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ChatGpt: Garante Privacy multa Openai Il Garante Privacy ha chiuso l'istruttoria nei confronti di Openai che dovrà realizzare una campagna informativa di 6 mesi e pagare una sanzione di 15 milioni di euro

ChatGPT, istruttoria Garante Privacy

ChatGPT il Garante per la protezione dei dati personali ha adottato nei giorni scorsi un provvedimento correttivo e sanzionatorio nei confronti di OpenAI in relazione alla gestione del servizio ChatGPT.

Le violazioni

Il provvedimento, che accerta le violazioni a suo tempo contestate alla società californiana, arriva all’esito di un’istruttoria avviata nel marzo del 2023 e dopo che l’EDPB (Comitato europeo per la protezione dei dati) ha pubblicato il parere con il quale identifica un approccio comune ad alcune delle più rilevanti questioni relative al trattamento dei dati personali nel contesto della progettazione, sviluppo e distribuzione di servizi basati sull’intelligenza artificiale.

IA generativa

Secondo il Garante la società statunitense, che ha creato e gestisce il chatbot di intelligenza artificiale generativa, oltre a non aver notificato all’Autorità la violazione dei dati subita nel marzo 2023, ha trattato i dati personali degli utenti per addestrare ChatGPT senza aver prima individuato un’adeguata base giuridica e ha violato il principio di trasparenza e i relativi obblighi informativi nei confronti degli utenti. Per di più, OpenAI non ha previsto meccanismi per la verifica dell’età, con il conseguente rischio di esporre i minori di 13 anni a risposte inidonee rispetto al loro grado di sviluppo e autoconsapevolezza.

Campagna informativa di 6 mesi

L’Autorità, con l’obiettivo di garantire, innanzitutto, un’effettiva trasparenza del trattamento dei dati personali, ha ordinato a OpenAI, utilizzando per la prima volta i nuovi poteri previsti dall’articolo 166, comma 7 del Codice Privacy, di realizzare una campagna di comunicazione istituzionale di 6 mesi su radio, televisione, giornali e Internet.

I contenuti, da concordare con l’Autorità, dovranno promuovere la comprensione e la consapevolezza del pubblico sul funzionamento di ChatGPT, in particolare sulla raccolta dei dati di utenti e non-utenti per l’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa e i diritti esercitabili dagli interessati, inclusi quelli di opposizione, rettifica e cancellazione.

Grazie a tale campagna di comunicazione, gli utenti e i non-utenti di ChatGPT dovranno essere sensibilizzati su come opporsi all’addestramento dell’intelligenza artificiale generativa con i propri dati personali e, quindi, essere effettivamente posti nelle condizioni di esercitare i propri diritti ai sensi del GDPR.

Sanzione di 15 milioni di euro

Il Garante ha comminato a OpenAI una sanzione di quindici milioni di euro calcolata anche tenendo conto dell’atteggiamento collaborativo della società.

Infine, tenuto conto che la società, nel corso dell’istruttoria, ha stabilito in Irlanda il proprio quartier generale europeo, il Garante, in ottemperanza alla regola del c.d. one stop shop, ha trasmesso gli atti del procedimento all’Autorità di protezione dati irlandese (DPC), divenuta autorità di controllo capofila ai sensi del GDPR, affinché prosegua l’istruttoria in relazione a eventuali violazioni di natura continuativa non esauritesi prima dell’apertura dello stabilimento europeo.

giurista risponde

Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria Quali effetti si producono sul testamento in caso di apposizione di onere o condizione sospensiva non avveratasi per esclusiva volontà del disponente?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

In materia successoria, ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva alla disposizione testamentaria, dipendente anche dalla sua volontà, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace (Cass., sez. II, ord. 18 settembre 2024, n. 25116).

Il caso di specie origina da un testamento olografo con cui il testatore istituisce come eredi universali due nipoti chiedendo loro di occuparsi del suo accudimento, nel paese natio, fintantoché in vita.

A seguito di impugnazione dell’anzidetto atto mortis causa, l’adito Tribunale, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali, escluse che con il testamento fosse stato istituito un patto successorio vietato dalla legge e che lo stesso fosse viziato da errore, violenza o dolo.

Quanto all’impegno per l’accudimento, sostenne che si ebbe a trattare di un mero desiderio, privo d’efficacia condizionante e che la conclusione non sarebbe mutata pur ove lo si fosse considerato come onere, trattandosi di adempimento, originariamente possibile, successivamente divenuto impossibile per decisione del testatore, il quale aveva categoricamente rifiutato di trasferirsi nel paese natio e di essere accudito dai nipoti.

Anche la Corte di appello territoriale rigettò l’impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado: non può trattarsi di onere per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta delazione. Invero, nel caso in esame, si trattava di prestare assistenza al testatore in vita.

Dal complessivo vaglio probatorio doveva escludersi che il testatore volesse esprimere un mero desiderio privo di rilevanza giuridica. Si trattava, invece, di condizione sospensiva, divenuta impossibile per successivo volere dello stesso disponente, ma non originariamente tale; da qui la non applicabilità dell’art. 634, comma 2, c.c., con il risultato che doveva trovare applicazione l’art. 1359 c.c., riferibile anche alla condotta di colui che abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, con la conseguenza che la stessa deve ritenersi adempiuta (così anche Cass., sez. II, 18 novembre 2011, n. 24325; Cass. 20 luglio 2004, n. 13457).

Viene proposto ricorso per Cassazione in cui i ricorrenti assumono che la Corte aveva violato la regola ermeneutica sopra richiamata.

In materia testamentaria, secondo i ricorrenti, con i dovuti adattamenti era applicabile l’art. 1362 c.c., così da evitare che la volontà del testatore venisse prevaricata dall’interprete.

In altri termini, il contenuto letterale deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore successivamente alla stesura della scheda: seguendo gli indicati criteri, in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente col solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione, cioè il materiale accudimento.

Con il secondo motivo viene denunciata errata applicazione dell’art. 1359 c.c. in quanto non attinente alla fattispecie in esame, trattandosi di evento possibile, futuro e incerto alla data di redazione del testamento, norma posta a tutela di posizioni giuridiche attive, quali l’aspettativa dell’altro contraente, situazione che non ricorreva affatto nel caso di specie.

La censura è stata rigettata: la previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa; regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.

La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento rende impraticabile l’estensione della regola.

Il Codice civile ha raccolto l’eredità della cd. regola sabiniana, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria. L’art. 634 c.c., invero, prevede una disciplina diversa rispetto a quella contemplata per i contratti dall’art. 1354 c.c., diretta a salvaguardare la volontà del disponente; volontà che deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 c.c. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).

L’art. 634 c.c. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume.

La condizione apposta al testamento in oggetto non rientra in alcuna delle anzidette categorie e se ne distingue nettamente sotto altro profilo: il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito in vita dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore. È stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina a eredi universali dei nipoti: proprio il “favor testamenti” impone comunque la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la revoca, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.

In ragione delle motivazioni esposte, il ricorso è stato rigettato.

(*Contributo in tema di “Condizione sospensiva nella disposizione testamentaria”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

doveri dell'avvocato

I doveri dell’avvocato Doveri dell’avvocato: previsti dalla disciplina dell’ordinamento della professione forense e dal Codice deontologico

Doveri dell’avvocato: le fonti normative

I doveri dell’avvocato sono molteplici. L’attività legale in Italia è infatti regolata da norme precise che definiscono non solo i diritti degli avvocati, ma anche i loro doveri professionali nei confronti dei clienti, della giustizia e della collettività. La Legge 247 del 2012 e il Codice Deontologico Forense rappresentano le principali fonti normative in materia di deontologia professionale e disciplinano i comportamenti degli avvocati. Questi testi normativi assicurano che la loro attività sia condotta con etica, trasparenza e rispetto delle regole.

In questo articolo, esploreremo in dettaglio i doveri dell’avvocato, analizzando gli aspetti principali della legge n. 247/2012 e del Codice Deontologico Forense, per comprendere l’influenza di questi testi sull’esercizio della professione legale e sulla tutela degli interessi dei clienti e della giustizia.

Doveri dell’avvocato nella Legge 247/2012

La Legge 247 del 2012 rappresenta una normativa fondamentale per la professione forense in Italia. Essa ha introdotto importanti novità in materia di formazione, accesso alla professione e disciplina dell’attività. La legge stabilisce i principi fondamentali che devono orientare l’operato dell’avvocato, tracciando un quadro normativo che bilancia i diritti della professione con i doveri nei confronti dei clienti, della giustizia e della collettività. Vediamo quali sono i doveri degli avvocati in base alla legge 247 del 2012.

Obbligo di lealtà e correttezza

La Legge 247 stabilisce che l’avvocato debba agire con lealtà e correttezza nei confronti del cliente, della controparte, dell’autorità giudiziaria e degli altri professionisti. Questo dovere implica che l’avvocato non possa adottare comportamenti fraudolenti, ingannevoli o dilatori. Il professionista deve evitare ogni azione che possa compromettere l’integrità del processo.

Obbligo di competenza professionale

L’avvocato è tenuto a esercitare la professione con competenza. La legge impone l’obbligo di mantenere una costante formazione professionale e di non assumere incarichi in materie di cui non ha adeguata conoscenza. La responsabilità di garantire un’assistenza legale adeguata al cliente è uno dei principali fondamenti della professione.

Obbligo di indipendenza

L’avvocato deve esercitare la professione in piena indipendenza, evitando conflitti di interesse e garantendo che la sua attività non sia influenzata da pressioni esterne. Questo principio è essenziale per tutelare l’autonomia dell’avvocato nella difesa dei diritti del cliente.

Obbligo di riservatezza

Uno dei doveri più importanti dell’avvocato è il rispetto del segreto professionale. La Legge 247 del 2012 stabilisce che l’avvocato debba mantenere riservate tutte le informazioni confidenziali acquisite durante l’esercizio della professione. Questa norma ha lo scopo di garantire la fiducia del cliente nell’avvocato e di tutelare i suoi diritti.

Obbligo di assistenza legale continuativa

L’avvocato ha l’obbligo di fornire un’assistenza legale continuativa al cliente, tenendo conto delle specifiche esigenze del caso. L’avvocato deve impegnarsi per risolvere le problematiche legali del cliente nel miglior modo possibile, rispettando i termini e le scadenze procedurali.

Obbligo di informazione al cliente

L’avvocato deve informare il cliente sull’evoluzione del caso e le possibili strategie da adottare, rendendo noto anche il possibile esito della causa e le eventuali implicazioni legali ed economiche.

Doveri dell’avvocato nel Codice deontologico forense

Il Codice Deontologico Forense, approvato dal Consiglio Nazionale Forense (CNF) e aggiornato periodicamente, è il documento che disciplina in modo dettagliato l’etica e la condotta degli avvocati italiani. Esso si integra con la Legge 247 del 2012 e rappresenta una guida di comportamento che l’avvocato deve rispettare quotidianamente. Esso definisce i doveri nei confronti del cliente e la parte assistita, dei terzi e delle controparti, ma anche nei confronti delle istituzioni giudiziarie e forensi, della collettività e  dei colleghi.

Vediamo quindi quali sono i principali doveri dell’avvocato previsti dal Codice Deontologico.

Incompatibilità

L’avvocato deve evitare di svolgere attività che siano incompatibili con la sua iscrizione all’albo. Non deve svolgere inoltre attività che possano contrastare clan i doveri di dignità, probità, decoro e indipendenza.

Dignità professionale

L’avvocato deve astenersi da comportamenti che possano danneggiare la dignità della professione, come il ricorso a tecniche aggressive, minacciose o disoneste. Il rispetto per la giustizia e per gli altri professionisti deve sempre prevalere.

Dovere di fedeltà

Il legale deve rispettare il mandato ricevuto e deve svolgere la sua attività tutelando l’interesse della parte e rispettando il ruolo costituzionale e sociale della attività difensiva.

Diligenza e competenza

L’avvocato deve esercitare l’attività con coscienza, diligenza e competenza per garantire la qualità della prestazione. A tal fine è tenuto anche al rispetto del dovere di aggiornamento professionale e di formazione continua.

Segretezza e riservatezza

L’avvocato è tenuto al rispetto del segreto professionale nello svolgimento dell’attività stragiudiziale, giudiziale e di consulenza. Tali principi devono ispirare la sua condotta anche quando si rapporta con gli organi dell’informazione.

Adempimenti fiscali, contributivi e assicurativi

Come tutti i lavoratori autonomi l’avvocato è tenuto a rispettare i vari adempimenti fiscali, contributivi e assicurativi imposti dalla legge.

Lealtà e onestà professionale

L’avvocato è chiamato a comportarsi con lealtà verso tutti gli attori del processo: il cliente, la controparte, i giudici e gli altri professionisti. Deve evitare pratiche ingannevoli o dilatorie, agendo sempre con trasparenza.

Rispetto dell’autonomia del cliente

L’avvocato deve rispettare l’autonomia decisionale del cliente, consigliarlo in modo corretto e non forzarlo a prendere decisioni contro la sua volontà o interesse. L’assistenza legale deve sempre essere volta a tutelare gli interessi del cliente e a far rispettare i principi della giustizia.

Divieto di promesse di risultati

L’avvocato è tenuto a non può promettere o garantire l’esito positivo di una causa. Ogni causa porta con sé delle incertezze, e l’avvocato deve informare il cliente circa le probabilità di successo, ma non deve mai fare dichiarazioni che possano ingannarlo.

Obbligo di assistenza equa

Il Codice Deontologico impone che ogni avvocato, anche se incaricato in una causa in cui non vi è un interesse economico diretto, debba assicurare la migliore assistenza legale possibile, rispettando i principi di equità e giustizia.

Divieto di conflitto di interessi

L’avvocato deve evitare qualsiasi situazione di conflitto di interessi che potrebbe compromettere la sua imparzialità e la difesa dei diritti del cliente. In caso di conflitto, l’avvocato è obbligato a rinunciare all’incarico.

Obbligo di educazione e correttezza verso i colleghi

L’’avvocato deve mantenere rapporti di cortesia e rispetto con i colleghi e gli altri operatori del diritto. La concorrenza tra avvocati deve essere sana e improntata al principio della correttezza professionale, evitando comportamenti denigratori o sleali.

Mancato rispetto dei doveri dell’avvocato: conseguenze

Il mancato rispetto dei doveri professionali stabiliti dalla Legge 247 del 2012 e dal Codice Deontologico Forense può comportare sanzioni disciplinari per l’avvocato. Queste sanzioni vanno dal semplice  avvertimento alla radiazione dall’albo. Nei casi più gravi la sanzione disciplinare può essere aumentata.

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azione di indebito arricchimento

Azione di indebito arricchimento Azione di indebito arricchimento: analisi dell'azione legale disciplinata dall'art. 2041 del codice civile

Azione di indebito arricchimento: cos’è

L’azione di indebito arricchimento è uno degli istituti giuridici più importanti nel diritto civile italiano, previsto dall’articolo 2041 del Codice Civile. Si tratta di un’azione legale che consente a una persona di richiedere la restituzione di somme o beni che hanno indebitamente arricchito  un’altra persona, senza alcuna giustificazione legale. La disciplina di questa azione è contenuta nell’articolo 2041 c.c.

Vediamo quindi cos’è l’azione di indebito arricchimento, come funziona e quali sono le implicazioni legali, facendo riferimento appunto all’articolo 2041 del Codice Civile italiano.

Scopo dell’azione di indebito arricchimento

L’azione di indebito arricchimento è un rimedio giuridico previsto dal diritto civile. Essa ha lo scopo di garantire l’uguaglianza tra le parti e prevenire che una persona tragga un vantaggio economico ingiustificato a scapito di un’altra. Il principio alla base di questa azione è il seguente: chi si arricchisce in danno di un’altra persona senza che vi sia un valido motivo giuridico, deve restituire quanto ricevuto perché non ingiustificato.

Articolo 2041 del Codice Civile

L’articolo 2041 stabilisce infatti nello specifico che: “Chi senza giusta causa si è arricchito a spese di un altro, è obbligato a restituire l’indebito arricchimento, nella misura in cui il beneficiato sia in grado di restituire quanto ricevuto.”

In altre parole, la legge prevede che se un individuo ha tratto un vantaggio economico (sia in denaro che in beni) da un’altra persona senza una ragione legittima, costui è tenuto a restituire l’ammontare dell’arricchimento che ha ricevuto.

Come funziona l’azione di indebito arricchimento?

Per esercitare l’azione di indebito arricchimento, devono essere presenti quindi alcune condizioni specifiche. Vediamole nel dettaglio.

  1. Arricchimento ingiustificato

La prima condizione affinché si possa parlare di indebito arricchimento è che una delle parti si sia effettivamente arricchita. L’arricchimento poi può avere natura materiale (ad esempio, un trasferimento di denaro o beni) o economica (ad esempio, la prestazione di un servizio che non è stato compensato).

  1. Danno per la parte arricchita

Il beneficiario dell’arricchimento deve essere stato danneggiato, ossia deve aver subito una perdita economica o patrimoniale a causa dell’arricchimento ingiustificato dell’altra persona. La persona che chiede la restituzione deve essere quella che ha subito quindi il danno.

  1. Mancanza di giusta causa

L’elemento chiave dell’articolo 2041 è che l’arricchimento sia senza giusta causa. Questo significa che non deve esserci una giustificazione giuridica per il trasferimento di beni o denaro. Ad esempio, se qualcuno paga per un servizio che non è stato reso, o se riceve un pagamento in eccesso per un servizio che non è stato completato, potrebbe configurarsi un caso di indebito arricchimento.

Esempi di azione di indebito arricchimento

Vediamo alcuni esempi concreti per comprendere meglio come funziona l’azione di indebito arricchimento:

  1. Pagamento Involontario o errato

Se una persona effettua un pagamento errato o involontario a una seconda persona, questa potrebbe essere tenuta a restituire la somma ricevuta. Ad esempio, se un cliente paga una fattura più alta rispetto a quanto dovuto, il venditore è obbligato a restituire la somma in eccesso, a meno che non vi siano altre giustificazioni per il pagamento maggiore.

  1. Prestazioni di servizi non richiesti

Si può anche verificare che una persona offra servizi a un’altra senza che questi siano stati richiesti. Ad esempio, un’impresa di pulizie esegue lavori non richiesti e l’altra parte non intende pagarli. In questo caso, se l’impresa riceve un pagamento, potrebbe essere tenuta a restituirlo, dato che il pagamento non ha alcuna giustificazione legale.

  1. Trasferimento di beni senza consenso

Un altro esempio di indebito arricchimento è il trasferimento di beni da una persona a un’altra senza il consenso o una causa giuridica valida. Se una persona, ad esempio, consegna per errore a un’altra una somma di denaro, l’altra persona deve restituirla, perché si è arricchita senza giusta causa.

Elementi fondamentali azione di indebito arricchimento

Riepilogando, affinché l’azione di indebito arricchimento possa essere accolta in tribunale, è necessaria la sussistenza di determinati elementi.

Arricchimento: la parte contro cui viene promossa l’azione deve essersi effettivamente arricchita, sia in termini economici che patrimoniali.

Perdita per la parte danneggiata: l’indebito arricchimento deve aver causato una perdita al soggetto che promuove l’azione.

Ingiustizia del trasferimento:  non deve esistere una giustificazione legale per il trasferimento di ricchezza.

Restituzione: la parte arricchita è tenuta a restituire l’indebito arricchimento nella misura in cui è possibile farlo.

 

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Legittimo l'obbligo di testimonianza

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto La Corte Costituzionale ha dichiarato non irragionevole l'obbligo previsto dal 1° comma dell'art. 199 c.p.p. se il familiare è persona offesa dal reato

Obbligo di testimonianza prossimo congiunto

Legittimo l’obbligo di testimonianza del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato. Così, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 200/2024, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale relative al primo comma dell’art. 199 del codice di procedura penale. Disposizione che, mentre riconosce ai prossimi congiunti dell’imputato la facoltà di astenersi dal testimoniare, introduce un’eccezione per il familiare che sia persona offesa dal reato.

La qlc

Decidendo sulle censure del Tribunale di Firenze, riferite agli articoli 3, 27, secondo comma, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della CEDU, la Consulta ha affermato che “tale eccezione alla facoltà di astensione non è irragionevole, né sproporzionata, e neppure lede la vita e l’unità della famiglia”. Ciò in quanto essa, da un lato “corrisponde al fatto che proprio la condotta offensiva dell’imputato normalmente incide sul legame affettivo sotteso alla facoltà di astenersi”. Dall’altro, “protegge la vittima del reato dalle pressioni che spesso provengono dallo stesso ambito familiare affinché si astenga dal deporre”.

Legittimo l’obbligo di testimonianza: la decisione

È stata altresì disattesa dal giudice delle leggi – per il carattere fortemente “manipolativo” della sollecitata pronuncia – “la richiesta subordinata del rimettente, diretta a ottenere l’eliminazione dell’obbligo di deporre del congiunto, persona offesa, nell’ipotesi in cui la sua deposizione non sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti”.

La Corte ha sottolineato, infine, che quella del prossimo congiunto, offeso dal reato, “non si differenzia da un’ordinaria testimonianza, sicché nei suoi confronti può essere applicata, ove ne ricorrano gli estremi, la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, primo comma, del codice penale”.

giurista risponde

Chiamata in causa del terzo costruttore Si può chiamare in causa il terzo costruttore per vizi del bene venduto?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Il venditore di un immobile può chiamare in causa il terzo costruttore solo per essere sollevato dalla responsabilità derivante da gravi difetti presenti nella costruzione e non anche per la mancata comunicazione all’acquirente dei vizi della cosa di cui era a conoscenza, poiché si tratta di responsabilità per violazione del principio di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, di cui all’art. 1175 c.c., che non coinvolge il terzo (Cass., sez. II, 28 agosto 2024, n. 23233).

La Corte di Cassazione, con la sentenza in disamina ha affrontato questioni relative alla responsabilità del costruttore e del venditore per vizi dell’immobile.

Il caso di specie riguarda l’acquisto di un immobile affetto da gravi problemi di umidità e allagamenti dovuti a difetti nel sistema fognario.

L’acquirente dell’immobile aveva citato in giudizio l’alienante per ottenere l’eliminazione dei vizi presenti nello stesso immobile, il rimborso parziale del prezzo ed inoltre il risarcimento dei danni. Il venditore si costituiva chiamando in causa la società costruttrice del fabbricato.

Il Tribunale condannava il solo venditore e non la società costruttrice poiché la domanda era formulata in modo generico e non con l’esperimento di un’azione ex art. 1669 c.c.

Invero, il venditore appellava la sentenza per ottenere la condanna del costruttore.

La Corte d’Appello accertava la responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. e quella del venditore ex art. 1175 c.c., per non aver comunicato all’acquirente l’esistenza dei vizi dell’immobile di cui era a conoscenza. Condannava, quindi, la società costruttrice a tenere indenne l’appellante da tutte le conseguenze economiche derivanti dal fatto.

La società costruttrice ricorreva per Cassazione ed il ricorso veniva accolto.

La Corte ha, innanzitutto, ribadito che, a norma dell’art. 1669 c.c., la responsabilità del costruttore per gravi difetti dell’immobile sussiste se la scoperta del vizio avviene entro 10 anni dal completamento dell’opera. Il termine decorre dal collaudo e non dalla vendita dell’immobile. La responsabilità dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1669 c.c. è “speciale” rispetto a quella generica contemplata dall’art. 2043 c.c.: quest’ultima ricorre in via residuale, qualora non sussistano in concreto le condizioni giuridiche per l’applicabilità della prima (ad esempio, in caso di danno manifestatosi oltre il decennio dal compimento dell’opera).

La Cassazione chiarisce che il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c. a pena di decadenza, può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (così anche Cass. 24 aprile 201, n. 10048; Cass. 23 gennaio 2008, n. 1463).

Nel caso di specie il venditore aveva avuto una conoscenza solo imperfetta dei vizi, pertanto, si era esperita una consulenza tecnica grazie alla quale era stata possibile l’imputazione delle cause; pertanto, dalla stessa consulenza occorreva far decorrere il termine di cui all’art. 1669 c.c.

Affinché possa essere fatta valere la responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. è necessaria la sussistenza di determinati elementi quali: un bene immobile destinato a lunga durata, la rovina dell’opera già avvenuta (sia nella forma totale che parziale), o anche l’attuale pericolo di rovina nell’immediato futuro; da ultimo l’esistenza di gravi difetti (nozione molto dibattuta in giurisprudenza e nella quale sembrerebbero rientrare tutti i vizi che incidono sugli elementi essenziali dell’immobile) della costruzione che pregiudicano la caratteristica della lunga durata.

Inoltre, la Cassazione ha chiarito che il momento della “scoperta” del vizio coincide con l’acquisizione della piena consapevolezza della sua gravità e delle sue cause, anche attraverso accertamenti tecnici.

Nel caso specifico, tale momento è stato individuato nel deposito della CTU.

La Suprema Corte non ritiene fondati i motivi per cui a fronte di una chiamata in causa del terzo formulata in modo generico in primo grado, la richiesta di risarcimento ex art. 1669 c.c., rivolta allo stesso terzo in secondo grado, deve essere considerata domanda nuova.

Secondo la Suprema Corte il titolo della responsabilità del terzo era già compreso nella ragione che aveva indotto il convenuto a chiamarlo in causa in primo grado, anche in assenza di esplicita domanda in tal senso, poiché la chiamata era rivolta a liberarsi dalla pretesa attorea (Cass. 29 dicembre 2009, n. 27525).

Un importante principio affermato dalla Corte riguarda l’estensione automatica al terzo chiamato (il costruttore) della domanda principale dell’attore contro il convenuto (il venditore), quando la chiamata in causa sia finalizzata a individuare il terzo come unico responsabile.

Ciò in virtù della comunanza del fatto costitutivo delle due fattispecie di responsabilità.

La sentenza ha anche ribadito che una domanda generica di risarcimento danni comprende tutte le possibili voci di danno, incluso quello non patrimoniale, purché siano stati allegati i fatti materiali lesivi. È ammissibile la produzione di documenti anche in fase successiva, se relativi a fatti collegati a quelli originariamente dedotti.

Un passaggio cruciale della decisione riguarda la responsabilità del venditore per violazione dei doveri di buona fede e correttezza.

La Corte ha censurato la sentenza d’Appello nella parte in cui aveva addossato al costruttore anche le conseguenze economiche derivanti dal comportamento scorretto del venditore, che era a conoscenza dei problemi ma non li aveva comunicati all’acquirente. Su questo punto la causa è stata rinviata per un nuovo esame.

Infine, la Cassazione ha confermato che il termine annuale per la denuncia dei vizi ex art. 1669 c.c. decorre solo dall’acquisizione di una “sicura conoscenza” dei difetti e delle loro cause, potendo essere postergato all’esito di accertamenti tecnici necessari.

In conclusione, la sentenza offre importanti chiarimenti su temi quali i termini dell’azione di responsabilità contro il costruttore, l’estensione della domanda al terzo chiamato, l’onere di allegazione dei danni e i doveri di correttezza del venditore.

(*Contributo in tema di “Chiamata in causa del terzo costruttore”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

giurista risponde

Danno del bene custodito e responsabilità del custode Il custode per il danno del bene custodito può essere esonerato dalla responsabilità ove provi la mancanza di colpa?

Quesito con risposta a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo

 

Ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota (Cass., sez. III, 19 settembre 2024, n. 25200).

La vicenda prende le mosse dalla morte di un ragazzo rimasto folgorato su un lampione cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio. In particolare, un gruppo di giovani giocava a calcetto, nel corso della partita un ragazzo scavalcava la recinzione per recuperare il pallone finito oltre e, nel rientro appoggiandosi ad un lampione privo di corpo illuminante, decedeva per folgorazione.

Tralasciando, in questa sede la responsabilità penale, procediamo nell’analisi della responsabilità civile ex art. 2051 c.c., in quanto essa trova applicazione anche in situazioni in cui vi è assoluzione in sede penale delle autorità preposte. Invero, la Suprema Corte ricorda che, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di affermare la sua responsabilità civile nel giudizio di risarcimento dei danni. Questo perché l’elemento della colpa e del nesso di causalità materiale nel processo civile è valutato dal giudice in modo differente rispetto alla valenza che assume nel processo penale.

Dunque, nel caso di specie sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale, ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo si concludeva con una condanna per omicidio colposo.

Sul fronte civile, invece, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda.

La Corte di Appello, accogliendo la domanda dei parenti della vittima, riformava la decisione e condannava il Comune al risarcimento dei danni.

La questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051c.c. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Così, in materia di rapporti tra giudizio penale e civile, l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni intentato a carico dello stesso, all’affermazione della sua responsabilità civile, considerato il diverso atteggiarsi, in tale ambito, sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale.

La sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempreché la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale, dovendosi far riferimento, per delineare l’ambito di operatività della sentenza penale e la sua idoneità a provocare gli effetti preclusivi di cui agli artt. 652, 653 e 654 c.p.p. non solo al dispositivo, ma anche alla motivazione.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile l’ente è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 c.c. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Nel caso di specie risulta provato che il giovane fosse morto per folgorazione e i lampioni non erano in sicurezza o recintati.

La Cassazione è consolidata nell’affermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione ai sensi dell’art. 2051 c.c. in quanto custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente. È, inoltre, responsabile per i danni causati dalle condizioni in cui versa la res in custodia anche quando questa sia modificata, tranne il solo caso in cui la modifica sia avvenuta con modalità tali (immediatamente prima, ad esempio) da escludere una qualsiasi pronta reazione; occorre, perciò, stabilire se il danno è causato dai lavori alla res in custodia in costanza dei medesimi (ipotesi nella quale la simultaneità della condotta dell’esecutore dei lavori elide il nesso causale con la cosa, questa regredendo a mera occasione del sinistro). Permane, invece, la responsabilità, se il danno è causato dalla res come modificata dai lavori e questi siano cessati da un tempo idoneo a consentire un intervento o adeguamento da parte del custode.

Non giova, pertanto, a un Comune la circostanza che le condizioni dell’impianto potessero essere ascritte all’esecutore dei lavori ove già consolidate, per cui l’ente ne risponde nei confronti dei terzi che ne fossero danneggiati.

 

(*Contributo in tema di “Danno del bene custodito: esonero di responsabilità del custode”, a cura di Valentina Musorrofiti e Marilena Sanfilippo, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)

limite mandati sindaci

Limite mandati sindaci: l’intervento della Consulta La Corte Costituzionale ha sentenziato che il limite ai mandati consecutivi per i sindaci non è irragionevole. Spetta al legislatore individuare il punto di equilibro tra i diversi interessi costituzionali

Limite mandati sindaci: “non è manifestamente irragionevole la scelta legislativa di stabilire, a seconda della dimensione demografica dei comuni, un limite ai mandati consecutivi dei sindaci, sempre che essa realizzi un equo contemperamento tra i diritti e i principi costituzionali che vengono in considerazione”. È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 196/2024, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, proposte dalla Regione Liguria, nei confronti dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 7 del 2024, che ha modificato la disciplina recata dall’art. 51, secondo comma, del t.u. enti locali.

Con tale disposizione, il legislatore ha previsto che per i sindaci dei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti non vi sia alcun limite ai mandati; che per i sindaci dei comuni con popolazione compresa tra 5.001 e 15.000 abitanti il limite di mandati consecutivi sia pari a tre; che per i sindaci dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti resti fermo il limite di due mandati consecutivi.

La Regione Liguria riteneva che la nuova disciplina violasse diversi parametri costituzionali, risultando in particolare irragionevole la previsione di due o tre mandati consecutivi a seconda del dato dimensionale del comune: di qui la richiesta di estendere anche ai sindaci dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti il limite di tre mandati consecutivi.

La Consulta ha ribadito che la previsione del numero massimo dei mandati consecutivi è scelta normativa idonea a bilanciare l’elezione diretta del sindaco con l’effettiva par condicio tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della rappresentanza politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali. Il punto di equilibrio tra tali contrapposti interessi costituzionali deve essere fissato dal legislatore ed è sindacabile solo se manifestamente irragionevole.

L’attuale art. 51, comma 2, del t.u. enti locali pone limiti diversi ai mandati consecutivi secondo una logica graduale, sul presupposto che tra le classi di comuni nei quali si articola l’attuale disciplina vi siano rilevanti differenze, in ordine agli interessi economici e sociali che fanno capo agli stessi: si tratta di un esercizio non manifestamente irragionevole della discrezionalità legislativa, che intende realizzare un equo contemperamento tra i diritti e i principi costituzionali che vengono in considerazione.

censura corrispondenza al 41-bis

Censura corrispondenza al 41-bis: quali limiti Non si può censurare tout court la corrispondenza al 41-bis senza l'applicazione graduale del solo visto di controllo

Carcere duro e corrispondenza

Censura corrispondenza al 41-bis: è inapplicabile senza l’applicazione graduale dello strumento ordinario del visto di controllo. Così la prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41191/2024 accogliendo il ricorso di un detenuto in regime detentivo speciale.

La vicenda

Nella vicenda, il Tribunale di Napoli ha confermato, in sede di impugnazione ai sensi dell’art. 18 ter ord. pen., il provvedimento in tema di limiti alla ricezione e visto di corrispondenza emesso dalla Corte di Assise di Appello di Napoli nei confronti di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis ord. pen.
Secondo il Tribunale le limitazioni alla ricezione di quotidiani dell’area geografica di provenienza del detenuto, così come il limite alla possibilità di inoltrare o ricevere (in via generale) missive da qualsiasi altro soggetto sottoposto al regime differenziato di cui all’art.41 bis ord. pen. sono del tutto legittime, in riferimento alle finalità perseguite dal regime differenziato.

Il ricorso

Avverso detta decisione l’uomo ha proposto ricorso per cassazione – nelle forme di legge – deducendo erronea applicazione di legge e assenza di motivazione.
La critica difensiva si dirige alla parte della decisione relativa al divieto «generalizzato» di scambi epistolari con soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen. In proposito, si osserva che la legge non consente un simile divieto «preventivo e generalizzato», quanto la sottoposizione al «visto di controllo», dunque ad una attività di analisi dei contenuti delle missive, a chiunque dirette.

Limitazioni alla corrispondenza epistolare

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato. “La disposizione di legge di cui all’art. 18 ter ord.pen. consente sia «limitazioni» alla corrispondenza epistolare che la «sottoposizione» al visto di controllo, sì da inibire forme di possibile prosecuzione o realizzazione di attività illecita. lI testo dell’articolo 41 bis ord. pen, in rapporto alla finalità di prevenire contatti con l’ambiente criminale di provenienza, indica come contenuto «necessario» del provvedimento applicativo la «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza».” Del resto, il soggetto sottoposto al 41-bis ha contatti con gli altri detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (parimenti sottoposti al regime differenziato).
Pertanto, osservano ancora i giudici, “non appare del tutto in linea con il contenuto delle disposizioni di legge, pur in un contesto di maggior tutela dei profili di sicurezza come è quello del regime differenziato, prevedere in assoluto e in via generale un «divieto» di corrispondenza epistolare tra soggetti – tutti – sottoposti al regime differenziato, posto che proprio il contenuto «strutturale» della disposizione di cui all’art. 41 bis ord. pen. induce a ritenere che lo strumento di controllo tipico è rappresentato dal «visto di censura», con verifica caso per caso del contenuto della comunicazione”.

La decisione

Le ‘limitazioni’ di cui all’art. 18 ter comma 1 lettera a), in riferimento al tema della corrispondenza, “è da ritenersi, dunque – concludono dal Palazzaccio annullando il provvedimento impugnato – che possano essere adottate solo in presenza di specifiche esigenze di sicurezza, da motivarsi in modo stringente, che rendano – in ipotesi – non sufficiente lo strumento ordinario del visto di censura”. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

giurista risponde

Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia Può intervenire l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire a seguito di comunicazione antimafia?

Quesito con risposta a cura di Michela Pignatelli

 

Sì, l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire per intervenuta comunicazione antimafia è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del destinatario ad essere titolare di provvedimenti amministrativi ampliativi (T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 18 settembre 2024, n. 5036).

Il Consiglio ha ritenuto che l’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire disposto dal Comune, per intervenuta comunicazione antimafia, è un atto vincolato che accerta la temporanea incapacità giuridica del soggetto ad essere destinatario di provvedimenti amministrativi ampliativi della propria sfera giuridica, inoltre prescinde, dunque, dall’operatività dei presupposti nonché dei limiti applicativi dell’art. 21novies, L. 241/990.

Pertanto, a seguito della comunicazione antimafia, la P.A. non può rilasciare alcun titolo che legittimi lo svolgimento di attività economiche o commerciali e, qualora fosse già stato emesso, è legittimo il suo ritiro, configurandosi la sua sostanziale incompatibilità con lo status di destinatario di una interdittiva antimafia.

Sul punto, la Sezione richiama la precedente giurisprudenza dello stesso Tribunale che evidenziava come le conseguenze decadenziali sulle autorizzazioni dei provvedimenti interdittivi antimafia discendono dall’esigenza di elevare il livello della tutela dell’economia legale dall’aggressione criminale. Ciò attraverso la sottoposizione a controllo non solo dei rapporti amministrativi che danno accesso a risorse pubbliche, ma anche di quelli che consentono l’esercizio di attività economiche, subordinandole al controllo preventivo della P.A. e stabilendo che anche in ipotesi di attività private soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.

 

(*Contributo in tema di “Permesso di costruire: annullamento d’ufficio a seguito di comunicazione antimafia”, a cura di Michela Pignatelli, estratto da Obiettivo Magistrato n. 79 / Novembre 2024 – La guida per affrontare il concorso – Dike Giuridica)