niente tenuità del fatto

Niente tenuità del fatto per la responsabilità da reato degli enti L’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova applicazione in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 (“Decreto 231”)?

La particolare tenuità del fatto

L’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto trova compiuta disciplina per le persone fisiche nell’art. 131-bis cod. pen. Tale disposizione normativa esclude la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (o con pena pecuniaria sola o congiunta alla pena detentiva) quando, per le modalità della condotta o per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa sia di particolare tenuità e il comportamento non risulti abituale.

Responsabilità amministrativa da reato degli enti

Giova rilevare che le prescrizioni in materia di responsabilità amministrativa da reato degli enti ex Decreto 231, con riferimento all’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 131-bis cod. pen. (introdotto dal d.lgs. n. 28/2015), non prevedono un’esplicita regolamentazione normativa.

Nello specifico, l’art. 8 del Decreto 231 (rubricato: “Autonomia delle responsabilità dell’ente”) sancisce che: “La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

La disciplina relativa all’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante, sia stata introdotta dopo il 2001, ossia nel 2015, l’articolo 8 del Decreto 231 non è stato soggetto a nessun intervento di aggiornamento.

Il primo intervento della Cassazione

È spettato alla Suprema Corte, pertanto, risolvere il quesito dell’applicabilità (o meno), nel processo contra societatem, della causa di non punibilità ex art 131-bis c.p.

Negli anni successivi all’introduzione nel Codice Penale dell’art. 131-bis, a opinione di molti giuristi, la Corte di Cassazione con la sentenza del 28 febbraio 2018, n. 9072 sembrava implicitamente avvallare la compatibilità tra l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e il sistema di responsabilità amministrativa degli enti.

La Suprema Corte, infatti con la soprammenzionata sentenza, si limitava ad affermare  che: “In tema di responsabilità degli enti, in presenza di una sentenza di applicazione della particolare tenuità del fatto, nei confronti della persona fisica responsabile della commissione del reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, il giudice deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio il reato fu commesso; accertamento di responsabilità che non può prescindere da una opportuna verifica della sussistenza in concreto del fatto reato, in quanto l’applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. non esclude la responsabilità dell’ente, in via astratta, ma la stessa deve essere accertata effettivamente in concreto; non potendosi utilizzare, allo scopo, automaticamente la decisione di applicazione della particolare tenuità del fatto, emessa nei confronti della persona fisica”.

La soluzione definitiva della Suprema Corte

La soluzione definitiva a tale quesito arriva con la recente sentenza della Corte di Cassazione del 10 ottobre 2024 n. 37237 che non lascia alcun margine di opinabilità in materia, approdando ad una chiusura netta della questione.

Nelle considerazioni in diritto, infatti, la stessa ha specificato che:

  • si deve richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Cass. Pen., Sez. III, n. 1420/2020), secondo cui la causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai propri dirigenti o dai soggetti sottoposti alla loro direzione prevista dal d.lgs. n. 231/2001, in considerazione della differenza esistente tra i due tipi di responsabilità e della natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ponga in essere il reato rilevante ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 ”;
  • tale autonomia esclude che l’eventuale applicazione all’agente della causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto impedisca di applicare all’ente la sanzione amministrativa, dovendo egualmente il giudice procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso”.

Esclusa la particolare tenuità del fatto

In conclusione, l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. non è applicabile alla responsabilità amministrativa dell’ente ex Decreto 231 per i fatti commessi nel suo interesse o a suo vantaggio dai soggetti di cui all’art. 5 dello stesso[1], in quanto, tale approdo giurisprudenziale trova ragione:

  • nella differenza esistente tra la responsabilità penale della persona fisica e responsabilità amministrativa da reato dell’ente, nonché
  • nella natura autonoma della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

[1] “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

vendita con riserva

Vendita con riserva o rent to buy: quale scegliere Vendita con pagamento dilazionato del prezzo, quale istituto prediligere: la vendita con riserva della proprietà o il rent to buy?

Rent to buy e vendita con patto di riservato dominio

Il rent to buy e la vendita con patto di riservato dominio sono soluzioni che consentono all’acquirente di acquistare un immobile senza dover affrontare un esborso iniziale elevato.

Il rent to buy

Il rent to buy è un istituto di derivazione anglosassone che è stato definitivamente disciplinato dall’art. 23 del d.l. n. 133/2014 (decreto c.d. “Sblocca Italia”). Tale istituto prevede che il proprietario dell’immobile conceda in godimento l’immobile a fronte del pagamento di un canone, con possibilità per il conduttore di esercitare il suo diritto di acquisto nei termini convenuti. Le parti dovranno, dunque, espressamente prevedere la quota del canone che sarà imputata a titolo di corrispettivo per il godimento del bene e la quota di canone che, invece, sarà destinata al prezzo dell’eventuale acquisto.

La vendita con riserva di proprietà

La vendita con riserva di proprietà, anche definita vendita con patto di riservato dominio, è disciplinata dagli articoli 1523 e seguenti del Codice civile. Tale istituto prevede che l’acquirente possa godere dell’immobile sin della sottoscrizione del contratto e che il passaggio di proprietà in favore dell’acquirente avvenga al pagamento dell’ultima rata.

Le differenze

Tra i due istituti vi sono alcune differenze sostanziali:

  • La prima differenza riguarda la facoltà/obbligo di acquisto. Nel rent to buy il conduttore ha la facoltà, ma non l’obbligo, di acquistare l’immobile al termine del periodo di locazione. Nella vendita con riserva di proprietà, invece, il passaggio di proprietà avviene ‘automaticamente’ al momento del pagamento integrale del prezzo.
  • La seconda differenza riguarda la ‘gravità’ dell’inadempimento che legittimerebbe la risoluzione. Nel rent to buy, la risoluzione può essere determinata dal mancato pagamento di un numero minimo di canoni, liberamente stabilito dalle parti, non inferiore ad 1/20. Nella vendita con patto di riservato dominio la risoluzione può essere determinata unicamente dal mancato pagamento di una rata superiore ad 1/8 del corrispettivo.
  • In caso di risoluzione per inadempimento, inoltre, le conseguenze sono diverse. Nel rent to buy, in caso di inadempimento del conduttore, il venditore può trattenere tutti i canoni pagati del conduttore a qualsiasi titolo imputati. Tuttavia, è importante sottolineare che nelle ipotesi di inadempimento non rientra il mancato esercizio del diritto di acquisto da parte del conduttore, in quanto questo è un diritto e non un obbligo.

Nella vendita con riserva di proprietà, ai sensi dell’articolo 1526 c.c., il venditore è tenuto a restituire le rate di prezzo riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso del bene e per il risarcimento del danno, che potrà essere ridotto ad equità dal giudice.

Sul punto, l’articolo 1526, comma 3, c.c. estende l’ipotesi di riduzione ad equità della penale a tutti i casi in cui il contratto sia configurato come una locazione, e sia convenuto che, al termine di esso, la proprietà della cosa sia acquisita dal conduttore per effetto del pagamento dei canoni.

A tal proposito, per non figurare l’esclusivo intento della vendita, con conseguente riduzione della penale, appare ragionevole evitare che la quota del canone imputata a corrispettivo non si discosti troppo dal valore di mercato del bene e che la quota imputata a godimento sia conforme ai canoni medi di locazione.

Di conseguenza, solo la valutazione dell’intera operazione complessiva e della causa in concreto consente di stabilire se le parti vogliono realizzare un rent to buy o una vendita sotto forma di locazione.

Scelta in base alle intenzioni delle parti

In conclusione, la scelta tra rent to buy e vendita con patto di riservato dominio dipende principalmente dalle intenzioni delle parti coinvolte:

  • se l’acquirente desidera una maggiore flessibilità, senza l’obbligo di acquistare l’immobile e con la possibilità di recuperare almeno una parte dei pagamenti, il rent to buy potrebbe essere la soluzione preferibile;
  • se, invece, le parti desiderano una vendita definitiva, ma con la possibilità di dilazionare il pagamento, dove il passaggio di proprietà avviene automaticamente al completamento del pagamento del prezzo, la vendita con riserva di proprietà – sebbene presenti il rischio per il venditore di riduzione ad equità della penale – appare l’istituto più adatto.

In generale, il rent to buy potrebbe risultare più vantaggioso per l’acquirente che non è completamente sicuro di voler acquistare l’immobile, mentre la vendita con riserva di proprietà potrebbe essere la soluzione più indicata quando l’intenzione è quella di procedere ad un acquisto definitivo, anche se dilazionato nel tempo.

 

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responsabilità amministrativa da reato

Responsabilità amministrativa da reato nei gruppi d’impresa Il reato commesso nell’interesse o vantaggio di una società del gruppo d’impresa determina l’integrazione della responsabilità amministrativa ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 a carico di tutte le società del gruppo d’impresa?

Gruppo d’impresa e d.lgs. n. 231/2001

Ad oggi il mercato globale preferisce alla “singola grande impresa” la costituzione di una struttura organizzativa che permetta un ampliamento dell’operatività aziendale tra più soggetti societari, ossia, il gruppo d’impresa (più società formalmente e giuridicamente autonome, soggette ad una direzione unitaria da parte di una società capogruppo o holding per il perseguimento di uno scopo comune, il c.d. interesse di gruppo).

Il decreto legislativo n. 231/2001 (“il Decreto”) si pone in un sistema normativo che parte da una valutazione monistica dell’ente e nulla dispone in merito al gruppo d’impresa. L’art. 1 del Decreto, infatti, nell’elencazione dei destinatari non menziona la realtà societaria costituita da separate soggettività.

Responsabilità amministrativa da reato

Nonostante il Decreto non preveda alcuna disposizione in merito, l’analisi della terminologia normativa utilizzata negli articoli dello stesso (ente – singolo organo societario) presuppone una negazione della diffusione automatica della responsabilità amministrativa da reato all’interno del gruppo d’impresa qualora un soggetto (di cui all’art 5 del Decreto[1]) commetta uno o più reati[2] nell’interesse o vantaggio della realtà societaria di appartenenza.

Il confine dell’imputabilità solo ad una delle società “costituenti” del gruppo d’impresa si desume dalla constatazione che a differenza della qualificazione economica di gruppo, soggetto unico atto a perseguire un fine comune, in diritto le società per quanto correlate tra loro sono individuabili come entità autonome e indipendenti, dotate di una propria soggettività giuridica.

L’estensione della responsabilità amministrativa da reato ai sensi del Decreto a più società del gruppo d’impresa sussiste solo qualora il reato sia stato commesso grazie al concorso tra più soggetti, i cui intenti per natura identici (prefigurazione di un interesse o vantaggio a favore dell’ente), si differenziano per la diversificazione dei destinatari (diverse società del gruppo d’impresa).

Non imputabilità delle società della holding

In conclusione, le “società componenti” (holding o controllate), quindi, non saranno mai imputabili solo in ragione della loro mera appartenenza al gruppo d’impresa, le stesse, infatti, al fine di godere dell’opportunità di esenzione dalla responsabilità amministrativa da reato ai sensi del Decreto sono tenute a fornire “elementi probatori” tali da dimostrare di avere adottato una politica aziendale repressiva delle condotte delittuose perseguibili nel proprio e singolare contesto societario.

Al riguardo, giova rilevare che ai sensi degli artt. 6 e 7 del Decreto uno degli “elementi probatori” tale da fornire l’opportunità di esenzione dalla responsabilità amministrativa da reato consiste nella predisposizione di un modello di organizzazione, gestione e controllo nel quale sono riportate le policies etiche ed organizzative in linea alla realtà aziendale di cui la “singola” società è protagonista.

L’adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo “comunitario” del gruppo d’impresa, quindi, non è una soluzione conforme alla normativa prevista dal Decreto, in quanto, la differenza di contesti, attività ed operazioni delle società del gruppo d’impresa non permetterebbe di adottare una “modalità d’azione” concretamente repressiva dei reati previsti dallo stesso.

 

[1] “L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

[2] Fattispecie di illecito tassativamente richiamate dagli articoli del Decreto (c.d. reati presupposto).

whistleblowing

Whistleblowing: riorganizzazione struttura come atto ritorsivo È possibile qualificare la riorganizzazione della struttura organizzativa come atto ritorsivo contro il segnalante ai sensi del d.lgs. n. 24/2023 (“Attuazione della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione e recante disposizioni riguardanti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali”)?

La delibera ANAC

Con la delibera n. 380/2024 del 30 luglio (pubblicata il 20 settembre 2024), l’ANAC ha dichiarato ritorsivi i provvedimenti assunti dal direttore di un’agenzia pubblica nei confronti di un dirigente. Il direttore avrebbe, infatti, assunto comportamenti punitivi sul dirigente tali da impattare negativamente sulle attribuzioni e sulla posizione del dirigente. L’ANAC a seguito di istruttoria ha comminato al direttore una sanzione pecuniaria di 10.000,00 euro.

In particolare, il dirigente aveva segnalato al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza dell’agenzia, in cui egli lavorava, alcuni presunti illeciti a carico del direttore dell’ agenzia, tra cui: (i) l’attribuzione di incarichi in violazione della procedura interna dell’agenzia e (ii) un presunto conflitto di interessi consistente nel fatto che  il direttore risultava comproprietario di una società erogatrice di servizi molti dei quali assimilabili per natura a quelli forniti dall’agenzia.

Atti ritorsivi

A seguito di tale segnalazione, il dirigente aveva iniziato ad essere vittima di gravi atti ritorsivi nei suoi confronti.  Tra i più eclatanti: la rimozione della sua posizione lavorativa – avvenuta mediante disposizioni di formale riorganizzazione della struttura, adottate alcuni giorni dopo la segnalazione e proseguite nelle settimane successive – nonché una valutazione delle performance molto negativa, dopo anni di punteggi elevati.

Il dirigente aveva quindi segnalato tali condotte, in prima battuta, mediante il canale di segnalazione interna di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 24/2023[1] e, non avendo ricevuto riscontro, successivamente all’ANAC, chiedendo l’accertamento della natura ritorsiva dei comportamenti subiti.

Dirigente qualificato come whistleblower

L’ANAC, a seguito di una approfondita istruttoria, ha ritenuto che:

  • la segnalazione ricevuta integrava pienamente i presupposti normativi per qualificare il dirigente come whistleblower ai sensi del d.lgs. n. 24/2023 e, quindi, per applicare la tutela normativamente prevista;
  • il canale di segnalazione interna all’agenzia non aveva garantito la dovuta riservatezza del segnalante;
  • la rotazione del personale nelle posizioni dirigenziali – giustificazione adottata dal direttore a fondamento degli atti di riorganizzazione – era unicamente un espediente utilizzato per danneggiare il segnalante;
  • nelle memorie presentate dal direttore non era stata indicata alcuna prova a discarico.

La nuova disciplina del D.Lgs. 24/2023

L’importanza della delibera ANAC si nota in particolare con riferimento a due profili che sono estrinsecazione dell’applicazione della nuova disciplina di cui al d.lgs. n. 24/2023:

  • L’ANAC ha infatti sanzionato direttamente l’autore della ritorsione (ossia il direttore dell’agenzia), con applicazione di una sanzione pecuniaria, in considerazione dell’uso distorto della funzione da lui esercitata;
  • nonostante il caso oggetto di decisione sia relativo a una disposizione previgente (articolo 54-bis, del Dlgs 165/2001, oggi abrogato), le relative previsioni sono state incorporate ed estese nell’articolo 21 del d.lgs. n.24/2023. Restano pienamente attuali i parametri in base ai quali è stata applicata dall’ANAC la tutela del segnalante contro gli atti ritorsivi nel rapporto di lavoro, così come la sanzione contro l’autore della ritorsione.

Il d.lgs. n. 24/2023, infatti, prevede espressamente che i lavoratori del settore pubblico e privato possono comunicare all’ANAC le ritorsioni che ritengono di aver subito (articolo 19, primo comma), con apertura dell’istruttoria (rispetto alla quale l’ANAC può avvalersi dell’Ispettorato della funzione pubblica e dell’Ispettorato nazionale del lavoro). Inoltre, se viene accertata la natura ritorsiva di una condotta nei confronti del segnalante, i relativi atti sono affetti da nullità (articolo 19, terzo comma) e l’ANAC può applicare una sanzione pecuniaria sino a 50.000 euro direttamente a carico del responsabile della ritorsione (articolo 21, numero 1, lettera a).

Riorganizzazione struttura vale come atto ritorsivo

In conclusione, alla luce della nuova delibera ANAC è stato stabilito che la riorganizzazione della struttura organizzativa può essere considerata come un atto ritorsivo nei confronti del segnalante se e quando sia utilizzata come mero espediente per danneggiare lo stesso e la misura di riorganizzazione sia stata attuata “per mere ragioni di opportunità” da parte del soggetto agente.

 

[1] Giova rilevare che il canale di segnalazione interna affinché sia conforme alle esigenze imposte dal d.lgs. n. 24/2023 deve prevedere strumenti di trasmissione-ricezione delle segnalazioni che garantiscano, anche attraverso il ricorso alla crittografia, la riservatezza (i) dell’identità della persona segnalante, (ii) della persona coinvolta, (iii) della persona comunque menzionata nella segnalazione, (iv) del contenuto della stessa e (v) della relativa documentazione. La gestione di siffatto canale deve essere affidata una persona o a un ufficio interno autonomo con personale specificamente formato ovvero a un soggetto esterno che si dimostri, parimenti, autonomo e dotato di risorse formate da impiegare nel processo.

L’assoluzione penale non esclude il risarcimento La Cassazione conferma la linea rigorosa: l’assoluzione nel giudizio penale non esclude il risarcimento del danno in ambito civile

Responsabilità penale, civile e risarcitoria

La Cassazione, con la sentenza del 19 settembre 2024 n. 25200, si è pronunziata sulla vicenda di un ragazzo deceduto per folgorazione a causa di un lampione della rete pubblica che presentava dei fili scoperti su cui si era appoggiato per andare a recuperare un pallone da calcio.

Al di là della triste vicenda, si pone il problema non solo della responsabilità penale, ma anche di quella civile e risarcitoria ex art. 2051 cod. civ.  da ripartire tra diversi responsabili (Comune/direttore dell’ufficio tecnico; direttore dei lavori della ditta esecutrice dell’impianto; ditta incaricata della manutenzione) e del rapporto tra responsabilità civile e penale.

Assoluzione penale

In relazione a tali fatti, sul fronte penale per omicidio colposo, vi sono stati tre procedimenti: uno nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, un altro nei confronti del direttore dei lavori titolare della ditta esecutrice dell’impianto di illuminazione che serviva il piazzale ed un terzo nei confronti della ditta con cui il Comune aveva stipulato una convenzione avente ad oggetto la manutenzione degli impianti di illuminazione siti sul territorio comunale. I primi due procedimenti si concludevano con pronuncia assolutoria, mentre il terzo per condanna per omicidio colposo.

Responsabilità ex art. 2051 c.c.

Sul fronte civile, invece, la questione principale riguarda l’individuazione della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. del Comune, anche in relazione all’eventuale giudicato penale di assoluzione.

Giova rilevare che è ammissibile intentare un giudizio civile anche in caso di sentenza di assoluzione in materia penale: l’assoluzione dell’imputato non preclude la possibilità di pervenire, nel giudizio di risarcimento dei danni, a sentenza di condanna. Ciò anche in considerazione del diverso atteggiarsi sia dell’elemento della colpa che delle modalità di accertamento del nesso di causalità materiale, in ambito civile.

Invero, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste” implica che nessuno degli elementi integrativi della fattispecie criminosa sia stato provato e, entro questi limiti, esplica efficacia di giudicato nel giudizio civile, sempre che la parte nei cui confronti l’imputato intende farla valere si sia costituita, quale parte civile, nel processo penale.

Nel caso di specie, nel processo penale il Comune, citato come responsabile civile, era chiamato a rispondere del fatto penalmente illecito contestato al funzionario, mentre nel processo civile il Comune è stato chiamato a rispondere per il fatto proprio in relazione alla custodia di un bene di proprietà comunale.

La colpa dei singoli dipendenti del Comune è irrilevante ai fini del titolo di responsabilità di quest’ultimo, la quale è pressoché obiettiva e prescinde dalle condotte negligenti dei singoli.

Inoltre, ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. non è sufficiente – ed è anzi del tutto irrilevante – la dimostrazione dell’assenza di colpa da parte del custode, ma si richiede la prova positiva della causa esterna (fatto materiale, fatto del terzo, fatto dello stesso danneggiato) che – quanto ai fatti materiali e del terzo, per imprevedibilità, eccezionalità, inevitabilità, nonché, quanto a quelli del danneggiato, per anche sola sua colpa – sia completamente estranea alla sfera di controllo del custode, restando così a carico di quest’ultimo anche il danno derivante da causa rimasta ignota.

Esclusione della responsabilità

Quanto alla responsabilità civile del Comune, la responsabilità del custode può essere esclusa:

  1. dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo;
  2. dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo, caratterizzate, rispettivamente la prima dalla colpa ex 1227 cod. civ. (bastando la colpa del leso) o la seconda dalle oggettive imprevedibilità e non prevedibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

Nesso causale tra cosa in custodia ed evento

Ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., il Comune è custode dell’immobile e dei suoi impianti fissi e come tale responsabile oggettivamente.

Ai fini della configurabilità di responsabilità, è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità attuale o potenziale della cosa stessa e senza che rilevi a riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.

Responsabilità del custode: confermata la linea rigorosa

La sentenza si inserisce nel solco della giurisprudenza consolidata in materia di responsabilità da cose in custodia, confermando l’orientamento rigoroso nei confronti degli enti pubblici.

La decisione sottolinea l’importanza della manutenzione degli impianti pubblici e la necessità per i Comuni di adottare misure preventive adeguate. Il fatto che il lampione fosse privo di corpo illuminante e in condizioni fatiscenti evidenzia una grave carenza nella manutenzione, che ha portato alla tragica conseguenza.

In conclusione, la sentenza non solo sancisce che è ammissibile, nonostante una sentenza di assoluzione in ambito penale,  essere condannati al risarcimento dei danni in ambito civile ma questa decisione della Cassazione rafforza la posizione dei cittadini nei confronti degli enti pubblici, imponendo a questi ultimi un elevato standard di diligenza nella gestione e manutenzione dei beni di loro proprietà.

cancellazione semplificata ipoteca

Cancellazione semplificata ipoteca anche per SGR La procedura semplificata di cancellazione dell’ipoteca prevista dall’art. 40 bis del T.U.B. (art. 13 del D.L. n. 7/2007, c.d. Bersani-bis) può essere svolta anche da una Società di Gestione del Risparmio (SGR) che agisce per conto di un Fondo di Investimento Alternativo (FIA)?

La procedura semplificata di cancellazione dell’ipoteca

L’art. 13 del D.L. n. 7/2007 ha introdotto una nuova procedura di cancellazione dell’ipoteca c.d. ‘semplificata’. Tale procedura consente di derogare a quanto previsto dall’articolo 2847 del Codice civile, estinguendo l’ipoteca in modo rapido ed economico, senza la necessità per entrambe le parti di presenziare dinanzi ad un notaio per l’espletamento delle dovute formalità.

Infatti, qualora l’obbligazione venga estinta, il creditore rilascia una quietanza e comunica la cancellazione dell’ipoteca al Conservatore entro 30 giorni, senza costi per il debitore.

Tuttavia, per accedere a tale procedura ‘semplificata’ sussistono determinati requisiti indicati all’articolo 40 bis del T.U.B.:

  • l’ipoteca deve essere volontaria, in quanto tale procedura non si applica alle ipoteche giudiziali;
  • ai sensi del comma 6 dell’articolo 40 bis del T.U.B. l’ipoteca deve essere iscritta a garanzia di obbligazioni derivanti da contratto di mutuo o finanziamento, anche non fondiario,
  • il mutuo o il finanziamento deve essere concesso da banche ed intermediari finanziari, ovvero concessi da enti di previdenza obbligatoria ai propri dipendenti o iscritti.

SGR sono intermediari finanziari

In merito a tale ultimo punto è opportuno chiarire se le SGR rientrino tra gli intermediari finanziari e se tale procedura sia percorribile anche dalle SGR che operano per un FIA.

In risposta a tale interrogativo è intervenuta l’Agenzia delle Entrate, con il quesito n. 326973/2023 chiarendo che l’art. 1, comma 1, lett. o) del T.U.F. definisce la SGR come “società per azioni con sede legale e direzione generale in Italia autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio”. Inoltre, l’art. 32 quater, comma 1 del T.U.F., stabilisce che la gestione collettiva del risparmio è un’attività riservata, tra gli altri, alle SGR. Considerato, dunque, che l’art. 32-quater fa parte del capitolo del T.U.F. dedicato agli intermediari finanziari, si può correttamente concludere che le SGR siano incluse nella categoria degli intermediari finanziari.

Rapporto tra SGR e FIA

In merito al rapporto tra SGR e il FIA la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 4741/2023 ha affrontato la complessa questione della soggettività giuridica del FIA affermando che: “[s]e nel corso del processo, in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscono da una società di gestione all’altra – ai sensi del Decreto Legislativo n. 98-1998 articolo 36, comma 1 – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie. La società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa. In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di gestione subentrata”.

SGR: ok a procedura semplificata cancellazione ipoteca

Alla luce di tale pronuncia è andato sempre più consolidandosi il seguente principio secondo cui le SGR hanno piena legittimazione ad agire nelle controversie che coinvolgono i fondi comuni di investimento, derivandone quale corollario, la qualificazione della SGR anche come parte sostanziale della controversia.

In conclusione, le SGR che operano per un FIA sono considerate intermediari finanziari e, di conseguenza, possono utilizzare la procedura semplificata di cancellazione dell’ipoteca, come previsto dall’art. 40 bis del T.U.B.

 

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