recupero compensi avvocato ufficio

All’avvocato d’ufficio spettano anche le spese per il recupero dei compensi La Cassazione conferma che il difensore d’ufficio ha diritto anche al rimborso delle spese, diritti e onorari delle procedure di recupero del proprio credito, ivi compresa la fase di opposizione a decreto ingiuntivo

Recupero compensi avvocato ufficio

Il difensore d’ufficio ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine, compresi compensi e spese per la fase di opposizione al decreto ingiuntivo. Lo ha statuito la seconda sezione civile della Cassazione con l’ordinanza n. 5041-2024.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Piacenza rigettava l’opposizione proposta ex art. 170 d.P.R. 115/2002 dall’avvocato al decreto di liquidazione emesso a suo favore dal Gip per l’attività svolta quale difensore d’ufficio di un imputato, lamentando il mancato riconoscimento delle spese sostenute per difendersi nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

L’ordinanza evidenziava che il diritto al rimborso dei compensi relativi alla procedura esecutiva inutilmente esperita volta alla riscossione dell’onorario comprendeva i costi relativi al solo procedimento monitorio ai sensi degli artt. 82 e 116 d.P.R. 115/2002, senza riferimento alla successiva ed eventuale fase di opposizione.

Rilevava, inoltre, che il ricorrente non chiedeva la liquidazione degli onorari come liquidati dalla sentenza del giudice di pace che aveva rigettato l’opposizione, ma gli onorari che il ricorrente aveva versato al difensore di fiducia nominato nell’opposizione. Trattandosi, dunque, di “una scelta personale del ricorrente, che ben avrebbe potuto difendersi in proprio, con la conseguenza che li compenso versato al difensore non poteva farsi rientrare nei costi del procedimento monitorio quale passaggio obbligato per provare il requisito di cui all’art. 116 d.P.R. 115/2002”.

Il ricorso

Il legale proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo il quale il “difensore d’ufficio ha diritto a vedersi liquidato non solo il compenso relativo all’attività svolta quale difensore d’ufficio nel procedimento penale della persona risultata successivamente insolvente, ma anche le spese sostenute per il tentativo di recupero del credito professionale”.

La decisione

Per gli Ermellini, il professionista ha ragione.

“E’ consolidato l’indirizzo di cui sono espressione già Cass. n. 24104/2011 e Cass. n. 27854/201 – ricordano infatti – le quali, recependo i principi maggioritari nella giurisprudenza delle sezioni penali della Cassazione, hanno statuito nel senso che li difensore d’ufficio di un imputato in un processo penale ha diritto, in sede di esperimento della procedura di liquidazione dei propri compensi professionali, anche al rimborso delle spese, dei diritti e degli onorari relativi alle procedure di recupero del credito non andate a buon fine”.

Tale principio, aggiungono dal Palazzaccio, “risulta del tutto coerente con la lettera dell’art. 116 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e con la sua stessa ratio, perché l’estensione della liquidazione anche ai compensi e agli esborsi resisi necessari per la procedura esecutiva, ancorché rimasta infruttuosa, si giustifica per riferirsi strumentalmente e funzionalmente a una precedente attività professionale comunque resa anche nell’interesse dello Stato; quindi, risulterebbe iniquo accollare al professionista l’onere delle spese occorrenti per il recupero dei compensi professionali dovuti e riconosciuti all’avvocato (cfr. Cass. n. 40073/2021).

Le medesime ragioni che impongono di riconoscere al difensore d’ufficio i compensi e le spese riferite al decreto ingiuntivo chiesto nei confronti del soggetto a cui favore ha prestato l’attività difensiva, in quanto importi necessari a procurarsi il titolo esecutivo da azionare, “impongono – dunque – di riconoscere al difensore anche i compensi e le spese della fase di opposizione al decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dal debitore ingiunto”.

Né può giustificare la negazione del compenso e delle spese, concludono dalla S.C., “il fatto che l’avvocato avesse nominato un difensore mentre avrebbe potuto difendersi in proprio, in quanto anche in tale secondo caso egli avrebbe avuto diritto ai compensi stabiliti per la prestazione resa”.

Da qui l’accoglimento del ricorso con rinvio al Tribunale di Piacenza in persona di diverso magistrato, li quale deciderà facendo applicazione dei principi esposti.

Allegati

particolare tenuità del fatto

Punibile la madre che impedisce al padre di vedere i figli Per la Cassazione, l'impedimento sistematico impedisce l'applicazione della non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Particolare tenuità del fatto

Non si può applicare la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. nei confrontoi della madre che impedisce al padre in modo sistematico di vedere i figli. Così la seconda sezione penale della Cassazione, nella sentenza n. 47882-2023.

La vicenda

Nella vicenda, la donna ricorreva al Palazzaccio avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno che, in funzione di giudice del rinvio, dichiarava l’imputata colpevole del reato ex art. 388, comma 2, c.p., per non aver consentito per quattro mesi al marito separato di vedere i figli a lei affidati, in violazione degli accordi fra coniugi recepiti nel decreto di omologa della consensuale, condannandola alla pena di trecento euro di multa oltre al risarcimento del danno subito dalla parte civile.

La donna proponeva ricorso chiedendo l’annullamento della sentenza in particolare per l’omessa applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. Lamentava, nello specifico, che la sentenza impugnata non aveva indicato le ragioni per cui il reato era stato ritenuto sussistente, avendo valorizzato soltanto le dichiarazioni della parte civile e ignorando quelle rese dalla stessa, ed escludendo “la causa di non punibilità sulla base di due indimostrate circostanze, costituite dagli impegni di lavoro che avrebbero impedito al marito di essere puntuale agli appuntamenti fissati e dal presunto interesse della stessa a privilegiare il rapporto con il nuovo compagno a discapito del diritto del padre di incontrare i figli, in assenza di episodi indicativi di tale fatto, non riferiti neppure dalla persona offesa”.

La decisione

Per la Cassazione, tuttavia, il ricorso è inammissibile perchè proposto con motivi non consentiti o manifestamente infondati. Già nella sentenza di appello, sostengono i giudici della S.C., era stato già accertato che la donna, “con sistematicità” aveva impedito l’incontro tra l’ex marito e i figli “in termini del tutto ingiustificati” rispetto a quanto previsto nel provvedimento giudiziale di omologazione della separazione (così la sentenza rescindente). Il giudice del rinvio, successivamente, “ha escluso che le modalità della condotta elusiva, protrattasi per un periodo apprezzabile, nonchè il danno cagionato al padre dei figli minori consentissero di ritenere l’offesa di particolare tenuità”.

Per cui, affermano ancora da piazza Cavour, la motivazione, seppur sintetica “risulta immune dai vizi denunciati dalla ricorrente”. All’inammissibilità dell’impugnazione, segue di conseguenza anche la condanna della donna al pagamento delle spese del procedimento nonchè, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, di tremila euro in favore della Cassa delle Ammende.

Allegati

compensi gratuito patrocinio

Gratuito patrocinio: all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria La Cassazione chiarisce che nel patrocinio a spese dello Stato all’avvocato va liquidato il compenso per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento

Gratuito patrocinio e compensi avvocato

Nel gratuito patrocinio, all’avvocato spettano i compensi per la fase istruttoria anche in caso di prescrizione del procedimento, se è stata depositata la lista testimoniale e sono stati citati i testi. Così la seconda sezione civile della Cassazione, nell’ordinanza n. 2502-2024, accogliendo il ricorso di un avvocato.

La vicenda

Nella vicenda, il presidente del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto rigettava l’opposizione, proposta ex art.170 del DPR 115/2002, dall’avvocato avverso il decreto di liquidazione del compenso per l’attività svolta in un processo penale, quale difensore di soggetto ammesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato. Il Tribunale, in particolare, non aveva liquidato li compenso per la fase istruttoria, ritenendo che detta fase non si fosse mai svolta in quanto il processo, che aveva tratto origine dall’opposizione a decreto penale di condanna, dopo una serie di rinvii, era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione.

Il ricorso

L’avvocato adiva quindi il Palazzaccio lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 12 del D.M. 10.3.2014, n.55, in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere li Tribunale omesso di liquidare la fase istruttoria sull’erroneo presupposto che essa non si fosse svolta, sebbene lo stesso avesse depositato una lista testimoniale ed avesse citato i testi, attività, questa, espressamente prevista dall’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014.

La decisione

Per gli Ermellini, l’avvocato ha ragione. “Il Tribunale ha escluso il compenso per la fase istruttoria perché il processo penale era stato definito con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, senza considerare – osservano infatti – che l’art.12, comma 3 del D.M. 55/2014 prevede che la fase istruttoria non consiste solo nell’escussione dei testi, acquisizione di documentazione etc., ma comprende anche l’attività preparatoria all’istruttoria, vale a dire ‘le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato’”. ;

Nel caso di specie, dunque il giudice ha omesso di liquidare la fase istruttoria, benché il ricorrente avesse depositato la lista testimoniale e citato due testi, “attività inequivocabilmente compresa nella fase istruttoria”.

Da qui l’accoglimento del ricorso. Parola al giudice del rinvio.

Allegati

targa contraffatta

Targa contraffatta: niente multa per chi circola con quella polacca Per la Cassazione non è integrata la violazione dell’art. 100, comma 12, Cds, che sanziona la circolazione del veicolo munito di targa non propria o contraffatta

Targa straniera e violazione Codice della Strada

Niente multa per chi circola con veicolo con targa polacca e non italiana. Non si verte infatti nell’ipotesi della violazione di cui all’art. 100, comma 2, Codice della Strada, il quale sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”. Così la seconda sezione civile della Cassazione, la quale, con sentenza n. 4811-2024 ha accolto il ricorso di una società di trasporti avverso il verbale di accertamento elevato a suo carico dalla Polstrada.

Per approfondimenti vai alla nostra guida Targa contraffatta o falsa

La vicenda

Nella vicenda, la società impugnava innanzi al Gdp di Pordenone il verbale di accertamento e violazione dell’art.100, comma 12, Cds, elevato a suo carico dalla Polizia stradale per avere messo in circolazione un complesso veicolare formato da motrice e rimorchio risultante iscritto al P.R.A. con targa e documenti intestati alla società ricorrente, ma munito, al momento dell’accertamento, di targa polacca facente capo ad altra società.

A fondamento della contestazione l’autorità ritenne che il fatto integrasse l’ipotesi di circolazione di autoveicolo con targa non propria, in quanto diversa da quella che, ai sensi delle risultanze del P.R.A. nazionale, identificava il veicolo.

A sostegno dell’opposizione la società dedusse che il fatto accertato non integrava la violazione contestata, atteso che le targhe erano state regolarmente rilasciate dalla motorizzazione civile polacca, a seguito di contratto di noleggio temporaneo, con la conseguenza che il solo rimprovero che le poteva essere mosso era di non avere provveduto a comunicare al PRA la definitiva esportazione all’estero dei mezzi, al fine della radiazione delle targhe originarie.

Il Giudice di Pace rigettò l’opposizione e la pronuncia venne confermata dal Tribunale di Pordenone.

Il ricorso in Cassazione

Da qui il ricorso in Cassazione, innanzi alla quale la società denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 100, comma 12, codice della strada, censurando la decisione impugnata per avere ritenuto applicabile la disposizione menzionata in assenza dei suoi presupposti fattuali.

Le targhe rinvenute, sosteneva la società, erano infatti state rilasciate dalle competenti autorità polacche, previa consegna delle relative carte di circolazione e delle targhe originarie, proprio per i veicoli oggetto di accertamento. Per cui, trattandosi di targhe appartenenti ai suddetti veicoli, la violazione contestata, a dire della ricorrente, non era nella specie configurabile, risultando essa applicabile, oltre che al caso di targhe contraffatte, solo all’ipotesi in cui il mezzo usi targhe altrui, cioè corrispondenti ad altro veicolo. Al massimo la fattispecie poteva rientrare nella diversa ipotesi sanzionatoria dell’art. 103 codice della strada, che sanziona l’omessa comunicazione al PRA dell’esportazione del veicolo, trovando il fatto contestato la sua causa proprio in tale omissione.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., il ricorso è fondato.

L’art. 100, comma 12, codice della strada, ricordano innanzitutto i giudici, sanziona la circolazione di un veicolo “munito di targa non propria o contraffatta”.

La formula normativa, quindi, “va intesa nel senso che la violazione sussiste quando la targa di cui il veicolo è provvisto appartiene ad un altro mezzo o risulta comunque oggetto di contraffazione”.

Nel caso di specie, invece, si trattava di targhe regolarmente rilasciate dalla motorizzazione polacca. Pertanto, spiegano gli Ermellini, è evidente “che si è al di fuori dell’ipotesi in cui il veicolo circoli non targa non propria, coincidendo le targhe presenti al momento dell’accertamento con quelle assegnate”.

Né la sussistenza della condotta sanzionata, concludono accogliendo il ricorso e cassando la sentenza impugnata, “può affermarsi per il solo fatto che nel P.R.A. risultassero ancora registrate le targhe originarie, precedenti alla nuova immatricolazione, atteso che tale circostanza è addebitabile alla mancata attivazione, da parte del proprietario, del procedimento di radiazione delle targhe precedenti, previsto dall’art. 103 codice della strada e la cui omissione ha una sanzione autonoma, ma non trasforma di per sé l’uso delle targhe nuove nella violazione contestata, non porta cioè a ritenere che quelle presenti non fossero quelle ‘proprie’ dell’automezzo”.

Allegati

assicurazione Inail studi associati

Studi associati senza obbligo di assicurazione Inail La Cassazione ribadisce che gli studi professionali associati non hanno l'obbligo di assicurarsi all'Inail

Studi associati e assicurazione Inail

Nessun obbligo di assicurarsi con l’Inail per gli studi professionali associati. A ribadirlo è la sezione lavoro della Cassazione, con l’ordinanza n. 4473/2024, respingendo il ricorso dell’Istituto.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Brescia confermava la pronuncia di primo grado che aveva escluso la sussistenza dell’obbligo assicurativo presso l’INAIL in capo ai professionisti associati in uno studio, richiamando, a fondamento del proprio decisum, i principi fissati dalla Cassazione (cfr. n. 15971/2017) e argomentando la Corte Cost. n. 25/2016.

L’Inail adiva quindi piazza Cavour lamentando che la corte di merito avesse ritenuto erroneamente che non “sussistessero i presupposti per l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, in considerazione del carattere associativo e non societario del vincolo sussistente tra i professionisti”. Ad avviso dell’istituto, infatti, le caratteristiche concrete dello studio rendevano “lo stesso un soggetto giuridico autonomo assimilabile, per i meccanismi operativi, ad una vera e propria
società; ricorrerebbero, perciò, le indicazioni provenienti da Cass. nn. 12095 del 2006 e 13278 del 2007, secondo le quali a parità di esposizione a rischio deve corrispondere parità di tutela assicurativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto in base al quale è prestata l’attività lavorativa”.

La decisione della Cassazione

Per la S.C., tuttavia, il motivo è infondato. La Corte richiama, quindi, il consolidato principio per cui, in tema di assicurazione contro gli infortuni e el malattie professionali “non sussiste l’obbligo assicurativo nei confronti dei componenti di studio in quanto la tendenza ordinamentale espansiva di tale obbligo può operare, sul piano soggettivo, solo nel rispetto e nell’ambito delle norme vigenti, le quali in alcun luogo (D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 1, 4 e 9) contemplano l’assoggettamento delle associazioni professionali all’obbligo in questione (così come non lo contemplano per li mero libero professionista)”.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

Allegati

conflitto di interessi avvocato

Conflitto di interessi avvocato: basta il dubbio per far scattare l’illecito Il CNF chiarisce che l'assoluta terzietà dell'avvocato deve sussistere al di sopra di ogni dubbio

Conflitto di interessi avvocato

“Affinché possa dirsi rispettato il canone deontologico posto dall’art. 24 cdf (già art. 37 codice previgente) non solo deve essere chiara la terzietà dell’avvocato, ma è altresì necessario che in alcun modo possano esservi situazioni o atteggiamenti tali da far intendere diversamente. La suddetta norma, invero, tutela la condizione astratta di imparzialità e di indipendenza dell’avvocato – e quindi anche la sola apparenza del conflitto – per il significato anche sociale che essa incorpora e trasmette alla collettività, alla luce dell’id quod plerumque accidit, sulla scorta di un giudizio convenzionale parametrato sul comportamento dell’uomo medio, avuto riguardo a tutte le circostanze e peculiarità del caso concreto, tra cui la natura del precedente e successivo incarico”. E’ il principio affermato dal Consiglio Nazionale Forense nella sentenza n. 241-2023 pubblicata sul sito del Codice deontologico l’8 febbraio 2024.

La vicenda

Nella vicenda, un legale all’esito del procedimento disciplinare veniva sospeso dalla professione per due mesi per aver violato vari canoni deontologici, tra cui l’aver agito in conflitto di interessi, per essersi costituita in giudizio avverso una propria ex assistita.

L’avvocato adisce il Consiglio Nazionale Forense dolendosi della responsabilità disciplinare e della eccessività della sanzione.

La decisione

Per il CNF, tuttavia, le censure sono infondate. “Correttamente il CDD di Messina ha ritenuto che l’art. 24 del Codice Deontologico è a tutela della terzietà dell’avvocato, che non solo deve sussistere, ma è necessario che non ricorrano circostanze tali da porla in dubbio” afferma preliminarmente il consiglio.

“La norma si riferisce quindi anche alla sola apparenza del conflitto degli interessi. Trattasi di un illecito di pericolo volto a garantire l’assoluta terzietà dell’avvocato al di sopra di ogni dubbio, come specificato nella decisione impugnata che opportunamente fa espresso riferimento a precedenti sentenze di questo consiglio (sentenza 12 luglio 2016 n. 186; 16 luglio 2019 n.60)” aggiunge il CNF ritenendo che le valutazioni logiche giuridiche della decisione impugnata “appaiano ben motivate ed in particolare appare corretta la considerazione che l’incolpata si sia costituita nel giudizio promosso dall’avvocato [BBB] nei confronti di una propria ex assistita, tutelando gli interessi di quest’ultima contestando le richieste formulate dal legale, integra la violazione dell’articolo 24 del Codice vigente, sotto il profilo della lealtà e della correttezza, dato che ciò ha rappresentato un nocumento almeno potenziale agli interessi della controparte”.

Nulla di fatto, infine, neanche sul fronte dell’eccessiva severità della sanzione irrogata”, che il CNF reputa equilibrata rigettando in toto il ricorso.

Allegati

detenuto pacemaker

Malato e con pacemaker: resta in carcere Per la Cassazione, il detenuto in precarie condizioni di salute e con pacemaker può restare in carcere. Rileva anche la pericolosità sociale data la condanna per reati sessuali

Gravi motivi di salute e detenzione carceraria

Resta in carcere il detenuto anche se in precarie condizioni di salute e con pacemaker. Così la prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 3332-2024, ha respinto il ricorso di un uomo condannato ad 8 anni di carcere per reati di natura sessuale.

Nella vicenda, il tribunale di sorveglianza di Palermo respingeva l’istanza di differimento facoltativo della pena per grave infermità, anche nelle forme della detenzione domiciliare, visti i gravi motivi di salute del detenuto affetto da ipertensione con impianto di pacemaker e in attesa di ricovero per sospetta fibrosi polmonare.

Il Tribunale di sorveglianza aveva ritenuto che le condizioni di salute dell’uomo non integrassero gli estremi di gravità tali da comportare l’incompatibilità con il regime carcerario, in quanto le esigenze diagnostiche e terapeutiche del condannato erano gestibili anche in regime detentivo.

Da qui il ricorso in Cassazione, in cui la difesa ribadiva l’incompatibilità delle condizioni di salute dell’uomo ormai anziano, e peraltro di recente sottoposto ad intervento chirurgico, con la detenzione carceraria.

Per gli Ermellini, però, il ricorso è infondato e va respinto.

Bilanciamento interesse condannato e sicurezza collettività

In punto di diritto, affermano i giudici della S.C., “la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, ai fini dell’accoglimento di un’istanza di differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ai sensi dell’art. 147, comma primo, n. 2, cod. pen., non è necessaria un’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione, ma occorre pur sempre che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita, o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o, ancora, da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario (Sez. 1, n. 27352 del 17/05/2019, Nobile, Rv. 276413)”. È necessario però, proseguono dal Palazzaccio, che “la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre ni pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (cfr. Cass. n. 17947/2004).

La decisione

Nella fattispecie, la valutazione negativa, alla quale è giunta l’impugnata ordinanza, non è censurabile in sede di legittimità e, peraltro, concludono dalla S.C. rigettando il ricorso, risulta coerente con quanto richiede la giurisprudenza, “sia sotto il profilo della compiuta valutazione delle condizioni di salute dell’istante in rapporto alle potenzialità di cura offerte dal carcere in cui questi è ristretto”, sia con riguardo al profilo del “bilanciamento tra li diritto alla salute del condannato e le esigenze di sicurezza della collettività, evidenziando la cospicua pericolosità sociale del detenuto in espiazione di una condanna per gravi delitti di natura sessuale”.

Allegati

giurista risponde

Attività amministrativa: quale prova per il risarcimento Che tipo di prova richiede la domanda risarcitoria derivante da illegittimo esercizio dell’attività amministrativa?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

Ai sensi dell’art. 1223 c.c. sono risarcibili i soli pregiudizi patrimoniali che siano conseguenza diretta e immediata dell’evento sul piano della causalità giuridica, con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi.

Tali pregiudizi devono essere allegati e provati dal danneggiato poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento. – Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2022, n. 10092.

 

Il Consiglio di Stato ricorda che, per consolidata giurisprudenza, la prova dell’ esistenza del danno da parte del danneggiato deve essere rigorosa e in particolare si evidenzia che: “a) in relazione al danno-conseguenza si pone la questione di individuare e quantificare i danni derivanti dalla lesione dell’interesse legittimo, ovvero, i pregiudizi patrimoniali da reintegrare per equivalente monetario, che siano conseguenza diretta e immediate dell’evento sul piano della causalità giuridica; b) il danno-conseguenza è disciplinato con carattere di generalità sia per la responsabilità da inadempimento contrattuale che da fatto illecito (in virtù dell’art. 2056 c.c.) dagli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile; c) una volta ricondotta la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 cod. civ., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità, invece operante solo per la responsabilità da inadempimento ex art. 1225 cod. civ., con l’eccezione del caso di dolo; d) ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., richiamato dall’art. 2056 cod. civ., il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) «in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta», con ciò dovendosi escludere il risarcimento di quei danni rispetto ai quali il fatto illecito non si pone in rapporto di necessità o regolarità causale, ma ne costituisce una semplice occasione non determinante del loro verificarsi; e) in questo ambito, resta fermo l’onere di allegazione e prova da parte del danneggiato (artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a.), poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c. opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); f) la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità – o di estrema difficoltà – di una precisa prova sull’ammontare del danno; g) le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente tecnico d’ufficio”.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, Ad. Plen., 23 aprile 2021, n. 7
giurista risponde

Notifica avvocatura dello Stato e patrocinio La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato deve ritenersi nulla o inesistente?

Quesito con risposta a cura di Ilenia Grasso

 

La notifica effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato ad un ente nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato è nulla e non inesistente.

La nullità della notificazione del ricorso introduttivo di primo grado comporta, in appello, la rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 148 del 2021. – Cons. Stato, Sez. VII, 17 novembre 2022, n. 10111. 

Ha chiarito il Consiglio di Stato che, agli enti pubblici autonomi, nei cui confronti opera non il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, bensì quello facoltativo o autorizzato, sono inapplicabili le regole del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti appunto per le sole amministrazioni dello Stato.

Deve quindi essere considerata affetta da nullità la notifica del ricorso ad una Università, ove effettuata presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato.

A fronte di una notifica nulla, il vizio di nullità riscontrato può ritenersi sanato non già fornendo la prova dell’avvenuta conoscenza, comunque, dell’atto, bensì con la costituzione in giudizio della parte convenuta o intimata.

La tardiva costituzione processuale di colui il quale lamenti di non avere regolarmente ricevuto la comunicazione dell’atto introduttivo del giudizio, infatti, se, da un lato, sana il vizio di notifica ai sensi dell’art.156, comma 3, c.p.c. (a fronte della paventata volontà del convenuto di partecipare al processo e della desumibile prova di avvenuto raggiungimento dello scopo dell’attività di notifica espletata), dall’altro, legittima la rimessione in termini, ove chiesta, al fine di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa mediante il riconoscimento della facoltà di compiere tutte quelle attività processuali che sarebbero formalmente precluse dalle decadenze, nelle more, maturate, senza colpa, a carico dell’interessato.

Quanto alla qualificazione del vizio inficiante il procedimento di notifica i Giudici chiariscono le differenze tra nullità e inesistenza e le relative conseguenze.

Qualora, infatti, la notificazione del ricorso introduttivo si ritenesse inesistente, il giudizio si concluderebbe con la declaratoria di inammissibilità non essendo applicabile la disciplina contemplata dall’art. 44, comma 4, c.p.a. in quanto concernente i (diversi) casi di nullità e non anche quelli di inesistenza della notifica.

Diversamente, qualora si propendesse per la tesi della nullità, il giudizio andrebbe rimesso al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., essendo possibile la rinnovazione della notificazione in conformità alla disciplina prevista dall’art. 44, comma 4, cit., così come censurata dalla Corte Costituzionale con la sent. 148/2021.

Ciò premesso, richiamando la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione formatasi in tema di notificazione degli atti processuali, si precisa che: “L’inesistenza della notificazione è configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. A tali fini, il luogo in cui la notificazione del ricorso per cassazione viene eseguita non attiene agli elementi costitutivi essenziali dell’atto ed i vizi relativi alla individuazione di detto luogo, anche qualora esso si riveli privo di alcun collegamento col destinatario, ricadono sempre nell’ambito della nullità dell’atto (Cons. Stato, Sez. III, 24 aprile 2018, n. 2462)”.

Alla stregua del richiamato indirizzo giurisprudenziale, la notificazione non può, dunque, essere ritenuta inesistente, qualora il procedimento di notifica si sia comunque perfezionato, configurandosi eventuali difformità rispetto al modello tipizzato dal legislatore ipotesi di nullità processuale, suscettibili di sanatoria, in via retroattiva, per effetto della costituzione della parte intimata.

Nello specifico caso esaminato, si conclude, pertanto, per la qualificazione del vizio inficiante la notifica del ricorso come nullità, con conseguente rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., attesa la possibilità di rinnovare la notificazione ai sensi dell’art. 44, comma 4, c.p.a., come riscritto dalla Corte costituzionale.

 

PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi:    Cons. Stato, sez. V, 21 settembre 2020, n. 5484;
Cons. Stato, sez. IV, 18 settembre 2019, n. 6231;
Cass. civ., sez. VI, ord. 9 febbraio 2018, n. 3240;
Cass. civ. sez. V, 15 marzo 2017, n. 6678;
Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2015, n. 1778;
Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2014, n. 5046
parcheggio fuori dalle strisce

Parcheggio fuori dalle strisce: scatta la multa La Cassazione ricorda che l'art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all'uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica

Parcheggio fuori dalle strisce

Multato chi parcheggia fuori dalle strisce. Lo ha confermato la seconda sezione civile della Cassazione, con l’ordinanza n. 4040-2024, rigettando il ricorso di un automobilista sanzionato per aver parcheggiato il proprio veicolo fuori dagli appositi stalli, in violazione dell’art. 157 CdS, comma 5.

L’uomo si rivolgeva al Palazzaccio ritenendo che nello spazio in cui aveva parcheggiato il proprio veicolo non vi erano segnaletiche orizzontali, tracciate soltanto sul lato della piazzetta, “sì da non costituire ostacolo per alcun genere di transito”. Per cui, la decisione del tribunale, a suo dire, era “contraria al principio secondo cui la sosta degli autoveicoli è libera al di fuori degli stalli”.

Ma gli Ermellini ritengono la tesi infondata.

Art. 157, comma V, Codice della Strada

Richiamando i principi di recente affermati, infatti, ribadiscono che “l’art. 157, comma V del Codice della Strada dispone che, nelle aree di sosta all’uopo predisposte, i veicoli devono essere collocati nel modo prescritto dalla segnaletica. La norma presuppone che la violazione sia stata consumata in zona ove la sosta è consentita ma solo con le modalità regolate dalla segnaletica. In tal senso, l’art.351 comma 2 del regolamento di esecuzione prescrive che, nelle zone di sosta nelle quali siano delimitati, mediante segnaletica orizzontale, gli spazi destinati a ciascun veicolo, i conducenti sono tenuti a sistemare il proprio mezzo nello spazio ad esso destinato, senza invadere gli spazi contigui” (cfr. Cass. n. 6930/2023).

Nel caso di specie, il tribunale ha accertato che il furgone del ricorrente era stato parcheggiato al di fuori della segnaletica orizzontale ma nella stessa piazza ove erano presenti, in diversi punti, segnali orizzontali, sicchè il parcheggio era avvenuto in prossimità degli stalli contrassegnati.

“La presenza degli stalli – concludono dalla S.C. rigettando il ricorso – non consentiva, quindi, il posizionamento del veicolo all’interno della piazza se non negli spazi delimitati dalla segnaletica orizzontale e non irregolarmente all’interno dell’area di sosta e a pochi metri dagli stalli e, dunque, in violazione dell’art. 157 C.d.S, comma 5″.

Allegati