudice, nell’esercizio del potere direttivo del processo demandato allo stesso in generale dall’art. 175 cod. proc. civ., può fissare un’udienza ad hoc qualora avverta l’esigenza di interloquire con le parti sui provvedimenti da assumere all’esito delle “verifiche preliminari”.

Parimenti, scrive la Corte, “ove il giudice ritenga di adottare direttamente il decreto, la parte che non condivide il provvedimento emesso può richiedere la fissazione di un’udienza per discuterne in contraddittorio, onde evitare una successiva regressione del procedimento. Una tale udienza, se fissata dal giudice, realizza il contraddittorio delle parti prima di quella di comparizione e trattazione della causa. In ogni caso – ha sottolineato la Corte – il decreto di cui all’art. 171-bis cod. proc. civ., senza la fissazione di un’udienza ad hoc, può essere oggetto di discussione all’udienza di comparizione alla presenza delle parti”.

All’esito di tale udienza, i provvedimenti assunti con decreto, una volta vagliate le ragioni delle parti, possono essere confermati, modificati o revocati con ordinanza del giudice.

La Corte ha ulteriormente puntualizzato che, se la parte aveva chiesto, senza esito, la fissazione di un’udienza per interloquire con il giudice sui provvedimenti emanati con il decreto di cui all’art. 171-bis cod. proc. civ., alcuna conseguenza processuale pregiudizievole (quale, in ipotesi, l’estinzione del processo) può essere posta a carico della stessa, ove essa non si sia conformata a tale provvedimento confidando nella possibilità di argomentare le proprie ragioni nel contraddittorio delle parti.

Può esserci, in tal caso, ha concluso la Consulta, un allungamento dei tempi del processo, ma l’esigenza di rapidità non può pregiudicare la completezza del sistema delle garanzie della difesa e comprimere oltre misura il contraddittorio tra le parti, atteso che «un processo non giusto, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata».

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Amministrazione di sostegno: il punto della Cassazione La Cassazione ripercorre disciplina e giurisprudenza sull'amministrazione di sostegno e indica i presupposti per la sua applicazione 

Amministrazione di sostegno: la vicenda

Un soggetto propone reclamo nei confronti del decreto del tribunale che, accogliendo le richieste dei fratelli, ha nominato in suo favore un amministratore di sostegno.

La Corte d’Appello accoglie il reclamo perché ritiene non convincente la consulenza psicologica espletata sul soggetto amministrato. Per l’autorità giudiziaria di secondo grado il reclamante ha la capacità di agire. I procedimenti giudiziari di natura civile e penale intrapresi dal reclamante per poter ottenere la liquidazione della sua quota ereditaria, non rappresentano un presupposto sufficiente per la nomina di un amministratore di sostegno. I fratelli, poco convinti della decisione, ricorrono in Cassazione.

Amministratore di sostegno per chi è incapace di gestire i propri interessi

Nel ricorso i fratelli espongono che da tempo sono in contrasto con l’amministrato perché le richieste sull’eredità paterna avanzate in sede civile e penale sono sproporzionate e controproducenti per lo stesso. Il fratello risulta avere infatti esposizioni debitorie con il fisco e con diversi professionisti tanto che lo stesso è esposto a diverse azioni esecutive che intaccano ancora di più le sue disponibilità economiche. Queste le ragioni per le quali hanno ritenuto necessario chiedere la nomina di un amministratore di sostegno. I fratelli contestano la decisione con la quale la Corte di Appello ha disposto la revoca della nomina dell’amministratore di sostegno perché è stata accertata un’infermità e una ridotta capacità di gestire i propri interessi. Denunciano l’inoltre l’omesso esame di fatti decisivi e controversi, che dimostrerebbero l’incapacità del fratello di tutelare la propria persona e i propri averi. I molteplici incarichi professionali conferiti, le successive revoche, le iniziative penali risultate infondate, le aspettative sproporzionate e irragionevoli sull’eredità e i debiti maturati nei confronti degli investigatori privati confermano la diagnosi del C.T.U relativa al deficit cognitivo del fratello.

Amministrazione di sostegno: analisi dell’istituto

Prima di giungere alla decisione finale la Cassazione (n. 14681-2024) ripercorre la legislazione e la giurisprudenza sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, esponendo quanto segue.

L’amministrazione di sostegno è un istituto che è stato introdotto dalla legge numero 6/2004 per tutelare i soggetti deboli e per offrire a chi si trova in una condizione di impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (a causa di una infermità o menomazione fisica non necessariamente di natura mentale), uno strumento di assistenza.

A differenza degli istituti della inabilitazione e della interdizione l’amministrazione di sostegno sacrifica in misura minima la capacità di agire del soggetto, conservandone la libertà decisionale e aiutandolo nel compimento delle attività quotidiane senza sostituire però la loro volontà.

L’amministrazione di sostegno infatti è un istituto che tutela e protegge il beneficiario, ma il suo contenuto è meno afflittivo rispetto all’interdizione. Il beneficiario, per quanto possibile, conserva la sua autonomia e la sua autodeterminazione.

L’istituto non è previsto per coloro che si trovano in una condizione di incapacità di intendere di volere, esso presuppone una condizione “attuale” di capacità menomata, che ponga il soggetto in una condizione di impossibilità di provvedere in modo autonomo, in tutto o in parte, ai propri interessi. L’amministrazione di sostegno non è applicabile ai soggetti che sono pienamente capaci di autodeterminarsi, anche se affetti da una menomazione fisica. L’applicazione dell’istituto comporterebbe infatti una limitazione ingiustificata della capacità di agire soprattutto per i soggetti   pienamente lucidi.

Il giudice di merito, nel valutare la nomina dell’amministratore di sostegno, deve tenere conto, in base ai criteri di proporzionalità e funzionalità, dei seguenti aspetti:

  • attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato;
  • gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno dell’interessato;
  • circostanze caratterizzanti la fattispecie per assicurare un supporto adeguato alle esigenze del beneficiario senza penalizzarlo.

I punti di forza dell’istituto sono rappresentati dal dinamismo e dalla flessibilità, tanto è vero che l’amministratore di sostegno ha il dovere di riferire periodicamente al giudice tutelare le attività di gestione del patrimonio svolte, ma anche il cambiamento eventuale delle condizioni di salute e di vita personale e sociale dell’amministrato. Il provvedimento che dispone la nomina dell’amministratore di sostegno pertanto è sempre suscettibile di modifiche e adeguamenti.

Come sancito dall’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite le caratteristiche dell’amministrazione di sostegno impongono che l’accertamento dei presupposti di legge venga compiuto in maniera specifica, circostanziata e focalizzata rispetto alle condizioni del beneficiario, accertabili anche mediante c.t.u, ma anche rispetto all’incidenza delle stesse sulla capacità del beneficiario di provvedere autonomamente ai propri interessi personali e patrimoniali. I poteri di gestione ordinaria dell’amministrazione di sostegno devono essere delineati e direttamente proporzionati ai suddetti elementi, di modo che risultino funzionali agli obiettivi specifici della tutela, comportando diversamente una limitazione ingiustificata della capacità di agire della persona. Ne consegue che, se il beneficiario affetto da disabilità fisica si opponga all’amministrazione, il giudice deve ne dovrà tenere conto e valutare altresì le soluzioni alternative proposte dallo stesso, se illustrate con specificità e concretezza.

Il decreto di nomina del giudice tutelare deve essere quindi specifico e individualizzato, deve indicare l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario e indicare quali sono gli atti che il beneficiario è in grado di compiere da solo.

Tra gli atti per i quali è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare, vi sono quelli di natura giudiziaria previsti dall’articolo 374 c.p.c (fatte salve alcune eccezioni) applicabile anche in caso di interdizione. Occorre chiarire però che l’amministrazione di sostegno si differenzia dall’interdizione perché non produce la perdita della capacità di agire del soggetto, che conserva la capacità di autodeterminarsi. Ai sensi dell’articolo 404 c.p.c infatti la persona sottoposta all’amministrazione di sostegno può essere assistita, ma l’amministratore di sostegno non ha un potere – dovere di sostituire il beneficiario.

Il giudice tutelare nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno deve dare delle indicazioni “sartoriali” che possono riguardare sia la salute del soggetto che l’amministrazione del patrimonio del beneficiario, nel rispetto della capacità di auto determinazione del destinatario.

Sul tema delle azioni giudiziarie intraprese da un soggetto ritenuto incapace di provvedere ai propri interessi e quindi bisognoso di un’amministrazione di sostegno, è stato precisato che l’istituto non impedisce al destinatario di promuovere personalmente un giudizio, a meno che tale potere non sia escluso espressamente dal decreto di nomina. Il decreto di nomina non può però contenere un’autorizzazione generale alla promozione di giudizi, l’amministratore di sostegno deve infatti richiedere l’autorizzazione specifica al giudice tutelare.

La decisione della Cassazione

Passando all’esame del caso di specie la Cassazione ritiene che la decisione della Corte d’Appello debba essere cassata. Le azioni intraprese dal beneficiario sono tali da porlo in effetti a rischio di indigenza. Le ravvisate carenze cliniche poste a fondamento della misura avrebbero dovuto condurre a un ulteriore o rinnovato approfondimento di natura tecnico scientifica. La Corte di appello inoltre non ha valutato adeguatamente le condotte del beneficiario. La affermata responsabilità dei professionisti a cui il soggetto si è rivolto spostano il focus del problema. Se la Corte d’Appello avesse considerato l’adeguatezza degli strumenti giudiziari utilizzati per perseguire l’obiettivo desiderato dal beneficiario il quadro di debolezza e di fragilità del beneficiario sarebbe stato ricostruito correttamente. La Corte d’Appello, in sede di rinvio, dovrà valutare l’opportunità di un’amministrazione di sostegno nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità e della situazione specifica del soggetto.

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Prescrizione azione di ripetizione per somme illegittimamente addebitate In caso di somme illegittimamente addebitate al cliente dalla banca, da quando decorre il dies a quo del termine di prescrizione per l’azione di ripetizione?

Quesito con risposta a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin

 

La ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Il dies a quo della prescrizione inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo. – Cass., sez. I, 26 febbraio 2024, n. 5064.

La pronuncia della Suprema Corte trae origine dall’iniziativa giudiziaria di una società nei confronti della banca presso la quale aveva acceso un rapporto di conto corrente fin dall’anno 1981. La correntista chiedeva la restituzione delle somme illegittimamente addebitate dall’istituto di credito a titolo di interessi anatocistici. La banca eccepiva la prescrizione in relazione agli addebiti aventi natura di rimesse solutorie effettuati sul conto in data anteriore al decennio dalla notifica della citazione. Il Tribunale rigettava l’eccezione della banca ritenendo che la stessa non avesse indicato le rimesse solutorie e accoglieva la domanda dell’attrice provvedendo alla rideterminazione del saldo in seguito ad una c.t.u. contabile.

La decisione veniva riformata dal giudice del gravame sul presupposto che incombesse sulla correntista produrre in giudizio tutti gli estratti conto a partire dalla data di apertura del contratto.

Secondo la Corte di Appello solo attraverso l’integrale ricostruzione dei rapporti di dare/avere tra le parti si sarebbe potuti pervenire alla determinazione dell’eventuale credito della correntista e alla quantificazione degli importi da espungere, non essendo sufficienti a tale fine gli estratti conto scalari in quanto rappresentativi dei soli conteggi degli interessi attivi e passivi, senza possibilità di individuare le operazioni alla base delle annotazioni degli interessi e dei movimenti effettuati nell’arco di tempo considerato.

La società ha così proposto ricorso in Cassazione lamentando in prima battuta l’erronea statuizione riguardo la ripartizione degli oneri probatori con riferimento all’eccezione di prescrizione considerando che l’onere probatorio di un fatto estintivo incombe sul soggetto che lo eccepisce.

Secondariamente si è censurata l’erronea valutazione dei fatti costituivi posti a fondamento della domanda, posto che la ragione della produzione degli estratti conto scalari con riferimento ad un limitato periodo di tempo del conto corrente dipendeva dalla domanda, limitata a quell’intervallo temporale, con esplicita rinuncia a qualsiasi contestazione quanto ai periodi per i quali non vi era documentazione contabile. Si aggiungeva, altresì, l’assenza di una motivazione per il mancato accoglimento delle risultanze espresse nella consulenza tecnica.

In ultimo, veniva contestata la natura migliorativa della capitalizzazione degli interessi introdotta dalla delibera del Cicr del 9 febbraio del 2000 rispetto alla clausola anatocistica precedentemente applicata.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, accogliendo il ricorso, ricorda preliminarmente come in tema di prescrizione estintiva, l’onere di allegazione gravante sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che sia necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte anteriore (così anche Cass., Sez. Un., 13 giugno 2019, n. 15895 – termine di prescrizione estintiva).

Tuttavia, ricorda la Corte che il principio opera solo sul versante dell’onere di allegazione ammettendo una simmetria, in quanto così come il correntista può limitarsi a indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione previa verifica del saldo del conto, anche la banca può a sua volta limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore per il tempo necessario alla prescrizione.

Ciò posto, il problema delle rimesse solutorie si sposta sul piano dell’onere probatorio per cui all’allegazione consegue la prova della parte su cui, per legge, incombe il relativo onere, anche facendo luogo a una c.t.u., cosicché le relative risultanze probatorie vengano valutate dal giudice.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva disatteso le risultanze della consulenza tecnica sul presupposto di una non idonea documentazione in grado di evidenziare l’esistenza di rimesse con funzione solutoria, sostenendo come il conto corrente era contraddistinto dalla mancanza di affidamenti e ricavandone la funzione solutoria per tutte le rimesse, salvo prova contraria della correntista.

Tale motivazione viene ritenuta affetta da un’incongruenza logica in quanto, nel caso in cui un cliente citi in giudizio l’istituto di credito domandando la ripetizione di quanto indebitamente pagato a titolo di interessi anatocistici, relativamente ad un contratto di apertura di credito regolato in conto corrente, “la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le voci o competenze accertate come illegittime e in concreto applicate dalla banca. Questo si rende necessario ai fini della decorrenza del dies a quo della prescrizione, termine che inizia a decorrere per quella parte delle rimesse sul conto corrente la cui funzione solutoria sia individuabile dopo la rettifica del saldo” (termine di prescrizione per l’azione di ripetizione).

Spostandosi sul versante dell’onere probatorio a carico della correntista censurato dalla Corte di Appello, la Cassazione afferma che una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi anatocistici a carico della stessa, occorre distinguere il caso in cui essa è convenuta da quella in cui sia attrice. In quest’ultimo caso, invero, l’accertamento del dare e dell’avere può aversi tramite l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete tese a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto, in quanto l’estratto è un documento formato e proveniente dalla banca.

Da ciò deriva che è possibile ricostruire l’effettività del saldo finale partendo dai documenti esibiti dal correntista e provenienti dalla banca, anche tramite elaborazioni tecniche dei dati risultanti dai riassunti scalari così come anche statuito da Cass., sez. I, 18 aprile 2023, n. 10293.

Nel caso in esame, essendo il correntista ad agire in giudizio per la rideterminazione del saldo e la correlata ripetizione delle somme indebitamente considerate, ed avendo egli prodotto il primo degli estratti conto scalari con un saldo iniziale a suo debito, è legittimo ricostruire il rapporto con le prove che offrano indicazioni o diano giustificazione di un saldo diverso nel periodo di riferimento per effetto della eliminazione delle voci o delle competenze illegittimamente applicate fino a quel momento. In tal modo, la base di calcolo può essere determinata proprio sul saldo iniziale del primo degli estratti conto acquisiti al giudizio, dato che questo costituisce un documento redatto dalla controparte in funzione riassuntiva delle movimentazioni del conto corrente, e rimane, nel quadro delle risultanze di causa, il dato più sfavorevole alla stessa parte attrice.

Su tali assunti, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà uniformarsi ai principi esposti.

*Contributo in tema di “ termine di prescrizione per l’azione di ripetizione ”, a cura di Beatrice Parente ed Elisa Visintin, estratto da Obiettivo Magistrato n. 73 / Aprile 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica

mutuo ammortamento francese

Mutui: salvo l’ammortamento alla francese Per le sezioni unite della Cassazione, il mutuo con ammortamento “alla francese” soddisfa la trasparenza e la determinatezza dell’oggetto se la Banca allega il piano al contratto

Mutui con ammortamento “alla francese”

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza numero Cass-15340-2024 salvano i mutui “alla francese” ossia quei mutui tradizionali che prevedono rate costanti e una quota di interessi progressivamente decrescente a fronte di un capitale progressivamente crescente. La mancata indicazione sulle modalità di ammortamento e del calcolo degli interessi passivi non determina la nullità di questi contratti di mutuo.

Contratto nullo se non indica modalità di ammortamento e calcolo degli interessi

La vicenda che si conclude con la sentenza a Sezioni Unite ha inizio quando una signora si rivolge al Tribunale per far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario che la stessa aveva stipulato, ma in relazione al quale non era stata pattuita e indicata la modalità di ammortamento “alla francese” e la modalità di calcolo degli interessi passivi. Chiedeva quindi che la banca venisse condannata a rimborsare i maggiori interessi riscossi indebitamente dalla banca.

Il Tribunale competente dispone il rinvio pregiudiziale alla Cassazione, chiedendo la soluzione della questione di diritto relativa alle conseguenze giuridiche derivanti dall’omessa indicazione, all’interno del contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori a fronte della previsione scritta del tasso annuo nominale e della modalità di ammortamento “alla francese”, ovvero se la mancata ed espressa previsione negoziale di tali condizioni determini la nullità del contratto. Il Tribunale ricorda infatti che, ai sensi dell’articolo 117 comma 4 del Testo Unico Bancario, i contratti bancari di credito devono indicare, a pena di nullità, il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni inclusi e gli eventuali e maggiori oneri in caso di mora, con conseguente rideterminazione, in caso di mancata previsione, del piano di ammortamento con applicazione del tasso sostitutivo.

Ammortamento alla francese: il piano soddisfa determinatezza e trasparenza

Nella motivazione della sentenza la Cassazione illustra prima di tutto le caratteristiche tipiche del piano di ammortamento alla francese. Trattasi, nello specifico, di un piano che prevede un rimborso del capitale e degli interessi con pagamento del debito a rate costanti, comprensive di una quota capitale crescente e di una quota interessi decrescente. Il dubbio che gli Ermellini sono chiamati a risolvere riguarda la trasparenza di questo ammortamento e la capitalizzazione composta degli interessi in quanto “l’interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta produce interessi”. Un sistema che, per il Tribunale de rinvio, comporta una maggiore onerosità del costo del denaro che il cliente prende a prestito proprio perché si producono interessi su interessi.

Per la Cassazione però “deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. “alla francese” e del regime di capitalizzazione composto degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determina dell’oggetto del contratto causandone la nullità parziale”.

In relazione poi al contestato difetto di trasparenza la Cassazione ricorda che, se il contratto trasparente è quello che consente di intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa e di avere la piena contezza delle condizioni del contratto sottoscritto e comprendere la portata del suo impegno, nel caso di di specie esso non sussiste. L’istituto di credito ha assolto ai propri obblighi informativi allegando il piano di ammortamento al contratto, offrendo così al cliente la possibilità di verificare se l’offerta rispondeva alle sue necessità e alla sua situazione finanziaria e di valutarne la convenienza, previo confronto con altre offerte presenti sul mercato.

Alla luce delle motivazioni suddette la Cassazione enuncia quindi il seguente principio di diritto: “in “in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento alla francese di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione composto degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminata delloggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza e delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra istituti di credito e i clienti”. 

Allegati

danno biologico

Danno biologico Cos’è il danno biologico e in quale modo si provvede al suo risarcimento. Le tabelle dei tribunali e la disciplina prevista dal Codice delle assicurazioni

Cos’è il danno biologico

Per danno biologico si intende il danno non patrimoniale che deriva dalla lesione dell’integrità fisica o psichica che comprometta, anche in modo lieve, il modo di svolgimento delle attività quotidiane del soggetto che l’ha subito ed incida sugli aspetti relazionali della sua vita.

L’importanza del tema del danno biologico deriva dalla frequente ricorrenza delle richieste di risarcimento da esso derivanti, che ricorrono specialmente quando le controversie riguardano danni da sinistri stradali o in cause giudiziali da responsabilità medica.

Lesioni micropermanenti o di lieve entità

La disciplina del risarcimento del danno biologico non è stata sempre univoca, e tuttora occorre fare una serie di distinzioni, a seconda dell’evento da cui origini il danno e dell’entità delle lesioni subite.

A questo riguardo, la principale distinzione da fare in tema di danno biologico è tra lesioni di lieve entità, o micropermanenti, e lesioni di non lieve entità, o macropermanenti.

Altrettanto rilevante è la distinzione tra lesioni durature (o – per l’appunto – permanenti), quindi destinate ad incidere, in qualche modo, per il resto della vita del danneggiato, e lesioni temporanee, i cui effetti invalidanti terminano dopo un determinato lasso di tempo.

Le tabelle di Milano per il calcolo del danno biologico

Gli uffici di diversi tribunali italiani hanno provveduto a stilare delle apposite tabelle sull’invalidità, con valori di entità del danno che vanno da 1 a 100 e in cui ad ogni diverso valore corrisponde un determinato importo da riconoscere quale risarcimento, rapportato anche all’età del danneggiato (e quindi alla sua aspettativa di vita).

Tradizionalmente, le tabelle più utilizzate dai giudici italiani, in questo senso, sono quelle del Tribunale di Milano.

Danno da circolazione stradale: art. 139 codice assicurazioni

Più specificamente, in materia di danni da circolazione stradale, l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni Private prevede che, per il risarcimento del danno biologico permanente, venga liquidato, per i postumi pari o inferiori al 9 per cento, un importo crescente, in ragione più che proporzionale, per ogni punto percentuale.

Come si vede, quindi, il limite dei 9 punti percentuali rappresenta il discrimine tra lesioni di lieve entità (micropermanenti) e lesioni di non lieve entità (macropermanenti).

Per le prime, la quantificazione viene periodicamente effettuata con apposito decreto ministeriale, rivalutato ai valori Istat sul costo della vita; per la quantificazione del risarcimento dovuto per le lesioni di non lieve entità, invece, si applicano solitamente le tabelle predisposte dai Tribunali, non essendo mai stato emanato il regolamento prescritto dall’art. 138 del Codice (d.lgs. 209 del 2005).

Il risarcimento del danno da invalidità temporanea

Si è fatto cenno, poc’anzi, al decreto ministeriale con cui vengono individuati gli importi per il risarcimento del danno biologico permanente.

Tale decreto provvede anche alla quantificazione, periodicamente rimodulata, del danno biologico per ogni giorno di invalidità temporanea. Quest’ultima, espressamente contemplata dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (comma 1, lett. b) può essere totale o parziale, a seconda che impedisca del tutto, o solo in parte, l’esplicazione delle normali attività quotidiane e della vita di relazione del soggetto danneggiato (in gergo giuridico, si utilizzano, al riguardo, gli acronimi ITT – invalidità temporanea totale, e ITP – invalidità temporanea parziale).

Danno biologico e responsabilità medica

Infine, va rilevato che le tabelle danno biologico predisposte dai tribunali (in primis, quelli di Milano e Roma) vengono comunemente applicate anche in tema di responsabilità sanitaria, cioè quando si tratta di risarcire lesioni derivanti da colpa medica.

Per il danno biologico derivante da infortuni sul lavoro e da malattie professionali è previsto, invece, un indennizzo sulla base delle tabelle Inail, che dispongono il risarcimento in forma di rendita per invalidità permanenti a partire dai 16 punti percentuali.

mail prova

L’e-mail è prova scritta La Cassazione ha precisato che il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma “semplice” è un documento informatico che forma prova piena dei fatti e delle cose rappresentate

La prova per iscritto del contratto di assicurazione

Il caso che ci occupa, per quanto qui rileva, prende le mosse dalla decisione adottata dalla Corte territoriale in ordine all’inidoneità di un’e-mail di dimostrare, sul piano probatorio, l’esistenza e il contenuto di un contratto di assicurazione.

Nella specie, il Giudice di merito aveva ritenuto che il contratto di assicurazione, ai sensi dell’art. 1888 c.c., dovesse essere provato per iscritto e che tale prova non poteva ritenersi raggiunta nel caso sottoposto al suo esame, ove si era assistito ad uno scambio “di semplici, ordinarie e-mail e non già di scambio a mezzo di posta elettronica certificata”. Invero, aveva riferito la Corte territoriale “in caso di contratto da provarsi per iscritto lo scambio di mail non potrebbe (..) ricoprire lo stesso valore di una scrittura privata”.

Avverso tale decisione l’assicurato aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

La mail soddisfa il requisito della prova scritta

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 14046/2024, ha accolto il motivo di ricorso con cui il ricorrente ha contestato il provvedimento impugnato in ordine al mancato riconoscimento dell’efficacia della prova scritta costituita dalla mail di cui si è dato sopra conto.

In particolare, il Giudice di legittimità, facendo riferimento al quadro normativo esistente all’epoca dei fatti di causa, ha ricordato che “Le condizioni richieste dalla legge affinché un documento informatico potesse ritenersi uno “scritto”, idoneo a soddisfare il requisito della forma ad probationem del contratto assicurativo, erano stabilite (…) dagli artt. 20 e 21 del d.lgs. 82/2005”; tali norme, ha proseguito la Corte “distinguevano i documenti informatici sottoscritti con firma elettronica “semplice”, da quelli sottoscritti con firma elettronica “qualificata” o “digitale”. Posta tale distinzione, non vi è dubbio, afferma la Corte, che il caso in esame attiene ad un documento cui era stata apposta una firma elettronica semplice, rispetto alla quale le suddette norme attribuivano al giudice la valutazione in ordine all’idoneità del documento di rispettare il requisito di forma prescritto di volta in volta dalla legge.

In relazione a tale contesto normativo, ha precisato il Giudice di legittimità, la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare le caratteristiche oggettive del documento, quali, in particolare, la sua qualità, sicurezza, integrità, immodificabilità, desumibili da elementi come: il formato file in cui il massaggio di posta elettronica è stato salvato, le proprietà dello stesso e altri elementi analoghi.

La suddetta valutazione doveva in questo senso essere compiuta alla luce del consolidato principio secondo cui “la prova scritta del contratto di assicurazione può essere desunta anche da documenti diversi dalla polizza (…), purché provenienti dalle parti e da questi sottoscritti, dai quali sia possibile desumere l’esistenza ed il contenuto del patto”.

I principi di diritto della Cassazione

Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Corte ha concluso il proprio esame elaborando i seguenti principi desumibili dalla normativa di riferimento:

  • il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma semplice è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.;
  • se non ne sono contestati la provenienza o il contenuto, la mail prova piena prova dei fatti e delle cose rappresentate;
  • se ne sono, invece, contestati la provenienza o il contenuto, il giudice deve valutare il documento con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità ed immodificabilità.

Ne consegue che, nel caso di specie, la Corte d’appello non avrebbe dovuto scartare l’e-mail in questione dal materiale probatorio sulla base dei soli rilievi della carenza di firma elettronica qualificata e della mancata adozione di modelli usualmente impiegati per quel tipo di contratti, ma avrebbe dovuto compiere le valutazioni prescritte dalla legge.

deposito telematico audio video

Processo telematico: non è pronto per audio e video Il CNF chiarisce che al momento il deposito di files audio e video è ammesso solo su supporto CD/DVD in Cancelleria

No al deposito telematico di audio e video

Con il parere n. 17 del 19 aprile 2024, pubblicato il 9 maggio sul sito del Codice deontologico, il CNF precisa che, in attesa delle nuove specifiche tecniche del processo telematico, non è possibile effettuare il deposito diretto dei files in formato audio e video.

Diversi Tribunali risolvono il problema ammettendo il deposito in cancelleria di questi file su supporti CD/DVD.

Deposito file audio e video nel processo telematico: il quesito

Il C.O.A di Biella si rivolge al C.N.F per chiedere un parere sul deposito di files audio e video nel processo telematico.

La domanda è volta ad accertare se esita un sistema per produrre files audio e video nel processo telematico, che possano essere fruiti dal Giudice e, in caso di risposta negativa, se sia corretta la richiesta da parte degli Uffici Giudiziari di produrre i file audio e video su unità esterne come le USB solo in “copia forense” o se sia altrettanto valida la produzione su supporto USB di questi files, riservando la produzione della copia forense alle sole ipotesi in cui possa sorgere una contestazione.

Poiché la modalità di produzione dei files su supporto esterno è una diretta conseguenza dell’impossibilità di provvedere al deposito telematico, il COA chiede se è condivisibile applicare a questa fattispecie l’esenzione dal pagamento dei diritti di copia, in base a quanto previsto dall’articolo 40 commi 1 quater e quinques del DPR 115/2002.

Consentito il deposito in cancelleria di file audio e video

Il CNF ricorda che la Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia di recente ha posto in consultazione la nuova versione delle specifiche tecniche che si riferiscono ai documenti informatici e che sono richiamate nell’articolo 34 del decreto del Ministro della Giustizia n. 44/2011.

Il comma 3 di questa norma dispone infatti che “Fino all’emanazione delle nuove specifiche tecniche, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le specifiche tecniche vigenti, già adottate dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia.” 

Al momento pertanto, nel rispetto delle regole vigenti, non è possibile depositare telematicamente files audio e video. 

Parte della giurisprudenza ammette il deposito in cancelleria di files audio e video solo se contenuti in un supporto informatico esterno come i CDROM, corredato da una nota di deposito in cui è necessario specificare la tipologia di files contenuti in detto supporto e il motivo per il quale si procede al deposito nelle forme “tradizionali”.

L’utilizzo delle chiavette USB è sconsigliato per i costi maggiori, per i problemi legati all’integrità dei files e perché la data di retention degli USB è di 10 anni mentre quella dei CDROM /DVD è di 30 anni.

In alcuni Tribunali, per prassi, è previsto il deposito telematico di files audio e video in formato ZIP o RAR, accompagnato dall’obbligo di dare atto del contestuale deposito dei file in formato CD/DVD in cancelleria.

In questo modo si evita che il giudice e le parti non abbiano il programma specifico per l’apertura di del file pdf, utilizzato come contenitore di contenuti audio e video.

La soluzione adottata scongiura in questo modo anche il problema legato al pagamento dei costi di copia.