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Interessi usurari in corso di rapporto contrattuale Il creditore può conseguire gli interessi usurari che non siano stati originariamente pattuiti e siano divenuti tali in corso di svolgimento del rapporto contrattuale?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

I saggi di interesse usurari – che non siano stati pattuiti originariamente, ma siano sopraggiunti in corso di causa – costituiscono in ogni caso importi indebiti. Il creditore che voglia interessi divenuti nel corso del rapporto in misura ultra-legale pretenderebbe per ciò stesso l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata: il suo comportamento sarebbe contrario al generale principio di buona fede contrattuale, che impone alle parti comportamenti collaborativi, anche in sede di esecuzione del contratto. – Cass., sez. III, 28 settembre 2023, n. 27545.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare la legittimità di interessi divenuti usurari nel corso del rapporto di credito.

In primo e secondo grado era stata respinta la questione inerente all’usura sopravvenuta degli interessi relativi ad un rapporto di conto corrente, in quanto le parti non avevano allegato specificatamente né che tali interessi fossero frutto di eventuale diversa pattuizione, né che la pretesa del tasso di interesse concordato fosse contraria a buona fede. I Giudici di merito, infatti, si erano conformati a quanto stabilito da Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675, secondo cui «è priva di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi».

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando la mancata dichiarazione di nullità dei saggi di interesse usurari successivi alla conclusione del contratto.

In particolare, si rilevava che, pur trattandosi di interessi usurari non previsti al momento dell’instaurazione del rapporto contrattuale, l’ordinamento giuridico deve considerarli come indebiti.

La Suprema Corte, nella decisione de qua, ha innanzitutto ricordato quanto previsto da Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597, secondo cui, in relazione agli interessi moratori, «in tema di contratti di finanziamento, l’interesse ad agire per la declaratoria di usurarietà degli interessi moratori sussiste anche nel corso dello svolgimento del rapporto, e non solo ove i presupposti della mora si siano già verificati; tuttavia, mentre nel primo caso si deve avere riguardo al tasso soglia applicabile al momento dell’accordo, nel secondo la valutazione di usurarietà riguarderà l’interesse concretamente praticato dopo l’inadempimento».

La Suprema Corte, facendo proprio tale principio, rileva che, laddove nel corso del rapporto maturino interessi in misura ultra-legale, non potranno essere pretesi dal creditore poiché sarebbero l’oggetto di una prestazione oggettivamente sproporzionata.

In questo modo viene introdotto uno strumento di giustizia contrattuale volto a riequilibrare quei rapporti in cui il carattere usurario degli interessi sia sopravvenuto al sorgere del rapporto. Il fondamento di tale strumento viene rinvenuto nella buona fede che deve sussistere durante l’esecuzione del contratto ai sensi dell’art. 1375 c.c.

Questo nuovo orientamento, dopo gli arresti degli anni passati, sembra voler offrire maggiore tutela al contraente di fronte ad un’ipotesi di sopravvenienza atipica che incide sull’equilibrio contrattuale.

Nel caso di specie, i Giudici di merito hanno escluso che gli interessi in questione fossero contrari a buona fede e che potessero essere decurtati dal credito oggetto di decreto ingiuntivo. Tuttavia, alla luce di quanto statuito, la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza, rinviando la causa alla Corte d’Appello, la quale dovrà procedere ad un nuovo esame alla luce del principio enunciato nella massima.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597
Difformi:      Cass., Sez. Un., 19 ottobre 2017, n. 24675
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Estinzione servitù prediale La servitù prediale si estingue in caso di frazionamento del fondo dominante?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di servitù prediali, il principio della cosiddetta indivisibilità di cui all’art. 1071 c.c. comporta, nel caso di frazionamento del fondo dominante, la permanenza del diritto su ogni porzione del medesimo, salve le ipotesi di aggravamento della condizione del fondo servente, e poiché tale effetto si determina ex lege, al riguardo non occorre alcuna espressa menzione negli atti traslativi attraverso i quali si determina la divisione del fondo dominante, sicché nel silenzio delle parti – in mancanza di specifiche clausole dirette ad escludere o limitare il diritto – la servitù continua a gravare sul fondo servente, nella medesima precedente consistenza, a favore di ciascuna di quelle già componenti l’originario unico fondo dominante, ancora considerato alla stregua di un unicum ai fini dell’esercizio della servitù, ancorché le singole parti appartengano a diversi proprietari, a nulla rilevando se alcune di queste, per effetto del frazionamento, vengano a trovarsi in posizione di non immediata contiguità con il fondo servente. – Cass., sez. II, 8 settembre 2023, n. 26186.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a valutare l’esistenza di una servitù di passaggio per usucapione ventennale, sulla scorta della qualificazione operata dal Giudice secondo grado.

In particolare, in primo grado veniva adito il Tribunale per accertare la comproprietà, a seguito di divisione ereditaria tra fratelli, di un locale-caldaia situato all’interno di un condominio e della relativa servitù di passaggio per accedere al suddetto locale instauratasi per usucapione ventennale. Il Giudice rigettava la domanda sul primo punto, poiché dichiarava la proprietà esclusiva di uno solo dei fratelli a seguito della divisione, e sul secondo punto dal momento che a seguito dell’accertamento della proprietà in capo ad uno solo dei fratelli veniva meno il requisito di alienità che deve sussistere in caso di servitù tra fondo servente e fondo dominante.

In sede di gravame, la Corte territoriale accertava la sussistenza della comproprietà del bene e dichiarava l’esistenza della servitù di passaggio in forza di usucapione ventennale.

Viene proposto ricorso per Cassazione, contestando l’esistenza della servitù di passaggio e dell’avvenuta acquisizione per usucapione.

In particolare, il ricorrente nega il perfezionamento dell’acquisto della servitù mediante usucapione ventennale, a fronte di un riconoscimento mai avvenuto della stessa.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso argomentando sul principio della indivisibilità della servitù prediale.

La servitù prediale è un diritto reale di godimento su cosa altrui che determina la costituzione di un peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario.

Nell’ambito della disciplina relativa all’esercizio della servitù, l’art. 1071 c.c. stabilisce che in caso di divisione del fondo dominante, la servitù non si estingue ma è dovuta per ciascuna porzione, con l’unico limite del divieto di aggravamento della condizione del fondo servente.

La pronuncia si conforma al principio in questione evidenziando che, la permanenza della servitù di passaggio discende come effetto ex lege, non richiedendo un’espressa menzione all’interno degli atti traslativi del fondo dominante. Le parti avrebbero dovuto limitare o escludere espressamente l’esistenza della servitù di passaggio; in caso contrario, essa continuerà a sussistere anche laddove, a seguito di frazionamento del fondo dominante, alcune parti dello stesso si trovino in una posizione non immediata contiguità del fondo servente.

Pertanto, alla luce del principio di diritto espresso, la Corte territoriale, pur non avendo individuato correttamente la norma da applicare al caso di specie, avendo fatto riferimento all’istituto dell’usucapione, ha fornito una soluzione in conformità all’orientamento maggioritario della Suprema Corte.

Il ricorso viene pertanto rigettato poiché il principio di indivisibilità delle servitù prediali non estingue il diritto reale in questione in ipotesi di frazionamento del fondo dominante.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 3 luglio 2019, n. 17884
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Usufrutto coniuge legittimario L’azione esperita dal coniuge legittimario, destinatario dell’usufrutto generale, deve essere qualificata quale esercizio del rimedio di cui all’art. 550 c.c. o ricorre l’ipotesi prevista dall’art. 551 c.c.?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. – Cass., sez. II, 18 ottobre 2023, n. 28962.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso con cui è stata, tra gli altri motivi, eccepita violazione dell’art. 550 c.c. e falsa applicazione dell’art. 551 c.c. per avere la Corte d’appello erroneamente qualificato la domanda avanzata dal coniuge, beneficiario dell’usufrutto universale, quale esercizio dell’azione di riduzione, dichiarandola inammissibile in assenza di apposita rinuncia scritta al legato.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione ha preliminarmente ribadito che l’attribuzione per testamento dell’usufrutto universale non individua un’istituzione di erede, ma un legato che non sempre riveste la forma del legato in sostituzione di legittima.

Invero, la qualificazione di un lascito come legato in sostituzione di legittima, pur non richiedendo formule tipiche, né che sia prevista espressamente l’alternativa, per l’onorato, tra conseguimento del legato stesso e richiesta della legittima, postula che, dal contenuto delle disposizioni testamentarie, risulti in modo chiaro e non equivoco la volontà del testatore di soddisfare integralmente i diritti del legittimario mediante l’attribuzione di un bene o di un diritto sull’eredità, con conseguente istituzione ex asse di altra o di altre persone.

Il legittimario a favore del quale sia stato disposto il legato sostitutivo ha facoltà di scegliere se conseguire il legato o rinunciarvi e chiedere la legittima. Occorrerà a tal proposito promuovere l’azione di riduzione, all’esito vittorioso della quale il predetto legittimario assumerà il titolo di erede.

In mancanza di una chiara e univoca volontà del de cuius di tacitare l’onorato, il legato dovrà invece ritenersi in conto di legittima.

La Corte si discosta da tale assunto rilevando che “quando il legato abbia ad oggetto l’usufrutto generale, la fattispecie di riferimento, più che quella del legato in conto, è quella prevista dall’art. 550 c.c.”.

Parte della dottrina ha osservato che la scelta di cui al secondo comma dell’art. 550 c.c., se dare esecuzione alla disposizione testamentaria o abbandonarla, possa essere esercitata soltanto dal legittimario chiamato all’eredità, se e in quanto l’abbia accettata.

In particolare, si ritiene che nelle ipotesi in cui il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando l’usufrutto al legittimario e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, in quanto erede ab intestato, potrà esperire il rimedio previsto dalla disposizione in esame in luogo della riduzione. Mentre, se il testatore assegna al legittimario l’usufrutto universale, istituendo erede l’estraneo nella nuda proprietà, l’alternativa che si pone al primo non è se eseguire o meno il legato, perché quest’ultimo è eseguito dall’erede, ma se accettarlo, domandandone l’esecuzione, o rifiutarlo e chiedere la legittima proponendo l’azione di riduzione.

Secondo altro orientamento, nei casi in cui il testatore disponga della nuda proprietà di tutto l’asse, lasciando ai legittimari l’usufrutto, potrebbe configurarsi una figura di legato tacitativo. In tale ipotesi, il legittimario potrà, in alternativa alla rinunzia al legato e alla richiesta della legittima, valersi del rimedio previsto dall’art. 550.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha rilevato l’incompatibilità tra i due rimedi in esame per diversità di presupposti, struttura e finalità delle norme di cui agli artt. 550 e 554 c.c.

In particolare, si ritiene che non possa configurarsi un rapporto di alternatività tra gli strumenti prospettati dalle citate disposizioni. Qualora il testatore abbia disposto nei modi stabiliti dall’art. 550 c.c., la scelta offerta al legittimario non è fra l’abbandono della disponibile e l’esperimento dell’azione di riduzione, ma fra l’esecuzione della disposizione testamentaria e il suo abbandono, con conseguente possibilità di ottenere la parte corrispondente alla legittima in piena proprietà.

Tanto premesso, la Corte di Cassazione ha osservato come, ai fini della risoluzione della questione in esame, si dimostri necessaria una chiara e preventiva qualificazione della natura del lascito disposto in favore del legittimario, rilevabile anche grazie alla valutazione del contenuto delle singole disposizioni testamentarie.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione, avendo i giudici di merito erroneamente qualificato la disposizione come legato in sostituzione di legittima senza effettuare tale preliminare valutazione, cassa con rinvio, enunciando il seguente principio di diritto: “Qualora il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando al legittimario l’usufrutto universale e la nuda proprietà a un estraneo, il legittimario, privato in tutto o in parte della nuda proprietà della quota riservata, è chiamato ab intestato all’eredità; conseguentemente non si ha una figura di legato tacitativo ai sensi dell’art. 551 c.c., che suppone l’istituzione ex asse di altra o di altre persone, ma ricorre di regola l’ipotesi prevista dall’art. 550, comma 2, c.c., prospettandosi pertanto al legittimario la scelta o di eseguire la disposizione o di abbandonare la disponibile per conseguire la legittima”.

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Domanda congiunta separazione e divorzio È ammissibile, in rito, il cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. – Cass., Sez. I, 16 ottobre 2023, n. 28727. 

Nel caso di specie, le parti, con lo stesso ricorso, chiedevano di pronunciare la loro separazione personale, regolamentando i rapporti reciproci e quelli con i figli e, decorso il periodo di tempo previsto dall’art. 3, L. 898/1970 e previo passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

All’udienza fissata per la comparizione delle parti, il giudice prospettava ai coniugi l’esistenza di una questione pregiudiziale di puro diritto, relativa all’ammissibilità, in rito, del cumulo oggettivo della domanda congiunta di separazione personale con quella, parimenti congiunta, di divorzio.

Investita della questione, la Corte di Cassazione si è preliminarmente soffermata sulle due importanti novità introdotte dal D.Lgs. 149/2022.

La prima è rappresentata dall’istituto del c.d. rinvio pregiudiziale da parte del giudice di merito di cui all’art. 363bis c.p.c., con cui è stata introdotta la possibilità per il giudice di merito di sottoporre alla Suprema Corte una questione di diritto, in presenza di determinate condizioni.

Altra novità è rappresentata dal disposto dell’art. 374bis.49 c.p.c. che, con esclusivo riferimento al giudizio contenzioso, ha introdotto la possibilità di presentare contestualmente domanda di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, subordinando la procedibilità della seconda al decorso del termine a tal fine previsto dalla legge.

Occorre in proposito rilevare che analoga disposizione non è stata riprodotta nell’art. 473bis.51 c.p.c., che disciplina i procedimenti di cui all’art. 473bis.47 c.p.c. proposti su domanda congiunta.

Il legislatore ha pertanto espressamente previsto l’ammissibilità del cumulo delle domande contenziose di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza nulla disporre in merito all’eventualità in cui i coniugi presentino, cumulativamente, le stesse domande ma in forma congiunta.

Tanto premesso, la Corte ha rilevato l’esistenza di posizioni contrastanti nella giurisprudenza di merito e in dottrina in relazione all’ammissibilità del cumulo delle domande presentate in via consensuale.

Un primo indirizzo interpretativo sostiene l’ammissibilità del ricorso con domanda congiunta di separazione e divorzio, adducendo a sostegno della propria tesi argomentazioni sia di carattere letterale che di carattere sistematico.

Da un punto di vista letterale, si è osservato che, diversamente da quanto previsto nel sistema vigente ante riforma, ove il procedimento congiunto di separazione e quello di divorzio erano disciplinati da due diverse disposizioni, oggi la relativa disciplina è confluita in un’unica norma.

È stato altresì evidenziato l’uso del plurale nel comma 1 dell’art. 473bis.51 c.p.c. con riferimento alla “domanda congiunta relativa ai procedimenti di cui all’art. 473bis.47”.

Sulla scorta di tali considerazioni, si è rilevato che se il legislatore avesse inteso precludere ai coniugi la facoltà di presentare contestualmente le domande di separazione e divorzio con riferimento ai procedimenti su domanda congiunta non avrebbe né previsto un procedimento uniforme, né utilizzato il lessico “relativo ai procedimenti”, in luogo di “relativo al procedimento”.

Quanto al criterio sistematico, i sostenitori dell’ammissibilità del cumulo hanno indicato quale ulteriore elemento a favore della propria tesi la ratio sottesa all’introduzione del cumulo per i procedimenti contenziosi. Si ritiene infatti che la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio realizzi quel risparmio di energie processuali posto alla base della previsione dell’art. 473bis.49 c.p.c.

Altro orientamento propende invece per l’inammissibilità del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio, sul presupposto che l’art. 473bis.51 c.p.c. non prevede espressamente la facoltà per le parti di presentare in via consensuale e con un unico ricorso domanda di separazione e di divorzio, diversamente da quanto disposto per le domande contenziose.

Un ulteriore argomento evocato dai sostenitori della tesi contraria all’ammissibilità del cumulo è rappresentato dal tema dell’indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale.

In particolare, si ritiene che qualora si ammettesse la possibilità del cumulo di domande di separazione e divorzio nei procedimenti congiunti verrebbe concessa alle parti la possibilità di costituire dei patti prematrimoniali volti a incidere sugli effetti del futuro divorzio, nulli ai sensi dell’art. 160 c.c.

Si è, di contro, evidenziato che, nei procedimenti presentati in forma congiunta, i coniugi non concludono, in sede di separazione, un accordo sugli effetti del futuro divorzio, tale da condizionare la volontà di un coniuge o da comprimere i suoi diritti indisponibili.

Si richiama in proposito l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia di divorzio a domanda congiunta, secondo cui l’accordo “riveste natura meramente ricognitiva e non negoziale, con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, essendo soggetto alla verifica del tribunale che, in materia, ha pieni poteri decisionali”.

È stata altresì valorizzata l’assenza di disposizioni destinate a gestire le sopravvenienze con riferimento al cumulo di domande congiunte.

Invero, l’adattamento del processo contenzioso alle sopravvenienze risulta essere garantito dal disposto del comma 2 dell’art. 473bis.19 c.p.c., che prevede la possibilità per le parti di introdurre nuove domande e i relativi mezzi di prova nel caso in cui si verifichino mutamenti nelle circostanze. Non si riscontra, invece, analoga disposizione in materia di cumulo di domande congiunte.

È stata inoltre evidenziata l’incompatibilità del cumulo con la natura di procedimento di volontaria giurisdizione scaturente dalla domanda congiunta dei coniugi. In particolare, si ritiene che il processo volontario non potrebbe contenere una sentenza non definitiva, seguita da un rinvio per verificare la sussistenza, decorsi sei mesi, delle condizioni di procedibilità e da una conseguente sentenza definitiva sullo scioglimento del vincolo matrimoniale.

Si è altresì rilevato che il risparmio di energie processuali che si ottiene nel giudizio contenzioso non è comparabile con quello che si potrebbe ottenere nel procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., essendo diversa la natura dei due giudizi oltre che l’attività processuale compiuta.

In particolare, si rileva che l’ammissione del cumulo delle domande congiunte di separazione e divorzio comporterebbe un aumento della durata del procedimento, in quanto lo stesso resterebbe pendente per tutto il tempo necessario al maturare dei presupposti per il divorzio.

Si è, di contro, osservato che la compatibilità strutturale del cumulo con un determinato procedimento debba essere valutata in concreto e non sulla base della qualificazione astratta della natura del procedimento. Sul punto, si è evidenziato che il procedimento a domanda congiunta è ormai interamente definito con sentenza, con conseguente possibilità di applicare l’art. 279 c.p.c.

La Corte di Cassazione condivide il primo degli orientamenti esaminati, partendo dal presupposto che anche la proposizione cumulativa delle domande congiunte di separazione e divorzio rispecchia la stessa ratio posta alla base dell’art. 473bis.49 c.p.p., ossia quella di realizzare un “risparmio di energie processuali”.

Invero, i coniugi, a fronte della irreversibilità della crisi matrimoniale, potrebbero con un unico ricorso concludere la negoziazione delle modalità di gestione complessiva di tale crisi e regolamentare in un’unica sede i rapporti reciproci e quelli con i figli, senza dover attendere la riapertura di altro procedimento.

A fondamento dell’ammissibilità del cumulo, la Corte ha inoltre rilevato che il codice di rito prevede tra le disposizioni in generale il cumulo oggettivo di domande anche tra loro non connesse per titolo o petitum, sicché non sembrano esservi ostacoli anche alla proponibilità in cumulo delle domande di separazione consensuale e divorzio congiunto.

Trattasi, in particolare, di un cumulo oggettivo di domande connesse in relazione alla causa petendi, in quanto volte a regolare, in successione, una crisi matrimoniale irreversibile.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “In tema di crisi familiare, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

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Padre putativo e padre naturale: mantenimento dei figli In presenza di un padre putativo e di un presunto padre naturale, l’obbligo di mantenimento dei figli a carico di quest’ultimo decorre sin dalla nascita o dal passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale?

Quesito con risposta a cura di Manuel Mazzamurro e Chiara Tapino

 

L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.

Il contributo dato dal padre putativo poi disconosciuto non costituisce un’esenzione per chi è stato dichiarato padre dal dovere di mantenimento, fin dalla nascita del figlio, che discende dalla procreazione, ma viene in rilievo come una situazione di fatto che ha determinato una riduzione delle esigenze di mantenimento di cui il figlio aveva necessità ed alle quali gli effettivi genitori dovevano provvedere. – Cass., sez. I, ord. 13 ottobre 2023, n. 28442.

La vicenda in esame trae origine da un ricorso proposto avverso la sentenza d’appello che, stante la presenza di un padre putativo, condannava il padre naturale al pagamento di una somma in favore della madre a titolo di rimborso pro quota delle spese dalla stessa sopportate sin dalla nascita del figlio.

In particolare, il ricorrente lamentava, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione dell’art. 253 c.c., per avere la Corte d’Appello valutato la presenza del padre putativo solo ai fini della quantificazione delle spese sostenute dalla madre per il mantenimento del figlio e non in termini di esenzione dal dovere di mantenimento per il presunto padre naturale fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento della precedente relazione genitoriale.

Veniva infatti ravvisata un’impossibilità giuridica per il riconosciuto padre di assolvere agli obblighi di assistenza materiale e morale che, nel periodo antecedente al disconoscimento, erano rimasti a carico del soggetto che aveva per primo provveduto al riconoscimento del figlio.

Investita del ricorso, la Corte di Cassazione, pur non negando l’esistenza di un nesso di pregiudizialità tra il giudizio di disconoscimento di paternità e quello in cui viene richiesto l’accertamento di altra paternità, ha ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, “l’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 c.c.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché tale obbligo ricorre anche per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori”.

Tanto premesso, occorre soffermarsi sulla portata dell’art. 277 c.c., ai sensi del quale “la sentenza che dichiara la filiazione produce gli effetti del riconoscimento”. Dal testo della norma si evince che il genitore riconosciuto si fa carico tutti i doveri propri della procreazione, incluso quello del mantenimento ex artt. 148 e 316bis c.c., che lo stesso assume sin dalla nascita del figlio.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha precisato che non è stata dalla Corte d’appello ravvisata l’esistenza nel caso di specie di un doppio e contestuale titolo di mantenimento a carico di due soggetti distinti, quali il padre putativo e il presunto padre naturale, essendosi la stessa limitata ad applicare correttamente il combinato disposto degli artt. 277, 258, 148 e 316bis c.c.

Invero, la sentenza che accoglie l’azione di disconoscimento accerta ab origine l’inesistenza del rapporto di filiazione e determina, automaticamente dal suo passaggio in giudicato, il venire meno dell’obbligo di mantenimento e l’accertamento che gli stessi erano privi di giustificazione”. Trattasi di un dovere che, sin dalla nascita, rimane a carico di chi sia considerato padre ai sensi dell’art. 231 c.c. oppure di chi sia dichiarato tale ai sensi dell’art. 269 c.c.

Quanto al contributo fornito dal padre putativo al mantenimento, la Corte ha precisato che le spese sostenute da quest’ultimo nel periodo antecedente al giudizio di disconoscimento della paternità non costituiscono un’esenzione per chi è stato successivamente dichiarato padre, ma rilevano solo in termini di riduzione dell’entità del mantenimento complessivo di cui il figlio aveva necessità.

Con altro motivo di ricorso, il ricorrente lamentava l’avvenuto riconoscimento del diritto del figlio di risarcimento del danno endo-familiare.

In particolare, si eccepiva l’insussistenza nel caso concreto di un fatto illecito nonché di una condotta colposa ravvisabile a carico del padre naturale, il quale non poteva ritenersi obbligato ad instaurare un rapporto con il figlio fino al passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento dell’altra paternità.

La Corte di Cassazione, in linea con l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, ha ribadito che l’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli essendo legato alla procreazione, prescinde dalla dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, sicché il fondamento della responsabilità da illecito nel caso in cui alla procreazione non segua l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore è da rilevarsi nell’automatismo tra la responsabilità genitoriale e la procreazione. Il figlio avrà diritto ad essere istruito, educato ed assistito moralmente dal reale genitore dal momento in cui quest’ultimo abbia assunto coscienza del proprio status, a prescindere dall’esistenza di un padre putativo poi disconosciuto e della dichiarazione giudiziale di maternità o paternità.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. I, 2 febbraio 2006, n. 2328; Cass., sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652;
Cass., sez. I, 28 marzo 2017, n. 7960
Art. 2697 c.c.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza sull’onere della prova La ripartizione dell’onere della prova è disciplinata dall’art. 2697 c.c. ma la Cassazione ne ha definito meglio i contorni. In particolare: il principio di vicinanza della prova

L’onere della prova nell’art. 2697 c.c.

L’art. 2697 c.c. disciplina l’onere della prova, disponendo che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti, o eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui tale eccezione si fonda.

Nel corso del tempo, la giurisprudenza in tema di onere della prova ha definito meglio i contorni della corretta applicazione dell’art. 2697 c.c., come vedremo in questa breve rassegna di sentenze della Corte di Cassazione.

Le Sezioni Unite sull’onere della prova

Da un lato, quindi, la regola generale prevede che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti costitutivi, mentre chi tale diritto contesta deve dare dimostrazione dei fatti impeditivi, modificativi o estintivi dello stesso; dall’altro lato, la giurisprudenza sull’art. 2697 c.c. ha talvolta reso tale regola meno rigorosa.

Viene in mente, innanzitutto, il c.d. principio di vicinanza della prova, secondo cui l’onere della prova riguardo a un determinato fatto dovrebbe ricadere sul soggetto che ha la disponibilità degli elementi probatori che occorrono alla sua dimostrazione.

Secondo tale principio, più volte invocato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, è stato chiarito, ad esempio, che in tema di inadempimento contrattuale o di inesatto adempimento, per il creditore sia sufficiente dimostrare la fonte del proprio credito e limitarsi ad allegare l’inadempimento da parte del debitore; su quest’ultimo, invece, ricadrà l’onere della prova dell’adempimento della propria obbligazione contrattuale, quale fatto estintivo del diritto vantato dal creditore (cfr. Cass., SS.UU., n. 13533/2001).

Cassazione e principio di vicinanza della prova

Il principio di prossimità della prova ha trovato mitigazione nella stessa giurisprudenza di Cassazione sull’art. 2697 c.c., che ha specificato che tale principio rappresenta un’eccezionale deroga al canonico regime della ripartizione dell’onere della prova, e pertanto non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti, ad esempio in ambito bancario, ma esige l’impossibilità dell’acquisizione simmetrica della prova (quindi tale principio non può trovare applicazione quando il cliente sia in possesso di una copia del contratto bancario) (cfr. Cass. n. 6511/2016 e n. 17923/2016).

Un altro rilevante ambito in cui è importante individuare il soggetto su cui ricade l’onere della prova è la garanzia per vizi nella compravendita.

In tal caso, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 11748/2019, sottolineando il carattere garantistico di tale obbligazione, hanno chiarito che l’esistenza dei vizi della cosa deve essere dimostrata dal compratore, in quanto soggetto che ha la disponibilità del bene.

Art. 2697 c.c. e giurisprudenza: valore probatorio della fattura

Su un diverso piano, una recente pronuncia della Corte di Cassazione definisce, invece, i contorni dell’onere della prova quando questo sia assolto attraverso la produzione in giudizio di una fattura.

La Suprema Corte ha, infatti, contraddetto la pronuncia di un tribunale che aveva ritenuto che l’onere probatorio a cui il creditore istante era tenuto non potesse ritenersi convenientemente assolto attraverso la produzione delle fatture, dato che le stesse costituivano una documentazione predisposta dalla stessa parte ricorrente.

Al riguardo, gli Ermellini hanno rilevato che, consistendo la fattura commerciale in una dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito,  è vero che, quando tale rapporto sia contestato fra le parti, la fattura non può costituire un valido elemento di prova delle prestazioni eseguite, potendo al massimo costituire un mero indizio.

“Tuttavia” – evidenzia il provvedimento – “nel  caso in cui non vi sia contestazione fra le parti rispetto al rapporto in essere fra loro, la fattura può costituire un valido elemento di prova quanto alle prestazioni eseguite, specie nell’ipotesi in cui il debitore abbia accettato, senza contestazioni, le fatture stesse nel corso dell’esecuzione del rapporto (Cass., ord. n. 949 del 10 gennaio 2024).

giurista risponde

Malpractice medica e danno da perdita capacità lavorativa Nei casi di malpractice sanitaria come agire in caso di danno da perdita di capacità lavorativa?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) e riguarda una specifica attività in atto, mentre un danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non autonomamente liquidabile. – Cass. 20 gennaio 2023, n. 1752.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello con la quale i giudici di merito avevano condannato una struttura sanitaria al risarcimento dei danni da malpractice sanitaria nel corso di un parto, stabilendo un risarcimento per danno parentale a favore dei genitori e un risarcimento per danno patrimoniale per perdita da chance nei confronti del minore, tenendo conto della compromissione della capacità lavorativa.

Avverso la suddetta pronuncia è stato proposto ricorso per Cassazione, articolato in tre motivi di censura.

Con il primo motivo si eccepisce l’incompletezza della motivazione esposta in primo e secondo grado in merito al risarcimento del danno parentale. In particolare, la ricorrente sostiene che il danno riflesso dei parenti di una parte lesa deve essere qualificato come danno conseguenza, per cui deve essere allegato e provato. Inoltre, tale danno può essere riconosciuto soltanto nel caso in cui il congiunto danneggiato sia deceduto o abbia riportato lesioni di particolare gravità. Nel caso di specie, in base alla CTU, le lesioni riportate dal figlio minore erano di modesta entità.

Vi sarebbe stata, così, una palese violazione dell’orientamento costante nella giurisprudenza di legittimità in base al quale il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale richiede necessariamente la sussistenza di lesioni di particolare gravità e l’accertamento del danno provocato.

Con il secondo motivo di censura, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226 c.c., essendo stato riconosciuto al minore un danno patrimoniale per lesione della capacità lavorativa specifica, qualificandolo però come danno patrimoniale da perdita di chance.

La ricorrente osserva che il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale (lucro cessante) ed attiene ad una specifica attività, mentre il danno alla capacità lavorativa generica non incide immediatamente sul reddito ed è una componente del danno biologico, non liquidabile autonomamente.

Nel caso di specie il consulente tecnico d’ufficio ha riferito di alcune limitazioni di attività che sarebbero soltanto teoriche, per cui rientrerebbero nel danno non patrimoniale biologico qualificandole come limitazioni della capacità lavorativa generica. Pertanto, vi sarebbe stata una violazione di legge avendo la Corte di Appello concesso il risarcimento del danno “per una compromissione dell’attività lavorativa” non accertata però dal consulente tecnico.

Infine, con il terzo motivo di ricorso, si eccepisce nullità della sentenza per violazione degli artt. 100 e 112 c.p.c. per mancanza della domanda di risarcimento della perdita di chance, avendo i giudici di appello riqualificato il danno come perdita di chance.

Del resto, la chance è un’entità patrimoniale la cui domanda di risarcimento va espressamente proposta, non essendo sufficiente chiedere nell’atto introduttivo il risarcimento di tutti i danni.

Pertanto, alla luce di tali osservazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il primo motivo, mentre i residui due motivi vanno accolti nei limiti evidenziati con conseguente cassazione in relazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di Appello in diversa composizione.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. III, 30 agosto 2022, n. 25541; Cass., sez. III, ord. 8 aprile 2020, n. 7748; Cass., sez. III, ord. 24 aprile 2019, n. 11212
giurista risponde

Responsabilità medica per omessa informazione terapie alternative Come accertare la responsabilità del medico a seguito di un intervento lesivo in caso di omessa informazione al paziente su tecniche terapeutiche alternative?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In caso di omessa informazione da parte del medico al paziente sulle alternative terapeutiche, per condannare la struttura sanitaria al risarcimento del danno, è necessario accertare l’esistenza di un nesso causale intercorrente tra la suddetta condotta omissiva e il danno riportato dal paziente. In particolare, per affermare che l’omessa informazione fu causa materiale dell’evento dannoso occorre ricostruire il nesso di condizionamento fra l’omessa informazione e l’evento di danno attraverso un giudizio controfattuale. – Cass. 23 gennaio 2023, n. 1936.

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sull’accertamento del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità sanitaria, in particolare nel caso di omessa informazione da parte del medico nei confronti del paziente su delle tecniche terapeutiche alternative.

In primo e secondo grado la struttura sanitaria era stata condannata al risarcimento dei danni subiti da un paziente a seguito di un intervento chirurgico. I giudici di merito avevano ravvisato la responsabilità del medico sostenendo che, pur essendo stato l’intervento eseguito in maniera corretta e diligente, egli non aveva provveduto ad informare il paziente circa la possibilità di ricorrere ad una diversa e più moderna tecnica terapeutica, la quale avrebbe certamente evitato l’insorgere delle complicanze che si sono poi verificate.

La struttura sanitaria propone, così, ricorso per Cassazione eccependo l’erronea valutazione da parte dei giudici di merito del nesso di causalità intercorrente tra la condotta del medico e i danni subiti dal paziente.

La Suprema Corte ritiene la censura fondata, individuando nella sentenza impugnata una violazione dei principi delineati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di causalità materiale.

I giudici di merito hanno individuato quale unico profilo di colpa nella condotta del medico l’omessa informazione al paziente sull’esistenza di tecniche terapeutiche alternative. Pertanto, per pervenire ad una condanna della struttura sanitaria al risarcimento del danno, sarebbe stato necessario accertare il nesso causale tra tale omissione e la verificazione del danno patito dal paziente.

Tale giudizio non è stato effettuato dalla Corte d’Appello la quale si è limitata ad affermare che la tecnica terapeutica alternativa di cui il paziente non è stato informato avrebbe evitato l’evento, e di conseguenza, la condotta omissiva del medico è stata causa dei danni riportati dal paziente.

Bisognava, invece, accertare, attraverso un giudizio controfattuale, l’esistenza del nesso di causalità tra l’omessa informazione e l’evento di danno. Occorreva verificare, altresì, con giudizio di probabilità logica, quale scelta avrebbe fatto il paziente qualora fosse stato informato della possibilità di ricorrere ad una tecnica terapeutica alternativa rispetto a quella utilizzata.

Dunque, non avendo i giudici di merito proceduto a tale accertamento, limitandosi ad affermare che la tecnica alternativa avrebbe evitato l’evento, e che, pertanto, la condotta omissiva del medico fu causa del danno, la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno cassare la sentenza rinviando alla Corte d’appello per l’accertamento dell’eventuale sussistenza del nesso causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento dannoso.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438; Cass., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985
giurista risponde

Migliorie del coerede e rimborso spese Il coerede che apporta delle migliorie al bene comune ha diritto al rimborso delle spese sostenute?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

Il coerede, il quale abbia apportato miglioramenti al bene ereditario da lui posseduto, non può invocare la disciplina dell’art. 1150 c.c. – la quale attribuisce al terzo possessore di buona fede una indennità pari all’aumento di valore della cosa per effetto dei miglioramenti – ma, quale mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, ha unicamente il diritto di essere rimborsato delle spese fatte per la cosa comune, dal momento che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti apportati dal coerede; ne consegue che al momento dell’attribuzione delle quote l’apporto si ripartisce, insieme con le spese, tra i vari condividenti, secondo il principio nominalistico. – Cass., sez. VI, 17 gennaio 2023, n. 1207.

Il coerede, che sul bene comune da lui posseduto abbia apportato delle migliorie, può pretendere il rimborso delle spese sostenute, ex art. 1110 c.c., in sede di divisione. Non può, invece, secondo consolidato orientamento della Cassazione, chiedere un’indennità pari all’aumento del valore della cosa, in base all’art. 1150 c.c.

In applicazione di questo principio, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal comunista che aveva apportato migliorie all’immobile in cui abitava, riconoscendogli il diritto, in sede di divisione, ad ottenere il rimborso dagli altri coeredi per le spese sostenute.

La comunione ereditaria è la situazione di contitolarità sui beni indivisi del de cuius che si perfeziona al momento dell’accettazione del patrimonio ereditario. Con la divisione, che può essere consensuale, testamentaria o giudiziale, i beni indivisi vengono ripartiti ed attribuiti a ciascun erede.

Prima di tale momento, tutti i comunisti hanno il diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa in comune che deve essere gestita collettivamente. In ragione di ciò, se il coerede apporta dei miglioramenti al bene da lui posseduto non potrà invocare la disciplina di cui all’art. 1150 c.c. che riconosce al terzo possessore in buona fede una indennità pari all’aumento del valore della cosa per effetto del proprio intervento. Egli avrà, però, diritto, in qualità di mandatario degli altri compartecipi o utile gestore della comunione ereditaria, al rimborso delle spese sostenute (così anche Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300).

Solo per i debiti di valore, al momento della liquidazione, viene riconosciuta la rivalutazione monetaria della somma da corrispondere al creditore. Pertanto, essendo l’obbligo di rimborso classificabile quale debito di valuta, in sede di determinazione del quantum da attribuire al comunista creditore, la somma non sarà sottoposta a maggiorazione in base alla rivalutazione del valore del bene (in tal senso anche Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135).

Tale diritto sorge anche nel caso di utilizzo esclusivo dell’immobile prima della divisione, dato che i miglioramenti apportati, per il principio di accessione, accrescono il valore del bene in comunione e se ne deve tenere conto ai fini della stima dello stesso, per la determinazione delle quote e la liquidazione dei conguagli. Rientrano nella nozione di “migliorie” quelle opere che abbiano accresciuto il godimento, la produttività e la redditività del bene, senza presentare una propria individualità rispetto alla “res” in cui vanno ad incorporarsi.

Quindi, il partecipante che, “in caso di trascuranza degli altri”, ex art. 1110 c.c., abbia sostenuto le spese necessarie per la conservazione della cosa comune, potrà rivolgersi a ciascuno degli altri coeredi per ottenere il rimborso in proporzione alle rispettive quote, fatta salva la quota di spesa di sua personale spettanza, che resterà a suo carico (sul punto si veda Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841).

Concludendo, la Cassazione riconosce tale diritto al comunista, confermando il precedente indirizzo che configura come debito di valuta la somma spettante a colui che abbia apportato miglioramenti alla massa ereditaria e, cassando l’ordinanza impugnata, rinvia alla Corte di Appello, in diversa composizione, per una decisione che tenga conto del principio di diritto affermato in sede di legittimità

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cass., sez. II, 17 luglio 2020, n. 15300; Cass., sez. II, 21 dicembre 2019, n. 5135; Cass., sez. II, 11 settembre 2013, n. 20841
giurista risponde

Iscrizione ipotecaria beni coniuge obbligato mantenimento Il giudice ha il potere di sindacare nel merito l’iscrizione ipotecaria sui beni immobili del coniuge obbligato al mantenimento, al fine di verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento?

Quesito con risposta a cura di Enesia Ciampa, Giovanna de Feo, Giacomo Migliarini

 

In tema di iscrizione ipotecaria, il giudice avanti al quale è proposta una istanza di cancellazione dell’ipoteca, disposta ai sensi dell’art. 156, comma 5, c.c., è tenuto a verificare la sussistenza o meno del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c. – Cass., Sez. I, 16 gennaio 2023, n. 1076.

L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che riconosce al creditore il potere di espropriazione e di soddisfazione, con preferenza, rispetto agli altri creditori (art. 2808 c.c.). Viene definita giudiziale l’ipoteca che abbia il proprio titolo in una sentenza di condanna (art. 2818 c.c.).

Con specifico riguardo ai procedimenti di separazione e divorzio, rispettivamente l’art. 156, comma 5, c.c. e l’art. 8, comma 2, della L. 898/1970 recano l’iscrizione ipotecaria giudiziale sui beni del soggetto obbligato.

La pronuncia in esame scaturisce dal contrasto, sorto in giurisprudenza, tra l’orientamento, seguito da numerose Corti di merito, che predilige un’interpretazione letterale delle norme sopra indicate e l’orientamento, prevalso in sede di legittimità, che ritiene opportuno leggere sistematicamente le disposizioni in commento.

In particolare, la Corte di Appello, nel caso di specie, aderisce all’indirizzo minoritario, sostenendo che tali norme non richiedano espressamente una valutazione preventiva circa la pericolosità attuale o potenziale dell’inadempimento. Alla stregua di tale indirizzo, l’ex coniuge creditore può iscrivere ipoteca giudiziale sui beni del soggetto obbligato al mantenimento dei figli minori, in forza, sic et sempliciter, della sentenza che ne costituisce il titolo, senza che sia necessariamente sussistente il periculum di inadempimento.

Ciò in perfetta coerenza con l’art. 2818 c.c. secondo cui ogni sentenza che porta la condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, ovvero al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente, è titolo per iscrivere ipoteca.

L’unico rimedio a disposizione del debitore potrebbe essere quello di chiedere al giudice una riduzione dell’ipoteca nel caso di iscrizione per un valore eccedente rispetto all’ammontare complessivo del mantenimento da garantire.

Il secondo orientamento, cui aderisce la Corte di Cassazione, dando spazio ad un’interpretazione sistematica delle norme in commento, ritiene che il giudice, avanti al quale è stata proposta istanza di cancellazione dell’ipoteca, sia tenuto a verificare la sussistenza del pericolo di inadempimento dell’obbligato e a disporre, in mancanza, l’emanazione dell’ordine di cancellazione.

Sia l’art. 156 c.c. che l’art. 8 della legge sul divorzio, elencano, infatti, una serie di rimedi parametrati all’entità dell’inadempimento: il sequestro scaturisce dalla inadempienza effettiva, l’iscrizione ipotecaria, invece, può essere imposta dal giudice nel caso in cui esista il pericolo che il coniuge possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di mantenimento.

L’opposto orientamento esporrebbe il debitore ad abusi da parte del creditore che, al fine di assicurare l’adempimento al credito, potrebbe decidere di effettuare l’iscrizione ipotecaria in via preventiva sui beni dell’ex coniuge.

Lobbligazioni derivanti dai provvedimenti di famiglia sono solitamente periodiche e destinate a durare per un numero elevato di anni, per cui un’iscrizione ad ipoteca che non abbia l’effettiva funzione di garantire il credito, per mancanza del pericolo, potrebbe piuttosto diventare solo un vincolo perpetuo ed eccessivo per i beni del debitore.

Se l’intento del legislatore, nella previsione di molteplici rimedi all’inadempimento, è quello di tutelare il beneficiario dell’assegno, che ha diritto alla corresponsione delle somme determinate dalla sentenza, dall’altro non può non tutelarsi anche la posizione del debitore, il cui patrimonio potrebbe soggiacere, qualora si aderisse all’orientamento dei giudici di merito, ad un’iscrizione ipotecaria perpetua, senza alcun fondamento pratico.

Per tale motivo la valutazione del creditore circa la sussistenza di siffatto pericolo è sindacabile nel merito, onde la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina l’estinzione della garanzia e la nascita del diritto del debitore ad ottenere dal giudice l’ordine di cancellazione.

Alla luce delle considerazioni esposte, il Supremo Consesso ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata che, aderendo all’orientamento minoritario, aveva disposto l’iscrizione ipotecaria senza alcun apprezzamento circa il rischio che il ricorrente potesse sottrarsi o meno all’adempimento stesso.

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Trib. Milano 18 giugno 2009, n. 7941; Cass., sez. I, 6 luglio 2004, n. 12309
Difformi:      Corte App. Firenze, sez. II, 25 febbraio 2017; Corte App. Milano, 18 maggio 2020, n. 1154